CAPITOLO VIII

Totila re dei Goti — Belisario torna in Italia, ed occupa Roma — Suo ritorno a Costantinopoli e sua morte

L'anno 540 in cui i Persiani presero Antiochia, Belisario arrivava a Costantinopoli alla testa di 7000 uomini della sua guardia, menando seco il tesoro dei Goti, con Vitige e gli altri prigionieri. Era il secondo re barbarico che egli conduceva nella capitale orientale. Aveva allora 36 anni; era quindi nel pieno vigore della sua forza, come era nel colmo della fortuna e della gloria. Ma pur troppo si cominciavano a vedere i non lontani prodromi di quelle sventure che dovevano lacerargli il cuore, avvelenarne l'esistenza, invecchiandolo prima del tempo. Non gli fu concesso un trionfo ufficiale, come quello avuto al ritorno dall'Africa, sebbene il popolo lo accogliesse di fatto come un vero trionfatore, quale egli era certamente. La sua prima sventura fu il sospetto della infedeltà della moglie, la quale amareggiò molto la sua esistenza. Partendo per la guerra persiana, con quest'atroce tormento nell'animo, perseguitato da Teodora, che proteggeva Antonina, non potè concludere gran cosa. Tornato a Costantinopoli, e non essendogli possibile avere più dubbi sulla sua domestica sventura, dovè decidersi ad imprigionare la moglie infedele, che pure amava. Ma il peggio era, che Antonina aveva saputo con grandissima arte guadagnarsi [214] l'animo di Teodora, secondandola ne' suoi intrighi, aiutandola a perseguitare i suoi nemici.

Da un pezzo era nella Corte divenuto potentissimo Giovanni di Cappadocia, uomo dato a tutti i vizi, divorato dall'ambizione, ma attissimo a riscuotere tasse, ricorrendo per esse anche ai tormenti più crudeli: dicevasi che per evitarli, qualcuno si fosse perfino impiccato. Giustiniano lo proteggeva, quale strumento utilissimo ad aumentare le entrate dello Stato, e Teodora invece l'odiava per la sua ambiziosa prepotenza. Antonina, che voleva conquistare sempre più il favore dell'Imperatrice, riuscì, con singolare accorgimento, a fargli confessare i suoi ambiziosi disegni, le sue mire segrete contro lo stesso Imperatore. In conseguenza di che, Giovanni fu mandato in esilio, ridotto alla miseria, costretto a vestir l'abito ecclesiastico, ad andare limosinando. Pare anzi, come osserva l'Hodgkin, che questa sua fine infelice desse origine alla leggenda che fece poi attribuire a Belisario una fine non molto diversa. Certo è che Teodora sempre più grata ad Antonina, sempre più avversa a Belisario, l'obbligò a liberare la moglie infida ed a riconciliarsi con essa, nè si stancò mai di tormentarlo e di umiliarlo.

Intanto, dopo la partenza di Belisario dall'Italia, donde aveva menato seco la sua guardia ed i migliori capitani, le cose andavano nella Penisola di male in peggio. Non v'era un capo autorevole che potesse comandare, non s'era ancora ordinata una nuova amministrazione. Tutto rimaneva affidato a capitani militari, sparsi coi loro soldati, in diverse città, ed ai riscuotitori delle imposte. Le entrate andavano rapidamente diminuendo, nè si poteva sperare danaro da Costantinopoli, dove bisognava provvedere alla guerra persiana, ed a mantenere, con sussidi continui, tranquille le vicine e minacciose popolazioni barbariche. Si ricorreva quindi in Italia ad ogni più misera [215] e meschina arte per risparmiare. Si tosavano le monete; si ritardavano le paghe e le promozioni dei soldati; si vendevano gli uffici; si lasciavano in abbandono le opere pubbliche più necessarie, come gli acquedotti; si trascuravano per tutto le più urgenti riparazioni. Lo scontento era quindi divenuto grandissimo nei soldati, che cominciavano a disertare, o cercavano rifarsi sulle popolazioni, che avevano assai contribuito al trionfo delle armi imperiali. Ridotte ora all'estremo d'ogni miseria, esse finivano col rimpiangere i tempi in cui erano state sotto il dominio dei Goti, la fortuna dei quali cominciava perciò rapidamente a risorgere.

Ildibaldo infatti, che era rimasto con soli 1000 uomini, vide a un tratto accrescere il suo esercito, e fu padrone di quasi tutta l'Italia settentrionale. Ma neppur tra i Goti le cose procedevano senza gravi disordini. Essi, che non avevano mai potuto formare in Italia una vera e propria nazione, apparivano sempre più come un esercito di ventura, sotto il comando di capitani che non andavan d'accordo fra di loro. Tra la moglie di Uraias, il quale aveva ricusato il comando supremo, e quella d'Ildibaldo, che lo aveva accettato, la gelosia era divenuta tale che si comunicò ai mariti. In conseguenza di che il primo venne ucciso dal secondo, e questi fu poi, a sua volta, ucciso nella primavera del 541. Insieme coi Goti erano in Italia venuti parecchi Rugi, i quali non s'erano potuti mai interamente amalgamare coi loro compagni; ed ora innalzarono sugli scudi Erarico, che fu dai Goti accettato. Ma questi non seppe far altro che trattare con Costantinopoli, tentando di costituirsi un piccolo Stato nell'Italia settentrionale, tra i Franchi ed i Bizantini, ponendosi alla mercè dell'Imperatore, tradendo così tutte le speranze de' suoi soldati, i quali, dopo cinque mesi d'inglorioso governo, lo uccisero, avendo [216] prima offerto la corona a Baduila, noto nella storia col nome di Totila. Questi era parente d'Ildibaldo, ed accettò a condizione che levassero di mezzo Erarico, il che essi fecero.

Totila rialzò il destino dei Goti, alla testa dei quali si trovò per undici anni, combattendo sempre gloriosamente. Egli fu il più nobile fiore del valore ostrogoto, dimostrandosi costantemente capitano non solo assai coraggioso, ma ancora di molta capacità strategica e politica. Mentre infatti i Bizantini, per sostenersi in Italia, taglieggiavano, saccheggiavano le popolazioni, favorendo così i latifondisti, che formavano il loro sostegno, sebbene poi scontentassero anche questi colle continue tasse, Totila invece s'appoggiava sul popolo, sui contadini e coloni, trattandoli meglio che poteva, accogliendo nel suo esercito gran numero anche di schiavi. «Ai contadini, dice Procopio, egli in tutta Italia non recò alcuna molestia; ma invitolli a lavorare liberamente la terra, secondo il consueto, pagando a lui i tributi, che già prima solevano dare all'erario ed ai proprietari» (III, 13). Aggravava invece la mano sui latifondisti, che spesso espropriava; s'impadroniva delle loro rendite, ed anche di quelle della Chiesa, che era già fin d'allora uno dei principali latifondisti, e che perciò fu a lui doppiamente avversa, essendo i Goti di religione ariana.

I generali imperiali, radunati a Ravenna, decisero d'avanzarsi con 12,000 uomini per assalire Verona e Pavia; ma dopo un primo fortunato successo, dovettero retrocedere a Faenza. Totila, che aveva potuto raccogliere già 5000 uomini, prese allora l'offensiva, passando il Po, e con abile strategìa riuscì ad infligger loro una vera disfatta, obbligandoli a ricoverarsi nella città. Dopo di che traversò risolutamente l'Appennino, con l'intendimento d'impadronirsi dell'Italia meridionale, dove poteva [217] sperare maggiore facilità di trovar vettovaglie, aiutato anche dalla vicinanza della Sicilia. Di là avrebbe potuto minacciare Roma, costringendo il nemico a dividere le sue forze. Ma intanto un primo tentativo d'assediare Firenze con parte dei suoi, fallì, perchè i Bizantini, avuto soccorso da Ravenna, uscirono dalle mura e lo respinsero. Furono però poco dopo disfatti, e così Totila potè procedere sicuro fino a Napoli (542). Gl'Imperiali si trovavano allora padroni solamente di Firenze, Spoleto, Perugia, Roma, Ravenna e Napoli. La presa di quest'ultima città avrebbe avuto pei Goti una grandissima importanza, sia perchè era una delle principali dell'Italia meridionale, ed in relazione colla Sicilia, sia perchè di là potevano facilmente cominciare le operazioni contro Roma. Totila portò quindi presso Napoli il suo quartier generale, inviando nello stesso tempo alcuni de' suoi verso le Puglie, la Basilicata e le Calabrie. Napoli aveva solo una guarnigione di 1000 fanti; e però Giustiniano, riconoscendone l'importanza strategica, vi spedì alcune navi con soccorso di uomini e di vettovaglie. Totila però seppe tener testa a tutto, e favorito da una tempesta, che ritardò l'arrivo d'una parte dei soccorsi, sconfisse il nemico e costrinse la città ad arrendersi (543). La guarnigione fu lasciata libera, e nulla soffrirono gli abitanti, avendo egli, con ordini severissimi, mantenuta la più stretta disciplina fra i suoi Goti, coi quali si apparecchiava ora all'assedio di Roma.

A Totila pareva d'esser vicino ad impadronirsi di tutta Italia, giacchè i Bizantini possedevano ora solo alcune poche città, i loro generali non andavano d'accordo, e già scrivevano a Costantinopoli, come se lo stato delle cose fosse disperato. Egli invece, pieno di fiducia, scriveva al Senato e spargeva ovunque proclami, invitando le popolazioni a fare con lui causa comune. [218] Tutto ciò finì col decidere Giustiniano a rimandar di nuovo in Italia Belisario (544), che non era però più quello d'una volta: infinite erano state le sue traversie, le ingiuste persecuzioni da lui sofferte. Affranto dai dolori e dalla più nera ingratitudine, costretto ad umiliarsi dinanzi alla moglie che lo aveva tradito, accusato d'aver rubato parte del tesoro goto, per sopperire alle sue spese eccessive, era stato richiamato dall'Oriente, dove, oppresso da tanti dolori, non gli aveva arriso la fortuna della guerra. Oltre di ciò la sua guardia era stata disciolta, ed egli privato d'ogni ufficio, d'ogni emolumento. Era vietato agli amici d'avvicinarlo; e quindi, abbandonato da tutti, si vedeva girar solo e pensoso per le strade di Costantinopoli, col sospetto di potere da un momento all'altro essere assassinato. Ed ora che la peste aveva desolato l'Impero, che lo stesso Imperatore ne era stato colpito, ed a fatica era scampato dalla morte; ora che tutto anche in Italia pareva andasse a rovina, bisognò di nuovo ricorrere a lui, restituirgli parte della sua fortuna, ridargli il comando supremo delle forze nella Penisola. Non potè però riavere la sua guardia, che era stata già disciolta; non gli si potè costituire un nuovo esercito, nè dar danari: doveva a tutto provvedere da sè; la guerra doveva alimentare la guerra. Ciò nonostante, dimenticando ogni cosa, si rimise con ardore all'opera, e raccolse a sue spese nella Tracia un corpo di 4000 Illirici, che condusse subito nella Dalmazia, dove li organizzò ed esercitò. Di là riuscì a far pervenire qualche soccorso di uomini e vettovaglie alla guarnigione assediata e pericolante in Otranto, per avere in sue mani un punto da cui ricominciare la conquista dell'Italia meridionale. Ed infatti i Goti che assediavano la terra, quando videro che di mezzo alle loro file erano potuti passare i soccorsi, si ritirarono per andarsi a ricongiungere con Totila. Questi s'era intanto avviato [219] verso Roma; aveva preso Tivoli, facendo strage della popolazione, e poteva di là impedire che pel Tevere scendessero vettovaglie nella Città eterna. Belisario avrebbe dovuto e voluto soccorrerla subito, se avesse avuto il danaro e gli uomini, che invece gli mancavano affatto. S'avviò quindi verso Ravenna, con la speranza di raccogliere colà i veterani sbandati; ma l'antico entusiasmo e l'antica disciplina più non esistevano. Impadronitosi infatti di Bologna, invano aspettò che i veterani tornassero sotto le sue bandiere. E i nuovi soldati illirici, che seco aveva e che intanto non ricevevano le paghe, avuta notizia d'un assalto che gli Unni movevano al loro paese, se ne partirono senz'altro. Totila allora, avanzandosi per la Via Flaminia, prese parecchie delle città rimaste ancora ai Bizantini (545); e la guarnigione di Spoleto non solo s'arrese, ma si unì a lui. Egli così potè impedire al nemico ogni comunicazione fra Ravenna e Roma, che fu subito da lui assediata. Belisario, convinto della estrema necessità di rialzare le sorti della guerra, ardeva del desiderio di tentare un colpo ardito, per liberare l'antica capitale del mondo; ma non aveva modo. Con grande insistenza chiese a Costantinopoli aiuto d'uomini e danaro; domandò sopra tutto d'avere la sua guardia, esponendo lo stato disperato delle cose in Italia, dove non c'era da aspettar più nulla dalle popolazioni esauste e disgustate. Corse poi con pochi de' suoi a Durazzo in Dalmazia, per andare incontro ai soccorsi che dovevano finalmente arrivare da Costantinopoli.

Erano passati già dodici mesi, nei quali egli nulla assolutamente aveva potuto concludere. Roma era assediata dai Goti, che occupavano da padroni il paese circostante, riscuotendo le imposte, raccogliendo il prodotto delle terre. Dentro le mura la guarnigione imperiale assai debole cominciava a mancare d'ogni cosa; la fame si faceva [220] già crudelmente sentire; e quello che era anche peggio, alcuni dei capitani, specialmente il comandante Bessa, avendo raccolto grano per l'esercito, ne vendevano ai privati, facendovi lauti guadagni, e cercavano perciò di mandare le cose in lungo. Molti, esausti dalla fame, si trascinavano a fatica, come spettri, per le vie della Città. Fu quindi necessario mandar fuori delle mura i non combattenti, che spesso venivano uccisi dai nemici, quando li vedevano lentamente traversar la Campagna.

Non è perciò da maravigliarsi se appena arrivati da Costantinopoli gli aiuti così lungamente attesi, Belisario che già ardeva del desiderio d'andare a soccorrere Roma, si mosse senza indugio. Ma di nuovo trovò ostacolo grandissimo in quella mancanza di disciplina, che pareva omai divenuta epidemica. Il generale Giovanni, che per la sua parentela aveva potenti relazioni nella Corte, era stato sempre nemico di Belisario, che per avere gli aiuti necessari aveva dovuto pur decidersi a mandar lui a Costantinopoli. E Giovanni adesso voleva dalla Dalmazia avanzarsi coi suoi nell'Italia meridionale, per combattere i Goti, i quali erano colà sparsi e deboli. Dopo averli vinti, egli diceva, sarebbe stato più facile ottener vittoria sotto le mura di Roma, dove egli e Belisario avrebbero nello stesso tempo potuto assalire il nemico da due lati, cooperando all'impresa comune anche la guarnigione con una vigorosa sortita. Ma Belisario, che riteneva invece non doversi metter tempo in mezzo, voleva recarsi direttamente per mare alla bocca del Tevere, e risalendolo, avanzarsi senz'altro a soccorrere Roma d'intesa con Bessa. Non essendo stato possibile mettersi d'accordo con Giovanni, si dovette finire al solito coll'appigliarsi al peggiore dei partiti: operare cioè ognuno per conto proprio. Così egli andò per mare a Porto, e Giovanni sbarcò a Brindisi, entrandovi dopo [221] aver battuto i Goti, sottoponendo poi l'antica Calabria (Terra d'Otranto), le Puglie e la Lucania. Di là, invece di pensare a raggiungere Belisario, s'avviò nel paese dei Bruzi (Calabria), ed occupò Reggio, sbaragliando i pochi Goti che v'erano, favorito dai latifondisti coi loro contadini. Così fu padrone dello Stretto di Messina, e potè annunziare a Costantinopoli, che aveva riconquistato l'Italia meridionale. Quanto ad avanzarsi verso il nord, come voleva Belisario, pare che non ci pensasse neppure. E quindi i pochi Goti, mandati da Totila nella Campania, erano più che sufficienti a tenerlo d'occhio.

Belisario intanto si trovava con poche genti a Porto, invano dolendosi d'esser lasciato solo. Ad Ostia, che egli poteva quasi toccar con mano, erano sempre i Goti, e per mancanza di uomini, non poteva cacciarli, sebbene anch'essi fossero colà in assai piccolo numero. A quattro miglia di distanza, là dove il Tevere è più stretto, Totila aveva potuto chiudere il fiume, mediante una catena ed un ponte galleggiante, difeso da due torri di legno, costruite sulle opposte rive. Pure Belisario era deciso a soccorrere Roma, sperando di farvi entrare le vettovaglie, e di penetrarvi poi egli stesso, giacchè neppure dopo tanti disinganni il valoroso capitano s'era perduto d'animo. Mandò quindi due finti disertori a misurare l'altezza delle torri; e poi, congiunte due barche con tavole, su di esse costruì una torre di legno, sulla quale pose una piccola barca con materie infiammabili, che erano una mescolanza di zolfo, di pece, di resina, qualche cosa di simile a ciò che più tardi fu chiamato fuoco greco. Alle due barche che lentamente s'avanzavano, teneva dietro una piccola flottiglia carica di grano, con uomini armati, accompagnata da altri a piedi ed a cavallo, i quali s'avanzavano sulle due rive, [222] in compagnia di coloro, che colle corde su pel fiume tiravano le navi.

Prima di partire, Belisario aveva lasciato Isaace d'Armenia a guardia di Porto, con ordine espresso di non abbandonar mai quel posto, neppure per soccorrere lui stesso, quando si fosse trovato in pericolo. Avvertì dei suoi movimenti Bessa, invitandolo ad uscir dalle mura in tempo, per potere ambedue contemporaneamente assalire i Goti, di fronte ed alle spalle. Ma Bessa, occupato più che altro de' suoi propri guadagni, non dette segno di muoversi, ed i Goti poterono liberamente andar contro Belisario, che sembrava avanzarsi con buona fortuna. Era infatti riuscito a levare la catena, ad incendiare una delle due torri, quando sopraggiunsero i Goti, coi quali venne subito a battaglia, e li respinse dopo averne uccisi 200. Il ponte galleggiante era rotto, il fiume pareva ormai libero al passaggio delle vettovaglie, quando a un tratto la ruota della fortuna girò a suo danno. Nè Bessa, nè Isaace d'Armenia, sebbene per diverse ragioni, avevano obbedito agli ordini ricevuti, e questo fu causa della rovina dell'impresa nel momento stesso in cui Belisario pareva che avesse già in pugno la vittoria. Giunta a Porto la notizia, che i Bizantini s'avanzavano vittoriosi verso Roma, Isaace non potè più stare alle mosse, e con 100 cavalieri traversò l'Isola Sacra, che divide Porto da Ostia, la quale egli prese senza difficoltà. Ma sopraggiunsero allora i Goti, che poteron facilmente disfare i 100 cavalieri, uccidendone la più parte, e facendo prigioniero Isaace, che li comandava in persona. La notizia assai esagerata di tutto ciò, arrivò a Belisario, come un fulmine a ciel sereno, nel momento appunto in cui egli si credeva decisamente vittorioso. E fu questa la prima volta in sua vita, che perdè veramente la testa. S'immaginò che Porto fosse stato occupato dal nemico, che [223] sua moglie, la quale pur sempre amava, fosse prigioniera, che i nemici potessero attaccarlo alle spalle e di fronte; ordinò quindi senz'altro la ritirata. Ma quando giunse a Porto, e vide come stavano veramente le cose, fu pel dolore della perduta vittoria, preso da una febbre che per qualche tempo lo rese affatto inabile a proseguire la guerra.

Bessa se ne stava intanto tranquillo in Roma, pensando a guadagnare sulla fame che aveva ridotto all'estremo i cittadini, irritatissimi perciò nel momento in cui l'opera loro era più che mai necessaria alla difesa delle mura. I soldati erano assai pochi ed anch'essi scontentissimi per essere trascurati affatto dal loro capo, che li lasciava senza paghe e senza vettovaglie. La conseguenza fu che quattro Isaurici, messi a guardia di Porta Asinaria, la tradirono al nemico. E così il 17 dicembre 546 i Goti entrarono nella Città, che i Bizantini abbandonarono, uscendo nello stesso tempo da un'altra porta in tal fretta, che Bessa dovè lasciare tutto il danaro da lui così disonestamente guadagnato. Vi fu allora come una fuga generale da Roma, dove, secondo Procopio, sarebbero rimaste appena 500 persone, che si ricoverarono nelle chiese, temendo la crudeltà dei Goti. Questi infatti cominciarono subito la strage; ma quando ebbero ucciso 26 soldati e 60 cittadini, furono con ordini severissimi fermati da Totila, il quale venne indotto alla clemenza anche dalle preghiere del diacono Pelagio, che in Roma faceva ora le veci di papa Vigilio, il quale trovavasi nella Sicilia in via per Costantinopoli.

Totila, che era vittorioso, e si sentiva sicuro del fatto suo, disse allora alle sue genti queste notevoli parole: — In principio della guerra 200,000 Goti furono vinti da 7000 Bizantini; ma oggi invece 20,000 Bizantini, [224] che tanti se ne trovano sparsi in Italia, furono vinti dai deboli e disprezzati avanzi dei Goti. Ciò è avvenuto, perchè allora i Goti si condussero ingiustamente verso i Bizantini, e vennero puniti; ma ora che abbiamo invece osservato la giustizia, siamo stati da Dio remunerati colla vittoria. — Entrato poi in Senato, rimproverò ai Romani la loro condotta favorevole agl'Imperiali, che li avevano spogliati di tutto. — Che male, egli esclamò, vi hanno mai fatto i Goti? — Mandò poi a Costantinopoli il diacono Pelagio, per concludere una pace definitiva. «Io, egli scriveva a Giustiniano, ti rispetto come un figlio deve il padre, e sarò sempre tuo fido alleato. Ma se tu non accetti la pace, distruggerò Roma, perchè da essa non possa venir nuovo danno ai Goti.» E Giustiniano a tali minacce non si degnò neppur di rispondere, rimettendosi in tutto e per tutto a Belisario, il che voleva dire alla sorte delle armi. Non c'era quindi da far altro, che apparecchiarsi a continuare la guerra.

Totila si vedeva ora costretto a recarsi nell'Italia meridionale, dove i Bizantini in buon numero occupavano molte terre, e rendevano sempre più difficile il fornire Roma di vettovaglie. Partendo, egli non poteva, per mancanza di uomini, lasciarvi una guarnigione sufficiente; cominciò quindi a demolirne le mura, con animo di distruggere addirittura la Città. Ma quando procedeva in quest'opera nefasta e di vera barbarie, ricevette una lettera di Belisario, che gli fece una profonda impressione. «Non sai tu dunque, questi gli scriveva, che le ingiurie fatte a Roma, sono ingiurie ai trapassati, ai posteri; sono una vera profanazione? Vuoi tu rimanere nella storia come il distruttore, piuttosto che come il preservatore della più grande e magnifica città del mondo?» Totila, secondo Procopio, restò da tali parole siffattamente colpito, che smise la mal cominciata demolizione, e partì senz'altro pel [225] Mezzogiorno, menando seco in ostaggio i Senatori, ordinando che tutti abbandonassero Roma, che, secondo lo stesso scrittore, rimase davvero per qualche tempo deserta. Lasciò sui monti Albani una piccola guarnigione, come a guardar da lontano la desolata Città, in cui sperava di tornare ben presto, dopo aver vinto i Bizantini. Questo racconto può sembrare una leggenda; è certo però che da una parte Totila non aveva modo di tenere occupata la Città eterna, e da un'altra il fascino grandissimo che essa esercitava ancora sui barbari era sempre tale, che le dava ai loro occhi qualche cosa di sacro e d'inviolabile: il distruggerla doveva quindi parere a tutti un delitto contro gli uomini e contro Dio. Si aggiungeva poi che Totila non voleva romperla addirittura coll'Impero, e chiudersi così ogni possibilità di nuove trattative.

Comunque sia, Roma si trovò ora per sei settimane affatto abbandonata, restando, così almeno si narra, addirittura deserta. E Belisario, lasciata una piccola guarnigione in Porto, respinti i pochi Goti che, scesi dai monti Albani, gli vennero incontro, entrò dentro le mura e si pose subito a restaurarle. Molti tornarono allora dalla Campagna, ed insieme coi soldati s'adoperarono a tutt'uomo per riparare i guasti portati ad esse. Mancavano però gli operai capaci di rimettere a posto gli usci delle porte, che erano stati abbattuti. Si provvide quindi alla meglio, chiudendole in fretta, essendosi saputo che Totila, avuta notizia dell'entrata di Belisario, tornava indietro a gran passi. Tre volte infatti diede l'assalto; ma fu sempre respinto ed inseguito, fino a che si ritirò a Tivoli. E Belisario allora potè trovar modo di far rimettere gli usci alle porte della Città, di cui mandò le chiavi a Costantinopoli. Correva l'anno 547, dodicesimo della guerra bizantina, terzo della seconda campagna.

[226]

I Goti erano sempre assai potenti in Italia. Padroni nel Settentrione, dove si trovavano ancora i Franchi venuti in loro aiuto, essi occupavano la Venezia, e s'erano avanzati nell'Italia centrale, che tenevano quasi tutta, ad eccezione di Ravenna, Perugia, Ancona, Roma e Spoleto. Nel Mezzogiorno invece dominavano i Bizantini, sebbene anche colà non mancassero Goti, disseminati in diversi punti, qualcuno dei quali strategicamente importante. Certo per gl'Imperiali riusciva di grande vantaggio morale e materiale il possesso delle due capitali, Roma e Ravenna. Ma l'opera di Belisario era paralizzata dal disaccordo persistente con Giovanni; nè l'Imperatore mandava aiuti di sorta. Così corsero ancora due anni, nei quali i Bizantini non fecero altro che accrescere sempre più il malcontento delle popolazioni, con vantaggio dei Goti, i quali perciò andavano ripigliando nuove terre, fra le altre Rossano e Perugia. Belisario era quindi in uno stato di sconforto disperato, tanto che sua moglie Antonina si decise a partire per Costantinopoli, sperando d'ottenere per lui i necessari aiuti, mediante la protezione che aveva sempre avuta di Teodora; ma, arrivata colà, trovò invece che questa era già morta il 1º luglio 548. E non potendo far altro, chiese ed ottenne il ritorno del marito, che nel 549 era da capo a Costantinopoli, carico al solito di ricchezze accumulate nella guerra, ma con la sua antica gloria molto offuscata, giacchè nulla d'importante aveva potuto concludere in questa seconda campagna d'Italia. E tutto ciò appariva anche assai più evidente, se si faceva il paragone cogli strepitosi successi ottenuti nella prima. Egli restò a Costantinopoli, sempre onorato, ma senza mai più avere, per dieci anni continui, il comando dell'esercito.

Nel 559 però gli Unni, essendo entrati nella Media e [227] nella Tracia, cominciarono a fare stragi crudeli, minacciando la stessa città di Costantinopoli. Ed allora Giustiniano, che era già vicino ai 77 anni, e s'era per modo spaventato, che voleva fuggire dalla capitale, ricorse di nuovo all'ormai vecchio, ma pur sempre glorioso capitano. Questi aveva già superato i 54 anni, e i dolori patiti lo avevano assai fiaccato; pure, senza esitare, corse alle armi, raccolse alcuni de' suoi veterani e parecchi contadini; formò così un piccolo esercito, e con un nuovo miracolo d'audacia, di accortezza e di valore strategico, respinse un nemico assai più numeroso, che lasciò 400 morti sul campo di battaglia. E fu allora appunto che Giustiniano, sopraffatto dalla puerile o per dir meglio senile gelosia, lo richiamò, preferendo accordarsi definitivamente col nemico mediante danaro, piuttosto che ottenere una pace onorevole che avrebbe fatto rivivere l'antica gloria del suo invidiato generale. Questi fu di nuovo accolto dal popolo come un trionfatore, ma restò poi sempre lontano dagli affari e dal comando dell'esercito. Ciò dette ai suoi nemici tanto ardire, che lo accusarono di cospirazione contro lo stesso Imperatore, il quale da capo lo privò d'ogni suo avere, ponendolo anche sotto sospettosa vigilanza. Ma alcuni mesi dopo, forse ravveduto o pentito, restituì ad esso gli emolumenti di cui lo aveva privato (luglio 563). Nel 565 il valoroso capitano trovò finalmente pace nella tomba, circa nove mesi prima che morisse l'Imperatore, da lui così fedelmente servito. La leggenda, secondo la quale egli avrebbe finito la sua vita, cieco, povero, seduto alla porta d'una chiesa, con una scodella di creta in mano, chiedendo limosina, Date obolum Belisario, si formò tra i secoli XI e XII; ma di essa nulla sanno i contemporanei, i quali tacciono quasi affatto degli ultimi suoi anni infelici. Assai probabilmente, come fu già osservato, [228] si fece confusione con quello che avvenne a Giovanni di Cappadocia, che realmente finì limosinando, non però cieco.

Share on Twitter Share on Facebook