CAPITOLO V

Nuovi e gravissimi tumulti in Roma — Elezione di Stefano III — Matrimonio di Carlo re dei Franchi con Desiderata — I nemici del Papa sono oppressi — Stefano III muore

La morte di Paolo I fu come il segnale dato ad un nuovo e più violento scatenarsi dei partiti. Si vide allora chiaramente che cosa volesse dire l'aver distrutto affatto l'autorità dell'Imperatore in Roma, nell'Esarcato e nella Pentapoli, senza nulla sostituirvi, lasciandovi padrone il Papa, che era disarmato. Il Ducato romano, che [376] abbracciava presso a poco quella che oggi si chiama la provincia di Roma, è ricordato la prima volta nel Libro Pontificale l'anno 712 (I, 392), e l'Exercitus romanus è già ricordato nel 638 e nel 643 (I, 328, 331 e 395, n. 28). Questo era diviso in scholae, comandate, come già dicemmo, dall'aristocrazia laica, potentissima nella Città e nella Campagna. Alla loro testa era il Duca mandato prima da Costantinopoli, dopo il 727 (I, 404) eletto dall'aristocrazia, scomparso a tempo di Pipino, perchè a capo della Città e del Ducato si pose allora il Papa. Questi si trovava ora combattuto fra l'aristocrazia laica, che comandava l'esercito ed in parte anche le Città, e l'aristocrazia ecclesiastica, che, amministrando la Chiesa ed i suoi vasti possessi, non era certo in Città meno potente della sua rivale. Un conflitto tra l'una e l'altra appariva adesso inevitabile.

Infatti Paolo I riposava ancora sul suo letto di morte, quando Toto, duca di Nepi, raccolse nella Campagna più gente che potè, ed insieme coi fratelli Costantino, Passivo e Pasquale, corse a Roma dove fece colla forza nominar papa il fratello maggiore Costantino. Questi era però laico, e quindi il vescovo di Palestrina fu costretto, nonostante ogni sua resistenza, a consacrarlo successivamente chierico, suddiacono e diacono, dopo di che lo proclamarono papa lo stesso giorno 28 giugno 767. Egli restò sulla sedia episcopale solo tredici mesi, che furono pieni di sanguinosi tumulti, perchè contro la sua strana elezione insorse violentemente l'aristocrazia ecclesiastica, la quale era stata da lui privata d'una parte de' suoi ricchi uffici. Essa avrebbe naturalmente dovuto inclinare al partito dei Franchi; ma, non potendo ora sperare nessun aiuto da Pipino, tutto occupato nelle sue guerre, si vide costretta a rivolgersi ai Longobardi, ed ebbe subito il favore di Desiderio. Cristoforo, che era Primicerio nella cancelleria [377] papale, e suo figlio Sergio, che era Secundicèrio, poterono, coll'assenso del Re longobardo, raccoglier gente nel Ducato di Spoleto, ed il 29 luglio 768 si trovarono a Porta S. Pancrazio, dove vennero alle mani cogli avversari, cioè coi capi dell'aristocrazia laica. Questi furono vinti, perchè tra loro c'erano dei traditori, i quali, appena che la lotta si volse in favore del proprio partito, ferirono alle spalle i compagni, che così furono vinti. Passivo, il fratello del Papa, con alcuni de' suoi più fidi, corse in Laterano per salvargli almeno la vita; ma vennero invece tutti presi e tenuti prigionieri. Allora un tal Valdiperto, prete longobardo, che aveva cooperato coi vincitori, raccolse tumultuariamente i suoi amici, e fece eleggere papa un prete Filippo, che fu subito consacrato in Laterano, sedette sulla cattedra di S. Pietro, e benedisse il popolo. Ma questa elezione, fatta esclusivamente a favore del partito longobardo, non poteva piacere a nessuno dell'aristocrazia romana, la quale era insorta solo a vantaggio della propria preponderanza. Essa perciò costrinse subito Filippo a dimettersi, e raccolti gli amici, l'esercito, il popolo, il clero, fece una nuova elezione, che riuscì a favore di Stefano III (1º agosto 768), stato già amico fedele di Paolo I.

La nuova elezione, che venne finalmente riconosciuta valida, non potè calmare gli animi, perchè i vincitori, prima che il nuovo Papa fosse consacrato (7 agosto), vollero far vendetta della elezione di Costantino. Ad alcuni dei suoi fautori vennero, secondo il crudele costume bizantino, cavati gli occhi, e strappata la lingua. La turba inferocita corse poi alla casa in cui era stato rinchiuso il già decaduto Papa, e copertolo d'insulti, lo menarono, a cavallo sopra una sella da donna, in un monastero. Di là il 6 agosto fu condotto alla basilica laterana, dove i vescovi ivi radunati lo deposero solennemente, facendogli strappare [378] il pallio e levare i calzari pontifici. Poco dopo, tiratolo fuori del convento, i suoi nemici gli cavarono gli occhi lasciandolo quasi esanime nella strada. La stessa sorte toccò ad altri. Non fu risparmiato neanche il prete Valdiperto, perchè avendo egli di suo arbitrio fatto eleggere Filippo, che era stato deposto, si temeva che, messosi d'accordo coi suoi compagni longobardi, volesse ora vendicarsi. Per questa ragione quelli stessi che poco prima erano stati suoi partigiani, lo cercarono adesso a morte; nè gli valse l'essersi rifugiato in S. Maria dei Martiri (Panteon), dove teneva strette in mano le sacre immagini, sperando così di salvarsi. Lo trascinarono con violenza nel campo del Laterano, dove anche a lui cavarono gli occhi, in conseguenza di che morì poco dopo di cancrena alle occhiaie. Stefano III non fece nulla per opporsi a queste iniquità; nè basta a scusarlo il dire che, quando avesse voluto, difficilmente sarebbe riuscito ad impedirle.

Nell'aprile 769 venne radunato in Roma un Sinodo, per prendere le misure necessarie ad evitare che nelle future elezioni si rinnovassero gli scandali, e vi intervennero anche dodici vescovi franchi. Ma neppure questo Sinodo procedette pacificamente. Il misero ex-papa Costantino già accecato, jam extra oculos, fu chiamato a dichiarar come mai avesse osato farsi eleggere, essendo laico. Rispose che aveva dovuto cedere alla forza del popolo tumultuante, e chiese perdono de' suoi peccati. Ma nel giorno seguente, avendo osato aggiungere a sua scusa, che prima di lui v'erano pure stati a Ravenna e Napoli vescovi eletti, sebbene laici, vi fu nel Sinodo uno scoppio irrefrenabile d'indignazione. Gli troncarono la parola in bocca, ordinando poi che fosse dagli assistenti preso a ceffoni e cacciato via. Furono bruciati il decreto della sua elezione e gli atti del suo pontificato. Stefano III, i vescovi, il clero, i cittadini presenti nella basilica pregarono [379] in ginocchio, facendo penitenza per aver tollerato un Papa così irregolarmente eletto, e accettato da lui la comunione. Fu inoltre, sotto pena d'anatema, proibito di far mai più salire al pontificato un laico. Venne anche deliberato, che non potesse in nessun caso essere eletto chi non era diacono o prete cardinale, e che non fosse lecito a nessuno portare armi nel luogo della elezione, la quale d'allora in poi doveva esser fatta solo dai cardinali, dai primati della Chiesa, e dai chierici di Roma, restandone escluso il popolo, che insieme coll'esercito avrebbe solo acclamato il nuovo eletto.

A far sempre più peggiorare le tristi condizioni della Città, contribuiva adesso non poco lo stato delle cose all'estero. Dopo la morte di Pipino infatti il regno franco era rimasto diviso fra i suoi due figli Carlomanno e Carlo, i quali subito furono in grave discordia fra di loro. Questa discordia toglieva al Papa ogni speranza d'aiuto da parte dei Franchi, e cresceva l'audacia dei nobili romani, specialmente di Cristoforo e di Sergio. Essi avevano fatto prima deporre Costantino, poi Filippo; avevano fatto eleggere Stefano III, e si credevano perciò in diritto di dominarlo, di farla in tutto da padroni. Nella lotta tra Carlomanno e Carlo parteggiavano pel primo, che li favoriva a dispetto del Papa, il quale mal tollerava la loro prepotenza. Questa discordia dei due principi franchi divideva gli animi anche in Italia, perchè bastava dichiararsi avverso ad uno di essi, per avere subito il favore dell'altro. E così venivano non poco alimentati i partiti in tutta la Penisola, ma sopra tutto in Roma ed in Ravenna. In quest'ultima città lottavano fra di loro i diversi aspiranti alla sedia arcivescovile, i quali andavan d'accordo solamente nel volerla rendere sempre più indipendente dal Papa, e ciò anche ora che l'Esarcato era stato a lui concesso da Pipino.

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Bertarida, la madre dei due re franchi, faceva invano ogni opera per pacificarli fra di loro. A questo fine essa era venuta in Italia, e cercava imparentarli coi Longobardi. Riuscì infatti a concludere il matrimonio fra Carlo e Desiderata, figlia di Desiderio. Si parlava anche d'un matrimonio da concludersi fra Carlomanno ed un'altra longobarda. A tali notizie il Papa, che in questi accordi vedeva un grandissimo pericolo per gl'interessi della Chiesa, una minacciosa rovina di tutti i disegni così lungamente meditati, fu preso da una collera irrefrenabile. Il linguaggio da lui adoperato nella lettera che allora scrisse ai due fratelli era infatti tale che, sebbene essa si trovi nel codice carolino, venne da alcuni ritenuta apocrifa. Chiamava diabolica ogni unione «fra la nobilissima gente dei Franchi e la iniquissima dei Longobardi.» Sembrava credere che i due fratelli avessero già moglie, e quindi che i nuovi matrimoni proposti non potessero esser altro che concubinaggi. E concludeva: «abbiamo posto questa nostra lettera di ammonimento sulla tomba di S. Pietro, celebrandovi sopra la messa, e da questo luogo la mandiamo a voi colle lacrime agli occhi.» Carlo però non aveva moglie legittima, non v'era quindi ostacolo al suo matrimonio con Desiderata, che fu celebrato; ed il Papa si dovè rassegnare al fatto compiuto. A che invero avrebbe potuto giovare l'irritare Carlo e Desiderio? Si aggiungeva che Cristoforo e Sergio erano divenuti sempre più insopportabili, s'erano avvicinati a Carlomanno, e questi aveva mandato presso di loro a Roma il suo ambasciatore Dodone con alcuni militi, il che li aveva resi più audaci che mai. Inoltre dopo la deposizione di Filippo e la uccisione di Valdiperto, essi erano necessariamente divenuti nemici dei Longobardi, e per questa ragione Bertrada potè riuscire a riannodar buone relazioni fra il [381] Papa e re Desiderio, che tornò subito a largheggiar di promesse.

Sotto pretesto d'un religioso pellegrinaggio, il re longobardo con buon seguito d'armati s'avvicinava ora a Roma, per incontrarsi col Papa in S. Pietro, ed aiutarlo contro Cristoforo e Sergio, che erano sempre più minacciosi, e non si lasciarono prendere alla sprovvista (771). Dalla Città e dalla Campagna avevano chiamato i loro amici, radunandoli insieme coi pochi soldati franchi venuti coll'ambasciatore Dodone; e quando il Papa e Desiderio s'incontrarono in S. Pietro, tutto era pronto per la rivolta. Ma neppure il Papa se n'era stato ozioso, avendo dato la direzione della difesa ad uno degli alti ufficiali della Curia, il cubiculario Paolo, soprannominato Afiarta, uomo audacissimo. Questi, senza por tempo in mezzo, quando Stefano III tornava da S. Pietro al Laterano, chiamò il popolo alle armi, e levò il tumulto. Cristoforo e Sergio corsero colle loro genti al Laterano, chiedendo ad alte grida che si desse loro nelle mani l'Afiarta. Ma sfortunatamente per essi quelli che li seguivano, entrati nel Palazzo, non seppero trattenersi dal saccheggiarlo, e penetrarono armati perfino nella Basilica, dove il Papa s'era rifugiato. Che cosa precisamente seguisse allora noi non lo sappiamo. Stefano III scrisse d'aver corso pericolo della vita; ma il giorno dopo andava accompagnato da molti armati e dallo stesso Afiarta, ad abboccarsi nuovamente con Desiderio in S. Pietro. Sembra certo che Cristoforo e Sergio non si spinsero fino a far violenze al Papa, sia che essi non osassero porre le mani sul Capo visibile della Chiesa, nel tempio del Signore, sia che i loro seguaci allora li abbandonassero, o, come è più probabile, che l'Afiarta arrivasse in tempo per resistere. Certo è che il giorno dopo, quando Stefano III era tornato in S. Pietro, caddero ambedue nelle [382] mani dei difensori del Papa, il quale ordinò che restassero nella Basilica fino a notte avanzata, per farli poi, così almeno disse, coll'aiuto delle tenebre, condurre dall'Afiarta più sicuramente salvi in città. Ma invece, quando erano per entrar dentro le mura, sopraggiunsero improvvisamente alcuni manigoldi ivi appiattati, che li malmenarono e cavaron loro gli occhi. Cristoforo fu trascinato nel monastero di S. Agata, dove dopo tre giorni morì; Sergio invece fu tenuto prigioniero nel Laterano, donde poi scomparve. E Desiderio, che era stato il segreto istigatore di queste sanguinose violenze, alle quali non si può credere che rimanesse affatto estraneo il Papa, se ne tornò a Pavia.

In tal modo i due antichi capi dell'aristocrazia ecclesiastica, che si erano uniti ai Longobardi per poi tradirli, furono abbattuti. Ma papa Stefano, sempre debole e mutabile, s'era liberato da una tirannia, per cadere sotto un'altra. In Roma spadroneggiava ora l'Afiarta col favore del partito longobardo, di che erano scontentissimi i Franchi. Carlomanno infatti aveva favorito Cristoforo e Sergio; e neppure a suo fratello Carlo poteva piacere di vedere in Roma trionfare i Longobardi. Con ambedue i fratelli e con la loro madre Bertarida il Papa si scusava dicendo che tutto era stata colpa dell'ambasciatore Dodone, il quale s'era unito «coi diabolici promotori d'un tumulto, che aveva messo a grave pericolo la sua propria vita in Laterano. Quanto alle violenze usate a Cristoforo ed a Sergio, nel loro rientrare in Città, esse eran seguite contro ogni suo volere, per opera di volgari malfattori, che non si fu in tempo a fermare, perchè erano sbucati inaspettatamente dai loro nascondigli.» La lettera del Papa concludeva facendo le lodi di Desiderio, a cui egli diceva di dovere la propria salvezza, e che già cominciava a mantenere la promessa [383] di restituire le terre usurpate. Ma tutto ciò non era poi vero, come ben presto si vide.

Lo stato generale delle cose mutava ora non poco in Italia e fuori. Carlo, che era stato sempre avverso ai Longobardi, ripudiava la moglie Desiderata, rimandandola al padre, e ciò, come è naturale, apriva fra di loro un abisso. Il 4 dicembre 771 Carlomanno moriva, lasciando un figlio, che aveva solo un anno; ed i Grandi elessero Carlo a successore del fratello, volendo colla unione del regno aumentarne la forza. Il Papa, mutando ancora una volta la sua politica, si allontanava da Desiderio, che non manteneva le promesse fatte, e s'avvicinava a Carlo. Egli era molto irritato contro il re longobardo, perchè quando aveva a lui ricordato gli obblighi assunti, questi gli aveva risposto, che doveva invece essere contento, e ringraziarlo di quanto aveva già fatto per lui, che per opera sua era stato liberato dalla prepotenza di Cristoforo e di Sergio. Tutte queste agitazioni, tutti questi continui e pericolosi mutamenti turbarono assai l'animo debole ed incerto del Papa, già malato del male che doveva condurlo alla tomba. L'Afiarta poi non gli lasciava pace, perchè voleva apparecchiare a proprio vantaggio la nuova elezione; e quindi di suo arbitrio mandava in esilio, faceva mettere in carcere tutti i nobili più avversi a lui ed ai suoi. Finalmente ai primi di febbraio 772 Stefano III moriva, il che dette origine ad un altro grande mutamento in Roma e nell'Italia.

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