CAPITOLO IV

Fine del regno di Teodorico — Governo di Amalasunta

Verso il 524 l'imperatore Giustino cominciò a perseguitare gli Ariani, il che rese subito assai difficile la condizione di Teodorico, massime perchè suo genero [165] Eutarico era un ariano fanatico ed intollerante. Il Re fu quindi costretto a reagire, perseguitando i Cattolici, e si trovò subito in urto col Papa, eccitando lo scontento delle popolazioni. In questo tempo appunto, avendo il popolo bruciata la Sinagoga a Ravenna, Teodorico lo costrinse a ricostruirla; il che aumentò sempre più il malumore. E non era cosa di poco momento. Nei Romani, sopra tutto nei Senatori e nei latifondisti, che più avevano sofferto per la divisione delle terre, dirigevano l'amministrazione ed avevano i principali uffici civili, s'era, insieme colla prosperità favorita dalla pace, cominciata a manifestare una crescente avversione ai Goti, con una maggiore fiducia in sè stessi. Questa fiducia, come era naturale, aumentava grandemente ora che si poteva esser sicuri del favore del Papa e dell'Imperatore. Così la società e la cultura romana guadagnavano rapidamente terreno, e i fautori di esse cominciavano a intendersela direttamente coll'Imperatore. Tutto questo finì coll'irritare assai Teodorico, il quale vedeva a un tratto minacciato di rovina l'edifizio con sì gran cura innalzato. L'alleanza, la fusione dei Goti e dei Romani da lui tanto vagheggiate, apparivano ora come un sogno che s'andava a un tratto dileguando. Fu allora che egli emanò contro i Romani l'ordine ricordato dall'Anonimo Valesiano, ut nullus eorum arma usque ad cultellum uteretur. Ed a poco a poco parve che in lui andasse scomparendo ogni traccia di romanità; tornò ad essere il feroce barbaro d'una volta, quello stesso che colle proprie mani aveva, nel banchetto di Ravenna, assassinato Odoacre.

Non tutti i Romani erano però concordi, essendovi fra loro, anche negli ordini superiori della società, di quelli che restavano ciecamente attaccati ai Goti, e che, come tutti i rinnegati, erano intolleranti e vendicativi. [166] Alla loro testa si trovava il referendario Cipriano, che fu poi Conte delle sacre largizioni, Maestro degli uffici, e che non solamente aveva egli stesso preso servizio nell'esercito dei Goti, ma da essi aveva fatto educare nella loro lingua e nelle armi i suoi propri figli. Costui ad un tratto accusò il patrizio Albino d'avere scritto all'Imperatore lettere segrete, per cospirare contro Teodorico. Albino negò recisamente ogni tentativo di congiura; e la cosa non avrebbe avuto le grandi proporzioni che prese, se all'agitazione che già s'era manifestata nei Romani, ai sospetti già fieramente accesi nell'animo di Teodorico, non si fosse aggiunto l'intervento inaspettato e spontaneo d'un personaggio di grande reputazione ed autorità.

Il senatore Boezio della illustre famiglia Anicia era stato amico di Teodorico, e ne aveva fatto l'elogio in Senato; nel 510 era stato Console, dignità che nell'anno 522 venne contemporaneamente conferita ai suoi due figli, fatto eccezionale davvero. Egli era studiosissimo dell'antica filosofia, sopra tutto di Aristotele, di cui aveva commentato la Logica; di Platone e dei Neoplatonici. Aveva tradotto dal greco opere di matematica e di magia; aveva scritto opere filosofiche, ed anche teologiche: Cassiodoro ce lo descrive come un uomo enciclopedico. «A lui si ricorse, egli dice, quando si voleva costruire un orologio ad acqua, ed uno a sole pel re dei Burgundi; quando si cercava un buon citaredo per mandarlo al re Clodoveo, e così pure quando si volle scientificamente esaminare se era stata alterata la moneta con cui venivano pagati i soldati.» Egli era un cristiano, ammiratore dello spirito dell'antica Roma, animato fino all'entusiasmo da un sentimento stoico e neoplatonico. Una prova di questo suo esaltamento si vide nel modo con cui si gettò nella pericolosa disputa, a proposito di Albino. Ne difese a viso [167] aperto l'innocenza, sostenendo esser falsa l'accusa fattagli da Cipriano, aggiungendo che i sentimenti d'Albino erano quelli di tutto il Senato; che congiura non v'era stata, e se vi fosse stata, nessuno dei Senatori l'avrebbe rivelata. Cipriano allora portò falsi testimoni, che riconfermarono l'accusa mossa contro Albino, estendendola anche a Boezio. E così furono ambedue chiusi in carcere.

Non sappiamo qual fosse il destino finale di Albino, ma Boezio venne processato e condannato dal Senato. La forma del processo ci è però ignota: non si può dire con certezza se la condanna fu pronunziata da una commissione o da tutto il Senato. Ma quest'ultimo caso non par probabile, se si pensa ai sospetti che Teodorico continuò sempre ad avere contro i Senatori. Non si sa neppure qual fosse veramente la sentenza pronunziata contro Boezio, che se aveva con troppa audacia sparlato del Re, aveva però a viso aperto difeso il Senato. Assai probabilmente venne da una commissione condannato al carcere, pena che più tardi Teodorico, accecato dall'ira, mutò di suo arbitrio in una morte crudele, anzi barbara addirittura.

Nella lunga prigionia Boezio scrisse la sua Consolatio Philosophiae, che è la propria confessione ed apologia, il libro che rese immortale il suo nome. «Di che cosa sono io accusato?, egli diceva. Di avere amato la libertà di Roma, difeso la dignità del Senato.» Chiamava corrotti i suoi accusatori, e si doleva di essere stato condannato, senza venir prima interrogato, da quel Senato stesso di cui aveva assunto le difese. La ragione dell'accusa, egli proseguiva, «furono gli odii contro di me suscitati nell'adempimento del mio ufficio, opponendomi io alle ingiustizie di cui erano vittime i provinciali romani. L'avidità dei barbari, sempre impunita, diveniva ogni giorno maggiore verso le terre dei provinciali, dei quali [168] assai spesso volevano la testa, per aver poi gli averi. Quante volte non difesi e protessi i miseri contro le infinite calunnie dei barbari, che volevano divorarli!» Questo libro dettato nel carcere, senza l'ampollosa retorica di Cassiodoro, in buona e corretta prosa latina, di tanto in tanto interrotta da versi, è un vero inno alla virtù. E fu scritto colla certezza della morte vicina, perchè la irritazione di Teodorico, già arrivata al colmo, divenne, come era naturale, per questo audace linguaggio, addirittura furibonda. Boezio si dichiarava apertamente difensore della giustizia e degli oppressi, pei quali non aveva mai ricusato nessun sacrifizio. «Gloria, potenza, ricchezza, egli continuava, sono vanità. Solo la virtù ha valore, essa sola rende l'uomo veramente libero. Iddio che è il sommo bene, cui l'universo intero aspira, deve essere anche la mira costante del filosofo.» Fra i caratteri più singolari del libro, che ebbe una prodigiosa popolarità in tutto il Medio Evo, e fu tradotto in ogni lingua, v'è ancora questo, che, leggendolo senza conoscerne l'autore, sarebbe difficile dire se esso è l'opera d'un pagano o d'un cristiano. È di certo la manifestazione d'un eroismo, che potrebbe credersi pagano e cristiano ad un tempo. Non si può affermare che vi sia nulla di sostanzialmente contrario al Cristianesimo, ma è strano davvero che un cristiano, il quale s'apparecchia alla morte, non accenni una sola volta nè al Paradiso, nè all'Inferno, nè a Cristo, e neppure alla speranza d'una vita futura. Pare il linguaggio d'uno stoico, tanto che per qualche tempo si giunse a dubitare se Boezio fosse stato davvero cristiano e autore delle opere religiose a lui attribuite. Ma la grande popolarità che nel Medio Evo godette il suo libro fra i Cristiani, rendeva assai difficile ammettere il dubbio, ed oggi la critica storica lo ha interamente eliminato. C'è in lui qualche cosa che ricorda i Neoplatonici [169] italiani del secolo XV, come Marsilio Ficino e Pico della Mirandola, nei quali Paganesimo e Cristianesimo sembravano fondersi e confondersi in una dottrina sola. I cospiratori allora affilavano i pugnali contro i tiranni, invocando Bruto, e nello stesso tempo si raccomandavano alla Madonna, perchè guidasse il loro braccio, e non facesse fallire il colpo omicida.

Teodorico si decise finalmente a far morire il prigioniero. Una fune venne legata intorno al capo di Boezio così strettamente, che gli occhi quasi ne schizzarono fuori, ed allora con un colpo di mazza sulla testa lo finirono (524). Nè contento di ciò, Teodorico, che aveva ormai perduto il dominio di sè, temendo che Simmaco, capo del Senato, anch'esso della famiglia Anicia, e che aveva dato sua figlia in moglie a Boezio, potesse voler vendicare il parente suppliziato, fece prendere e porre a morte anche lui, senza neppur fargli processo. Ciò dimostra che Albino e Boezio non erano soli ad avere sentimenti romani nel Senato, e fa quindi sempre più credere che questo non sarebbe stato allora concorde a pronunziare, per ragioni politiche, la sentenza di morte contro uno dei suoi membri.

A papa Ormisda era successo Giovanni I (523-6), che si mostrò lieto anch'esso che l'Imperatore perseguitasse gli Ariani, ciò che spinse il furore di Teodorico fino al parossismo. Egli, nonostante la viva resistenza, costrinse il Papa a partire per Costantinopoli, pretendendo che andasse colà a difendere la causa degli Ariani, a chiedere la restituzione delle loro chiese; altrimenti minacciava severe rappresaglie. Il Papa assai di mala voglia partì per l'Oriente, e fu accolto con grande entusiasmo. Ottenne tutto quello che domandò nell'interesse del Cattolicismo; nulla però, com'era naturale, ottenne, nè gl'importava ottenere, a favore degli Ariani. Lo sdegno di Teodorico fu tale allora che, quando Giovanni tornò, lo chiuse in [170] carcere, dove il 25 maggio 526 morì. Ed ora il Re volle, per propria sicurezza, ingerirsi nella elezione del nuovo Papa, indicando colui che fu poi eletto col nome di Felice III. Tutto questo destò d'ogni parte uno straordinario ed universale malcontento contro di lui. Pareva che l'Impero ed i Vandali, profittando della occasione, fossero per mettersi d'accordo, e muovergli guerra da un momento all'altro. Ma quando egli con febbrile attività raccoglieva navi ed armati per difendersi, fu improvvisamente sorpreso dalla morte.

In questa morte, avvenuta solo novantasette giorni dopo quella di papa Giovanni, molti videro la mano di Dio, e più d'una leggenda s'andò formando intorno ad essa. Procopio racconta che, trovandosi Teodorico ad un banchetto, gli fu portato un grosso pesce, il quale, digrignando i denti e rivolgendo minacciosamente gli occhi, pareva che assumesse le sembianze di Simmaco. Spaventato di ciò, il Re si sentì preso da brividi che lo costrinsero a mettersi in letto, dove non vi furono panni che bastassero a riscaldarlo, ed il 30 agosto 526, in età di settantadue anni, fu da una forte dissenteria condotto a morte. Un'altra leggenda, narrata assai più tardi nei Dialoghi di Gregorio Magno, racconta che un collettore di tasse, passando per l'isola di Lipari, vi trovò un eremita che subito esclamò: — È morto Teodorico! — Come mai, rispose l'altro, se non è molto che io lo lasciai in buona salute? — Eppure, soggiunse l'eremita, io l'ho visto or ora passare colle mani legate, fra papa Giovanni I e Simmaco, ed essere gettato nel cratere del Vulcano di Lipari. — Questa leggenda si connette assai probabilmente al fatto, che qualche tempo dopo la morte, il corpo del Re non fu più trovato nel suo mausoleo, e se ne perdè ogni traccia. Nel 1854 si credette che alcuni muratori, i quali scavavano la terra non molto lungi dal mausoleo, [171] avessero trovato colà sepolto il suo cadavere. Ma anche allora, per colpa di quegli operai mal fidi, tutto scomparve insieme colla corazza d'oro, che era stata del pari trovata, e di cui solamente alcuni brani si salvarono.

Teodorico, morendo, lasciava la figlia Amalasunta, vedova per la morte già avvenuta del marito Eutarico, da cui aveva avuto un bimbo, Atalarico, che era allora di dieci anni circa. E però, quando Teodorico si sentì vicino a morte, chiamati intorno a sè i capi dei Goti, presentò loro il nipote, raccomandando, come dice Jordanes, «che lo rispettassero quale loro re, amassero il Senato ed il popolo romano, tenessero soddisfatto e propizio l'Imperatore: Principemque orientale placatum, semperque propitium haberent post Deum.» Necessariamente il governo venne di fatto nelle mani della madre Amalasunta, la quale aveva avuto un'educazione romana; parlava il goto, il greco ed il latino. Ella ci è descritta come bella e d'animo virile; ma in realtà non riuscì pari alle molte e gravi difficoltà in mezzo alle quali si trovò. A tempo di lei non solo l'Impero d'Occidente si decompose affatto, ma s'avviò a rovina anche il regno ostrogoto.

E prima di tutto, la sua successione al governo, non approvata dall'Imperatore, non era, neppure secondo le consuetudini gote, legale. Si cercò di rimediarvi, facendo prestare giuramento dal popolo goto e romano ad Atalarico, che a sua volta dovè giurare ad essi ed al Senato. Jurat per quem juratis, scriveva Cassiodoro (VIII, 3), il quale divenne ora nella Corte più potente che mai; fu Maestro degli uffici, Questore, e più tardi Prefetto del Pretorio, tanto che diceva di sè stesso: Erat solus ad universa sufficiens (IX, 25). Amalasunta sembrava che volesse seguire una politica mite e conciliatrice, senza troppo allontanarsi dalla via seguita da suo padre nei primi anni [172] del regno. Restituì ai figli di Boezio e di Simmaco i beni loro confiscati; e nello stesso tempo, con singolare contradizione, favorì ancora il partito avverso. Infatti Cipriano, l'accusatore, il calunniatore di Albino e di Boezio, ritenne i suoi alti uffici. Sotto di lei vi furono Romani che ebbero nell'esercito gradi elevati, e Goti che entrarono nel Senato. La forza delle cose la costringeva a tenere una via diversa da quella seguìta da Teodorico; e ciò nella politica estera più ancora che nella interna.

Il concetto d'una grande confederazione barbarica, sotto la presidenza del re ostrogoto, andò in fumo. L'Italia si trovò isolata, ed a Costantinopoli s'aveva ora assai buon gioco, e si cercò presto di trarne profitto. Intanto Amalasunta faceva scrivere da Cassiodoro, in nome di Atalarico, una lettera che diceva all'Imperatore: «Mio avo fu innalzato da Onorio alla dignità di Console, mio padre fu da voi adottato per arma filius; questo è un titolo, che a me adolescente s'addice anche meglio» (VIII, 1). Ma nulla s'ottenne da Giustino, chè anzi l'Italia meridionale si trovò da lui minacciata di guerra, tanto che fu allora appunto che Cassiodoro dovè accorrere per assumerne coi suoi la difesa. A settentrione minacciavano i Gepidi; all'interno v'era un grandissimo scontento fra i Goti, i quali si dolevano aspramente, che il giovane Atalarico venisse educato alla romana piuttosto che alla gota, alle lettere piuttosto che alle armi. Nel 527 Giustino associava all'Impero suo nipote Giustiniano, il quale dopo quattro mesi (1º agosto 527), per la morte dello zio, divenne Imperatore. Egli era un uomo assai più accorto, che ad una grande ambizione univa un altissimo ingegno. Riconobbe subito la successione di Atalarico e la reggenza di Amalasunta, non per affetto che portasse [173] loro; ma perchè voleva assicurarsene il favore, meditando adesso di muover guerra ai Vandali. Finita questa, avrebbe poi pensato ad attaccare l'Italia. Intanto era lieto che il malumore dei Goti crescesse, perchè così si spianava a lui la via per mescolarsi nelle loro faccende, e trovar futuri pretesti di guerra. Già i loro capi protestavano ogni giorno più vivamente contro Amalasunta, per la educazione che dava al figlio. Teodorico, essi andavano ripetendo, aveva giustamente affermato, che non avrebbe saputo mai affrontare le spade nemiche colui che temeva la sferza del pedagogo. Ed un giorno che il fanciullo piangeva per una guanciata ricevuta, chi dice dal maestro, chi dalla madre, le sdegnose proteste arrivarono a tale, che essa dovette cedere, affidandolo a capi militari, i quali lo educarono fra le armi, le donne, il vino, i cavalli. Ed egli allora, per questo subito mutamento, datosi alla dissolutezza, cominciò a deperir tanto nella salute, che si previde subito non poter vivere a lungo.

In Italia si trovava un altro nipote di Teodorico per nome Teodato; questi era figlio d'Amalafrida e di un Goto, morto il quale, ella aveva in seconde nozze sposato Trasamondo re dei Vandali, l'uno e l'altro già morti adesso. Da lei Teodato aveva ricevuto un'educazione romana, ed era divenuto appassionato cultore della letteratura latina e della filosofia di Platone, il che lo rendeva poco accetto ai Goti. Pure, secondo le loro consuetudini, la successione sarebbe toccata a lui, come figlio d'una sorella di Teodorico, in caso che Atalarico fosse morto prima, cosa che pareva assai probabile. Ambizioso ed avido, egli s'era reso poco accetto anche ai Romani, per le sue prepotenze. Teodorico gli aveva concesso vaste terre in Toscana, ed egli le aveva, a forza di astuzie e di prepotenze, aumentate in modo da rendersi padrone di quasi [174] tutta quella regione. Amalasunta dovette quindi porre un freno a queste ingiustificate spoliazioni, e ciò le rese Teodato avverso per modo che cominciò a tramare contro di lei a Costantinopoli.

L'avversione dei Goti per Amalasunta era intanto giunta a tale, che ella dovette mandarne ai confini tre dei più potenti e riottosi. Tuttavia si sentiva sempre così poco sicura, che si rivolse anch'essa a Giustiniano, al quale aveva, come vedremo, reso già assai utili servigi nella guerra contro i Vandali (533). Voleva rifugiarsi presso di lui, ed a sua dipendenza governare poi l'Italia. Giustiniano, come è naturale, accolse la proposta; e già le aveva apparecchiato splendido alloggio a Durazzo (Dyrrachium), dove essa spedì sopra navi i tesori dello Stato, 40,000 aurei. Ma Amalasunta, che era donna assai mutabile, essendo in questo mezzo riuscita a disfarsi dei tre Goti che aveva confinati, richiamò le navi e depose a un tratto ogni pensiero di lasciare l'Italia.

Giustiniano allora, non sapendo qual fosse veramente l'animo di lei, mandò tre ambasciatori per indagarlo (534). Egli adesso aveva vinto i Vandali, e s'apparecchiava a fare l'impresa d'Italia. Aveva in passato chiesto ad Amalasunta la fortezza di Lilibeo (Marsala) in Sicilia, e la chiedeva ora nuovamente. Questa fortezza era stata concessa in dote ad Amalafrida; e i Goti ritenevano che, per la morte di lei, tornasse di diritto a loro. Giustiniano invece riteneva che, avendo egli sottomesso i Vandali, la fortezza spettasse a lui, e la chiedeva con insistenza anche perchè gli poteva giovare non poco nel cominciare l'impresa d'Italia. Amalasunta l'avrebbe facilmente ceduta; ma temeva lo sdegno del suo popolo, e però esitava.

Il 2 ottobre 534 moriva Atalarico, ed Amalasunta si [175] trovò in una nuova, difficilissima condizione. Non poteva essere regina, perchè le leggi dei Goti non lo consentivano; non poteva essere reggente, perchè il figlio era morto; non poteva quindi neppur trattare in proprio nome con Giustiniano. Capì allora che bisognava rivolgersi a Teodato, e gli propose d'associarsi a lei nel governo dell'Italia. Sperava di contentarlo coll'apparenza del potere, che egli invece intendeva assumere ben presto nelle sole sue mani. Ma intanto le lettere sempre ampollose e retoriche, scritte da Cassiodoro in loro nome, annunziavano all'Imperatore la nuova unione: «Come il corpo umano ha due orecchie, due occhi, due mani, così il regno goto ha ora due sovrani.» E con altre lettere, scritte sempre da Cassiodoro, essi facevano vicendevolmente le proprie lodi presso l'Imperatore, e dinanzi al Senato. Pare che Giustiniano, persuaso che non vi fosse da temer grande resistenza da parte di due sovrani deboli e discordi, si dimostrasse pronto a riconoscerli senza difficoltà. Ma intanto Teodato, già stanco d'avere il secondo posto, riuscì a confinare Amalasunta nel lago di Bolsena, dove fu ben presto strangolata nel bagno (535) dai parenti di quei Goti, che essa aveva fatti uccidere. Procopio, nei suoi Anecdota, pretende che istigatrice di questo assassinio fosse stata l'imperatrice Teodora, la quale temeva che Amalasunta, venendo a Costantinopoli, avesse colla sua bellezza potuto esercitare troppo grande predominio sull'animo dell'Imperatore. Teodato da parte sua si dichiarò affatto innocente, ma nessuno gli credette, massime quando si vide che gli uccisori furono da lui premiati. Chi intanto da tutto questo potè veramente cavar vantaggio fu Giustiniano. Appena che Amalasunta era stata messa in prigione, egli aveva protestato, dicendo che l'assumeva sotto la sua protezione. E quando la seppe uccisa, egli, sotto l'apparenza di vendicare la giustizia [176] offesa, si credette in pieno diritto di muover contro Teodato e gli Ostrogoti quella guerra, che già da lungo tempo meditava.

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