CAPITOLO VII

Desolazione dell'Italia — S. Benedetto fonda il suo Ordine

La guerra, che doveva ancora continuare in Italia, era già durata cinque anni, ed aveva desolato, esausto il paese in modo da superare ogni immaginazione, riducendolo [207] in condizioni tali da non essere sperabile, per lunga pezza, di vederlo più risorgere. Procopio descrive gli effetti che nel 538 la morte, la carestia e la fame avevano portato specialmente nella Toscana, nella Liguria e nell'Emilia. La cultura dei campi, egli dice, era stata da due anni abbandonata del tutto, ed il poco e cattivo grano, che spontaneamente vi nasceva, era spesso lasciato imputridire. Gli abitanti della Toscana si erano ritirati ai monti, dove si cibavano di ghiande; quelli dell'Emilia si recarono nel Piceno, sperando di trovare presso il mare di che sfamarsi. Ma la desolazione era tale colà che si parlava di 50,000 contadini morti per mancanza di nutrimento. Lo stesso scrittore ci descrive, come testimonio oculare, il modo e la natura di queste morti. Per eccesso di bile, egli dice, ingialliva il colore della pelle, che aderiva come cuoio alle ossa, essendosi la carne consumata affatto. Il giallo mutavasi poi in rosso cupo, in nero, con una espressione da maniaci negli occhi; e così quegl'infelici morivano. Perfino i corvi e gli uccelli di rapina non volevano cibarsi dei loro corpi disseccati. Quando poi quegl'infelici affamati trovavano per caso del cibo, ne mangiavano con tale avidità e in così gran misura, che ne morivano, avendo per debolezza perduto ogni forza digestiva. Si giunse a tale, che gli uomini divennero qualche volta addirittura cannibali. Procopio ricorda due donne, che rimaste sole presso Rimini, accoglievano i viandanti e li uccidevano nel sonno, per poi divorarli. E così, egli afferma, ne divorarono diciassette; ma il diciottesimo riuscì a scampare, ammazzandole invece ambedue. Si vedeva la gente trascinarsi carpone pei campi, mangiando come capre le erbe; spesso, non avendo più la forza di estirparle dal suolo, morivano estenuati, e restavano insepolti. In mezzo a tanti esempi di desolazione e ferocia lo stesso scrittore [208] ci racconta un caso assai pietoso. Traversando l'Appennino per andare a Rimini, egli vide un bimbo abbandonato, affettuosamente nutrito da una capra, che accorreva al pianto e non voleva che altri s'avvicinasse a lui, il quale a sua volta ricusava il latte offertogli dalle donne del vicino borgo. Pare che la madre, al passaggio dell'esercito di Giovanni rimanesse, fuggendo, separata a un tratto dal figlio, senza poterlo più ritrovare. Nè altro si seppe più di lei, rimasta forse prigioniera, o uccisa nei campi.

Il disordine, lo sconforto e la spaventosa desolazione, sin dal principio portati da questa guerra, andarono, per la sua continuazione, crescendo sempre più. Ed in mezzo a così prolungate calamità, non è da meravigliarsi che il pensiero si volgesse a Dio, e che un fatto nuovo, già da più tempo cominciato, ricevesse uno straordinario incremento. Il monachismo d'Occidente ebbe ora appunto una così rapida diffusione da parer che divenisse quasi contagioso. Suo definitivo riformatore, che parve perciò nuovo fondatore, era stato un uomo veramente straordinario e santo, il quale ad una grandissima bontà univa una profonda conoscenza dell'umana natura e del proprio tempo. Egli compiè la trasformazione del monachismo, rendendo nei monasteri dell'Occidente più tollerabile ed umana la vita religiosa, che gli anacoreti della Tebaide avevano spinta ad una esagerazione che confinava qualche volta colla follia, e trovava in Italia ostacolo insuperabile nell'indole del popolo. Il suo merito principale apparisce chiaro nella Regola monastica del suo Ordine, che fu da lui formulata. Per sette secoli, fino cioè a S. Francesco ed a S. Domenico, i Benedettini furono quasi i soli monaci nel mondo occidentale, e si diffusero dalla Polonia al Portogallo, dalla Gran Brettagna alla Calabria, obbedendo tutti al loro capo in Monte [209] Cassino, che fu come la nuova Roma, la nuova Gerusalemme, la Mecca dei Cristiani. La leggenda, la poesia, la pittura italiana hanno in mille modi illustrato la vita del Santo e de' suoi discepoli. Dalle mura dei chiostri, dagli affreschi, dalle tele dei pittori, dai versi dei poeti, che vennero ispirati da questi monaci, i quali vissero in tempi di feroci passioni, in mezzo agli orrori d'una guerra che faceva scorrere il sangue a fiumi, discende ancora oggi su di noi il loro spirito di pace, di fede, di carità, di tranquillo e costante lavoro, che in tutto il Medio Evo fu sorgente perenne d'arte, di poesia e di civiltà.

La nuova Regola, in settantatrè articoli, rispondeva certo ad un bisogno del tempo, e mantenendo rigorosa obbedienza, rifuggiva da ogni eccesso. Le sostanze di quelli che divenivano monaci, e tutto ciò che più tardi i parenti avessero voluto lasciar loro, andava integralmente al monastero, nel quale spariva ogni proprietà individuale. L'ozio era proibito, come dannoso alla salute dell'anima (otiositas inimica est animi). Questi religiosi infatti pigliavano direttamente parte al lavoro dei campi, a tutto ciò che era necessario alla comune esistenza. Un articolo assai notevole, utile e pratico nello stesso tempo, voleva che prima d'essere ammessi nel convento, si dovesse con un periodo di noviziato dar prova di vera vocazione alla vita monastica. S. Benedetto non faceva distinzione di sorta fra ricchi o poveri, coloni o schiavi, Romani, Bizantini o barbari. Dinanzi alla sua Regola tutti gli uomini erano, come dinanzi a Dio, uguali; e ciò spiega la rapida, la straordinaria diffusione che essa ebbe nel mondo.

La vita di questo, che fu il più grande monaco che sia mai vissuto, ci venne narrata da Gregorio I, forse il più grande dei papi, che da taluno si volle credere nato [210] il giorno stesso in cui moriva S. Benedetto (21 marzo 543). Sebbene la sua narrazione sia piena di miracolose leggende, essa ci fa pur comprendere quale era il vero carattere del Santo. Nato a Norcia (480), nei monti della Sabina, a venti miglia da Spoleto, a duemila piedi sul livello del mare, da un nobile romano, circa quattro anni dopo che Odoacre fu signore d'Italia, cominciò a studiare in Roma. Ma ben presto lasciò tutto, per ritirarsi nella solitudine e nella contemplazione, verso le sorgenti dell'Arno. La sua balia, che lo aveva accompagnato a Roma, lo accompagnò ancora adesso, dominata da quel nobile ascendente morale, che egli esercitava maravigliosamente su tutti. Ben presto i miracoli da lui compiuti, e la fama della sua santità affascinarono, attirarono un così gran numero di seguaci entusiasti, che egli pensò di rifugiarsi a Subiaco, dove erano solo alcuni pochi anacoreti. Ivi fu vestito dell'abito monacale, da un tale che si chiamava Romano; e si ritirò in una grotta, dove questi, a giorni fissi, gli portava dal suo convento il cibo necessario a vivere, facendolo con una fune, dall'alto d'una rocca discendere nella grotta. Ma Romano scomparve a un tratto, senza che più se ne sapesse nulla; ed allora il cibo fu portato prima da un santo uomo, che viveva assai lontano; poi da alcuni pastori miracolosamente ispirati dal Signore. Essendo ancora nel vigor degli anni, il Santo venne assalito dagli stimoli della carne, e per attutirli si gettò nudo sulle spine e sui pruni della foresta, che, lacerando le sue carni, furono fecondati dal sangue che ne scorse, e ne sbocciarono rose, le quali dopo sette secoli S. Francesco vide tuttavia fiorire, ed il viandante le vede fiorire anche oggi.

Essendo intanto grandemente cresciuta la fama di S. Benedetto, i monaci di Vicovaro, che avevano perduto [211] il loro abate, pregarono lui d'assumerne l'ufficio. E quando egli d'assai mala voglia si lasciò indurre ad accettare, furono subito scontenti della severa disciplina da lui imposta, e pensarono d'avvelenarlo. Liberato che fu miracolosamente da questo nuovo pericolo, si ritirò sdegnato nella solitudine. Ma anche colà la gente, attirata dalla fama della sua bontà, accorse numerosissima, e così tra il 500 ed il 520 si formarono intorno a Subiaco 12 monasteri, con capi da lui eletti. Egli se ne stava ritirato nel sacro speco, con pochi de' suoi, presso Subiaco, al di sopra della sua antica grotta. Nonostante però questa sua riserva, questo gran seguito, la gelosia di quelli che facevan parte del clero regolare non lo lasciava in pace. Ed uno di essi fece andar donne di mala vita a tentarlo, cosa di cui S. Benedetto fu così disgustato, che se ne andò via a Monte Cassino. Ivi trovò la statua d'Apollo con un altare, e li fece subito demolire, fondando sullo stesso luogo il suo principale convento, nel quale risiedette quattordici anni (529-543). Colà venne a visitarlo Totila re dei Goti (542), prostrandosi ai suoi piedi; ed il Santo gli rimproverò i mali recati all'Italia, annunziandogli vicina la morte. Un anno dopo questa visita morì anche lo stesso S. Benedetto. Poco prima era morta la sorella Scolastica, che lo aveva seguito a Subiaco ed a Monte Cassino, menando anch'essa vita religiosa, non molto lungi da lui, che andava a visitarla una volta l'anno, e che volle essere sepolto vicino a lei, là dove era stato l'altare di Apollo.

Una prova che l'opera di S. Benedetto era la creazione d'un uomo di genio, e rispondeva ad un vero bisogno dei tempi, noi l'abbiamo nella grande e rapida diffusione che essa ebbe, nel fatto assai notevole che, quasi nello stesso tempo e indipendentemente da lui, Cassiodoro, il quale aveva passato tutta la sua lunga [212] vita negli affari politici, iniziò anch'egli qualche cosa di simile nel suo paese nativo. A tempo di Vitige, quando già da un pezzo Imperiali e Goti erano violentemente venuti a conflitto fra loro, egli s'era dovuto accorgere che il concetto di Teodorico, al quale anch'egli così lungamente aveva dedicato tutte le forze, di fondere cioè in uno Italiani e Goti, era un sogno contradetto dalla realtà. Essendo adunque pervenuto all'età di 60 anni, quando aveva già raccolto le sue lettere e scritto il suo Trattato sull'anima, si ritirò nel paese nativo, dove fondò vicino a Squillace due conventi. Uno di essi era un semplice eremitaggio sul colle, per chi voleva assoluta solitudine; l'altro, il vero e proprio Convento, venne istituito poco più lungi, a Vivarium, presso il fiume Pellena (539). E come S. Benedetto, nel fondare i suoi monasteri, aveva voluto unire il lavoro manuale alla contemplazione, così Cassiodoro unì a questa il lavoro intellettuale, dandone egli stesso l'esempio. Infatti colà scrisse molte delle sue opere, fra le quali il comento ai Salmi, e quello alle Epistole degli Apostoli; la Historia tripartita, la quale è un compendio di tre storie della Chiesa, che per sua commissione Epifanio tradusse dal greco. Scrisse ancora alcune regole del ben vivere, ed il suo libro De ortographia, in cui sono precetti sull'arte del comporre. Cassiodoro era di certo più un letterato ed un retore, che un santo; non aveva le qualità d'un vero fondatore di Ordini religiosi. Pure il suo concetto d'introdurre nei monasteri il lavoro intellettuale, rispondeva, come quello del lavoro manuale imposto da S. Benedetto, talmente ad un bisogno dei tempi, che venne anch'esso accolto dai Benedettini. E così questi trascrissero molte delle più preziose opere antiche, le quali per opera loro vennero salvate dalla distruzione, cui sarebbero altrimenti andate incontro. Monte Cassino divenne come un faro di [213] civiltà, la cui luce, riflettendosi in tutti quanti i conventi benedettini, potè in mezzo alla oscura notte del Medio Evo rischiarare la via ad un migliore avvenire.

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