CAPITOLO V

Giustiniano e Belisario — La guerra vandalica — Il principio della guerra gotica

Ci è forza ora tornare un passo indietro, per parlare di Giustiniano, che così gran parte ebbe nelle cose d'Italia.

Egli nacque nella Dardania l'anno 482 o 83; ebbe a Costantinopoli una educazione ed istruzione greco-romana. Nel 521 fu da suo zio Giustino nominato Console. Ed in questa occasione vi furono feste straordinarie davvero, nelle quali si spesero 280,000 aurei, e furono adoperati venti leoni, trenta pantere ed altri animali feroci. Questo fu il primo segno di quel sontuoso lusso, di cui Giustiniano fu sempre assai vago, in parte per sua propria indole, in parte perchè lo credeva utile a crescergli autorità presso le moltitudini. Nel 527 venne associato all'Impero da suo zio, cui poco dopo successe. Egli era certamente un uomo di grande ingegno, ed aveva un alto concetto dell'Impero, che voleva restaurare in Occidente. Mirabile fu in lui l'attitudine a scegliere le persone adatte all'attuazione de' suoi disegni. Questo si vide nella scelta che fece prima di Belisario, poi di Narsete, il quale a sessant'anni venne per la prima volta messo alla testa d'un esercito, e riuscì ottimo generale. La stessa felice attitudine dimostrò nella elezione di Triboniano e degli altri che chiamò a compilare il Corpus Juris, non che degli architetti che costruirono il meraviglioso tempio di Santa Sofia. Non aveva però [177] capacità amministrativa; profondeva danari nelle opere pubbliche, nelle molte fortezze che costruì, nelle continue guerre. Tutto questo lo portò ad aggravar di tasse il popolo, provocando un gran malcontento, che, aggiunto alla continua mancanza di danaro, più d'una volta mandò a monte i disegni meglio concepiti. Oltre di ciò s'innamorò d'una bella e trista donna, che fu addirittura una specie di Lady Hamilton, dissoluta, crudele e di un orgoglio smisurato. Figlia d'un guardiano delle bestie del circo, morto il padre, essa si sarebbe, secondo la pubblica fama, prostituita a tutti, mostrandosi anche nuda nel teatro; e finalmente, tornata dopo molte peregrinazioni a Costantinopoli, sposò Giustiniano, che, salito sul trono, la volle partecipe al governo. Certo è però che d'allora in poi ella seppe frenarsi, menando vita decorosa, e si dimostrò donna di molto ingegno, di grandissimo coraggio.

La fonte principale e più autorevole di tutto questo tempo è Procopio, che accompagnò Belisario nelle sue guerre, delle quali ci lasciò un diario fedele e prezioso. Più tardi egli scrisse una seconda opera, conosciuta col titolo di Storia arcana o anche Anecdota, nella quale dimostrò contro Giustiniano e Teodora un'avversione di cui non v'è traccia nella prima storia. Pare che, dopo la loro morte, si sentisse più libero nello scrivere, e che ciò lo inducesse a parlare assai più chiaro, qualche volta anche ad eccedere ne' suoi giudizi.

Quello che più di ogni cosa tramandò ai posteri il nome di Giustiniano fu la sua opera legislativa. Varie commissioni da lui nominate, sotto la presidenza di Triboniano, riunirono in diverse raccolte tutte le fonti del diritto romano, aggiungendovi anche un Manuale (Institutiones) pei principianti, e formando così quel Corpus Juris, che è la gloria principale di Giustiniano. Una di queste raccolte è il Codice (Codex constitutionum), collezione [178] in dodici libri degli Editti imperiali; la più importante è però quella conosciuta col nome di Digesto o Pandette. In essa la Commissione riassunse tutti gli scritti classici dei giureconsulti, scritti che contenevano i loro pareri sulle Leges e sui Senatus-consulta, di cui qualche volta riproducevano preziosi frammenti. Fu un'opera veramente immane, divisa in cinquanta libri, nei quali erano compendiati duemila volumi. E venne condotta a termine nel breve spazio degli anni 530-33. Ciò che domina in tutto quanto il Corpus Juris è il concetto dell'assoluta autorità imperiale, uno spirito coordinatore ed accentratore, che era il carattere di quel tempo, privo d'ogni produttiva originalità intellettuale, come si vide anche nella filosofia e nella teologia. Gran torto fece a Giustiniano l'avere per eccessivo zelo religioso, soppresso la scuola di filosofia greca in Atene, che sebbene fosse già decaduta, aveva pur sempre un nome antico e gloriose tradizioni.

Nonostante le grandi qualità e le grandi opere di Giustiniano, la sua cattiva amministrazione, le continue spese, le tasse oppressive produssero ben presto uno straordinario malcontento. Si aggiungeva ancora un profondo dissenso religioso fra i Monofisiti, che erano protetti dalla Imperatrice, e gli Ortodossi, che erano sostenuti dall'Imperatore. E tutto ciò condusse ben presto ad una violenta rivoluzione, la quale scoppiò nell'Ippodromo, dove la moltitudine era già divisa negli Azzurri, che inclinavano ai Monofisiti, e nei Verdi, che inclinavano agli Ortodossi. Una tale divisione turbava allora ed agitava tutte le principali città dell'Impero; ma a Costantinopoli essa aveva preso proporzioni addirittura spaventose. L'Imperatore fu nell'Ippodromo insultato con una indegna violenza di linguaggio, specialmente da parte degli Azzurri, che, accusandolo di favorire i Verdi, gli davano di ladro, di traditore, [179] di asino. Per mostrarsi imparziale, egli fece uccidere alcuni malfattori dell'uno e dell'altro partito, ma ciò invece li unì tutti contro di lui. La rivoluzione che ne seguì ebbe il nome di Nika (Vittoria), dal motto d'ordine, che avevano assunto i due partiti temporaneamente riuniti. In conseguenza di essa, scoppiò un incendio, che durò cinque giorni, accumulando grandi rovine; e venne proclamato perfino un nuovo Imperatore, tanto che Giustiniano, persuaso di non poter più resistere, voleva abbandonare Costantinopoli e l'Impero. Teodora diè prova allora del suo virile coraggio. — Morire bisogna pure una volta, ella esclamò al marito, ma condurre l'esistenza da principe fuggiasco non è vita. Fuggi, se tu vuoi, io non voglio vivere senza la porpora. — E allora venne chiamato il giovane Belisario, il quale condusse la repressione con tale energia, che si parlò di 35,000 morti. Ipazio, che era il nuovo imperatore proclamato dai ribelli, fu anch'egli ucciso, e Giustiniano restò finalmente sicuro sul trono (532), che dovette a Teodora ed a Belisario.

L'Impero di Costantinopoli era una singolare mescolanza, non solo di Greci e di Romani, ma di popoli diversissimi: Slavi, Bulgari, Turchi, Finni, Armeni, Persiani, Egiziani, anche Mori. E tutte queste genti di razze, di costumi, di religioni, di lingue diverse, che non potevano essere unite da spirito nazionale, erano unite dalla legge e dalla disciplina romana. È questo un fatto veramente straordinario, reso ancora più notevole dalla lunga durata che, in mezzo a tante rovine, ebbe l'Impero d'Oriente, fino cioè alla metà del secolo XV. l'Imperatore, che si trovava alla testa dello Stato e della Chiesa, aveva ai suoi ordini una burocrazia accentrata e potente, una diplomazia accortissima, un esercito valoroso, che ai tempi di Giustiniano si faceva ascendere a circa 150,000 uomini. Composto principalmente dalle popolazioni [180] montanare della Tracia, del Tauro, della Valachìa, non fu in tutti i tempi uguale a sè stesso; ma più volte dette splendide prove del suo valore, ed ebbe una serie di generali di merito veramente eccezionale. Questi solevano come Belisario, che fu certo dei più illustri, avere anche una propria guardia d'alcune migliaia di soldati scelti, da essi dipendenti e da essi pagati. La flotta, che era composta di gente venuta dall'Asia Minore, dalla Tracia, dalla Grecia, mantenne del pari lungamente onorato il suo nome.

Giustiniano acquistò una grande importanza storica pel fermo proposito che ebbe di restaurare l'antica unità, l'antico splendore dell'Impero, iniziando una grande reazione del Romanesimo contro il Germanesimo: reazione che per qualche tempo fu davvero trionfante, sino a che la mancanza d'industria e di commercio, lo scontento prodotto dalle tasse eccessive e dalle angherie del fisco, la corruzione e le gelosie della Corte, che alimentavano sempre la discordia dei generali, non mandarono a rovina un'opera gloriosamente iniziata, e favorita anche dalla fortuna. Lo strumento principale di questa impresa fu Belisario. Nato (505) nella Dardania, come Giustino e Giustiniano, egli entrò assai giovane nell'esercito, e diè subito prove di grandissimo valore nella guerra contro i Persiani (530), nella quale con 25,000 uomini potè respingerne 40,000. Conchiusa la pace, tornò a Costantinopoli dove, come vedemmo, ebbe occasione di domare la rivoluzione del 532. Aveva allora già sposato Antonina, una donna che molto somigliava a Teodora. Figlia anch'essa di gente dell'Ippodromo, e già due volte madre quando sposò Belisario assai più giovane di lei, dissoluta, energica, intrigante, esercitò sul marito, che accompagnò in tutte le imprese militari, un'azione grandissima, la quale riuscì spesso a lui funesta.

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Scopo principale di Giustiniano fu il riconquistare l'Italia all'Impero; ma per ciò fare occorreva assicurarsi prima le spalle, ripigliando l'Africa, dopo aver vinto i Vandali. Colà da un pezzo i disordini interni e la conseguente debolezza del regno non erano molto diversi da quel che abbiamo visto in Italia. Nel 528 era salito sul trono Ilderico, poco atto alle armi, che dalla madre Eudocia, figlia di Valentiniano III, aveva ereditato simpatie romane e cattoliche. Questo provocò nei Vandali una reazione del sentimento ariano e barbarico, tale che ne scoppiò una rivoluzione, promossa da Amalafrida sorella di Teodorico, e vedova di Trasamondo, al quale era successo Ilderico. La rivolta fu domata, ed Amalafrida venne messa in carcere, dove restò fino alla morte di Teodorico, quando, non essendo più necessario usarle riguardi, la uccisero. Si accese perciò un odio profondo tra gli Ostrogoti ed i Vandali, che tornò a vantaggio di Giustiniano, il quale potè sperare, come difatti avvenne, d'essere secondato dai primi nel combattere i secondi. Ma Ilderico non restò a lungo sul trono, perchè i Vandali ne lo cacciarono, ponendovi invece Gelimero (531), uomo bellicoso, senza simpatie romane. E anche da ciò Giustiniano seppe trarre profitto, pigliando occasione a muover guerra ai Vandali, dal pretesto di voler difendere tanto il giusto diritto d'Ilderico, quanto i sentimenti romani e ortodossi di lui.

Nel 533 salpava finalmente da Costantinopoli una flotta condotta da un numero assai grande di marinari, con un esercito di 10,000 fanti e 5 o 6000 cavalieri, la più parte della Tracia. Li comandava Belisario, che era accompagnato dalla moglie e da Procopio, il quale era stato suo segretario anche in Persia. Sotto Belisario combatteva il valoroso capitano armeno Giovanni. Dopo due mesi d'una navigazione piena di pericoli, arrivarono a Catania, [182] dove poterono liberamente sbarcare, perchè avevano il favore degli Ostrogoti. Colà seppero che i Vandali erano affatto ignari della loro venuta, tanto che il fratello di Gelimero era andato ad una impresa militare nella Sardegna. Dato quindi l'ordine della partenza, Belisario sbarcò ben presto a nove giorni di marcia da Cartagine. Si presentò in Africa non come un conquistatore, ma come un liberatore dei Cattolici, dei Romani, del clero e dei proprietari, tutti ugualmente oppressi dai Vandali, eretici, stranieri e barbari. Dette ai suoi soldati ordine severissimo di rispettare le proprietà e le persone; e col favore delle popolazioni potè condurre assai fortunatamente la guerra. Il 13 settembre ebbe luogo la prima battaglia, che fu da lui vinta, nonostante il numero superiore dei nemici. Il 15 entrò in Cartagine, e prese alloggio nel palazzo stesso di Gelimero, dove invitò i suoi uffiziali superiori al pranzo, che il re vandalo aveva, nel giorno precedente, apparecchiato per sè e per i suoi, ritenendosi sicuro della vittoria.

Ritiratosi allora nella Numidia, dove fu raggiunto dal fratello venuto in fretta dalla Sardegna, Gelimero dette una seconda battaglia, che andò anch'essa perduta. E così, dopo avere assistito allo scempio de' suoi, dopo aver perduto il proprio fratello, si ritirò in mezzo ai Mori, sostenendo ogni sorta di crudeli privazioni. Narra la leggenda, che si ridusse a tale estremità da dover supplicare Belisario, perchè gli mandasse un pezzo di pane, chè da più tempo non ne aveva avuto; una spugna per lavarsi gli occhi, dal lungo piangere divenuti malati; ed una lira, per sollevar col canto lo spirito umiliato. Nel marzo del 534 finalmente si arrese, e fu allora assai onorevolmente accolto da Belisario.

Il resultato più notevole di questa guerra fu che i Vandali, dopo avere portato tanto terrore, tante rovine [183] nell'Impero, scomparvero affatto dalla storia, senza che più se ne sentisse parlare. Questa rapida caduta dovette essere in gran parte conseguenza del loro governo oppressivo e male costituito, come più sopra accennammo. Molti di essi furono mandati ai confini dell'Impero, verso la Persia; non pochi vennero incorporati nell'esercito di Belisario, ed alcuni furono ammessi addirittura a far parte della sua guardia. Quelli che, per conto proprio, rimasero in Africa, ebbero confiscati i beni, e furono cacciati dalle loro chiese, messi in carcere o fatti schiavi.

Dopo una sì pronta vittoria si cominciarono subito a vedere le conseguenze di quella gelosia, di quella discordia che, ora come sempre, era il verme roditore della Corte bizantina. Quando Belisario aveva in tre mesi compiuta una campagna che sembrava miracolosa, e doveva perciò aspettarsene riconoscenza ed onori, cominciò invece a sentire i morsi dell'invidia e della calunnia, che lo lacerarono sanguinosamente. Lo avevano accusato presso l'Imperatore di sfrenata ambizione, dicendo che voleva farla da re, avendo osato assidersi sul trono stesso di Gelimero. Giustiniano insospettito, lo invitò a mandare subito i prigionieri a Costantinopoli; ma Belisario volle andarvi anch'egli, per smentire le accuse degl'invidiosi. Il suo ingresso fu trionfale davvero: precedevano i prigionieri, fra cui lo stesso Gelimero, insieme con le spoglie ricchissime. Fra queste erano anche quelle che dal Tempio di Gerusalemme Tito aveva menate a Roma, di dove Genserico le aveva portate in Africa. E Giustiniano temendo che, come ai Romani ed ai Vandali, così anche a lui portassero sventure, le restituì al luogo di loro prima origine. In Africa rimase un governatore, e si mandò subito un esercito d'impiegati, che incominciarono a tormentare, a dissanguar colle tasse il paese.

Ed ora Giustiniano rivolse il suo pensiero alla guerra [184] d'Italia. La uccisione di Amalafrida, che aveva seminato odio fra gli Ostrogoti ed i Vandali, gli aveva offerto un primo pretesto. Trovandosi inoltre, per la disfatta dei Vandali, padrone dell'Africa, chiedeva, con maggiore insistenza, la fortezza di Lilibeo in Sicilia; ed Amalasunta, come vedemmo, esitava ancora, non volendo offendere sempre più l'amor proprio nazionale degli Ostrogoti, a lei già assai poco benevoli. Quando però, dopo la morte di Atalarico (534), Teodato la confinò, e poi la fece uccidere (535), Giustiniano che l'aveva presa sotto la sua protezione, disse di volerla vendicare, e si decise a cominciare la guerra.

Amalasunta era morta nella primavera, e già nella state un esercito di tre o quattro mila uomini partiva da Costantinopoli per la Dalmazia, a combattere i Goti che erano colà. Così si costringeva il nemico a dividere le sue forze, e si rendeva più facile il vincerlo in Italia, dove già s'era avviato Belisario con un esercito di 7500 uomini, oltre la sua guardia. Questo esercito, composto anch'esso principalmente di montanari della Tracia, della Georgia, dell'Isauria, fece ben presto prodigi di valore. Belisario, che lo comandava, disse un giorno a Procopio, che egli doveva in gran parte le sue vittorie alla cavalleria, la quale era stata da lui riformata. S'era accorto, che la cavalleria gota combatteva solo col giavellotto e la spada, occupata principalmente a difendere la fanteria, quando era impegnata corpo a corpo col nemico. Pensò quindi a fondare la forza del suo esercito sugli arcieri a cavallo, educandoli a questa nuova forma di combattimento. Ma nonostante il suo valor personale, i suoi infiniti accorgimenti, la sua capacità strategica, egli non avrebbe mai, con le poche sue genti, per quanto valorose, potuto fare tutto quello che fece, se non avesse avuto il favore e la cooperazione dei Romani, ai quali, con molta [185] accortezza, seppe presentarsi fin dal principio, come uno che veniva a liberarli dal giogo barbarico e dalla persecuzione ariana, ed anche come un restauratore dell'antica grandezza romana.

Infatti, appena sbarcato in Sicilia, tutti gli aprirono le porte, e potè facilmente percorrere l'Isola in lungo ed in largo, senza trovar vera resistenza che a Palermo, dove era una forte guarnigione gota, difesa dalle mura. Belisario allora fece entrare nel porto alcune navi cariche di soldati, i quali, arrampicandosi agli alberi di esse, poterono inaspettatamente coi loro archi saettar dall'alto nella città, con grande maraviglia e spavento della guarnigione, che poco dopo s'arrese. In sette mesi la Sicilia fu riconquistata all'Impero. Alla nuova di questi fatti Teodato rimase così impaurito, che già voleva cedere, offrendo addirittura di rinunziare allo Stato, mediante una ricca pensione. Ma quando la sua proposta era stata accolta, gli pervenne notizia di qualche rovescio avuto dagl'imperiali in Dalmazia, e subito, mutato animo, non volle più arrendersi. Poco dopo, verso la fine del 535, gl'Imperiali riguadagnarono anche colà il terreno perduto, entrando in Salona, la moderna Spalato; ed allora fu Giustiniano a non voler più sentir parlare di patti e di accordi con Teodato. Ogni decisione dovette quindi essere inesorabilmente rimessa alle armi.

Se non che, appunto allora Belisario venne improvvisamente chiamato d'urgenza nell'Africa, dove, per la tirannia e la incapacità di chi governava, era scoppiata una minacciosa rivoluzione capitanata da un tale Stuzza, che pareva volesse formare un principato indipendente, e si trovò subito alla testa di 8000 ribelli, cui s'aggiunse un migliaio di Vandali. La vita del governatore imperiale si trovò in grave pericolo, il moto si estendeva minaccioso; ed egli corse subito insieme con Procopio in Sicilia, [186] per informare di tutto Belisario, che partì come un fulmine, e si trovò in Cartagine quando i ribelli s'avvicinavano per impadronirsene. La notizia del suo improvviso arrivo bastò a sgomentarli per modo, che si ritirarono subito a cinquanta miglia dalla città, e colà furono raggiunti da Belisario, che con soli 2000 uomini osò affrontarli, e li debellò interamente. Dopo di che, saputo che un altro valoroso generale, capace di mantenere stabilmente l'ordine in quelle province, era già partito da Costantinopoli, se ne tornò in Sicilia; e lasciata una piccola guarnigione in Siracusa, un'altra in Palermo, passò sul continente.

Anche qui egli potè procedere assai rapidamente, aiutato non solo dal favore delle popolazioni, ma anche dalle diserzioni dei Goti, che incominciarono allora e furono in tutta quella campagna assai frequenti. A Napoli però la guarnigione e la popolazione si mostrarono decise a fare aspra resistenza; e quando Belisario parlò coi capi del popolo per indurli a cedere, li trovò insieme coi Goti risoluti a tutto. Gli stessi Ebrei, che s'erano adoperati molto a procurare gli approvvigionamenti, fecero ad una delle porte ostinata resistenza. Quel popolo adunque, romano o italiano che dire si voglia, che tanti scrittori presumono spento del tutto, combatteva e contava ancora nella decisione delle battaglie. Teodato intanto se ne stava lontano, e non s'indusse punto a mandare gli aiuti urgentemente richiesti. Secondo la leggenda, consultò la sorte in un modo assai singolare. In tre diverse stie pose dieci maiali, distinguendoli coi nomi di Goti, di Romani e d'Imperiali. Dopo dieci giorni, aprì le tre stie, e trovò che i Goti eran morti tutti, meno due; i Romani metà eran morti e metà vivi, avendo però questi perduto le setole; gl'Imperiali invece eran tutti vivi. E ne indusse la disfatta dei Goti e la vittoria degl'Imperiali con la [187] cooperazione dei Romani, metà dei quali avrebbero perduto la vita, metà i loro averi. È chiaro che una tale leggenda riconosce anch'essa nella guerra la cooperazione dei Romani, la quale poi apparisce più volte manifesta nella narrazione stessa di Procopio, sebbene questi, come greco, cerchi sempre di attenuarla, dimostrando poca o nessuna stima pei Romani. In ogni modo a Napoli la resistenza fu tale, che Belisario, contro il suo solito, ne fu addirittura sgomento, e pensava di ritirarsi, quando seppe che si poteva, pei condotti dell'acqua, entrare inavvertiti nella città. Ed allora egli mosse da una parte ad un finto assalto delle mura, per richiamare colà l'attenzione degli assediati, mentre che dall'altra 600 de' suoi, entrati per gli acquedotti, corsero improvvisamente alle porte, e dopo avere ucciso i soldati che v'erano a guardia, le aprirono. Allora l'esercito entrò, e cominciò subito il saccheggio; ma Belisario, minacciando pene severissime, lo fece cessare. Così gl'Imperiali furon padroni di Napoli, e presero prigionieri gli 800 Goti che la difendevano.

A Roma intanto lo sdegno contro Teodato, per la sua condotta vigliacca, era giunto al colmo. E quindi radunatisi i Goti nella Campagna, lo deposero, eleggendo in sua vece Vitige, che ben presto trovò modo di disfarsi di lui. Fece poi divorzio dalla moglie, per sposare una figlia di Amalasunta, colla speranza, certamente vana, di rendersi così amico o meno avverso Giustiniano. Ma ormai solo il ferro poteva decidere la lite; tutto il resto era inutile. La elezione di Vitige, che Cassiodoro, pomposamente al solito, annunziò a tutti come fatta «per grazia divina e volontà libera del popolo, nell'aperta campagna,» non fu punto felice. Egli era un soldato valoroso, non già un uomo di Stato, nè un buon capitano, ed aveva contro di sè il primo generale del secolo. Cominciò coll'abbandonare [188] Roma, lasciandovi una guarnigione di 4000 uomini, ritirandosi verso Ravenna per riunire colà tutte le sue forze. Non tenne conto dello straordinario effetto morale, che avrebbe avuto l'entrata di Belisario nell'antica capitale del mondo. Questi sarebbe sempre più apparso come il restauratore dell'Impero, e virtualmente padrone dell'Italia. Vitige intanto cercava da Ravenna di far pace a qualunque costo coi Franchi, che Giustiniano aveva tentato muovere contro di lui, per potere così assalire i Goti da tre parti contemporaneamente: dalla Gallia cioè, dalla Dalmazia, dall'Italia meridionale. E quindi Vitige, per poter ritirare le sue genti dalla Gallia, ed ingrossare con esse il proprio esercito in Italia, senza dover pensare a difendersi da più nemici ad un tempo, cedette loro la Provenza e il Delfinato, pagando anche 2000 libbre d'oro, cose tutte certamente umilianti per lui. Ma il pericolo era assai grave, ed il tempo stringeva.

Tutto andava invece per Belisario a seconda. Papa Silverio, che pur sembrava essere stato amico di Teodato e di Vitige, lo invitava adesso a Roma; ed egli, lasciata in Napoli una guarnigione di soli 300 uomini, potè avanzarsi per Cassino, favorito al solito non solo dalle popolazioni, ma anche da altre diserzioni dei Goti. Fra il 9 ed il 10 dicembre 536, senza difficoltà, entrava in Roma per la Porta Asinaria, mentre che i Goti ne uscivano per la Porta Flaminia. E così, dice Procopio, dopo 60 anni di barbarico dominio, Roma tornò di nuovo all'Impero. Belisario s'istallò sul Pincio, di dove, dato uno sguardo alla Città, piena ancora di quasi tutti gli antichi monumenti, ordinò subito che si cominciasse ad approvvigionarla, che si ponesse mano a restaurarne, fortificarne le mura. Costruite 260 anni prima da Aureliano e da Probo, dopo 130 restaurate da Onorio, erano rimaste da quel tempo in [189] poi affatto trascurate, ed avevano quindi grande bisogno di riparazione.

Vitige, che presso Ravenna raccoglieva quante più genti poteva, era riuscito a mettere insieme 150,000 uomini, coi quali s'avanzò verso Roma (537). Essendosi avvicinato a Ponte Salario, la piccola guarnigione che Belisario v'aveva posta si sgomentò per modo, che una parte di essa, composta di barbari, disertò al nemico; un'altra si ritirò, sbandandosi. Mille uomini che, nulla ancora sapendosi dell'arrivo d'un così formidabile esercito nemico, erano stati mandati a rinforzarla, incontrate le forze preponderanti dei Goti, dovettero retrocedere. Belisario allora, avvertito del pericolo, corse subito in aiuto, gettandosi in mezzo alla mischia. Il suo cavallo aveva sulla fronte alcuni peli bianchi, che formavano come una stella, e però i Greci lo chiamavano Phalion, e i Goti, Balan. Non appena questi ebbero riconosciuto il generale nemico, che subito tiravano tutti a lui, che ciò nonostante restò miracolosamente illeso. Dopo essersi dinanzi al suo impeto ritirati alquanto, i Goti, avuti altri rinforzi, ritornarono all'assalto in così gran numero, che gl'Imperiali dovettero retrocedere più che di passo fino alla Porta Salaria. La trovarono chiusa, nè vi fu modo di farla aprire, perchè i Romani temevano che amici e nemici sarebbero entrati insieme. Il sole cadeva; si era sparsa la voce che Belisario era morto; e però, quando egli sopraggiunse co' suoi, gridando che aprissero, trasfigurato com'era pel lungo combattere, non fu riconosciuto, e non gli dettero ascolto. Ma neppure in così grave momento si perdè d'animo. Visto il pericolo in cui si trovava, visto che i Goti già gli erano addosso, egli che più d'una volta, per le subite, audaci risoluzioni, ci apparisce quale un Garibaldi d'esercito regolare, rivoltosi improvvisamente ai suoi, e stringendoli intorno a sè, li [190] condusse ad un ultimo impetuoso ed inaspettato assalto contro il nemico, il quale, credendo che nuovi rinforzi fossero allora usciti dalla Porta, si ritirò spaventato. E così finalmente Belisario potè, alla testa de' suoi, entrare in Città, dove fu clamorosamente accolto.

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