La morte di Corso Donati pose fine alla tragedia cominciata con la cacciata dei Bianchi; ed un nuovo avvenimento mutò ora le condizioni, non solo di Firenze, ma di tutta Italia. Alberto d'Absburgo era stato ucciso da suo nipote, il 1 maggio 1308. Si trattava quindi di eleggere il nuovo re dei Romani, il futuro imperatore. Filippo il Bello sperava con l'aiuto di Clemente V, d'avere, quando non fosse per sé, almeno pel fratello Carlo di Valois, la corona imperiale. Ma il Papa che, trovandosi in Francia, non poteva opporsi direttamente ad un tale disegno, non voleva di certo neppure favorirlo. Cogli Angioini in Napoli, con la sede in Avignone, con Roma a lui ribelle, egli sarebbe restato addirittura in balía di Filippo, quando un Francese fosse divenuto imperatore. E però favoriva segretamente Arrigo di Lussemburgo, che risultò eletto il 27 di novembre 1308, pigliando il nome di Arrigo VII. Nato sulle frontiere della Francia, nella quale era stato educato, egli serbava in sé qualche cosa di germanico e di latino ad un tempo. Non aveva veramente nessuna forza e potenza propria, i suoi stati essendo poca cosa; ma d'un animo nobilissimo e fantastico, quasi mistico, era tutto pieno d'un alto concetto della dignità e grandezza dell'Impero universale, che voleva restaurare in Roma. Non sembrava comprendere punto, che l'unione feudale della Germania coll'Italia, non riuscita neppure nel primo Medio Evo, era divenuta impossibile ora che l'Italia aveva quasi distrutto il feudalismo, base principale del sacro-romano Impero. Nondimeno le speranze che Arrigo destò nel partito ghibellino, quando cominciò a spiegare la sua bandiera, furono infinite, e si diffusero con grandissima rapidità nella Penisola. Pareva che improvvisamente un vero entusiasmo s'impadronisse di tutti gli animi.
I Ghibellini adesso non erano piú quelli d'una volta, l'idea dell'Impero s'era in Italia trasformata. L'attitudine presa dai Papi contro la libertà e l'indipendenza delle repubbliche; la loro lotta continua contro il Comune di Roma; la lontananza, la debolezza, la dipendenza di Clemente V dalla Francia; il bisogno già cominciato a sentirsi per tutto, di creare sulle rovine degli antichi municipi un nuovo Stato, quale già di fatto si vedeva sorgere in Francia ed altrove; il risorgimento degli studi classici, che nella Repubblica e nell'Impero di Roma antica facevano letterariamente intravedere l'unità e la forza di quello Stato laico, che la realtà delle cose rendeva necessario; tutto ciò aveva, nella mente degli uomini, alterato affatto l'idea dell'Impero medioevale. Ora che la Francia ed altre regioni se n'erano separate, esso non era piú universale, ma solamente romano-germanico, eppure agli occhi degl'Italiani cominciava ad apparire, sebbene assai confusamente, come se fosse la resurrezione dell'antica Roma, che era sempre capo morale del mondo civile, e poteva divenire centro d'uno Stato italiano confederato. Questa idea fu prima di tutti formulata chiaramente dall'Alighieri nella sua Monarchia, che divenne allora il programma del partito ghibellino. Trovò di poi piú largo svolgimento nel Defensor Pacis di Marsilio da Padova, e piú tardi ancora la vediamo riempire di fantastico entusiasmo Cola di Rienzo. Il suo tentativo d'una nuova Repubblica romana, italiana, imperiale, tanto lodato dal Petrarca, fu un sogno, parte scolastico, parte classico-umanistico, parte feudale e medioevale, che però conteneva in germe un oscuro presentimento del futuro stato italiano, che si presentiva, senza ancora capirne la natura. In ogni modo, questo incomposto amalgama d'idee divenne allora la bandiera dei Ghibellini in Italia.
A tutto ciò i Guelfi non opposero un altro programma filosofico. La realtà presente delle cose, il bisogno, l'interesse che c'era a sostenere la indipendenza delle città italiane dal Papa e dall'Imperatore, questa fu la bandiera sollevata allora da Firenze in nome dei Guelfi. La venuta dell'Imperatore rappresentava per essa il risorgimento del vecchio partito ghibellino, quindi d'Arezzo, di Pistoia, di Pisa, di tutte le città nemiche, che l'avrebbero circondata d'un cerchio di ferro, fermando il suo commercio. E però essa chiamava a raccolta le città guelfe, tutti coloro che volevano difendere la propria libertà, e non si volevano rendere schiavi dello straniero, proponendo una confederazione italiana, alla cui testa si pose. Questo è, infatti, il momento in cui la piccola repubblica di mercanti inizia una vera politica nazionale, diviene una grande potenza italiana. E cosí, sotto la forma medioevale d'Impero feudale, universale da una parte, e sotto quella di confederazione municipale dall'altra, il concetto nazionale, per la prima volta, cominciava a balenare, sebbene ancora in nube e da lontano. I due partiti combattevano con ardore pei loro interessi del momento, e pel giusto presentimento che avevano d'un nuovo avvenire, senza però avvedersi, che questo avvenire era possibile solo colla distruzione dell'uno e dell'altro.
Il Papa sembrava adesso favorire Arrigo VII; lo incoraggiava infatti all'impresa d'andare a Roma a prendere la corona imperiale; raccomandava agl'Italiani che gli facessero buona accoglienza. Ma egli (e i Fiorentini lo avevano sin da principio capito) non poteva desiderare che l'Italia fosse sottomessa all'Imperatore: ricordava bene ciò che Federico II aveva fatto soffrire alla Chiesa. E però, seguendo la vecchia politica della Corte di Roma, favoriva nello stesso tempo Roberto di Napoli, il già Duca di Calabria, per la morte di Carlo II, divenuto re di Napoli (3 maggio 1309), il quale naturalmente s'apparecchiava per resistere a tutt'uomo alle pretese d'Arrigo. I Fiorentini sembravano dapprima stare a guardare; non prestavano però nessuna fede agl'incoraggiamenti che il Papa mostrava di dare ad Arrigo. Volevano fare con Clemente piú stretta alleanza, ma questi era irritatissimo anch'egli dalla loro passata condotta, e ripeteva in cuor suo, non senza ragione, le parole di Benedetto XI: «Chi potrebbe mai credere che costoro, combattendo la Chiesa, presumano d'essere suoi figli?» Nondimeno essi, punto sgomenti di ciò, trattarono con re Roberto, il quale teneva sempre presso di loro il De la Rat coi cavalieri catalani, anzi mandava ora anche la sua bandiera. E con questi aiuti i Fiorentini andarono ripetutamente contro Arezzo; né si fermarono quando Arrigo intimò loro di rispettarla come terra d'impero. Ebbero sempre il vantaggio, penetrarono fin dentro la città; ma non poterono restarvi, si disse allora, per tradimento dei Grandi. In fronte a tutti gli atti e bandi del Comune scrivevano: - A onore di Santa Chiesa e della Maestà di Re Roberto, ad abbassamento del Re della Magna.