CAPITOLO VIII

Irene governa in Costantinopoli — Carlo sconfigge di nuovo i Sassoni — Torna in Italia e sottomette il Friuli e Benevento — Combatte gli Avari — Dispute religiose — Morte di Adriano I e suo carattere

Adesso tutto sembrava andare a seconda di re Carlo. In Costantinopoli a Costantino Copronimo era successo Leone IV iconoclasta, ed a questo succedeva nel 786 la vedova Irene, la quale venne incoronata insieme col figlio Costantino VI di soli dieci anni. Ella, che era favorevole al culto delle immagini, ed aveva, come donna, bisogno di consolidare la sua posizione sul trono, fece subito adesione alla Chiesa di Roma, e mandò a Carlo ambasciatori, chiedendo sposa per suo figlio la primogenita del Re, Rotruda, la quale aveva soli otto anni. Così pareva si potesse sperare non solo che a Costantinopoli s'andasse d'accordo coi Franchi, ma che non si dovesse porre alcun ostacolo al libero possedimento concesso alla Chiesa dell'Esarcato, della Pentapoli e delle terre sulle quali essa poteva dimostrare di avere legale diritto. Se non che appunto quando sembrava che si fosse per venire ad accordi, Carlo dovette improvvisamente partire, per ripigliare l'eterna guerra contro i Sassoni, di nuovo violentemente insorti. Egli li vinse e punì severamente, avendone, si dice, in un sol giorno condannati a morte 4500. Ma questo, invece di domarli, li fece insorgere con maggior violenza. Nell'anno 783, in cui perdette prima la moglie e poi la madre, dovè combatterli da capo, e dette finalmente ad essi un'altra decisiva [403] disfatta. Dal campo di battaglia, che lasciò coperto di cadaveri, se ne tornò ricco di preda in Francia, ove diede sepoltura alla madre ed alla moglie, sposandone ben presto un'altra, Fastrada. Nella state del 785 egli dette ai Sassoni una nuova e grande disfatta. Il loro celebre capo Viduchindo, che li aveva sempre guidati, si sottomise e si convertì al cattolicismo, il che fu come il principio della sottomissione e conversione di tutto il popolo. Ma per arrivare a un tal resultato Carlo dovette successivamente spedire contro i Sassoni undici eserciti, nove dei quali furono comandati da lui in persona.

Sebbene in questo mezzo le cose d'Italia fossero andate sempre migliorando, e sempre a vantaggio dei Papi, favoriti da coloro che governavano la Penisola in nome di Pipino, ma sotto l'autorità effettiva di Carlo, pure Adriano I non era soddisfatto. Egli si rallegrava dei trionfi del Re e della conversione dei Sassoni, ma chiedeva con crescente insistenza le giustizie di S. Pietro, senza determinar mai con precisione quali e quante veramente fossero: pareva che le andasse di continuo allargando. Ora insisteva più specialmente sul territorio della Sabina, che era stato, egli diceva, sempre promesso, non però mai reso. E di simili lamenti son piene le sue lettere dal 781 al 783. — Il Re, così concludeva il Papa, aveva fatto fare le sue indagini, per accertarsi dello stato vero delle cose; s'erano per tutto interrogati gli anziani, e dopo essersi venuto in chiaro d'ogni cosa, non s'era poi nulla concluso. — Le stesse domande il Papa faceva alla imperatrice Irene, per quelle terre che erano state tolte alla Chiesa dai Bizantini nella Calabria, in Sicilia e altrove. E procedendo d'una cosa in un'altra, finiva col proporre anche un pieno accordo della Chiesa d'Oriente con quella d'Occidente, «affinchè non continuasse ad esservi [404] ancora un'infausta scissura, quando si parlava sempre di concordia e di amicizia.»

Certo le cose in Italia non erano quiete. Il Papa si doleva sempre di non aver le sue terre; Arichi duca di Benevento, ritenendosi affatto indipendente, minacciava di continuo i vicini per la voglia che aveva d'ingrandire il proprio Stato. Carlo tornava perciò da capo in Italia, e dopo aver passato a Firenze il Natale del 786, continuava il suo cammino verso Roma, avanzandosi alla volta di Benevento. Arichi s'era armato con la intenzione di difendersi in Salerno, dove poteva dal mare ricever soccorso; ben presto però venne ad un accordo col Re. Il Duca si sottomise a lui nel modo stesso in cui i suoi antecessori erano stati sottomessi al re dei Longobardi; pagò un'indennità, e diede in ostaggio il proprio figlio Grimoaldo. Ma ora si turbarono le relazioni con Costantinopoli. Nel 787 andò a monte il matrimonio della figlia di Carlo con Costantino figlio d'Irene, il quale nell'anno seguente sposò una moglie armena. Carlo tuttavia non poteva adesso pensare a ciò, perchè, celebrata la Pasqua del 787 a Roma, dovette tornare in Germania a combattere il duca di Baviera, che in quell'anno finalmente si sottomise del tutto.

Verso la fine del 787 s'udì ad un tratto che nell'antica Calabria era sbarcato Adelchi. Il Papa affermava che questi veniva in aiuto del duca Arichi, con intenzione di metterlo alla dipendenza di Costantinopoli, per poi fare insieme con esso uno sbarco a Ravenna. Ma quali che fossero siffatti disegni, ben presto il duca Arichi e suo figlio Romualdo morivano, lasciando al governo la vedova Adalberga, accorta e risoluta, che parteggiava manifestamente pei Franchi. Ella chiese a re Carlo che liberasse l'altro suo figlio Grimoaldo, tenuto sempre in ostaggio. Questi fu rimandato, e subito prese possesso [405] del Ducato, senza punto occuparsi del Papa, nè delle richieste che esso continuamente faceva di terre, di diritti, di giustizie di S. Pietro. Il Duca s'apparecchiava intanto alla guerra contro i Bizantini, d'accordo con Carlo, occupato sempre in Germania ove ben presto dovette combattere gli Avari. Questi erano gli avanzi che, scampati alla rovina del loro impero ai tempi di Eraclio, s'erano rifugiati nella Pannonia, e per un momento ancora ricompariscono sulla scena, avanzandosi un momento sino al Friuli.

Nel 788 soldati bizantini sbarcavano nell'Italia meridionale in aiuto di Adelchi; e contro di essi marciavano insieme con alcuni Franchi mandati da Carlo, Grimoaldo coi suoi Beneventani e Ildebrando cogli Spoletini. I Bizantini furono ricacciati in Sicilia; Adelchi si ritirò, senza che se ne sentisse più parlare. E per tutti questi fatti la potenza e l'autorità di Carlo ne crebbero a dismisura in Italia. Egli dimostrava però sempre una grandissima deferenza verso il Papa, così nelle grandi come anche nelle piccole cose. Gli chiedeva perfino, quasi ad autorità superiore nell'Esarcato, il permesso di esportare da Ravenna alcuni marmi e mosaici, per servirsene nelle costruzioni che voleva fare in Aquisgrana ed altrove.

La sua operosità pareva che non dovesse aver mai posa: ogni giorno sorgevano nuovi pericoli, ai quali egli prontamente riparava. Nel 791 era occupato nella guerra contro gli Avari in Germania e nel Friuli. Nel 792 dovè reprimere una congiura del suo figlio naturale Pipino, detto il gobbo, il quale si ribellò perchè era assai scontento d'essere stato escluso dalla successione al trono a vantaggio, come sembrava credere, del fratello legittimo, a cui s'era, già lo vedemmo, dato recentemente lo stesso suo nome. Ma ben presto fu vinto e chiuso in un convento. Anche Spoleto e Benevento davano assai da fare colle loro continue minacce di ribellione.

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A questo tempo appunto, quando cioè gli Avari minacciavano il Friuli, dovrebbe riferirsi il fatto cui accenna una carta, che ha la data dell'824. Volendosi restaurare le mura di Verona per metterla in istato di difesa, sarebbe sorta una grave disputa tra la città ed il Vescovo, a cui essa voleva imporre un terzo della spesa, quando egli credeva di esser tenuto a pagarne solo un quarto. Si venne perciò ad una specie di giudizio di Dio, il quale riuscì a favore del Vescovo. Da una tal narrazione s'è voluto dedurre, che fin d'allora esistesse un principio d'autonomia in qualcuna delle città longobarde. Ma non si è punto sicuri che la carta sia autentica, ed assai probabilmente essa accenna a fatti di tempi posteriori.

Nel por mano alla sua opera legislativa e di organizzazione dello Stato, Carlo si occupò continuamente della organizzazione della Chiesa ed anche delle questioni religiose. Nel 794 radunava un Sinodo a Francoforte, pigliando parte vivissima alle dispute teologiche. In una di esse combattè la così detta dottrina dell'Adozianismo, che era venuta di Spagna, ed ammetteva la doppia natura di Gesù Cristo, dichiarando che, come Verbo, era sostanzialmente figlio di Dio, come uomo era figlio solo per grazia e libera volontà del Padre. L'altra disputa religiosa, non meno vivace, fu d'indole diversa. Il settimo Concilio generale tenuto a Nicea (787), nel sanzionare il culto delle immagini, aveva ammesso che alle immagini dei Santi si dovesse come alla Croce rivolgere la preghiera, accendere i lumi, bruciare l'incenso. Tutto ciò poteva non sembrare eccessivo in Oriente, dove s'accendevano i lumi e si bruciava l'incenso anche dinanzi all'immagine dell'Imperatore; ma così non era in Occidente. E la cosa divenne anche più grave, quando nel tradurre, per ordine di papa Adriano, le conclusioni del [407] Concilio, alla parola onorare i Santi, quale era nell'originale, si sostituì l'altra ben diversa, adorare. E quindi il Re con ragione, dopo essersi opposto all'Adozianismo, si oppose anche alla pretesa che ai Santi si prestasse lo stesso culto in forma di latria, dovuto alla Trinità. Se non che questo era un combattere mulini a vento, essendosi a Nicea parlato di onorare, non di adorare. Il Papa perciò, senza consentire alla condanna (e non avrebbe potuto) delle recenti conclusioni di Nicea, non le approvò neppure. E ciò egli fece, non solamente per la forma insolita che avevano, ma anche perchè voleva far conoscere il suo malcontento a Costantinopoli, dove non mostravano nessuna voglia di restituire le terre che egli diceva usurpate alla Chiesa nell'Italia meridionale. In sostanza si dimostrò contento delle deliberazioni prese a Francoforte. Il 10 agosto dello stesso anno 794, re Carlo perdeva la moglie Fastrada, e subito dopo dovette ripigliare ancora una volta la guerra sassone, che fu continuata energicamente nel 795.

Il giorno di Natale del medesimo anno moriva Adriano I, sotto il cui papato erano, come abbiam visto, seguiti avvenimenti di grande importanza, sebbene non sempre per sua personale iniziativa. È ben vero che egli chiamò in Italia re Carlo, il quale distrusse il regno longobardo ed iniziò il potere temporale dei Papi; ma pareva che ciò fosse avvenuto più per forza inevitabile delle cose, che per opera personale di lui. Nelle lettere a Carlo egli ricordava sempre Costantino, «che aveva fatto la gran donazione, perchè non era giusto che l'Imperatore terreno esercitasse la propria potestà là dove l'Imperatore celeste aveva costituito il suo principato sacerdotale.» E teneva tanto alla propria autorità, che si dolse col Re, quando questi accolse alcuni abitanti della Pentapoli, i quali erano andati a lui senza averne ricevuto il permesso [408] dal Papa. «Come i Franchi, egli scriveva, non vengono a Roma senza licenza del Re, così costoro non avrebbero dovuto andare in Francia senza licenza del Papa. E come questi rispetta il Patriziato del Re, così il Re dovrebbe rispettare quello di S. Pietro.» Nè voleva ammettere che Carlo s'ingerisse negli affari di Ravenna, perchè l'Esarcato e la Pentapoli appartenevano ormai a S. Pietro. Ma queste erano tutte più o meno teorie; padrone di fatto era il Re. Adriano potè evitare molti pericoli, riconoscendo il vero stato delle cose, e sottomettendosi con prudenza alla necessità, non ostante le sue proteste e le continue riserve per mantenere intatti i diritti della Chiesa. Il suo successore, che fu d'un carattere più intransigente, e rispettava un po' meno le apparenze, ebbe ben presto, come vedremo, a soffrirne gravi conseguenze.

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