CAPITOLO VI

Roma assediata dai Goti — I Bizantini vittoriosi entrano in Ravenna

Ed ora incomincia il più lungo assedio di Roma, che la storia ricordi. Esso durò dai primi del marzo 537 al marzo inoltrato del 538, un anno e nove giorni, nel qual tempo Belisario dette prove infinite del suo genio militare e del suo valore. Egli era partito con un esercito di 7500 uomini, oltre la propria guardia; ma aveva per via perduto parecchi de' suoi, massime dinanzi a Palermo ed a Napoli. Alcune guarnigioni aveva dovuto lasciare nelle città principali dell'Italia meridionale; e però si trovava adesso, secondo Procopio, con un esercito di soli 5000 uomini, in una città che aveva 12 miglia di circuito. Resistere con tali forze ad un esercito di 150,000 uomini sarebbe stato impossibile addirittura, senza la cooperazione efficace del popolo romano. E questa cooperazione apparisce ora manifesta dalle parole stesse di Procopio, sebbene egli cerchi al solito nasconderla. Certo nei casi più difficili, nei punti più pericolosi il prode capitano fece assegnamento principale sulle truppe regolari; ma nella difesa delle mura i Romani ebbero una parte notevole assai. Fortunatamente esse erano state già restaurate, quantunque in fretta, ad eccezione di quella parte che, presso la Porta Flaminia (del Popolo), è chiamata Muro torto. Questo [191] era assai forte, e generalmente si credeva che fosse sotto la protezione diretta di S. Pietro: nessuno infatti osò attaccarlo.

I Goti dunque circondarono la Città con sette accampamenti, dinanzi alle principali porte: uno di essi era al di là del Tevere, nel così detto Campo di Nerone. Infiniti furono gli accorgimenti da una parte e dall'altra adoperati in questo assedio. Vitige cominciò col far rompere gli acquedotti, costringendo i Romani a valersi della sola acqua dei pozzi, e privandoli così della forza motrice pei mulini. Belisario fece allora costruire nuovi mulini fra gli archi del Ponte Elio, ora S. Angelo, e altrove, mediante ruote mosse dal fiume. Ed i Goti subito mandarono giù per esso lunghe travi, cadaveri d'uomini e d'animali, per intralciare così il moto delle ruote, e corrompere sempre più l'acqua. A questo si riparò, in parte almeno, ponendo catene attraverso il fiume. Ma i Goti non se ne stavano, e ricorsero a molti altri stratagemmi di guerra. Idearono alcune torri mobili, tirate da bovi, che dovevano trascinarle presso le mura, perchè così i soldati potessero salire su queste. Quando però le torri erano vicine alla Porta Pinciana, Belisario ordinò ai suoi che mirassero ai bovi, uccisi i quali, esse restarono ferme in mezzo alla Campagna. Nello stesso tempo l'assalto nemico era dato anche ad altri punti della Città, e sopra tutto vicino alla Porta Prenestina (Maggiore), presso la quale era un doppio muro. Ma quando i Goti, superato il primo, si trovarono ammassati, coi loro arnesi di guerra, fra esso ed il secondo, che cercavano di superare, Belisario avvertito vi corse subito, ed uscito dalla Porta, ordinò che fosse dato contemporaneamente l'assalto alle spalle e di fronte. Il nemico allora si pose in fuga, abbandonando torri, arieti ed altre macchine d'assedio, che furono bruciate dai Romani. Un altro assalto dettero i Goti al di là del Tevere, presso la [192] tomba d'Adriano, ora Castel S. Angelo, rivestita allora di marmo, piena all'esterno di statue, e già ridotta a fortezza. Pareva dapprima che i Goti avessero il vantaggio; ma quando i difensori si videro a mal partito, cominciarono a gettar su di essi le statue, recando loro tali danni, che li costrinsero alla fuga. Procopio parla di 30,000 Goti uccisi, il che può essere un'esagerazione; ma prova in ogni modo che la strage fu assai grande. Belisario scriveva a Costantinopoli, che era stato veramente un miracolo l'aver potuto con un esercito di 5000 uomini resistere vittoriosamente a 150,000. Adesso era però necessario mandargli aiuti, se non si voleva da un momento all'altro essere esposti ad una catastrofe. Finora s'erano avute le simpatie e l'aiuto dei Romani; ma se questi per le continue sofferenze e i pericoli dell'assedio, per le tasse enormi, mutavano animo e divenivano favorevoli ai Goti, che cosa sarebbe mai seguito?

Le condizioni di Roma e dei Bizantini si facevano sempre più gravi. Vitige mandava ordini a Ravenna, che fossero uccisi i Senatori tenuti colà in ostaggio; occupava Porto, cosa che Belisario non potè far prima di lui, non essendogli possibile disporre neppure d'una guarnigione di 300 uomini, necessari a tenerlo. E fu grave danno, perchè da Porto sopra tutto Roma veniva pel Tevere approvvigionata. Ostia era allora assai meno adatta a ciò. La fame si faceva quindi sentire nella Città, e bisognò allontanare le bocche inutili. Gli uomini validi, divisi in ischiere, furono messi a guardia delle mura; alcuni vennero anche mescolati nell'esercito. Queste schiere mutavano assai spesso di luogo; i nomi di coloro che le componevano venivano riscontrati di continuo; le chiavi delle porte erano anch'esse di tanto in tanto mutate: tutto ciò per assicurarsi contro ogni possibile tradimento, ora che le sofferenze crescevano, e lo scontento [193] cominciava a manifestarsi. Sebbene Roma fosse ormai da gran tempo divenuta cristiana, pure vi furono allora alcuni i quali, non sapendo che fare in mezzo a tante calamità, cercarono aprire di nascosto il tempio di Giano, sperando aiuto dal Dio pagano, stato sempre favorevole ai loro padri. Se non che le porte di bronzo, da lungo tempo chiuse, s'erano arrugginite per modo che si potè appena muoverle tanto da lasciarle accosto.

Finalmente arrivò un rinforzo di 1600 cavalieri, la più parte Unni; e questo aiuto, con la speranza non lontana di altri, avendo rianimato gli assediati, fece subito incominciare una serie di nuove scaramucce che, nonostante la inferiorità del numero, riuscirono sempre assai fortunate ai Romani. Di ciò inorgogliti, essi volevano procedere subito ad un assalto generale, cui Belisario s'oppose energicamente, conoscendo lo scarso numero delle sue forze regolari. Ma il cieco ardore de' suoi soldati non conosceva adesso misura nè prudenza, e bisognò cedere. Ordinò quindi che da Porta Salaria a Porta Pinciana si movesse all'assalto; che al di là del Tevere, da Porta Aurelia (S. Pancrazio) si facesse un finto attacco verso il campo di Nerone, e ciò solo per impedire che i molti Goti ivi stanziati, passato il fiume, andassero in aiuto dei loro compagni, là dove si doveva combattere davvero. Le turbe popolari che volevano pigliar parte a questo finto attacco, non essendo ancora bene educate alle armi, ebbero ordine di restar ferme, contentandosi di tenere in rispetto il nemico col loro numero. Dall'altro lato del fiume, Belisario voleva combattere colla sola cavalleria, perchè di essa solamente si fidava, come quella che era più disciplinata e non aveva accolto nelle proprie file cittadini inesperti; ma dovette cedere alle insistenze della fanteria, che volle anch'essa prender parte alla mischia. E tutto ciò fu per riuscirgli funesto. [194] Cominciato infatti l'assalto, i Romani s'avanzarono vittoriosi; ed anche nel Trastevere i Goti, vedendo il gran numero di genti ivi schierate, cominciarono a ritirarsi. Allora però quelli che avevano avuto ordine di star fermi, vollero avanzarsi; ma invece d'inseguire il nemico, si dettero a saccheggiarne il campo, dandogli così modo di riordinarsi, di assalirli e metterli in fuga. Quando poi dall'altro lato del fiume, la cavalleria romana fu costretta a retrocedere dinanzi ai Goti che s'avanzavano numerosissimi, la fanteria, invece di venirle in aiuto, si dette alla fuga. Fortunatamente i capitani di essa, quelli appunto che avevano insistito per condurla al combattimento, fecero onore al loro nome, dando prova d'un grandissimo coraggio. Con pochi dei più valorosi tennero fronte al nemico fino a che vi lasciarono la vita; ed in questo modo assicurarono la ritirata dei Romani. Quando i Goti, arrivati alle mura, le videro guardate da una gran moltitudine d'uomini in armi, si ritirarono. Così tutto fu salvo, ma il grave pericolo che s'era corso fece capire quanta ragione Belisario avesse avuta di non volere arrischiare un generale assalto contro un nemico tanto più numeroso. Si ritornò quindi alle ripetute scaramucce, le quali riuscirono di nuovo vittoriose pei Romani, ed assunsero qualche volta carattere addirittura eroico.

Da Ostia intanto arrivavano vettovaglie, che entravano nella Città. I Goti non potevano impedirlo, perchè la estensione delle mura era tale, che riusciva assai facile ai Romani chiamar colle scaramucce l'attenzione del nemico in un punto, per potere in un altro liberamente aprire le porte ai soccorsi. Nel giugno del 537, terzo mese dell'assedio, secondo anno della guerra, si seppe che un drappello di cento uomini era giunto da Costantinopoli a Terracina, con denaro per dar le paghe [195] ai soldati. Era cosa di somma importanza, e Belisario, per assicurare l'entrata di questi aiuti in Città, ordinò una doppia sortita, che fu delle più vigorose. Al di là del Tevere, verso il campo di Nerone, i Goti vennero facilmente respinti. Fuori di Porta Pinciana invece la lotta fu accanita, ed i soldati di Belisario dettero prova d'un entusiasmo singolare, d'un valore straordinario, e vi furono episodi veramente omerici. Un capitano nativo della Tracia continuò a combattere quando aveva un giavellotto infitto nella testa; un altro combatteva del pari, quando una freccia gli era penetrata tra l'occhio ed il naso. Il primo di questi due valorosi dovè soccombere; il secondo potè, mediante un'operazione, farsi estrarre la freccia e salvarsi. Colui che aveva guidato il combattimento al di là del Tevere, per le molte ferite finì col soccombere anch'esso. Tutto questo ci racconta Procopio, il quale aggiunge che i combattimenti seguiti finora nell'assedio arrivavano già al numero di sessantasette.

Vitige adesso, ricorrendo ad un nuovo accorgimento di guerra, accampò 7000 de' suoi a tre miglia dalle mura, in un luogo dove s'incrociavano due acquedotti, formando così come un punto fortificato, assai adatto a porre di là ostacoli all'approvvigionamento degli assediati. Certo è che la fame divenne insopportabile; e di nuovo i Romani, spinti dalla disperazione, volevano uscire a combattere per vincere o morire. Ma di nuovo Belisario si oppose energicamente, cercando di calmarli coll'assicurar loro, che altri soccorsi di uomini e vettovaglie sarebbero giunti fra poco. Infatti egli mandava a Napoli Procopio, per vedere quanti ne fossero già arrivati colà; e questi trovò 500 uomini con vettovaglie, che avviò subito verso Roma, con altri che erano già nella Campania.

Ma se questa gita di Procopio riuscì utile agli assediati, [196] essa gli fece interrompere il racconto assai prezioso, che finora abbiamo avuto della guerra da un testimone oculare. Siamo quindi poco informati di quello che fece adesso Antonina, la moglie di Belisario, la quale da Napoli andò verso Roma per essere accanto al marito. Pare che, fra le altre cose, andasse a secondare le mene della imperatrice Teodora, che voleva far deporre papa Silverio, ed eleggere in sua vece Vigilio. Questi già da un pezzo aveva aspirato al papato, invano adoperandosi a ciò con ogni sorta d'intrighi. A Costantinopoli però s'era guadagnato il favore di Teodora, facendole sperare che avrebbe favorito il Monofisismo; e potè quindi, con una lettera dell'Imperatrice arrivare a Roma, dove fu assai bene accolto da Antonina, la quale s'adoperò energicamente a favore di lui. La conseguenza fu che papa Silverio venne da Belisario accusato di voler dare la Città ai Goti, e quindi fu deposto. Gli successe Vigilio (537), che tenne ora come sempre una condotta ambigua e mutabile, cominciando col non osservare le promesse fatte all'Imperatrice. L'arbitraria deposizione di Silverio, che morì esule nell'isola di Palmarola presso Ponza (21 giugno 538), e la non meno arbitraria elezione di Vigilio seminarono il primo germe di discordia fra Belisario e la Chiesa romana, il che fu poi causa di debolezza pel dominio bizantino in Italia.

Intanto arrivavano nuovi aiuti. Trecento cavalieri erano già entrati in Roma, 3000 Isaurici ebbero ordine di recarsi da Napoli ad Ostia, 2300 uomini sotto il comando del capitano Giovanni e di altri scortavano verso Roma carri di vettovaglie. Belisario faceva allora sortite vittoriose da Porta Pinciana e da Porta Flaminia, per agevolare l'entrata degli uomini e delle vettovaglie. Ed i Goti, stanchi finalmente del lungo ed infruttuoso combattere, fecero proposte di pace. — Poniamo fine, così dissero [197] a Belisario, ad una guerra che non giova a nessuno, e nuoce a tutti. Perchè mai combattete contro di noi, che in Italia venimmo, non di nostro arbitrio, ma per volontà dell'imperatore Zenone? Fu lui che mandò Teodorico, nostro capo, a combattere Odoacre, il quale s'era fatto tiranno, ed a prendere in suo nome legittimo possesso del paese. Noi rispettammo le leggi, le istituzioni, la religione romana. Teodorico ed i suoi successori non fecero nuove leggi; tutte le magistrature le lasciammo ai Romani, che ebbero anche il Consolato. Se dunque abbiamo rispettato i patti e gli ordini dell'Imperatore, che ci mandò, perchè ci fate voi guerra? — E chiedevano che i Bizantini si ritirassero, portando pur via la preda che sino allora avevano fatta. Ma Belisario rispose: — Teodorico fu mandato a punire Odoacre, a restaurare l'autorità dell'Impero, non a farsi signore dell'Italia. Che cosa importava all'Imperatore sostituire un tiranno ad un altro? Non sarà mai da noi ceduto un paese, che appartiene all'Impero. —

I Goti allora offrirono di abbandonare la Sicilia, Napoli, la Campania, e pagare anche un annuo tributo all'Impero; ma tutto fu vano. Proposero finalmente una tregua di tre mesi, per potere intanto trattar direttamente a Costantinopoli; e questa fu da Belisario accettata subito, profittandone per far entrare in Roma altri uomini e vettovaglie, fortificare le mura, prendere tutti i provvedimenti che voleva. E sebbene tutto ciò non fosse giustificato, non fosse legale, Vitige si tacque. Protestò invece, ma senza resultato, quando essendosi egli ritirato da Porto, da Albano, da Civitavecchia, quei luoghi furono senz'altro occupati da Belisario. Questi mandò inoltre il suo capitano Giovanni alla testa di 2000 uomini negli Abruzzi, con ordine di stare colà fermo finchè durasse la tregua; ma non appena venisse rotta, fare man bassa su [198] tutti i Goti, che si trovavano nel Piceno, e prenderli schiavi; confiscare, saccheggiare i loro averi e dividerli fra i suoi soldati. Infatti, quando i Goti, stanchi di veder Belisario giovarsi della tregua a tutto suo vantaggio, tentarono con un colpo di mano d'entrare in Roma, essi non solo furono respinti, ma Giovanni ebbe l'ordine di saccheggiare il Piceno. E questi, dopo aver messo quel paese a soqquadro, andò a Rimini, che prese facilmente, essendosi la guarnigione ritirata a Ravenna. Alla quale s'avvicinò subito Giovanni, perchè di là, retrocedendo, poteva anche minacciare alle spalle i Goti che erano accampati presso Roma. Tutto questo li sgomentò per modo che, finiti i tre mesi della tregua, levarono senz'altro l'assedio il 12 marzo 538, cioè trecento settantaquattro giorni dopo averlo cominciato; e bruciati i loro accampamenti, cominciarono a ritirarsi. Belisario non poteva, per la insufficienza delle sue forze, inseguirli e dar loro una vera battaglia; ma li assalì quando passavano il Tevere, ponendoli in gran disordine, sì che molti ne affogarono.

Nonostante questi suoi fortunati successi, si presenta naturale la domanda: Come mai Belisario che in tre soli mesi, con scarse forze, aveva quasi sterminato i Vandali, non era invece, dopo tre anni, riuscito a vincere del tutto i Goti, che resistevano ancora? Arrivato a Roma, non s'era potuto più avanzare, e solo dopo altri due anni potè entrare in Ravenna. Tutto ciò sembra anche più strano, se si tien conto dell'aiuto che ebbe dalle popolazioni, e delle diserzioni che di continuo avevano luogo fra i Goti. Il fatto è che Belisario era venuto in Italia con un esercito assai scarso, il quale, prima di giungere a Roma, fu ridotto a minime proporzioni, per le guarnigioni che era stato necessario lasciare in Sicilia e nel continente dell'Italia meridionale. Si [199] trovò quindi con assai deboli forze di fronte ad un formidabile esercito di Goti. Più tardi, è vero, cominciarono a giungere aiuti da Costantinopoli; ma allora appunto le gelosie dei cortigiani operarono sull'animo di Giustiniano in modo, che egli dette ai nuovi capitani che mandò in Italia poteri quasi uguali a quelli di Belisario; il che fu disastroso all'andamento d'una guerra, la quale desolava il paese, ed aggravava colle tasse le popolazioni. In esse cominciò subito uno scontento che andò sempre crescendo, e fu anche inasprito dalla condotta tenuta ora da Belisario verso il capo della Chiesa romana.

La guerra intanto continuava lungo la via Flaminia, che da Roma per Fano conduceva a Rimini. A sinistra v'erano, tutte più o meno sui monti, Orvieto, Chiusi, Todi, Urbino, occupate dai Goti; le città a destra, ad eccezione di Osimo, erano invece in mano dei Bizantini. L'avanzarsi perciò, senza prima impadronirsi di quelle tenute dal nemico, esponeva i Bizantini ad essere assaliti alle spalle. E però Belisario, temendo che Giovanni, con soli 2000 uomini, si potesse trovare a mal partito fra Rimini e Ravenna, gliene mandò in aiuto altri 1000, con ordine che, lasciata in Rimini una piccola guarnigione, tornassero tutti indietro per unirsi a lui. La cosa pareva che riuscisse felicemente, perchè le genti colà mandate s'avanzarono senza difficoltà. E giunte che furono al passo del Furlo, detto anche Pietra Pertusa, una specie di tunnel, che è come una fortezza naturale nell'Appennino, ebbero colà uno scontro coi Goti, i quali, dopo essere stati vinti, s'unirono ai Bizantini, proseguendo insieme con essi il cammino. Ma quando furono a Rimini, Giovanni dichiarò di non volere obbedire agli ordini che essi portavano da Roma, per il che dovettero senza di lui tornarsene a Belisario, che ne restò indignato.

Intanto sbarcavano nel Piceno nuovi aiuti, comandati [200] da Narsete, che veniva con ampi poteri di generalissimo, non solo per aiutare, ma anche per tenere a freno Belisario, contro il quale la Corte pareva ingelosita. Nato nel 478, questo nuovo capitano aveva allora già sessant'anni; era uomo accorto ed ambiziosissimo, di grado in grado salito ai più alti uffici amministrativi. Ma, quello che è singolare davvero, egli arrivava adesso in Italia investito dall'Imperatore del grado di generale, senza aver mai prima servito nell'esercito. Infatti, anche quando aveva efficacemente cooperato con Belisario a reprimere la rivolta seguita nell'Ippodromo, lo aveva fatto solo corrompendo i capi con danaro. L'avergli perciò, in tali condizioni, affidato il comando d'un esercito, era cosa davvero senza esempio. E l'essere poi Narsete riuscito uno dei primi capitani del secolo, fece grandissimo onore all'accortezza, alla conoscenza quasi divinatrice che, in questa come in tante altre occasioni, Giustiniano mostrò avere degli uomini. Se non che, arrivato che fu in Italia, Narsete, sicuro della piena fiducia della Corte, consapevole della crescente gelosia che v'era colà contro Belisario, lo trattò subito alla pari, senza punto curarsi di nascondere la propria alterigia. E di ciò si ebbe una prima prova nel Consiglio di guerra tenuto a Fermo in quello stesso anno 538. Giovanni chiedeva allora da Rimini soccorsi, perchè, dopo avere respinto i primi assalti dei Goti, si trovava, come Belisario gli aveva preveduto, ridotto ad assai mal partito, minacciato da tutto l'esercito di Vitige. Si trattava dunque di decidere se si doveva correre in suo aiuto, avanzandosi per la via Flaminia sino a Rimini, lasciando le città fortificate, come Osimo, in mano dei Goti, o pure abbandonar per ora al proprio destino chi aveva con la sua disobbedienza messo a grave pericolo il resultato finale di tutta la guerra. Belisario era per questo secondo partito, al quale [201] Narsete decisamente s'oppose. Si poteva, questi diceva, pensare più tardi a prendere Osimo; non si doveva intanto permettere che i Goti, appena sfiduciati, ripigliassero animo, e s'impadronissero di Rimini, colla disfatta ed umiliazione d'un generale romano e de' suoi soldati. Quanto al punirlo della disobbedienza, si poteva aspettare a farlo più tardi, senza mettere adesso a repentaglio la fortuna e l'onore dell'Impero.

Belisario assai di mala voglia si dovette arrendere a queste ragioni, che non eran di certo senza valore. Mandò quindi 1000 uomini a tenere in iscacco la guarnigione d'Osimo, ch'era di 4000 Goti. Ed a Rimini mandò una parte dei suoi per mare, un'altra per terra, avanzandosi egli con Narsete alla testa d'una colonna volante, per dare, quando se ne presentasse l'occasione, il colpo decisivo. L'esercito imperiale s'avanzava sparso per la campagna, accendendo la notte un gran numero di fuochi, che lo facevano parere assai più numeroso che non era. E però quando i Goti videro da un lato le navi entrare nel porto di Rimini, da un altro la campagna sparsa di uomini, che di notte sembravano coi loro fuochi occupare una vastissima estensione, temettero d'esser presi in mezzo, e si posero in ritirata verso Ravenna. La guarnigione di Rimini era troppo estenuata per inseguirli; ma gl'Imperiali sopravvenuti poterono saccheggiare i loro accampamenti. Giovanni si ritenne in questa occasione liberato dal grave pericolo per opera di Narsete, al quale solamente si dichiarò riconoscente. E questo fu il principio d'una discordia che doveva essere funesta all'Impero, alimentata com'era continuamente anche dagli altri generali.

Tutto ciò seguiva in un momento assai difficile. Vitige era a Ravenna con 30,000 uomini; Osimo, Orvieto, Urbino e molte altre città dell'Italia centrale erano occupate [202] dai Goti. Al nord i Franchi pareva che minacciassero di scendere in loro aiuto; a Milano si trovava una guarnigione di soli 300 imperiali, in mezzo ad un paese tutto in potere del nemico. E questo fu il momento in cui Narsete decise di mettersi addirittura in aperta opposizione col generale in capo. Belisario propose in un consiglio di guerra, che l'esercito si dividesse in due grosse colonne, una per occupare Milano e tutta la Liguria, l'altra per pigliare Orvieto e le città dell'Italia centrale; dopo di che si poteva pensare ad una grossa battaglia campale contro Vitige. Narsete voleva invece che si occupasse anche l'Emilia, e si attaccasse Ravenna, insistendo molto su di ciò. E quando Belisario impazientito gli disse che il comandante era lui, mostrando le lettere di Giustiniano, Narsete gli rispose, che esse imponevano di operare nell'interesse dell'Impero, e che questa solamente doveva essere la norma. La conclusione fu che nell'esercito mancava ora ogni unità di comando. Belisario si decise quindi a prendere Urbino, poi Orvieto (538), e Narsete insieme con Giovanni andò nell'Emilia. Vitige allora dette ordine a suo nipote di assediare Milano, mentre che Teudiberto, re dei Franchi, lasciava scendere in Italia 10,000 Burgundi suoi sudditi, i quali dicevano di venire in aiuto dei Goti, ma per ora non facevano altro che predare il paese. La piccola guarnigione di Milano, ridotta agli estremi, chiedeva aiuto a Belisario, che mandò alcuni de' suoi; ma questi, trovando già occupato il paese da Goti e da Burgundi, non poterono avanzare. E quando Narsete, sollecitato da ogni parte, si decise finalmente a mandare anch'egli i necessari aiuti, era già troppo tardi. La piccola guarnigione di Milano s'era dovuta arrendere, salva la vita; ma i cittadini furono trucidati fino al numero di 300,000, se si deve prestar fede a Procopio. Le donne vennero lasciate schiave ai [203] Burgundi, per l'aiuto da essi dato nell'assediare la città, che venne ora uguagliata al suolo. E così la Liguria fu ora dei Goti. Pure da tutto ciò ne venne un vantaggio a Belisario, il quale, rendendo conto a Costantinopoli del disastro seguito, potè dimostrare che esso era conseguenza inevitabile della mancata unità di comando, ed indurre finalmente Giustiniano a lasciar di nuovo a lui solo il comando supremo, richiamando Narsete (539).

E ve n'era veramente bisogno, perchè le difficoltà della guerra si andavano sempre moltiplicando. Vitige era riuscito a spingere la Persia a minacciare Giustiniano, il quale si mostrava perciò inclinato alla pace, che Belisario non voleva, pieno com'era sempre di fiducia nella vittoria. Questi si fermò intanto ad assediare Osimo, fece assediar Fiesole da due suoi capitani, ed inviò anche alcune genti nell'alta Italia, verso Tortona. In questo momento precipitarono giù dalle Alpi i Franchi, sotto il comando del loro re Teudiberto, in numero, dice Procopio, di 100,000. Pareva che venissero in aiuto dei Goti, ma giunti che furono a Pavia, la saccheggiarono, uccidendo uomini, donne, bambini. Corsero verso Tortona, e sbaragliarono i Goti, che si ritirarono a Ravenna; affrontarono poi gl'Imperiali che, presi alla sprovvista, si ritirarono anch'essi, cercando di raggiungere Belisario, il quale si trovava ancora all'assedio di Osimo. Fortunatamente questa bufera dei Franchi scomparve a un tratto, perchè essi, trovandosi in un paese esausto e privo di tutto, costretti a bere acqua del Po, furono colpiti da una dissenteria, la quale fece tra loro tale strage, che moltissimi ne morirono, e gli altri si ritirarono (539).

Fiesole adesso si arrendeva, e le genti che l'avevano assediata poterono riunirsi a quelle che circondavano Osimo. Essendosi poi dovuta arrendere anche questa, sebbene fosse in una posizione strategica importantissima, [204] la guarnigione gota, che s'era ivi battuta con valore, sdegnata di non avere ricevuto soccorsi da Ravenna, disertò, passando a servizio dell'Impero sotto Belisario. Il quale si mosse ora verso Ravenna, che sperava avere per accordi, non essendo possibile prenderla colla forza fino a che non riusciva ad avere un naviglio. E non si poteva sperare d'averlo ora che l'Imperatore, spaventato dalle minacce della Persia, e dalle promesse d'aiuti considerevoli che i Franchi facevano a Vitige, desiderava in ogni modo conchiudere la pace in Italia. I Franchi infatti promettevano di venire in aiuto dei Goti con un esercito di 500,000 uomini, quando Vitige avesse consentito a divider con essi il regno dell'Italia superiore. Ma questi preferiva dividere l'Italia coi Bizantini piuttosto che con barbari infidi, potenti e crudeli come i Franchi. E Belisario, che era anche accorto diplomatico, seppe aumentare la naturale diffidenza del re goto, ricordandogli i saccheggi che poco prima i Franchi avevano fatti in Italia, pur dicendo di venire ad aiutarlo. Intanto egli stringeva sempre più l'assedio di Ravenna, e d'ogni parte aumentavano le diserzioni dei Goti, che abbandonavano Vitige per venire a lui. A tutto ciò s'aggiungeva, che nella già affamata città bruciarono i magazzini del grano, chi diceva in conseguenza d'un fulmine che vi cadde, e chi a cagione d'un incendio provocato dalla trista moglie di Vitige, la quale nell'ora del pericolo lo tradiva (540).

Per tutte queste ragioni, quando Giustiniano cominciò a parlare d'accordi con Vitige, Belisario fece il sordo, affermando che prima condizione di pace doveva in ogni caso essere la resa di Ravenna. Ed i Goti, che si trovavano già ridotti all'estremo dalla fame, finirono col credere che l'Imperatore volesse ingannarli, fingendo di desiderare la pace; ed unitisi perciò a consiglio, mandarono ambasciatori a Belisario, facendogli la singolare proposta di riconoscerlo [205] come Imperatore d'Occidente, e di prestargli obbedienza, come a loro duce e signore. Ma Belisario, che era deciso a non tradire la bandiera sotto cui aveva finora combattuto, continuò a temporeggiare ed a trattare, sapendo che la fame avrebbe fra poco costretto i Goti a cedere senz'altro. Ed infatti non andò guari che egli potè entrare in città, promettendo solo di rispettare la vita e gli averi dei Goti: quanto al farsi Imperatore, se ne sarebbe parlato poi con Vitige. Così nella primavera del 540 Belisario, alla testa de' suoi soldati, entrò in Ravenna. I Goti che avevano ceduto la città senza dar prima una battaglia, e avevano proposto di rinunziare anche alla loro personalità nazionale, se ne stavano ora umiliati, quasi semplici spettatori, a guardare l'esercito bizantino che, assai meno numeroso di loro, s'avanzava trionfante per le vie della città. Più di tutti parevano sdegnate le donne, alle quali s'era parlato sempre del gran numero, della gran forza fisica dei Bizantini, e invece li vedevano ora pochi, piccoli e scuri, assai meschini di fronte ai Goti biondi, robusti, alti. Esse, dice Procopio, erano così inferocite, che sputavano in faccia ai loro mariti, chiamandoli vili.

Belisario, secondo il suo solito, serbò fede ai patti giurati. La vita e gli averi dei cittadini furono, sotto minaccia di gravi pene, fatti rispettare dai soldati. S'impadronì del tesoro reale, e tenne prigioniero Vitige insieme coi suoi nobili: tutti gli altri Goti, lasciati liberi, andarono dove vollero. Ravenna d'ora in poi fu dei Bizantini, che la tennero fino al 752, quando venne loro tolta dai Longobardi, ai quali poco dopo la tolsero i Franchi. Treviso, Cesena ed altre città s'arresero subito anch'esse; resistettero invece Verona e Pavia, nella quale i Goti offerirono la corona ad Uraias, valoroso nipote di Vitige. Ma egli la ricusò, per non volere aver l'aria [206] d'usurpare il trono dello zio prigioniero, e consigliò che l'offrissero invece a Ildibaldo, il quale si difendeva allora in Verona, ed era parente del re dei Visigoti. E Ildibaldo l'accettò, proponendo però che si facesse prima un altro tentativo d'indurre Belisario a farsi Imperatore d'Occidente, dichiarandosi pronto senz'altro a prestargli obbedienza. Ma tutto fu invano, perchè Belisario s'apparecchiava già a partir per Costantinopoli, dove era con grande istanza chiamato, e dove andò, menando seco insieme col tesoro goto, Vitige ed i nobili, che dovevano come prigionieri seguire il suo carro trionfale. Con l'entrata in Ravenna, e col trionfo di Belisario in Costantinopoli finisce il primo periodo della guerra bizantina in Italia. Avrebbero dovuto cominciare adesso i grandi trionfi ed onori resi a Belisario; ma ben presto cominciarono invece quelle sventure che ne dovevano avvelenare l'esistenza. Con tutti i molti elementi di forza, che si trovavano pur sempre nella società bizantina, la corruzione, l'invidia, la gelosia erano in essa tali da rendervi impossibile ogni vero e sicuro progresso. E noi vedremo fra poco colmata d'ingratitudine e di amarezza la vita di colui che aveva dato tante splendide prove di fedeltà all'Imperatore ed all'Impero, ai quali aveva reso così segnalati servigi in Persia, in Africa, in Italia; ed altri ancora, nonostante la nera ingratitudine, doveva continuare a renderne.

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