CAPITOLO III

Il regno di Teodorico

Dopo questo atto da vero barbaro, Teodorico si potè dire solo padrone in Italia. La condizione in cui egli si trovava adesso non era in verità molto diversa da quella di Odoacre. Questi aveva comandato una moltitudine incomposta di genti varie, Eruli, Turcilingi, sopra tutto Sciri. Teodorico era anch'esso alla testa d'una mescolanza di varie genti, Gepidi, Rugi, Breoni, e Romani o romanizzati, principalmente però Ostrogoti, che davano a tutti un nome comune. Non era quindi neppur questo un popolo unito da sentimento nazionale; era una banda di ventura, unita dal bisogno di vivere saccheggiando e guerreggiando, organizzata, come quella d'Odoacre, colla disciplina militare appresa dai Romani. Teodorico veniva, noi lo abbiamo già visto, non come il re di un popolo germanico, ma come un Patrizio, rappresentante dell'Imperatore e da esso mandato. Al di sotto di lui c'era un Magister militum, ed a capo delle varie parti dell'esercito erano i Comites, che risiedevano nelle diverse province d'Italia. La grande differenza fra lui ed Odoacre stava solo nel carattere, nell'ingegno politico e militare assai superiore di Teodorico. La sua educazione, in parte anche il suo spirito, si erano formati a Costantinopoli, dove egli era divenuto ammiratore della civiltà romana, senza mai cessare affatto d'essere un barbaro. Quantunque sia certo che egli non avesse nessuna cultura letteraria, riesce difficile credere, come pur generalmente si dice, che egli non sapesse addirittura scrivere il proprio [147] nome. È vero che per firmare si serviva d'una lamina d'oro, in cui erano intagliate le prime quattro lettere del suo nome; ma questo poteva anche essere un modo di guadagnar tempo quando doveva sottoscrivere in forma diplomatica i molti atti ufficiali del suo governo.

Noi non dobbiamo aspettarci che negli Ostrogoti di Teodorico persistessero ancora le antiche e primitive istituzioni germaniche. Sebbene avesse menato seco anche i vecchi, le donne ed i bimbi, tutto un popolo, o per meglio dire una gran moltitudine, egli era in sostanza il capo militare, il duce d'un esercito di varie genti vissute dapprima cogli Unni e poi dentro l'Impero. Non era quindi possibile trovare più fra di loro la proprietà collettiva dell'antico villaggio germanico, nè quelle assemblee popolari che frenavano il potere regio. Teodorico comandava con assoluto imperio di capitano, solo in casi eccezionali consultando il suo esercito. In ogni modo essi non avrebbero potuto mai legiferare pei Romani, nè i Romani pei Goti. Egli era venuto col titolo di Patrizio, per riconquistare l'Italia all'Impero, che restava sempre, teoricamente almeno, nella sua unità, non mai interamente distrutta. Infatti anche quando v'erano due Imperatori, se quello d'Occidente moriva, il suo potere ricadeva in quello d'Oriente, fino a che non veniva eletto il successore. Di certo, come Ricimero, come Oreste, come Odoacre, anche Teodorico voleva essere il vero, effettivo padrone in Italia, possibilmente una specie d'imperatore d'Occidente. Ma questo potere cui egli mirava e che in parte raggiunse, era in contradizione manifesta con la missione a lui affidata, e che egli aveva accettata: bisognava quindi legalizzarlo, e ciò non poteva farlo che l'Imperatore, a cui egli si rivolse quindi senza indugio. Subito dopo la battaglia dell'Adda, nel 490, quando ancora non era entrato in Ravenna, ma già si sentiva padrone dell'Italia, [148] aveva mandato un'ambascerìa all'Imperatore, per potere assumere la dignità regia, ab eodem sperans se vestem induere regiam . Questa ambascerìa non ottenne però nessun resultato, essendo nell'aprile del 491 morto Zenone, cui successe Anastasio, che non mandò risposta. E, Teodorico, il quale era allora già entrato in Ravenna dove aveva ucciso Odoacre, si lasciò nominare re dai suoi Goti, che non aspettarono la risposta del nuovo Imperatore. Una tale elezione non gli dava però sui Romani, quella legale autorità che solo dall'Imperatore poteva venirgli. In sostanza non era un re, ma un tiranno come Odoacre, che egli perciò appunto era venuto a combattere in nome dell'Impero.

Questa sua difficile condizione migliorò non poco nel 498, quando, essendo divenuto di fatto assai più potente, riuscì finalmente, con una nuova ambascerìa, ad ottenere dall'Imperatore Anastasio le insegne, omnia ornamenta Palatii, che Odoacre aveva mandate a Costantinopoli. Non bisogna però credere che la nuova autorità gli fosse concessa, senza fissarne limiti e senza qualche determinazione. Tanto Cassiodoro quanto Procopio accennano a patti e condizioni. Il secondo di questi scrittori ci narra infatti come i Goti, quando più tardi furono vinti da Belisario, gli affermassero d'aver sempre fedelmente rispettato i patti e le condizioni imposte ad essi dall'Impero. Teodorico di certo aveva il comando dell'esercito, era giudice supremo, nominava tutti gli ufficiali dello Stato. Ma s'illuderebbe assai chi lo credesse perciò divenuto una specie d'Imperatore d'Occidente, o [149] anche un re dei Romani indipendente da colui che lo aveva mandato. Egli non poteva promulgar vere e proprie leggi, ma solo editti per l'Italia, i quali dovevano restare dentro i confini di ciò che avevano già prescritto le leggi, che si facevano a Costantinopoli, e si applicavano a tutto l'Impero. Continuò pure a far l'elezione dei Consoli, i quali erano una magistratura comune del pari a tutto l'Impero. Uno di essi veniva eletto in Oriente; l'altro era eletto in Italia da Teodorico, ma doveva essere confermato a Costantinopoli. E così pure solo l'Imperatore poteva coniar moneta colla propria effigie. Son tutte cose che riconfermano la persistenza della unità dell'Impero.

Il potere di Teodorico si limitava alla sola Italia, sebbene qualche volta egli pretendesse di esercitarlo anche nelle isole e nell'Africa. D'impero di Occidente non si parlava neppure. Anzi l'Imperatore non riconobbe mai un regno goto ereditario, e perciò i successori di Teodorico dovettero sempre essere riconfermati a Costantinopoli, altrimenti rimanevano solo tiranni. Il suo regno ebbe un altro carattere affatto speciale. Tutta l'amministrazione rimase nelle mani dei Romani; le armi restarono ai Goti, che formarono l'esercito. E questo fece dire a più d'uno scrittore, che fu allora vietato affatto l'uso delle armi ai Romani. Si fece confusione con un ordine di severa proibizione, emanato assai più tardi da Teodorico, quando egli cominciò a temere di una ribellione in Italia. Anzi non è facile neppur credere alla loro esclusione assoluta dall'esercito, massime se si pon mente al significato assai lato, che aveva allora la parola Romano, ed all'essere l'esercito goto composto di genti diversissime. Esso era certamente goto, e chiunque ne faceva parte aveva quel nome. Ma lo stesso Cassiodoro, il quale ripete più volte che la difesa dello Stato era affidata ai Goti, cita nelle sue lettere (VIII, 21 e 22) [150] l'esempio di qualche nobile romano, sotto la sorveglianza di Teodorico, educato nella lingua dei Goti, e insieme con essi nell'esercizio delle armi. Dei Romani certo ne furono ammessi pochi e con difficoltà, ma non vennero esclusi del tutto. Altra prova che l'uso delle armi non era ad essi vietato, l'abbiamo nel fatto ricordato dallo stesso scrittore, quando narra che una volta dovè abbandonare il proprio gabinetto, ed armare le sue genti per difendere l'Italia meridionale, minacciata da un assalto dei Bizantini. Una divisione assoluta e matematica non era possibile. E quindi sebbene l'amministrazione fosse certo in mano dei Romani, non si può neppure presumere che i Goti ne fossero esclusi del tutto. Alcuni dei loro grandi erano intimi consiglieri di Teodorico, e nella condotta della politica generale, esterna ed interna, avevano una parte importante, assai più reale che apparente.

I Goti serbarono le proprie leggi, e furono giudicati dai Comites Gothorum; lasciarono ai Romani le loro leggi, le loro istituzioni, i loro giudici, che erano i rettori delle province, nelle quali i Comites comandavano solo come capi militari. Nelle cause miste il magistrato goto doveva aggregarsi un Romano, e giudicare secondo equità, il che finiva col far prevalere anche in questi casi il diritto romano. Essendo poi i Goti un esercito, la loro legge aveva naturalmente un carattere principalmente militare. Nel diritto civile, e più ancora nel penale, che è di sua natura territoriale, prevaleva la legge romana. Così si spiega come quello che si chiama l'Edictum Theodorici, perchè è il più importante di quanti egli ne fece, venisse compilato su leggi romane, e fosse obbligatorio anche pei barbari, sebbene non si trovi in esso traccia visibile di quelle consuetudini germaniche, che certo non potevano presso di loro essere spente del tutto.

Quantunque le due legislazioni, gota e romana, restassero [151] in vigore, e si possa anche credere, che tra le condizioni imposte dall'Impero a Teodorico, vi fosse quella appunto di lasciare agl'Italiani l'uso della loro legge, pure si afferma che da principio egli non volesse concedere un tal privilegio a nessuno di coloro che avevano combattuto a difesa di Odoacre. — Un principe nuovo, egli avrebbe detto, si trova spesso nella necessità di punire, senza poter gustare la dolcezza della pietà. — Ma Epifanio vescovo di Pavia lo condusse a più mite consiglio. E Teodorico allora non solo rinunziò al suo primo proposito; ma gli dette anche larghi sussidi in danaro, per aiutare le oppresse popolazioni. Il concetto fondamentale del nuovo governo fu certamente la unione, la fusione dei Goti coi Romani. I primi dovevano avere le armi, i secondi dar loro da vivere. L'amministrazione doveva restare in mano dei Romani, cui correva l'obbligo di cedere una parte delle terre, di riscuotere le tasse, e raccogliere il danaro necessario allo Stato. I due popoli però restarono lungamente l'uno accanto all'altro, senza potersi mai fondere insieme; restarono anzi in continuo antagonismo fra di loro. Non era possibile andar contro le leggi della natura.

Liberio, che aveva fedelmente servito Odoacre, ebbe l'amministrazione delle finanze, e con essa l'incarico di condurre a termine l'operazione difficilissima della nuova divisione delle terre, che egli eseguì con tanta prudenza da non far nascere nessun malcontento. E non era poco. Si trattava di dividere fra i Goti quello che era stato dato ai soldati di Odoacre, e i Goti erano in numero maggiore. Ma questa divisione, come vedemmo, era omai divenuta nell'Impero un fatto quasi ordinario e normale. Molti dei seguaci di Odoacre erano morti, altri partiti, altri s'erano aggregati ai Goti, i quali, di fronte alla popolazione ed alla estensione del paese, erano anch'essi in piccolo numero. Le guerre, le stragi avevano, è vero, [152] diminuito non poco il numero degl'Italiani, ma ciò rendeva più estese le proprietà da dividere, e tornava perciò, in qualche modo, a vantaggio dei latifondisti, sui quali ricadeva il peso della divisione. Anche sotto Teodorico l'aggravio delle imposte fu minore che sotto l'Impero. Più di una volta egli avrebbe detto che gli doleva di dover riscuotere tasse da paesi esausti, da contribuenti impoveriti (Cassiodoro, III, 40). Le condizioni dell'agricoltura continuarono a migliorare. S'aggiunse, che per molto tempo non vi fu guerra, e che il governo barbarico aveva meno lusso, meno bisogno di danari. L'Italia quindi, sebbene fosse in balìa dei barbari, ebbe anche ora un periodo di pace e di tregua.

Fra i più ricchi e celebri latifondisti erano i Cassiodoro delle province meridionali. Colui che fra di essi fu terzo di questo nome, era anche un gran possessore d'armenti di cavalli, dei quali fece largo dono a Teodorico, che servì fedelmente come aveva già fatto con Odoacre. Egli fu padre di quel Cassiodoro, che ebbe anche il nome di Senatore, ed è notissimo come il Ministro per eccellenza degli Ostrogoti. Nato a Squillace, nella Calabria, verso il 480, fu Patrizio, Console, e nella sua qualità di Questore fece addirittura le parti di primo ministro; fu anche Magister officiorum, Prefetto del Pretorio. Le lettere d'affari, scritte da lui quando era in questi vari uffici, sono il monumento più prezioso della storia di quei tempi. Tutto pieno dell'idea romana, egli cercò di mantenerla viva sotto i Goti; la infuse in Amalasunta, la figlia di Teodorico, che sembra essere stata da lui educata, e che egli certo servì col suo solito zelo quando ella successe al padre. Continuò, anche dopo la morte di lei, a lavorare pel governo goto fino al 539, quando si ritirò definitivamente nel suo paese, dove fondò, come vedremo, due monasteri, dandosi in essi a [153] vita religiosa e letteraria. Egli era stato sempre un uomo dato agli studi, ai quali attese con ardore anche quando si trovava in mezzo agli affari: alle lettere infatti dedicò ogni momento di libertà, che gli restava. E così fece più che mai quando si ritirò finalmente nella solitudine. Scrisse, fra le altre sue opere, una storia dei Goti, dei quali cercò esaltare le origini ed il destino. Di essa c'è rimasto solo il compendio che Jordanes ne fece di memoria, come egli dice, dopo averla rapidamente letta una volta sola. Cassiodoro fu certo un uomo d'assai buona indole, che avrebbe voluto romanizzare i Goti, da lui sinceramente amati ed ammirati; un ottimo e fedele impiegato; un facondo e fecondo scrittore, ma senza originalità e senza energia di carattere. Cominciò la sua vita pubblica con un panegirico di Teodorico, e si piegò di continuo alla volontà dei suoi vari padroni. Come scrittore fu quasi sempre retorico ed ampolloso, affogando il proprio pensiero in un mare di parole e di frasi convenzionali, abbandonandosi a lunghe, eterne digressioni, le quali assai spesso poco o punto avevano da fare col soggetto che trattava. Si potrebbe dirlo addirittura il primo dei seicentisti. Era nondimeno un uomo d'ingegno, instancabile nel lavoro; e la stessa sua poco originale loquacità, con la quale riproduceva e ripeteva le idee, i sentimenti de' suoi tempi, ne fece come uno specchio di essi. Dei quali assai spesso potè darci un ritratto più fedele, perchè più impersonale ed obbiettivo, che non avrebbe saputo fare uno scrittore di più alto ed originale ingegno, di più vigorosa personalità.

Teodorico, che era in sostanza un alto ufficiale militare e politico, mandato dall'Imperatore a governare l'Italia, lasciò inalterate in Roma e nelle province l'antica amministrazione, le antiche magistrature, che affidò esclusivamente a Romani. Le province restarono sotto Judices [154] da lui nominati, che amministravano la giustizia. A Ravenna c'era un Prefetto del Pretorio, a Roma un Vicarius Urbis. Il Senato serbava l'antico splendore ufficiale, senza l'antica autorità. Esso non legiferava ora nè pei Goti nè pei Romani, pei quali ultimi le leggi vere e proprie si facevano a Costantinopoli. V'era però sempre una nobiltà senatoriale ereditaria, che aveva uffici determinati, ai quali erano annessi doveri e diritti. Ed accanto a Teodorico s'andò formando, per forza inevitabile delle cose, un'altra nobiltà di grandi personaggi goti, i quali facevano parte del suo seguito, lo circondavano e consigliavano sui grandi affari di Stato. In tutte le città continuava l'ordinamento municipale con a capo i Duumviri, ed insieme con essi, quasi come regi ufficiali, erano il Defensor, che sorvegliava l'amministrazione, ed il Curator, che s'occupava della finanza. La Curia continuava ad essere destinata più che altro a riscuoter tasse.

Questa monarchia era quindi, nello stesso tempo, una continuazione dell'Impero, ed una istituzione germanica; era formata cioè di due società diverse, che restavano sempre separate, ma che pure s'andavano vicendevolmente modificando, per la vicinanza e contatto in cui si trovavano. Il disegno però di fonderle insieme era un sogno: una delle due doveva inevitabilmente, prima o poi, soccombere, cedere all'altra. Teodorico non creò nessuna nuova istituzione; nulla anzi di veramente nuovo egli fece nè amministrativamente nè legislativamente. A tutto credeva di poter provvedere con una ben regolata amministrazione della finanza e della giustizia. Il Goto intanto restava sempre fuori dell'amministrazione, non era cittadino romano, nè tale poteva esser fatto dallo stesso Teodorico. Era un forestiero, che formava l'esercito, di cui i Romani non potevano come tali far parte: questi avevano diretta ingerenza nell'indirizzo generale della politica. [155] Il carattere sostanziale della monarchia rimaneva quindi militare e straniero, sebbene Teodorico fosse stato nominato Patrizio e Console, adottato come figlio dall'Imperatore che lo aveva mandato. Era uno stato di cose assai pericoloso, perchè pieno di sottintesi, di finzioni, di forme, che non rispondevano, che anzi contradicevano alla sostanza e realtà vera delle cose; non poteva perciò durare a lungo. Tuttavia il primo periodo di questo regno assicurò alle popolazioni alcuni anni non solo di pace, ma anche di prosperità.

Secondo Procopio, Teodorico «difese l'Italia, amò la giustizia, fu tiranno di nome, ma di fatto veramente re.» Molti esempi s'adducono della sua giustizia, della sua tolleranza religiosa, la quale qualche volta par degna di un vero filosofo, quasi d'uno spirito moderno. Nelle lettere scritte per lui da Cassiodoro, egli dice, «che non si può a nessuno imporre la fede religiosa, perchè nessuno può essere costretto a credere contro sua voglia.» (II, 27). Non solo rispettò i cattolici, ma adorò solennemente in Roma le reliquie di S. Pietro. Moltissimi sono gli edifizi e le opere pubbliche da lui compiute, sopra tutto in Ravenna, nella quale si può dire che lasciasse la propria impronta. Ivi è la chiesa bellissima di S. Apollinare; ivi sono gli splendidi mosaici, gli avanzi del suo palazzo, la sua tomba di stile romano, coperta da un gran monolite. Altre opere pubbliche fece a Verona ed in molte città dell'alta Italia. Restaurò gli acquedotti, le mura di Roma; prosciugò una parte delle Paludi Pontine; promosse l'industria, il commercio e l'agricoltura, a segno tale che il prezzo del grano scemò grandemente, e l'Italia cominciò a bastare a sè stessa, cosa che da lungo tempo non succedeva più. Nè sotto di lui fioriron solo le arti belle, per opera di quegli artisti italiani e bizantini, i cui lavori si ammirano anche oggi in Ravenna; ma rifiorirono [156] del pari le lettere. Se gli scritti di Cassiodoro, nonostante un valore incontestabile, hanno pur molti difetti nella forma ampollosa e retorica, quelli di Boezio, del quale avremo occasione di parlare più oltre, hanno anco nella forma pregi non comuni, che dettero al loro autore una fama ben meritata. Ma s'illuderebbe chi volesse attribuire tutto ciò all'opera esclusiva, all'azione diretta e personale di Teodorico: fu piuttosto conseguenza indiretta del suo governo. La pace da lui assicurata all'Italia, l'amministrazione affidata alle mani esperte di ufficiali romani contribuirono non poco a fare per qualche tempo prosperare il paese. Ma non era una civiltà nuova che nascesse; era l'antica società e l'antica civiltà che risorgevano di sotto alle rovine lasciate dalla barbarie.

Tutto ciò avvenne in modo così rapido e generale, che Teodorico stesso finì coll'impensierirsene assai. Ed era naturale, perchè diveniva sempre più evidente la diversità grande, irreconciliabile, che per sangue, tradizioni, lingua, costumi, religione, passava fra Goti e Romani. Ariano e capitano di barbari ariani, egli si trovava in un paese essenzialmente romano e cattolico. Generale di un impero teoricamente indiviso, e sotto la dipendenza di un imperatore, cui diceva di volere obbedire, era e voleva essere re indipendente dei Goti, che lo avevano levato sugli scudi. E però anche ora, come a tempo di Odoacre, fino a quando l'Imperatore si trovava in lotta col Papa, a questo ed al Re conveniva essere buoni amici, proteggendosi a vicenda contro le pretese di Costantinopoli. Il giorno però in cui Papa e Imperatore si fossero intesi, il pericolo per Teodorico poteva divenire gravissimo.

Ma anche senza di ciò, la questione politica era per sè stessa molto pericolosa. L'Impero era pieno di barbari. Seguendo il vecchio sistema bizantino di rivolgerli [157] gli uni contro gli altri, l'Imperatore poteva facilmente ripeter contro Teodorico quello che, per mezzo di lui appunto, aveva fatto contro Odoacre. Teodorico perciò volse ben presto il suo pensiero a fortificare il proprio Stato, essendo chiaro che non poteva fare sicuro assegnamento su Costantinopoli, dove non si era punto disposti a riconoscerlo in modo definitivo. Possedendo egli già la Rezia, tenuta sempre come parte integrante dell'Italia, s'avanzò nell'Illirico, l'anno 504, per impadronirsi di Sirmio, dove era stato in passato un Prefetto del Pretorio, e che era la prima stazione dei barbari, quando dal Danubio venivano in Italia. Così poteva difendere da quel lato i confini d'Italia contro nuove invasioni. Ma ciò appunto irritava grandemente l'Imperatore, perchè Teodorico s'impadroniva di quella parte dell'Illirico che apparteneva all'Oriente. E dette nel 508 occasione ad un assalto improvviso di navi bizantine contro le coste dell'Italia meridionale, dove esse riportarono, come dice uno scrittore del tempo, «una disonesta vittoria di Romani contro Romani.» Era sempre la stessa perenne contradizione, che si riproduceva. Le lettere di Teodorico riconoscono l'autorità dell'Imperatore di tutto il mondo, totius orbis praesidium. Da lui egli desidera essere riconosciuto, da lui ha imparato a reggere i Romani. Il suo governo altro non vuole, altro non può essere, «che una copia dell'unico e solo Impero, unici exemplar Imperii. Come si potrebbe separare da voi uno che da voi è plasmato? Una divisione fra le due Repubbliche, che hanno sempre formato un sol corpo, non è possibile. Un solo volere, un solo pensiero è quello che deve animare tutto il regno romano, romani regni unum velle, una semper opinio sit» (Variae, I, 1). E mentre che colla penna del suo ministro, Teodorico scriveva queste lettere, quando si trovava invece fra i suoi intimi consiglieri goti, [158] vedeva in ben altro modo lo stato delle cose, e mirava ad una politica assai diversa, se non addirittura opposta. Egli voleva allora comandare in Italia come un principe affatto indipendente, il che non piaceva certo all'Imperatore, che perciò da un momento all'altro poteva decidersi ad assalirlo o a farlo assalire da altri barbari. Questo suggerì a Teodorico il pensiero d'imparentarsi, ed allearsi con i barbari della Gallia, della Spagna, dell'Africa, costituendo sotto la sua egemonia, una specie di confederazione, quasi d'Impero barbarico di Occidente.

Una sua sorella, Amalafrida, egli dette in moglie a Trasamondo re dei Vandali; una figlia ad Alarico II re dei Visigoti, i quali a lui ed ai suoi erano affini; lo avevano aiutato a vincere Odoacre: essi occupavano la Provenza, gran parte della Gallia, della Spagna, ed avevano la loro capitale a Tolosa. Un'altra figlia dette all'erede presuntivo del regno dei Burgundi, il figlio di re Gundobaldo. Era un regno assai vasto, travagliato allora da interne dissensioni, delle quali profittarono ben presto i Franchi. Questi fin d'allora procedevano rapidamente alla formazione di un nuovo Stato barbarico più vasto e forte degli altri, sotto Clodoveo, che, convertitosi al Cattolicismo, ebbe l'appoggio potentissimo della Chiesa romana. Teodorico sposò la sorella di Clodoveo, Audefleda, da cui ebbe la figlia Amalasunta, sua unica erede. Il non avere figli maschi era ciò che lo rendeva sempre più ansioso d'assicurare la successione e la stabilità del proprio regno.

Fra i barbari, quello che continuò più di tutti a progredire era Clodoveo, il quale a forza di guerre, di violenze, di delitti d'ogni sorta, riuscì a disfarsi de' suoi nemici, de' suoi parenti e rivali. Vinse i Burgundi, che divennero suoi dipendenti; si volse contro i Visigoti che [159] sconfisse del pari, uccidendo il loro re. Ottenne poi non solo il favore del Papa, come abbiam visto, ma quello anche dell'imperatore Anastasio, che lo nominò Console onorario, mostrando così di volerlo opporre a Teodorico. E però questi, dopo che ebbe fatto invano ogni opera per impedire l'avanzarsi dei Franchi contro i Visigoti, si decise a muover loro guerra, quando vide che assediavano Arles, ed erano per prenderla. Due eserciti ostrogoti passarono quindi le Alpi fra il 508 ed il 509; e il primo di essi arrivò in tempo per liberare la città, che validamente si difendeva. I Franchi uniti ai Burgundi ebbero poi una rotta, nella quale, secondo Jordanes, che sempre esagera le cifre, perdettero 30,000 uomini. E così Teodorico fu padrone non solamente della Provenza, che ritenne per sè, come appartenente all'Italia; ma anche di quella parte della Spagna e della Gallia che era dei Visigoti, e che egli governò in nome d'Amalarico giovanetto, suo nipote, figlio di re Alarico II. Nel centro e nel nord della Gallia il forte regno dei Franchi, cominciò dopo la morte di Clodoveo (511) ad essere travagliato da interne dissensioni; e così per qualche tempo non fu più pericoloso all'Italia.

Teodorico allora, quasi fosse veramente divenuto Imperatore, ordinò nella Provenza un governo alla romana; mandò in Gallia un Prefetto del Pretorio, ed un Vicarius Urbis. A quest'ultimo scriveva, raccomandandogli di mostrarsi tal governatore, «quale un Romanus Princeps poteva mandare alle sue province» (Variae, III, 16). A quei provinciali diceva poi: «richiamati per divino aiuto all'antica libertà, adottate i costumi romani, vestimini moribus togatis, abbandonando la barbarie e la crudeltà; obbedite alle antiche leggi, e siate così degni nostri sudditi» (III, 17). Un'altra prova manifesta di questa affettata romanità si trova nella iscrizione a lui dedicata in Terracina, a proposito [160] del prosciugamento di una palude. Ivi Teodorico è chiamato victor ac triumphator semper Augustus, bono Reipublicae natus, custos libertatis et propagator romani nominis. È sempre la ripetizione dello stesso singolare fenomeno, la stessa contradizione. Essendo e volendo essere un re barbaro, pretendeva di legalizzare e legittimare questo suo stato, atteggiandosi a principe romano, a nuovo Imperatore d'Occidente, cosa che Anastasio certamente non avrebbe potuta mai tollerare in un barbaro. E però invano il re ostrogoto fece di tutto per renderselo propizio. Il non potervi riuscire lo angustiava ora più che mai, giacchè avendo data sua figlia Amalasunta in isposa ad Eutarico, che era un barbaro, diveniva sempre più necessario, perchè questi potesse legalmente ascendere al trono, ottenere l'approvazione dall'Imperatore. Se però Teodorico non riuscì mai ad averla da Anastasio, l'ottenne invece dal successore Giustino, dopo che ebbe promosso un accordo fra questo ed il papa Ormisda. Le conseguenze però di tale accordo furono a lungo andare assai diverse e più gravi di quel che non si sarebbe pensato. La questione religiosa, che aveva in Italia una straordinaria importanza, mutò adesso sostanzialmente carattere, e s'aggravò in modo da divenire più tardi causa non ultima della rovina del regno ostrogoto.

Sebbene ariano, Teodorico era stato lungamente in buona armonia col Papa, favorendolo nel conflitto religioso, che tra Roma e Costantinopoli da lungo tempo continuava assai aspro. Già papa Gelasio I (492-6), sostenitore fermo e costante della supremazia della Chiesa di Roma, aveva, come vedemmo, condannato l'Henoticon, dichiarando eretico Acacio, aggiungendo, che se l'Imperatore [161] ne avesse seguito le idee, sarebbe stato eretico anch'esso. «Come romano, così egli scriveva, io dovrei esser sempre favorevole all'Imperatore; ma la tolleranza degli eretici è più pericolosa delle devastazioni dei barbari.» Nè c'era ragione che mutasse attitudine o linguaggio per favorire Teodorico, il quale non aveva interesse alcuno di contrariarlo nella disputa, perchè il dissidio era tutto a suo vantaggio. Se non che l'Imperatore d'Oriente che aveva mandato Teodorico, sperando fra le altre cose che egli avrebbe saputo meglio di Odoacre tenere a freno il Papa, restava affatto deluso, e quindi sempre più irritato contro di lui.

A Gelasio successe Anastasio II (496-8), che aveva il nome stesso dell'Imperatore, ed era un Romano d'indole assai più mite del suo predecessore. Teodorico ne profittò, per mandare a Costantinopoli un'amichevole ambascerìa, alla cui testa era il patrizio Festo, il quale s'adoperò molto ad ottenere una conciliazione politico-religiosa, lasciando sperare all'Imperatore di far piegare il Papa nella questione dell'Henoticon, ed in questo modo riuscì a far mandare a Teodorico le tanto desiderate insegne. Pace facta de praesumptione regni, dice a questo proposito l'Anonimo Valesiano. Ben presto però papa Anastasio moriva, e ne seguì una elezione violentemente contrastata, durante la quale Teodorico si condusse con grande prudenza. I candidati eran due. Lorenzo, tenuto più pieghevole e meno avverso all'Henoticon, aveva il favore dei Senatori, e quello sopra tutto di Festo, come era naturale per le speranze che appunto l'Henoticon egli aveva date a Costantinopoli. L'altro candidato, Simmaco, era invece più fermo nella dottrina ortodossa, e godeva quindi il favore degli ardenti cattolici. Così la lotta fra i due partiti s'accese per modo, che ne venne minacciato l'ordine pubblico, e Teodorico fu costretto ad intervenire. Con molto accorgimento [162] egli dichiarò, che l'eletto doveva essere colui al quale s'era dato un maggior numero di voti. E così vinse Simmaco (498), quegli appunto che a lui conveniva di più, perchè meno disposto a troppo sottomettersi a Costantinopoli.

Nell'anno 500 Teodorico fece il suo ingresso solenne in Roma. Fuori delle mura gli vennero incontro il nuovo Papa, il Senato, i nobili. Egli andò in S. Pietro ad adorare le reliquie del Santo; dichiarò di voler concedere tutto ciò che gl'Imperatori avevano promesso a vantaggio della Città eterna; attese con ardore al restauro dei monumenti; fece celebrare i giuochi nel Circo; assegnò al popolo un annuo sussidio di 120 mila moggia di grano. Intanto gli oppositori di Simmaco non si erano acquetati; mossero anzi contro di lui ogni sorta d'accuse, perfino di adulterio. Teodorico dichiarò di non volersene mescolare, e rimise la decisione ad un Concilio, che fu chiamato Sinodo palmare (501), nel quale mandò suo rappresentante il vescovo di Altino. Gli fu opposto che il Concilio doveva essere radunato dal Papa, non dal Re; e Teodorico rispose, che aveva in tutto proceduto d'accordo con Simmaco. Si protestò allora che non si voleva il regio visitatore, che non si poteva da nessuno giudicare il capo della Chiesa; e Teodorico disse che egli pregava solamente il Concilio di ristabilire la pace religiosa nel modo che credeva migliore. Si sarebbe, egli aggiunse, uniformato senz'altro alle deliberazioni prese, limitandosi da parte sua a mantenere l'ordine, a difendere da ogni minaccia la persona del Papa. Il Concilio finì col riconoscere Simmaco senza giudicarlo; e Lorenzo, dopo avere invano tentato di resistere, si ritirò. La pace religiosa fu così ristabilita in Occidente; ma ricominciò subito la lotta con Costantinopoli. Ben presto Simmaco assunse un'assai decisa attitudine; ed in un Concilio tenuto l'anno 502 fece leggere ed annullare i due decreti di Odoacre (483) circa la elezione papale e la proibizione d'alienare le proprietà [163] della Chiesa, ritenendoli illegali, come opera di un laico, indebitamente poi sanzionata. E quanto all'Henoticon, scrisse all'Imperatore: «Invano tu credi di poterti levare contro la potenza di S. Pietro, e liberarti dal giudizio di Dio.» Nè l'Imperatore poteva allora reagire, perchè il popolo era a Costantinopoli divenuto fautore della dottrina ortodossa. Il Papa quindi procedeva fermo e sicuro, occupandosi, senza altri pensieri, di costruire in Roma nuove chiese, dando le sue cure maggiori ad abbellire S. Pietro, iniziando la costruzione del Vaticano: e così, per opera sua e di Teodorico, l'antica capitale dell'Impero sembrava fiorire di nuovo. A Costantinopoli invece la disputa religiosa dava origine a tumulti, a ribellioni, che indebolivano l'Imperatore ed incoraggiavano sempre più il Papa. E quando a Simmaco successe Ormisda (514-23), anche questi continuò a lottare con energia contro l'Imperatore, che finalmente, perduta la pazienza, mandò via gli ambasciatori papali dicendo, che poteva sopportare d'essere addolorato ed anche ingiuriato, ma non voleva rassegnarsi a ricevere comandi da Roma.

Inasprite le cose fino a questo punto, cominciavano a dar grave pensiero anche a Teodorico, cui certo non giovava che l'Imperatore venisse troppo irritato. E fu questo il momento nel quale la questione religiosa subì la profonda modificazione, più sopra accennata. Morto l'imperatore Anastasio, gli era successo Giustino (518-27), un contadino ignorante della Dardania, valoroso soldato, affatto ortodosso in religione, che si lasciò guidare da suo nipote Giustiniano, uomo di grande ingegno e ortodosso al pari di lui. Fu questo veramente il principio di un nuovo indirizzo religioso e politico nell'Impero, anzi di un'era novella. Il popolo a Costantinopoli esaltava con grande ardore le dottrine cattoliche, e gli eretici erano perseguitati: il Papa naturalmente ne gioiva. Teodorico, [164] impensierito allora del nuovo stato di cose in Oriente, e della opposizione crescente che vedeva sorgere contro di lui in Italia, pensò di farsi addirittura iniziatore d'un accordo fra Papa e Imperatore, sperando così di guadagnarsi il favore dell'uno e dell'altro. La cosa riuscì dapprima assai facilmente; ma le conseguenze furon poi inaspettate. Nel 519 arrivavano a Costantinopoli gli ambasciatori del Papa, che furono solennemente accolti dal popolo, dal Senato e dall'Imperatore. Essi portavano il libellus, o sia la formola già concordata della esplicita sottomissione dell'Impero alle dottrine cattoliche; e fu subito accettata. L'Henoticon, cagione di tante dispute, venne solennemente condannato; Acacio fu anatemizzato. Così Roma, dopo una lotta sostenuta sempre con energia, senza mai nulla cedere, aveva finalmente trionfato. E pareva che l'Imperatore si fosse stabilmente messo d'accordo non solo col Papa, ma anche con Teodorico. Infatti Eutarico fu nominato Console e adottato come figlio, per arma filius (Variae, VIII, 1): era questa la formola usata. Se non che ben presto tutto si volse a danno di Teodorico, il quale era ariano, e non poteva andare a lungo d'accordo con un Papa e con un Imperatore, che, essendo ambedue ortodossi, dovevano trovarsi, come ben presto si trovarono, uniti contro di lui.

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