Intanto il Papa, inquieto nel vedere come gli esuli fiorentini tenessero sempre piú agitata non solo tutta Toscana, ma la Romagna e le Marche, insisteva da capo per la pace. Delle nuove trattative era però incaricato il Cardinal Orsini, uomo egli stesso partigiano e di dubbia fede. Infatti, andato nel 1307 ad Arezzo, ivi chiamò a raccolta, oltre gli esuli fiorentini, anche parecchi suoi amici dalle vicine terre della Chiesa, ponendo cosí insieme 1700 cavalieri ed un gran numero di fanti. Pare che avesse fatto accordo con Mess. Corso Donati e ricevuto da lui danaro per l'impresa che meditava. Questi, divorato sempre dalla sua ambizione, s'era imparentato in terze nozze col ghibellino Uguccione della Faggiuola, il che lo rendeva ora assai sospetto ai Guelfi, e però egli, piú che mai scontento ed irritato, era tornato da capo nimicissimo di Mess. Rosso della Tosa e dei suoi seguaci, i quali, per naturale conseguenza, s'erano di nuovo stretti coi popolani grassi. E questi, veduti gli apparecchi che faceva ora il Cardinale, e il nuovo agitarsi del Donati, raccolsero un esercito di 3,000 cavalieri, 15,000 pedoni, e, senza mettere altro tempo in mezzo, corsero ad Arezzo, dando per via il guasto alle terre nemiche. Il Cardinale allora, credendo d'usare un'astuzia di guerra, invece d'affrontare il nemico, si diresse pel Casentino verso Firenze; ma i Fiorentini, tornando sui loro passi, arrivarono in città prima di lui. Ed egli, con grande sua vergogna, rientrò in Arezzo, di dove cominciò a trattare coi Fiorentini, i quali, mostrando d'accogliere le sue proposte, gli mandarono due ambasciatori con incarico di trattenerlo a parole, e canzonarlo. «Né fu mai», dice il Compagni, «femina da ruffiani incantata e poi vituperata, come costui da quelli due cavalieri». Sicché non gli restò altro che andarsene con le pive nel sacco, lasciando al solito la Città scomunicata, di che i Fiorentini si vendicarono col gravare di nuove tasse i preti, punendo quelli che resistevano.
Piú scontento di tutti rimase allora Mess. Corso Donati, da cui il Cardinale aveva cavato danari con la promessa di venire in Firenze, per abbattere il della Tosa ed i suoi amici Neri, senza poi osare neppur d'appressarsi alle mura. Ma non perciò si dette per vinto, che meditava anzi nuove e piú audaci cospirazioni. Allontanatosi per poco da Firenze, forse a cercare danari ed aiuti, vi tornava nel 1308. E sempre piú accecato dalla rabbia, sperando soccorso cosí dal suocero Uguccione della Faggiuola, che in quel momento era signore d'Arezzo, come da Prato e da Pistoia, raccoglieva i suoi partigiani in Firenze. Ad essi esponeva le sue speranze, giurando di voler rompere gli Ordinamenti della Giustizia, e li incitava a prendere le armi, per farla una volta finita con quei Neri, ai quali esso aveva dato tanta forza, che a lui dovevano la vittoria ottenuta, e che ora cosí iniquamente lo trattavano. Ma non meno grande era contro di lui l'irritazione del popolo, per la voce già diffusa, che Egli aspettasse aiuti da Uguccione, valoroso capitano e nemicissimo di Firenze. E quest'odio per qualche tempo represso, scoppiò improvvisamente, prima ch'ei si movesse o se ne accorgesse. Il 6 di ottobre 1308, a un tratto, i Signori sonarono le campane; il popolo si levò a romore, e corse alle armi coi della Tosa, con gli altri Grandi loro amici, coi soldati catalani del De la Rat. L'accusa di traditore della patria fu contro il Donati portata al Podestà Piero della Branca di Gubbio, e in meno d'un'ora, accusa, bando e condanna erano sanzionati. Subito dopo i Signori, il Podestà, il Capitano, l'Esecutore, con la loro famiglia, coi Catalani, le compagnie del popolo e i cavalieri, corsero a S. Piero Maggiore, ed ivi assalirono le case del Donati. Esso si difese allora cogli amici cosí gagliardamente, che se Uguccione e gli altri fossero, come avevano promesso, venuti in tempo, vi sarebbe stato veramente assai da fare. Sembra che da Arezzo si fossero mossi; ma che, sentito come già tutta la città s'era levata a tumulto contro di lui, se ne tornassero indietro. Certo è che nessuno venne, e che Mess. Corso ben presto si vide abbandonato anche da molti degli amici fiorentini, che, allontanandosi dai serragli, disertarono la zuffa. Allora il popolo irruppe, ed egli dové abbandonare le sue case, che furono subito disfatte. Con pochi dei piú fidi, prese, fuggendo, la via di Porta alla Croce, inseguito da' cittadini e da' Catalani. Il primo ad essere raggiunto in sull'Africo, fu Gherardo dei Bordoni, che venne subito ucciso. Poi gli tagliarono la mano, che andarono ad affiggere alla porta di Tedici degli Adimari, perché questi era stato colui che lo aveva indotto ad unirsi col Donati. Pochi momenti dopo il Donati stesso fu raggiunto a San Salvi dai Catalani, che subito lo uccisero, come loro era stato ordinato. Altri dicono, invece, che egli tentò prima di corromperli con promesse di danaro, e non essendovi riuscito, si lasciò, per non venire nelle mani dei suoi nemici fiorentini, cadere a terra, dove fu, con un colpo di lancia alla gola, finito. I monaci di San Salvi ne raccolsero il corpo, ed il giorno seguente lo seppellirono nella Badia assai modestamente, per non incorrere in odio.
Quale fosse la causa di questo improvviso e irrefrenabile furore di popolo, è chiaramente espresso nelle lettere che il Comune scrisse poco dopo ai Lucchesi, presso i quali s'erano rifugiati i Bordoni. «Sapersi per tutta Toscana, che questa dei Donati era stata una guerra a morte per consegnare la città di Firenze e la parte guelfa in mano dei Ghibellini, e sottoporla al loro giogo, con perpetuo esterminio e morte ultima dello Stato guelfo. Costoro volevano rompere tutti i confini, e sottoporre la Città al loro dominio, sebbene Mess. Corso e i suoi sfacciatamente chiamassero invece ghibellina la Signoria». Cosí questa scriveva nel marzo del 1309. E veramente una volta che i Neri s'erano divisi fra Donati e Tosinghi, e questi s'erano uniti ai popolani grassi, dove potevano i Donati trovare aiuto, se non fra i Ghibellini? Il popolo minuto era debole, e il Papa lontano insisteva sempre piú pel ritorno degli esuli. Questi si erano uniti ai nobili di contado, antichi amici del Donati, separandosi da molti di quei popolani bianchi, che erano stati cacciati insieme con loro, ma che, a poco a poco, erano ritornati in città; s'erano separati anche dagli uomini indipendenti come l'Alighieri, il quale, nemico di messer Corso e fautore degli Ordinamenti di giustizia, era stato finalmente costretto a far parte da sé. E cosí i Bianchi, esiliati perché amici del popolo, si trovavano ora amici dei Grandi, d'Uguccione, dei Ghibellini e del Donati, il quale solo da questa ibrida unione aveva potuto sperare valido aiuto. E quale fu infatti l'immediata conseguenza della sua morte? Un altro terribile colpo agli esuli ed alla potenza dei Grandi, cosí dentro come fuori della città. Ne abbiamo subito, ai primi del 1309, una prova, vedendo che i fieri e superbi Ubaldini vennero in Firenze a sottomettersi al Comune, e promisero di guardare i passi dell'Appennino, dando perciò idonei mallevadori. In conseguenza di che furono accettati come amici con la condizione «che, in ogni atto e fazione, dovessero fare come distrettuali e cittadini».
Questo fu il processo con cui dal principio alla fine della sua storia, il Comune di Firenze andò accogliendo i nobili nel proprio seno. Ma fu anche il modo col quale i Grandi, quantunque vinti e sottomessi, ritrovavano in città sempre nuove forze. Essi perciò non tralasciarono di combattere il popolo e la Repubblica, prima fuori, poi dentro le mura, se non quando furono da essa distrutti, dal che non siamo ora molto lontani. E se in mezzo a questa lotta cosí sanguinosa, la prosperità di Firenze non accenna ancora a diminuire punto, occorre tener presente due cose. I continui conflitti da noi esposti nascevano dal bisogno costante d'escludere dal seno d'una repubblica di mercanti, il corpo estraneo del feudalismo, che minacciava di impedirne il naturale incremento. Ma queste guerre civili si combattevano fra un numero comparativamente piccolo di cittadini, che volevano impadronirsi d'un governo, il quale esercitava allora sulla società un'azione assai minore di quello che generalmente si suppone. La forza, la direzione vera della Repubblica stavano assai meno nella Signoria, mutabile ogni due mesi, che nella costituzione economico-politica delle Arti, fortemente ordinate e finora almeno sempre concordi fra loro. Lo Stato moderno che ogni cosa assorbe, le cui scosse scuotono perciò tutta la società, ancora non esisteva nel Medio Evo. Le repubbliche italiane erano piccole confederazioni di associazioni, alla cui testa si trovava un governo centrale cosí debole, che qualche volta poteva essere per un momento anche soppresso, senza che se ne risentisse gran danno.