CAPITOLO VIII

Galla Placidia — L'invasione dei Vandali in Africa

In Roma, dopo la partenza d'Alarico, lo stato delle cose era andato migliorando. Molti che avevano abbandonato la Città, vi tornavano, e la popolazione quindi rapidamente cresceva. A Ravenna invece cominciavano a germogliare i semi di partiti avversi, ed una vicina crisi era inevitabile. Onorio continuava ad essere geloso della sua indipendenza da Costantinopoli, dove era assai più vivo il sentimento tradizionale della unità dell'Impero, e si mirava sempre ad una supremazia dell'Oriente sull'Occidente. Teodosio II, il quale allora regnava colà sotto l'ascendente della sorella Pulcheria, aveva disapprovato vivamente che Onorio avesse assunto a compagno nell'Impero il generale Costanzo. Ma questi poco dopo morì, e rimase la vedova Placidia, la quale, come figlia di Teodosio il grande, inclinava ad un accordo [84] coll'Oriente, a segno tale da non poter più vivere in buoni termini col fratello. Se ne andò quindi a Costantinopoli, dove rimase fino alla morte di lui, avvenuta nel 423.

Onorio fu un uomo certamente di poco valore, ma non quanto vollero far credere. Egli in sostanza rappresentò tre idee, che formarono il carattere del suo regno: il principio ereditario, la romanità, il Cristianesimo ortodosso. E ad esse si mantenne sempre fedele. Debole com'era, dovette lottare continuamente coi barbari, che invadevano da ogni parte l'Impero, e con un gran numero di pretendenti, che sorgevan di continuo. In teoria tutto l'Occidente obbediva a lui; ma in realtà l'Europa centrale, anzi l'intera Prefettura della Gallia, era già in potere dei barbari. Il dissenso con Costantinopoli, piuttosto che scemare, andò per opera sua crescendo. Ma Placidia, in ciò più accorta, gli si oppose. Essa capì che, di fronte a tanti barbari, i quali d'ogni parte s'avanzavano nell'Impero, solo da Costantinopoli si poteva sperare aiuto.

Così fu che, alla morte d'Onorio, si manifestarono in Ravenna due partiti. Quello che mirava alla indipendenza dell'Occidente scelse, come successore al trono, Giovanni, Primicerio dei notai. Quello invece che voleva l'accordo con l'Oriente, dove Teodosio II aveva subito cominciato ad assumere l'autorità di unico e solo Imperatore, favoriva Placidia come reggente del figlio Valentiniano III, attenendosi al principio ereditario. E per questa ragione anche i due primi generali a servizio dell'Impero d'occidente, Bonifazio ed Ezio, che per la loro nascita ed il loro valore, furon chiamati i due ultimi Romani, si trovarono in lotta fra di loro. Bonifazio, che era in Africa, si dichiarò per Placidia, alla quale mandò subito aiuto di uomini e di vettovaglie; Ezio si dichiarò invece per Giovanni. [85] Ormai i vincoli dell'antica disciplina militare erano sciolti, ed i generali parteggiavano anch'essi, guidati dal loro interesse personale.

Giovanni, per non sembrare di voler rompere ogni relazione coll'Oriente, aveva mandato a chiedere d'essere riconosciuto da Teodosio II; ma sapendo che questi s'era già dichiarato favorevole a Placidia, s'apparecchiava intanto alla difesa, raccogliendo anche una flotta nel porto di Ravenna. E ciò apparve più necessario ancora quando seppe che i suoi ambasciatori erano stati malissimo accolti a Costantinopoli. Non potendo sperare d'aver soldati dalla Gallia, quasi tutta occupata dai barbari; nè dall'Africa, dove comandava Bonifazio; e neppure potendo sperar molto in Italia, dove aveva non pochi avversari, mandò Ezio a chiedere aiuto dagli Unni, presso i quali questo generale era lungamente vissuto come ostaggio, ed aveva perciò parecchi amici. Ezio tornò ben presto con un rinforzo, che si fa ascendere a 60,000 Unni, e giunse in tempo per affrontare le genti mandate da Costantinopoli in aiuto di Placidia. La fortuna pareva che volesse secondarlo, giacchè il naviglio che portava una parte dell'esercito orientale fu disperso da un'improvvisa tempesta, ed il generale Ardaburio, gettato a terra nel porto di Ravenna, fu fatto prigioniero. Ma questi riuscì di dentro la città stessa a cospirare ed a mettersi d'accordo coi suoi compagni d'arme, i quali s'avanzavano per terra, sotto il comando di Aspar suo figlio. E così, quando Giovanni era per uscir di Ravenna a combattere il nemico, che doveva essere contemporaneamente assalito alle spalle da Ezio cogli Unni, Aspar, per gli accordi segretamente presi col padre, potè con un colpo di mano entrare in Ravenna, ed impadronirsi della persona stessa di Giovanni, che menato in Aquileia, dove era già arrivata Placidia, fu subito messo a morte (425). Ed [86] Ezio allora, sebbene avesse già avuto col nemico uno scontro sanguinoso, che fu però di esito incerto, capì che ormai la sua causa era perduta, e passò dalla parte di Placidia, che lo accolse a braccia aperte. Egli stesso riuscì a far tornare indietro gli Unni, mediante buona somma di danaro, e per diciassette anni fu il primo generale della Corte di Ravenna, essendo Bonifazio rimasto ancora in Africa.

La notizia della morte di Giovanni pervenne a Teodosio II, quando trovavasi nell'Ippodromo, a Costantinopoli. Egli fece subito sospendere i giuochi, e condusse il popolo nella Basilica, per rendere solenni grazie al Signore. Restituì a Placidia il titolo di Augusta, che le era stato tolto da Onorio, e quello di nobilissimus a Valentiniano III, il quale allora aveva appena sei anni, affidandolo alle cure della madre. Più tardi gli conferì addirittura il titolo di Augusto, inviandogli il diadema e la porpora. Così, dopo che l'Impero, in apparenza almeno, era stato qualche tempo riunito sotto Teodosio II, fu ora da capo diviso. E per un quarto di secolo (425-450) Valentiniano, o più veramente Placidia, rimase a governare quello che continuò a chiamarsi l'Impero d'occidente, sebbene molte parti già ne avessero occupate i barbari, ed altre dovessero via via andarne occupando, restringendolo finalmente alla sola Italia.

L'antagonismo fra Ezio e Bonifazio, che vedemmo manifestarsi sin dal principio, continuò sempre più vivo anche ora che l'uno e l'altro erano a servizio di Placidia. Ambiziosi e valorosi del pari, Ezio era un uomo assai accorto; Bonifazio invece eccitabile e mutabile in estremo grado. In Africa questi aveva reso grandi servigi tenendo a freno i Mori. Morta la sua prima moglie, pareva che volesse, per zelo religioso, ritirarsi dal mondo; e S. Agostino dovette dissuaderlo, nell'interesse dell'Impero. [87] Sposata allora una seconda moglie, che era ariana, mutò vita, abbandonandosi alle passioni dei sensi, trascurando il governo di quella regione, che restò quasi in balìa ai barbari africani, tanto che lo stesso S. Agostino lo rimproverava nelle sue lettere di non far nulla per evitare tanta calamità: Nec aliquid ordinas ut ista calamitas avertatur. Venne perciò richiamato (427) in Italia, ma non volle obbedire; ed essendo stato mandato colà un esercito, per metterlo a dovere, resistè colle armi. Così vi fu in Africa una specie di guerra civile fra i generali dell'Occidente.

È nota la leggenda a questo proposito narrata da Procopio, il quale dà la colpa d'ogni cosa ad Ezio, divenuto geloso di Bonifazio. Per rovinarlo, egli avrebbe detto a Placidia, che questi la tradiva. Se ne voleva le prove, lo invitasse a Ravenna, e vedrebbe che si sarebbe ostinatamente ricusato d'obbedire. Nello stesso tempo avrebbe segretamente fatto dire a Bonifazio, che Placidia ne tramava la rovina, e che a tal fine lo avrebbe invitato a Ravenna. Così fu che, quando venne richiamato, non solamente ricusò d'obbedire, ma per vendicarsi, si decise al funesto passo d'invitare i Vandali a passare dalla Spagna nell'Africa. Ma venuti che furono, egli, fatto accorto dai suoi amici dell'inganno in cui era caduto, si pentì dell'errore commesso, e voleva colle armi ricacciarli nella Spagna. Era però troppo tardi, e dovette invece tornarsene a Ravenna. Ivi ebbe un combattimento personale col suo rivale Ezio, da cui fu ucciso. E prima di morire, consigliò alla moglie di sposare il rivale, nel caso che fosse restato vedovo, perchè era il solo uomo degno di succedergli.

La forma leggendaria di questo racconto apparisce a prima vista, e ricorda molte altre simili leggende. Infatti anche la invasione della Gallia nel 406, sarebbe, secondo [88] la leggenda, avvenuta per tradimento di Stilicone, come più tardi la venuta dei Longobardi in Italia, per vendetta di Narsete. È sempre lo stesso procedimento, che spiega i fatti d'indole generale con cause esclusivamente personali, le quali certo non mancano anch'esse nella storia, ma non sono le sole. Il vero è che, secondo ogni probabilità, Ezio si trovava allora a combattere per l'Impero nella Gallia, e se anche vi fu inganno o tradimento ordito a Ravenna, non potè essere opera sua. Ma non c'è bisogno di ricorrere a queste spiegazioni, quando la guerra scoppiata in Africa fra i generali romani poteva per sè stessa essere un eccitamento bastevole pei Vandali a venire nel paese, che era il granaio dell'Impero. E s'aggiungeva che l'Africa, dove i Mori spesso si ribellavano, era allora fieramente travagliata anche dalle sette eretiche dei Donatisti, che negavano l'efficacia del battesimo dato da un sacerdote caduto in peccato, e dei così detti Circumcelliones, specie di fanatici vagabondi, che agitavano le moltitudini. Tutti costoro, perseguitati dagli editti di Onorio contro gli eretici, e però avversissimi ai Cattolici, favorivano naturalmente quelli che venivano a combatterli, come i Vandali che erano ariani intolleranti. Così, senza escludere che in mezzo alle passioni di queste lotte civili e religiose, essi fossero da qualche parte incoraggiati o anche chiamati, si spiega assai naturalmente come nel 429 passassero in Africa, mossi dal loro proprio interesse, ed occupassero la Mauritania, avanzandosi verso l'Oriente.

I Vandali avevano stretta parentela coi Goti, insieme coi quali s'erano in origine trovati fra l'Elba e la Vistola. [89] Di là, avanzando verso il sud, presero parte alle guerre dei Marcomanni contro Marco Aurelio. Dopo di che si mantennero lungamente tranquilli, in buone relazioni coll'Impero, che a tempo di Costantino li accolse come federati nella Pannonia, dove restarono circa settant'anni. Quando Stilicone, per opporsi ad Alarico, chiamò in Italia le legioni che guardavano il Reno, essi, come vedemmo, passarono il fiume insieme cogli Alani, cogli Svevi, e nel 409 erano già nella Spagna. Più di una volta si trovarono in lotta coi Goti, dai quali vennero battuti; ed ebbero perciò la reputazione di poco valorosi, come avevano già quella d'avidi, infidi e crudeli fra tutti i barbari. Erano più sobri nei costumi, ma anche più ardenti nello zelo religioso, che li spingeva ad una intolleranza insolita nei barbari e qualche volta addirittura feroce. Nel 427 li troviamo riorganizzati sotto Genserico, che per la morte del fratello era rimasto unico loro capo. Piccolo e zoppo, in conseguenza d'una caduta da cavallo, di poche parole, ma di pronta risoluzione, era audace e crudele. Ariano al pari di tutti i Vandali, lo dissero, non si sa con qual fondamento, convertito a questa fede, rinnegando il Cattolicismo, in cui sarebbe nato, e quindi, come suole in questi casi, tanto più intollerante. Dopo avere sostenuto nel 428 un attacco fortunato contro gli Svevi, lo troviamo l'anno seguente in Africa, dove era andato colle donne, i vecchi e fanciulli: una vera invasione. Gli uomini in armi non superavano i 50,000.

Questo non era di certo un numero tale da poter facilmente conquistare il paese, se non fosse stato già indebolito dalle discordie, e se non vi si fosse trovato un partito favorevole agl'invasori. Essi s'avanzarono saccheggiando, distruggendo le chiese cattoliche, uccidendo vescovi e preti, molti dei quali fecero schiavi. E poterono procedere così rapidamente che nel 430 tre sole delle [90] principali città, Citra, Ippona e Cartagine, erano ancora in mano dei Romani. Bonifazio s'era ormai svegliato dalla sua inerzia, e quando i Vandali s'avanzarono, per mettere l'assedio ad Ippona, venne con essi a battaglia; ma fu vinto, e dovè chiudersi nella città che venne assediata. In essa trovavasi S. Agostino, il quale morì il 28 agosto 430, dopo tre mesi di quell'assedio, che ne durò poi altri undici. Allora, essendo finalmente arrivati da Costantinopoli aiuti sotto il comando del generale Aspar, i Vandali si allontanarono dalla città, e Bonifazio, unitosi ai Bizantini, li assalì; ma venne di nuovo battuto (431). Conseguenza di questa disfatta fu che l'Africa si trovò per qualche tempo come abbandonata al nemico. Aspar tornò a Costantinopoli, Bonifazio a Ravenna, dove Placidia, ricordando i servigi che questi le aveva resi, quando essa era combattuta da Ezio, la cui presunzione cresceva sempre, lo accolse con gran favore, facendo capire a tutti che lo preferiva. Così l'odio fra i due generali si accese, e finalmente vennero presso Rimini a battaglia. Secondo alcuni Bonifazio vinse, ma ebbe una ferita mortale, di cui poco dopo morì. Secondo altri, la vittoria invece fu di Ezio, il quale potè prendere i beni del rivale, e sposarne la vedova, quando esso poco dopo morì di malattia aggravata o cagionata dalla umiliazione patita. E da ciò sarebbe poi venuta la leggenda del duello, e della raccomandazione fatta dal morente Bonifazio alla moglie di sposare il rivale fortunato.

Lo stato delle cose a Ravenna non era di certo consolante. Placidia, dopo la disfatta di Bonifazio in Africa, e dopo la morte di lui seguita in Italia, trovavasi alla mercè di Ezio, il solo generale valoroso che ella ora avesse. E questi, sempre ambizioso, diveniva ogni giorno più imperioso. La Gallia e la Spagna erano corse dai barbari, che d'ogni parte s'avanzavano; i Vandali correvano [91] anch'essi liberamente saccheggiando l'Africa. Questi erano però in così piccolo numero di fronte alla vastità del paese occupato, da non sentirsi punto sicuri di resistere vittoriosamente ad un esercito che venisse da Ravenna, e che poteva essere rinforzato da nuove genti mandate da Costantinopoli. E così da ambo i lati si trovarono disposti, pel momento almeno, alla pace, che fu infatti conclusa il dì 11 febbraio 435 ad Ippona. Ai Vandali venne concesso d'abitare il paese già conquistato, compresa una parte della provincia di Cartagine; non la città stessa, nè il suo territorio, che restavano ancora ai Romani, cui si doveva pagare un tributo. Ma ben presto i patti furono violati, e nel 439 Genserico, profittando della guerra che i Romani avevano nella Gallia, s'impadronì di Cartagine. Essendo così in possesso dei migliori porti della costa, cominciò le sue escursioni marittime nelle isole vicine, massime in Sicilia, dove già sin dal 440 s'era avanzato saccheggiando. Intanto crescevano per l'Impero i pericoli nella Gallia, dove sempre nuove genti erano richieste; e si venne perciò nel 442 ad una seconda pace, per la quale i Romani ritenevano la Mauritania e la Numidia occidentale; ai Vandali restavano la Sicilia, la provincia di Cartagine o Proconsolare, la Bizacena, la Numidia orientale. Allora cominciava a governare in Ravenna Valentiniano III, che aveva ormai raggiunto la maggiore età, e fin dal 437 aveva sposato Eudossia, figlia di Teodosio II.

Con la pace del 442 ai Vandali non era stato solamente permesso d'abitare il paese come federati; era stata invece fatta una concessione incondizionata d'occuparlo, il che finora non s'era consentito mai a nessuno dei barbari. Si ammetteva così un vero e proprio smembramento dell'Impero; cominciava uno stato di cose affatto nuovo. Bisogna però notare che, sebbene i Vandali fossero [92] tenuti, ed erano veramente fra i barbari più crudeli, la loro occupazione riusciva, sopra tutto alle classi inferiori, assai meno gravosa che non si è creduto. Essi si concentrarono principalmente nella provincia di Cartagine, tenendosi uniti, ed impadronendosi delle terre, che divisero fra di loro, possedendole senza pagar tasse. Nelle circostanti province Genserico serbò per sè vasti possessi. Quelli che in tutto ciò gravissimamente soffrirono furono i latifondisti, spogliati di ogni avere, ridotti, quando non emigravano, alla condizione di ministeriali, dipendenti, qualche volta anche di schiavi; costretti ad amministrare o coltivare pei Vandali le terre che una volta avevano possedute, a cedere perfino la loro proprietà mobile. E con essi venne oppresso il clero, che era anch'esso latifondista, e che dai Vandali ariani fu sempre crudelmente trattato. I coloni, i contadini, gli artigiani delle città rimasero più o meno nelle condizioni di prima. E la stessa oppressione dei grandi proprietari non fu generale, restringendosi principalmente alla provincia di Cartagine. Il territorio occupato era così vasto, che la parte maggiore sfuggiva di necessità non solo alla oppressione, ma anche all'azione diretta del nuovo governo, troppo rozzo e primitivo, in confronto del romano, per far sentire al pari di questo il peso della sua fiscalità. Le altre province furono come abbandonate a loro stesse, lasciandovi i Vandali l'antica amministrazione romana, sottoponendole a gravi tasse, che tuttavia non raggiunsero mai la regolarità persistente, continua, opprimente di quelle riscosse dagli agenti imperiali. Qualche cosa di simile avvenne anche nella Spagna e nella Gallia, dove si lasciarono sopravvivere le assemblee provinciali dei notabili per gli affari amministrativi. Colà i Visigoti ed i Burgundi pigliarono due terzi delle terre. Ma anche questo peso, per quanto odioso, ricadeva principalmente sui soli latifondisti. Nell'Africa, [93] è vero, la oppressione esercitata dai Vandali fu più grave assai; era, però limitata ad una parte sola del territorio occupato. Grande fu nondimeno contro di essi l'odio degli spossessati e di tutto il clero, il quale, dove non veniva espropriato, era oppresso dalla intolleranza religiosa. E così si mantenne sempre vivo un rancore universale, anche da parte di coloro che erano meno oppressi, il che fu poi causa non ultima della rapida rovina dei Vandali quando i Bizantini vennero in Africa. Ma che la oppressione barbarica fosse davvero minore che non si crede, è confermato dal fatto che Salviano, scrittore del quinto secolo, dopo aver detto «che tutto nei barbari, persino il loro stesso odore, era odioso ai Romani,» poteva aggiungere, «che assai spesso questi, specialmente i poveri, preferivano la oppressione barbarica alla imperiale. Le assemblee dei ricchi Romani, egli diceva, impongono le tasse, ma essi non le pagano, le fanno pagare ai poveri. E quando per caso vengono scemate, il sollievo non va a questi, ma ai ricchi. Così, se si tratta di pagare tocca al popolo; se invece si tratta di scemare il peso delle tasse, si opera allora come se le pagassero solamente i ricchi. I Franchi, gli Unni, i Vandali ed i Goti non conoscono queste infamie.» Bisogna però aggiungere che tutto ciò non era effetto di virtù o sentimento di giustizia; era invece conseguenza naturale d'un governo troppo imperfetto e rozzo, per riuscire a stendere su tutto il paese occupato una fitta rete amministrativa, cui nulla potesse sfuggire.

In questo mezzo Galla Placidia, che aveva quasi raggiunto i sessant'anni, moriva (27 novembre 450). Essa non ebbe di certo nè un grande ingegno nè un grande carattere; ma la sua accortezza e fermezza, paragonate con la incapacità di suo figlio, parvero a molti assai maggiori [94] che non furono. Essa potè continuare a governare per un quarto di secolo fin quasi alla sua morte; ed in un tempo di aspre lotte religiose, essendosi appoggiata costantemente al clero cattolico, questo assai naturalmente ne esaltò la memoria. Sostenuta, come figlia di Teodosio, dal principio della ereditaria legittimità, che le assicurava il favore di Costantinopoli; aiutata non poco dalla sua straordinaria bellezza, che le dava un grande ascendente sugli uomini, potè esercitare un'azione efficace e costante sulla politica del suo tempo. Chi anche oggi visita Ravenna, città unica al mondo pei monumenti del quinto secolo, che sola possiede in Italia, e vede le molte chiese innalzate colà da Placidia, in una delle quali essa ha la sua tomba accanto a quella d'Onorio suo fratello, di Costanzo suo marito e del loro figlio Valentiniano; chi vede i molti monumenti, gli splendidi mosaici, e ode le varie leggende che la ricordano, deve riconoscere la grande azione esercitata da lei in Ravenna. Il suo spirito sembra anche oggi presente fra quelle mura. Ma con tutto ciò, in parte per le condizioni dei tempi, in parte per le qualità stesse che ella ebbe, la politica che intorno a lei si fece fu una politica d'intrighi e di gelosie. E non ostante qualche guerra condotta, tanto nell'Africa quanto nella Gallia, con molto valore, ma con poca fortuna, si finì col veder l'Impero andarsi sempre più decomponendo e smembrando. Sotto di lei infatti le province cominciarono, l'una dopo l'altra, a staccarsi dall'Italia, che rimase come isolata ed abbandonata a se stessa. Morendo, Placidia lasciava l'Impero nelle mani deboli ed incapaci del figlio Valentiniano III, in un momento che era già grave, e stava per divenire gravissimo.

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