CAPITOLO IX

Elezione di Leone III — Ambasceria franca a Roma — Irene imperatrice — Gravi tumulti in Roma — Il Papa a Padeborn — Suo ritorno a Roma — Carlo viene a Roma, dove è coronato imperatore dal Papa, il giorno di Natale 800

Il giorno dopo la morte di Adriano I veniva eletto Leone III, consacrato il 27 dicembre 795. Il suo predecessore, che nel 772 datava ancora le Bolle pontificie secondo gli anni in cui l'Imperatore aveva governato, cominciò, dopo che Carlo fu padrone d'Italia, a datarle secondo gli anni del proprio pontificato, riconoscendo però sempre la superiore autorità dell'Imperatore. Leone III invece le datò subito secondo gli anni del regno di Carlo «re dei Franchi e dei Longobardi, Patrizio [409] dei Romani, dopo la sua conquista d'Italia.» Così fu rotto il legame della Chiesa con Costantinopoli, da cui il nuovo Papa veniva di fatto a dichiararsi indipendente. Il suo primo atto fu di annunziare a Carlo la morte del predecessore e la propria elezione, inviandogli le chiavi d'oro di S. Pietro e la bandiera della città di Roma, come a Patrizio, di cui egli senza esitare riconosceva la superiore autorità. Lo invitava nel medesimo tempo a mandar suoi messi in Roma, per ricevere il giuramento di fedeltà dal popolo.

Il concetto che Leone III s'era formato del nuovo stato di cose lo fece chiaramente vedere anche nel celebre mosaico da lui ordinato, per metterlo nel triclinio del Laterano. Esso è ora scomparso, ma una riproduzione, fatta nel 1743 da una copia in disegno, se ne vede oggi nella Piazza di Porta S. Giovanni in Laterano, vicino alla basilica, sul muro esterno dell'edifizio della Scala Santa. Di là le figure di quel mosaico sembrano contemplare, attraverso la Campagna, gli uliveti di Tivoli, e più lungi ancora gli Appennini umbri e sabini, il cui diafano colore di tanto in tanto, durante l'inverno, sparisce sotto la cortina di neve che li ricopre. Esso è diviso in tre compartimenti. In quello di mezzo, che è il più ampio, si vede la figura maestosa di Cristo circondato dagli Apostoli, che manda pel mondo a predicare il Vangelo. Una mano è distesa a benedire, l'altra tiene un libro su cui è scritto: Pax vobis. Nel compartimento a destra si vede di nuovo Cristo che siede tra papa Silvestro e l'imperatore Costantino, i quali, in assai più piccole proporzioni, sono inginocchiati ai due lati. Nel compartimento a sinistra la grande figura di S. Pietro sta con le chiavi sulle ginocchia, e ai due lati sono inginocchiati Leone III e re Carlo, anch'essi in piccole proporzioni. San Pietro dà al Papa una stola, ed al Re [410] la bandiera di Roma. Sotto si legge: Beate Petre donas vitam Leoni PP. et bictoriam Carulo Regi donas.

All'ambasceria mandata da Roma, Carlo rispondeva con un'altra, di cui parte principale era l'abate Angilberto, noto per la sua dottrina ed il suo amore alla poesia, che gli fecero dare il soprannome di Omero. Le istruzioni avute erano assai semplici. Doveva ricordare al Papa la necessità di «serbare la santità della vita, e di provvedere alla osservanza dei sacri canoni.» Ed il Re scriveva poi direttamente ad Adriano: «Angilberto viene a discorrere con Voi di tutto ciò che crederete necessario alla esaltazione di Santa Chiesa e di Dio, alla stabilità del vostro onore e del nostro Patriziato. Noi vogliamo con Voi, come già col vostro predecessore, stringere patti d'alleanza, ed avere la vostra benedizione. Spetta a noi, mercè l'aiuto di Dio, difendere di fuori con le armi la Chiesa contro i pagani e gl'infedeli, proteggerla dentro con la conservazione della cattolica fede. Spetta a voi, o Santo Padre, assistere le nostre milizie, con le mani levate al cielo, come Mosè, affinchè il popolo cristiano possa conseguire vittoria contro i nemici di Cristo.» Carlo prendeva adunque l'attitudine non solamente di protettore del Papa, ma anche di sostenitore della vera fede. L'ammonizione sulla necessità di serbare il buon costume, dimostrava che era giunta in Francia notizia delle molte e gravi accuse che in Roma si movevano al Papa dai suoi nemici e calunniatori.

Tutto intanto continuava ad andare a favore del Re, ed insieme con la fortuna cresceva l'animo suo e dei suoi seguaci. Il suo dotto consigliere Alcuino gli ricordava continuamente, che era stato chiamato da Dio ad essere non solo il più potente sovrano del mondo, ma anche il sostenitore della vera fede. Adesso non c'era più da temer nulla dall'Impero d'Oriente, divenuto tale che nessuno [411] osava parlarne senza arrossire. Di là non poteva minacciare nessun pericolo, nessuna opposizione alla soverchiante potenza di Carlo. Irene aveva cominciato a governare col figlio Costantino VI, tenendolo sottoposto sino ad umiliarlo non solo, ma anche a batterlo. Egli se ne emancipò finalmente, escludendola dal governo, e confinandola. Ma era così debole, così dissoluto, capriccioso e violento, che nel 797 una rivoluzione rimise sul trono la madre, la quale potè non solamente deporlo, ma anche adoperare contro di lui ogni violenza, facendogli da ultimo cavare gli occhi: non riuscì però a farlo morire come aveva sperato. Non solo adunque sul trono di Costantinopoli si trovava una donna, il che non era mai sino allora seguito, e pareva perciò enorme; ma questa donna, colla sua condotta verso il figlio, aveva dimostrato di essere un mostro.

Nè andavano gran fatto meglio le cose a Roma, dove la debolezza dell'Impero e la lontananza di Carlo avevano di nuovo fatto scatenare selvagge passioni. I judices de clero, e i judices de militia, che già da qualche tempo comandavano nella Città, si sollevarono. I primi, come già vedemmo, eran ricchi prelati, amici o parenti dei Papi. Di mezzo ad essi si sceglievano i sette ministri che reggevano la Curia, ed amministravano gl'interessi della Chiesa; ed alla loro testa si trovava il Primicerius, che nelle pubbliche cerimonie veniva subito dopo il Papa. Quest'ufficio, sotto Adriano I, la cui famiglia, già nobile e potente, divenne allora potentissima, era stato tenuto da suo zio Teodato, che ebbe anche il titolo di Consul et Dux. Gran potere avevano avuto pure i due nipoti del Papa, Teodoro e Pasquale, il secondo dei quali fu, dopo Teodato, nominato Primicerio, ed alla morte di Adriano ritenne l'ufficio, giacchè secondo l'usanza esso non mutava col mutare dei Papi. S'era quindi assuefatto [412] a farla da padrone, e veniva perciò avversato da Leone III, di cui era naturalmente nemico. Egli ed il sacellario Campulo (forse altro nipote del Papa defunto) si posero alla testa dei judices de clero, e dei judices de militia, i quali ultimi, formando l'aristocrazia laica, comandavano l'esercito; e tutti insieme volevano ora impadronirsi affatto del governo della Città.

Il 25 di aprile 797, giorno di S. Marco, destinato alla processione delle solenni litanie, Leone III, accompagnato da Pasquale e da Campulo, s'avanzava a cavallo, seguito dal clero, per la via che da S. Giovanni in Laterano conduce a S. Lorenzo in Lucina. Appena che furono giunti a S. Silvestro in Capite, sbucarono colle armi sguainate i congiurati, che assalirono il Papa, gettandolo giù da cavallo e ferendolo. Cercarono poi, secondo la barbara usanza bizantina, di accecarlo e di strappargli la lingua, lasciandolo a terra semivivo. Pasquale e Campulo, che eran d'accordo coi congiurati, s'unirono con essi, e chiusero il Papa nel vicino convento; poi, per maggiore sicurezza, lo condussero a Sant'Erasmo sul Celio. La leggenda vuole che colà egli miracolosamente riacquistasse gli occhi e la lingua, che la storia invece crede non avesse mai perduti. I congiurati non osarono procedere alla elezione d'un nuovo Papa, tanto più che essi non avevano cospirato contro il capo della Chiesa, ma contro il signore della Città. Essendo Leone III guarito ben presto delle sue ferite, fu da alcuni dei suoi famigliari, tra cui il ciambellano Albino, calato con funi dalle mura del convento, e menato in S. Pietro. Colà venne il duca di Spoleto, Guinigildo, coi suoi armati, in compagnia d'un messo di re Carlo, e lo condussero a Spoleto. Un'ambasceria fu subito mandata in Francia, per render conto al Re dell'accaduto, aggiungendo che il Papa voleva parlargli. Carlo rispose che sarebbe [413] subito venuto in persona, se non fosse stato trattenuto da una nuova spedizione contro i Sassoni. Lo aspettava perciò a Padeborn, ed avrebbe inviato ad incontrarlo l'arcivescovo Ildibaldo di Colonia, il conte Ascario ed il proprio figlio Pipino re d'Italia, che lo avrebbero, per maggior sicurezza ed onore, accompagnato fino a lui. Il viaggio del Papa, in compagnia di molti prelati, fu trionfale. Incontrò prima l'Arcivescovo, poi Pipino, che con una parte dell'esercito lo accompagnò a Padeborn, dove Carlo lo accolse solennemente, alla testa delle sue schiere, le quali ricevettero in ginocchio la benedizione papale. Il Re lo intrattenne poi con grandi feste, e gli fece anche larghi donativi.

Da Roma, dove la rivoluzione imperversava, continuavano intanto ad arrivare gravissime accuse contro il Papa, e si pregava il Re che volesse sottoporlo ad un giudizio, perchè si trattava di colpe tali da doverlo deporre, se non riusciva a dimostrarsene innocente. La cosa appariva infatti tale che Carlo, sebbene trattenuto dalle cure della guerra, par che si decidesse a consultare l'opinione del suo fido Alcuino circa l'opportunità di continuare in persona la guerra, o recarsi invece subito a Roma, per provvedere allo stato ivi sempre incerto e tumultuoso delle cose. Ed Alcuino allora scrisse al Re una lettera assai notevole, in cui gli diceva: «Fino ad ora vi sono state nel mondo tre potestà: il Vicario di San Pietro, sacrilegamente oggi ingiuriato e maltrattato; l'Imperatore, laico, dominatore della nuova Roma, il quale, in modo non meno barbaro, venne balzato dal trono, su cui fu messa una donna; e finalmente la regia dignità da Gesù Cristo a Voi affidata, per reggere il popolo cristiano. Essa ora sovrasta a tutti in sapienza e potenza; in Voi perciò è riposta la salute della Cristianità. Bisogna che prima pensiate a portare rimedio al [414] capo (cioè Roma), per pensare dopo a guarire i piedi (cioè i Sassoni e gli altri nemici), i cui mali son sempre meno pericolosi.»

Il Re, che si vedeva adesso invocato quale suprema autorità dal Papa e dai Romani, era compreso della gravità delle cose, e desiderava recarsi senz'altro indugio in Italia. Pure, non essendogli ancora possibile muoversi, lasciò ripartire Leone III, accompagnato dagli arcivescovi di Colonia e di Salisburgo, da cinque vescovi, da tre conti, i quali andarono col Papa, non solamente in segno d'onore, ma anche per iniziare il processo sui fatti seguiti in Roma, e sulle accuse che gli erano mosse. Per la sua qualità di capo della Chiesa, per la reazione già cominciata in suo favore, e per la protezione che aveva dal Re, il Papa fu accolto trionfalmente per tutto. Il 29 novembre 799 era a Pontemolle, dove gli vennero incontro il clero, le suore, il Senato, cioè i nobili, l'esercito romano, il popolo, le scholae degli stranieri, cantando salmi, e portando le bandiere in mano. Leone III andò in S. Pietro ove dette la benedizione, ed amministrò la comunione. Il giorno seguente si recò in Laterano, e colà, dopo pochi altri giorni, i commissari regi iniziarono il processo nel nuovo triclinio, dove era il gran mosaico da noi ricordato più sopra. Pasquale e Campulo si presentarono tranquilli coi loro compagni; ma non avendo potuto provare le accuse, ed essendo invece manifeste le sanguinose violenze da essi usate contro il Papa, furono arrestati e inviati in Francia, per essere sottoposti al giudizio supremo e definitivo di Carlo, il quale rimandò la decisione al suo ritorno in Italia.

Nè il Re si poteva muovere ancora, a cagione delle guerre contro i Sassoni, contro i Bretoni, e contro i Musulmani nella Spagna. S'aggiunse che il 4 giugno dell'800 moriva la terza ed ultima sua moglie legittima, Liutgarda. [415] Finalmente nell'autunno di quell'anno intraprese il suo quarto e più memorabile viaggio in Italia. Veniva alla testa d'un esercito, in compagnia di suo figlio Pipino, che da Ancona egli spedì contro il duca di Benevento, che nuovamente minacciava di ribellarsi. Il 23 novembre era a Mentana, a 14 miglia da Roma, e colà gli venne incontro Leone III col clero, l'esercito ed il popolo romano. Si trattennero insieme e desinarono; dopo il Papa ritornò a Roma. Il giorno seguente Carlo fece il suo solenne ingresso in S. Pietro, dove Leone III lo aspettava col clero.

Il 1º di dicembre il Re, circondato dai suoi vescovi, abbati e baroni, sedeva come supremo giudice in S. Pietro, dove aveva convocato una grande assemblea, alla quale assistevano le due aristocrazie ed il clero di Roma. Carlo vestiva la toga e la clamide di Patrizio dei Romani, ed accanto a lui sedeva il Papa, i cui accusatori, ricondotti di Francia a Roma, erano ivi presenti. Il Re espose allora d'esser venuto, come Patrizio e difensore della Chiesa, per restituire in essa l'ordine turbato dalle ingiurie e dalle accuse mosse al capo della Cristianità. La suprema autorità di Carlo era da tutti riconosciuta; ma ciò non ostante riusciva assai difficile arrivare ad una conclusione in questo giudizio. Provare davvero le accuse mosse contro il Papa non era possibile, ma non era facile neppure dimostrarle false. I vescovi inoltre dichiararono unanimi che ad essi non era in nessun modo lecito giudicare il capo supremo della Chiesa, che doveva invece essere il loro giudice. I particolari del processo ci sono ignoti, e non conosciamo neppure la precisa natura delle accuse. Certo è che il 23 dicembre, alla presenza del Re, dei vescovi, del clero, dei Franchi, dei nobili e del popolo romano, solennemente radunati in S. Pietro, il Papa, salito sull'ambone, posando la mano [416] sugli Evangeli, con chiara e sonora voce, dichiarava che, seguendo l'esempio dei predecessori (fra i quali si poteva infatti citare Pelagio, accusato d'aver contribuito alla morte di papa Vigilio), di sua spontanea volontà, senza che nessuno potesse giudicarlo, giurava d'essere affatto innocente di tutte quante le colpe di cui lo avevano accusato. Il clero cantò allora solenni litanie, in ringraziamento a Dio ed alla Vergine. Certo Leone III s'indusse a quest'atto, perchè era parso necessario al Re, senza il cui aiuto egli non avrebbe potuto governare. La sua autorità di fronte alla Chiesa ed al popolo fu però salva. Pasquale, Campulo ed i loro compagni vennero condannati alla pena di morte, commutata poi nell'esilio perpetuo in Francia, per intercessione, a quanto si disse, del Papa stesso. Quel giorno arrivarono a Roma due rappresentanti del Patriarca di Gerusalemme, che consegnarono a Carlo le chiavi della città e del S. Sepolcro. Il giorno di Natale egli assisteva alla messa solenne, celebrata in S. Pietro dal Papa, finita la quale andarono insieme a pregare nel sepolcro del Santo. Quando Carlo si levò in piedi, Leone III improvvisamente gli pose sul capo la corona imperiale, e si narra che subito dopo, inginocchiatosi, lo adorasse. Il popolo romano freneticamente allora acclamò: Carolo, piissimo, augusto, a Deo coronato, magno, pacifico Imperatori vita et victoria. Questa coronazione iniziava un'epoca nuova nella storia del mondo.

L'annalista Eginardo afferma che essa fu un atto improvviso ed inaspettato del Papa, compiuto ad insaputa di Carlo, il quale avrebbe anzi dichiarato che, se avesse potuto prevederlo, si sarebbe, non ostante la solennità di quel giorno, astenuto dall'andare in S. Pietro. Molto si è disputato sulla verità di una tale affermazione. Alcuni la credettero pura invenzione del cronista, altri invece [417] una finzione del Re, il quale avrebbe fatto come Tiberio, che pretendeva di ricusar l'Impero da lui pur tanto ambito. Sin dal tempo in cui il Papa era a Padeborn sarebbe, secondo essi, stato fissato tutto, per la imperiale coronazione, la quale in nessun modo avrebbe potuto essere un atto improvviso ed inaspettato. Bisognava almeno aver prima ordinato, preparato la corona, concertato la solennità della funzione, la quale infatti non riuscì punto inaspettata ai presenti, che subito intesero ed applaudirono unanimi e clamorosamente.

Nella storia non mancano esempi simili, i quali provano che, per spiegare le parole del Re, non c'è bisogno di ricorrere alla finzione ed alla malafede. Il Persigny racconta, nelle sue Memorie, come fu lui che affrettò quasi violentemente la proclamazione dell'Impero, contro la volontà di Napoleone III, il quale pur tanto e da così lungo tempo lo ambiva e lo preparava. Gli sembrava però che non fosse ancora giunto il momento opportuno, che il Persigny credeva invece arrivato, e non voleva lasciarlo passare. È probabile quindi che Carlo, il quale certo ambiva l'Impero, avesse desiderato di apparecchiarne meglio la proclamazione e determinare prima la forma della solennità; e che il Papa invece, appunto per non esser costretto ad accettare qualche formola o condizione a lui poco gradita, avesse affrettato la decisione, presentando il fatto compiuto. A lui importava sommamente, che la coronazione e la proclamazione dell'Impero apparissero come opera del capo visibile della Chiesa, quale strumento di Dio, coll'acclamazione del popolo romano, che rappresentava l'universo popolo cristiano. Leone III voleva essere l'iniziatore, il creatore del nuovo Impero, perchè tutto riuscisse a vantaggio della religione, a sempre maggiore incremento dell'autorità della Chiesa.

Su questo grande avvenimento, come è naturale, molto [418] si discusse e molte teorie si esposero. Carlo, secondo alcuni, fu proclamato imperatore dal Senato e dal popolo romano; secondo altri invece lo elesse e consacrò il Papa; secondo altri ancora l'Impero fu conseguenza della conquista. Causa prima fu però sempre riconosciuta la volontà di Dio, di cui gli uomini sono strumento passivo. Il fatto vero è che l'Impero non fu conseguenza di nessuna teoria, ma resultato inevitabile di una storica necessità. La Chiesa aveva bisogno d'essere difesa e protetta; il Papa perciò aveva chiamato i Franchi, e con le sue mani, di propria iniziativa, in nome del Signore, incoronò Carlo. Ma, dopo averlo incoronato, si era inginocchiato dinanzi a lui. Chi dunque era superiore l'Imperatore o il Papa? Questo è ciò che solo l'avvenire potrà decidere. Per ora è il Papa che ha creato l'Impero, della cui protezione ha bisogno. La Chiesa, separatasi da Costantinopoli, è dentro il nuovo Impero, alla testa del quale si trova Carlo, a cui la posterità dette il titolo di Magno. Di fatto sin d'ora egli solo veramente comanda, perchè solo ha la forza.

Ma l'Impero era di sua natura universale, e quindi non poteva essere che uno solo, quello cioè d'Oriente, la cui sede si trovava a Costantinopoli. L'Impero che in passato venne chiamato d'Occidente, non era stato che un episodio passeggiero ed effimero già da lungo tempo scomparso. Erano infatti decorsi tre secoli, dacchè gli ambasciatori d'Odoacre e di Augustolo avevano deposto le insegne imperiali nelle mani di Zenone, dicendogli che l'Occidente non aveva bisogno di un proprio imperatore, bastando a tutti quello di Costantinopoli, di cui l'Italia, sede primitiva, era sempre parte integrante. Il nuovo Impero franco, adunque, pur essendo conseguenza d'una storica necessità, non aveva nessun fondamento giuridico. E forse anche perciò Carlo aveva desiderato di [419] proceder cauto circa il tempo ed il modo della proclamazione. Tuttavia il momento che Leone III aveva scelto era stato assai opportuno. Il re franco aveva allora vinto tutti i suoi nemici, aveva fortemente costituito ed esteso il proprio regno; il Papa, riconosciuto innocente, era tornato sulla cattedra di S. Pietro più autorevole che mai. Il giorno della incoronazione era stato quello a tutti sacro della nascita di nostro Signore, della redenzione cioè del genere umano. Sul trono di Costantinopoli, come abbiam visto, si trovava una donna, e questa donna era un mostro, che non poteva far paura a nessuno. Ciò non ostante, il grande avvenimento ora compiuto era pieno di equivoci e di pericoli, dei quali si dovevano sentire le gravi conseguenze. Per ora l'autorità morale del Papa ne era cresciuta a dismisura.

Dopo una dimora di cinque mesi, nell'aprile 801, celebrata la Pasqua, e lasciato a Pipino l'incarico di continuare la guerra contro Benevento, Carlo se ne tornò a Pavia dove pubblicò alcune altre leggi, che aggiunse a quelle dei Longobardi, ed assunse il titolo di «Serenissimo Augusto, coronato per divino volere, reggente l'Impero dei Romani, e per grazia di Dio re dei Franchi e dei Longobardi.» All'Italia superiore egli lasciò una propria autonomia, senza annetterla alla Francia, considerandola piuttosto come una sua conquista personale. Invece dei Duchi pose dei Conti, che scelse fra i Longobardi, e che erano, come già dicemmo, meno potenti e più sottomessi, con territori meno estesi. L'unità e la forza del governo, la fusione dei vinti e dei vincitori fecero allora un grande progresso. I Gastaldi, non più necessari, si mutarono in semplici amministratori, e dipesero dai Conti, che rendevano giustizia, non più di propria autorità come i Duchi, ma per delegazione del sovrano. L'eribanno, o la convocazione dell'esercito, appartenne al solo Imperatore [420] che andò ognor più limitando il potere dei Duchi, per mezzo dei Missi dominici, i quali presso i Franchi divennero una istituzione regia di primaria importanza, e per mezzo di essi l'Imperatore vegliava su tutta l'amministrazione. Nei giudizi egli giudicava come vero sovrano, anche secondo equità, quando mancava una speciale disposizione di legge. Questa facoltà che in parte era concessa ai duchi longobardi, non l'avevano i conti franchi.

Carlo si occupò anche dell'ordinamento giudiziario, che presso i barbari serbò lungamente le tracce della sua origine. Dapprima ognuno si faceva giustizia da sè; poi la giustizia venne amministrata dal popolo; più tardi ancora dal sovrano, che rappresentava lo Stato. Nel Medio Evo prevalse un sistema misto. Il popolo partecipava all'amministrazione della giustizia insieme col Re, che giudicava solennemente, circondato dai Grandi della Corte, e dai suoi giudici palatini, dinanzi alle assemblee popolari, chiamate placita, che per delegazione potevano essere presiedute dai Conti. Accanto al sovrano o al suo delegato v'erano magistrati che dirigevano queste assemblee, e conoscevano bene le consuetudini. A poco a poco il popolo cominciò a non intervenire regolarmente ai placita; e le leggi scritte che vennero aggiunte alle consuetudini, o furono sostituite ad esse, erano meno facilmente conosciute. Divenne allora necessario nominare magistrati temporanei periti nelle leggi e capaci di formulare le sentenze. Questi magistrati furono da Carlo resi permanenti, e vennero chiamati Scabini. Erano eletti nei placita in presenza del Conte; e i Missi dominici ne approvavano la nomina quando li trovavano idonei.

La forma generale della società e del governo franco differiva molto dalla longobarda, specialmente nel suo maggiore accentramento, nella maggiore autorità politica, militare e giudiziaria del sovrano. Pei Franchi non [421] c'era differenza tra il patrimonio dello Stato e quello del Re. Curtis regia, Palatium publicum, Res publica erano una sola e medesima cosa: il sovrano poteva concederli in beneficio o anche donarli. Le terre demaniali, e quelle confiscate che per mancanza d'eredi venivano al demanio, facevano parte anch'esse del patrimonio regio. Il Re dava l'amministrazione di tutto ciò a suoi ufficiali, che non erano indipendenti come i Gastaldi longobardi; ovunque e sempre la sua forte individualità aumentava la sua morale e materiale potenza.

La continua e febbrile attività di Carlo si manifestava in mille modi diversi. Forte, alto, bello della persona, facondo e valoroso, con occhi vivacissimi, sempre instancabile, egli era non solo un capitano ed un uomo di Stato di primissimo ordine, ma anche un gran promotore di opere pubbliche, come furono generalmente tutti i grandi sovrani. Nel 793 lo vediamo occupato ad esaminare la proposta d'un canale, che avrebbe dovuto congiungere il Reno ed il Danubio, impresa gigantesca, superiore alla capacità di quei tempi e che solo ai nostri giorni potè essere eseguita. Molti canali, strade, ponti, tra cui uno grandissimo sul Reno a Magonza, furono da lui costruiti. E così pure molte chiese, fra le quali è celebre, pel suo tesoro, le sacre reliquie e le memorie, quella che anche oggi è continuamente visitata dal forestiero in Aquisgrana, e venne costruita a similitudine della chiesa di S. Vitale in Ravenna. Ma la più parte di questi edifizi è ora scomparsa, nè a Carlo, non ostante i suoi lodevoli sforzi, riuscì di fermare la decadenza dell'architettura. Quello che dà un'altra prova della sua varia attività e del suo alto intelletto, si è l'osservare come, sebbene egli fosse così poco culto, che imparò assai tardi a leggere, nè mai riuscì a scrivere con facilità, e sebbene fosse di uno spirito e di un carattere essenzialmente germanico, fu [422] anche uno dei più grandi promotori della cultura greco-romana. Quando appena la guerra gli lasciava un momento di riposo, noi lo vediamo nello stesso tempo legislatore, giudice supremo, iniziatore di opere pubbliche, e gran Mecenate, circondato di dotti, con piena intelligenza di quella cultura, che non possedeva, ma di cui comprendeva tutta l'importanza.

Presso di lui troviamo fra gli altri Paolo Diacono, lo storico dei Longobardi; uomo di varia cultura, che conosceva il greco, e scrisse parecchie opere in prosa ed in verso. Caro a Rachi ed a Desiderio, fu prima nella Corte di Pavia, poi in quella di Benevento; assistè alla rovina del regno longobardo, e si ritirò frate benedettino a Monte Cassino. La sua famiglia dovette essersi mescolata nelle congiure contro Carlo, giacchè un suo fratello, come già vedemmo, fu tenuto dal Re in dura prigionia. Questo indusse Paolo, che sapeva in quanta stima l'Imperatore tenesse i dotti, a scrivergli e perorare la causa del fratello. Dopo di che andò egli stesso alla Corte, dove fu assai bene accolto, vi restò negli anni 783-86, e par che la sua preghiera fosse esaudita. Ma l'amore della patria lontana lo richiamava, e se ne tornò a Monte Cassino, dove scrisse la sua Storia dei Longobardi. Per mezzo di altri dotti, che vennero in Francia o che vi erano nati, Carlo potè fondare nel proprio regno molte scuole, la principale delle quali soleva risiedere nel suo Palazzo in Aquisgrana, e spesso lo seguiva con la Corte nelle sue peregrinazioni. Essa fu diretta da Alcuino, nato in Inghilterra, dove venne educato nella scuola di York, in cui fioriva quella cultura, che dall'Irlanda era passata nell'Inghilterra. In essa il dotto Inglese acquistò la conoscenza della filosofia e dei classici latini, pei quali ebbe grande ammirazione. Carlo lo conobbe in Italia, e lo invitò subito in Francia, dove Alcuino [423] andò con alcuni suoi compagni, e fu ivi l'iniziatore della grande scuola, che diresse, e che era una specie di Accademia, alla quale il Re soleva assistere coi suoi figli. Vi s'insegnavano il Trivio, il Quatrivio, la Teologia; e i suoi principali componenti, assumevano nomi greci, romani o biblici. Re Carlo era chiamato David, Alcuino ebbe il nome di Flacco, il suo compagno Angilberto quello d'Omero, e così gli altri. Dal 782 al 796, Alcuino rimase alla testa della scuola, la quale promosse grandemente la cultura non solo in Francia, ma anche in Europa. Ed il Re, fra le altre non poche elargizioni, concesse a questo suo dotto e fido consigliere la ricchissima abbazia di S. Martino, nella quale esso finalmente si ritirò e potè scrivere molte delle sue opere. Parecchi altri furono i dotti che vissero nella Corte di Carlo. Eginardo, nobile dell'Austrasia (770-844), ebbe anch'egli dono di ricche abbazie dal sovrano, di cui scrisse la vita; e fu autore di Annali preziosi per la storia del tempo. Angilberto, nobile della Neustria, dopo avere avuto vari figli, si fece ecclesiastico e divenne autore di poesie e di opere storiche. Altri non pochi nobili furono da Carlo incitati a coltivar le lettere, e fondarono scuole nelle loro città episcopali. Questo glorioso sovrano promosse la cultura non solo nelle lettere, ma in tutte quante le possibili manifestazioni; anche la musica ed il canto furono da lui protette. Si occupò della revisione dei manoscritti della Bibbia, e della sua diffusione, come della diffusione delle opere dei SS. Padri. Persino la scrittura sotto di lui migliorò, e prese una forma nuova, che si chiamò carolingia.

La costituzione dell'Impero franco fu il fatto capitale, centrale di tutto quanto il Medio Evo. Esso strinse temporaneamente in una forte unità paesi e popolazioni assai diversi, promosse la fusione dei vinti e dei vincitori, dei Teutonici e dei Romani, dello spirito germanico [424] e della cultura greco-romana; favorì, temporaneamente almeno, l'accordo dello Stato colla Chiesa, la quale fu da Carlo colmata di favori. Egli cercò costantemente di proteggerla e di migliorarne la costituzione, presumendo assai spesso di vegliare anche alla purità della fede. Fuori d'Italia egli nominò i vescovi, e cercò da per tutto tenerli d'accordo fra di loro, col Papa e coi Conti, valendosi a ciò dei Missi dominici, i quali, appunto perchè dovevano provvedere alla giustizia ed alla religione, solevano esser due, uno laico, l'altro ecclesiastico.

Ma tutto questo grande organismo dell'Impero, se era un fatto storico e necessario, era anche l'opera personale di un uomo di genio: doveva perciò, in parte almeno, cadere insieme con lui. Dopo la morte di Carlo infatti, i suoi successori, come tante volte era seguito tra i Franchi, furon subito tra di loro in guerra. E questa guerra, per la vastità dell'Impero, e per gli elementi così diversi di cui esso era composto, divenne anche più aspra. Una società nuova s'era andata formando, nella quale il diverso spirito nazionale dei vari popoli cominciò a reagire, a manifestarsi irresistibilmente, decomponendo la temporanea unità formata dal genio militare e politico di Carlo. In Italia l'Impero non andò oltre il Garigliano, ivi essendosi fermata la conquista vera e propria. Il ducato di Benevento riuscì a salvare la sua indipendenza, e quindi colà sopravvisse per qualche tempo ancora la società longobarda. È da questo momento infatti che l'Italia meridionale comincia ad avere una storia separata e diversa assai da quella di tutto il resto della Penisola. Oltre di ciò la Chiesa e lo Stato, il Papa e l'Imperatore ben presto si trovarono fra di loro in lotte aspre e violenti, che contribuirono non poco a indebolire sempre più la nuova società, formata dall'Impero franco, la quale s'andò, con la costituzione del feudalismo, [425] sgretolando in mille gruppi secondari. In mezzo al feudalismo ed in opposizione con esso si formeranno e sorgeranno rigogliosi i nostri Comuni, i quali saranno il primo resultato della fusione di due popoli e di due società, iniziata dall'Impero, e daranno origine alla civiltà moderna. Ma prima che i Comuni riescano a costituirsi, bisogna che l'Europa e l'Italia percorrano ancora un nuovo periodo di profondo dolore, di grande disordine e quasi di anarchia.

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