CAPITOLO VI

Elezione di Adriano I — Condanna e morte dell'Afiarta — Discesa di Carlo re dei Franchi in Italia — Disfatta dei Longobardi, assedio di Pavia — Carlo va a Roma, dove passa la Pasqua del 774

L'Afiarta riuscì a fare in modo, che la nuova elezione procedesse rapidamente e senza tumulti, non però a fare scegliere un papa quale a lui sarebbe convenuto. Sulla cattedra di S. Pietro saliva infatti Adriano I (772-95), uomo saldo nella fede religiosa, e di carattere fermissimo, che, a differenza del suo predecessore, non esitava mai. Quando infatti arrivarono a lui gli ambasciatori di Desiderio, facendo al solito larghe promesse in nome del loro signore, egli rispose, che non poteva prestar fede a chi aveva sempre mentito al Papa defunto. Tuttavia, siccome essi insistevano, e non volendo Adriano mancare del tutto all'usanza ed alle convenienze, mandò a Pavia ambasciatori il notaio Stefano, e Paolo Afiarta. Arrivati però che essi furono a Perugia, dovettero fermarsi, avendo saputo che Desiderio, già mutato animo, s'era impadronito di Faenza, di Ferrara e Comacchio, dopo di che le sue genti correvano liberamente per l'Esarcato, e minacciavano Ravenna, di dove l'arcivescovo chiedeva aiuto al Papa. La vedova di Carlomanno s'era in questo mezzo rifugiata coi figli presso Desiderio, il quale, per odio a Carlo, l'aveva accolta sotto la sua protezione, e voleva che il Papa facesse lo stesso, che anzi ne consacrasse i figli. Ma Adriano «si mostrò duro come adamante;» mandò anzi una seconda ambasceria a Pavia, [385] per far nuovi rimproveri al re longobardo, ed indagare più precisamente l'animo di lui.

In questo mezzo l'Afiarta, avendo compreso quanta era l'avversione del Papa per lui e pei Longobardi, aveva cercato di mettersi d'accordo con Desiderio. Questi voleva avere un abboccamento con Adriano, sperando, mediante nuove lusinghe, di poterlo tirare alle sue voglie; e l'Afiarta promise di condurglielo, «anche se fosse stato necessario trascinarlo con una corda al collo.» Aveva però fatto i conti senza l'oste, giacchè appena giunto a Rimini, venne arrestato dagli agenti dell'arcivescovo di Ravenna, che ne aveva ricevuto ordine dal Papa. Il quale, essendo deciso a farla finita colle prepotenze dell'Afiarta, aveva richiamato quasi tutti coloro che da questo erano stati esiliati, e fatti uscir di carcere quelli che aveva imprigionati. Ordinò inoltre una severa inchiesta, per sapere che cosa fosse mai avvenuto di Sergio. E fu scoperto che, otto giorni prima della morte di Stefano III, in sul far della notte, quel disgraziato era stato, per ordine dell'Afiarta e di altri, condotto sull'Esquilino, presso l'Arco di Gallieno, dove l'avevano ucciso e sepolto. Il cadavere venne infatti trovato con i segni ancora visibili delle percosse, e col capestro alla gola. I complici del delitto, appena scoperti, o fuggirono o vennero esiliati. Gli atti del processo furono mandati a Ravenna, perchè anche l'Afiarta venisse giudicato, e, se colpevole, punito della stessa pena. Ma l'arcivescovo, che era ardente partigiano dei Franchi, e però anche più del Papa nemico dell'Afiarta e dei Longobardi, lo fece condannare a morte, sentenza che venne subito eseguita. Il Papa se ne mostrò assai scontento, perchè egli che era fermo, non voleva appunto perciò apparire eccessivo.

In ogni modo adesso il partito dei Longobardi era in Roma sgominato, ed il loro capo Afiarta non poteva più [386] dar noia a nessuno. Desiderio faceva gravi minacce al Papa, che non si voleva accordare con lui; e subito dopo occupava l'Esarcato, entrava nella Pentapoli, e tra la fine del 772 e i primi del 773 era già in via verso il confine del Ducato romano. Adriano però non se ne stava inerte; ma raccoglieva gente dalla Campagna, dalle province, e dalle città, per esser pronto alla difesa. Nello stesso tempo scriveva, sollecitando aiuto da Carlo, che allora era spinto a venire in Italia anche da alcuni Grandi longobardi nemici di Desiderio. Ben presto infatti gli ambasciatori franchi arrivarono a Roma con la notizia che Carlo aveva deciso di passare le Alpi. E però, quando Desiderio era giunto a Viterbo, i messi del Papa, che aveva ripreso animo, si presentarono a lui, intimandogli di ritirarsi sotto pena d'anatema. Ed il re longobardo, saputo che i Franchi s'avanzavan davvero, si ritirò. Carlo, come già aveva fatto Pipino con Astolfo, prima di venire alle armi, anch'egli avanzò proposte di pace al re longobardo, promettendogli 14,000 soldi d'oro, se restituiva al Papa le terre promesse. Ma nessun accordo fu possibile.

Nella primavera del 773 i Franchi s'avanzarono perciò di nuovo verso l'Italia, divisi in due eserciti. Uno, che prese la via di Monte Giove, oggi Gran S. Bernardo, era comandato da Bernardo, figlio di Carlo Martello e zio di re Carlo. L'altro s'avanzò pel Cenisio, condotto dal Re in persona, che, arrivato alla Chiusa di S. Michele, tentò nuovamente d'indurre Desiderio a cedere colle buone. Ma fu tutto invano, e si dovè venire a battaglia. E qui più d'una leggenda altera la storia in modo, che resta assai difficile scoprire il vero. Si narra che il passaggio delle Alpi era così fortemente chiuso da un grosso muro, costruito dai Longobardi a propria difesa, che i Franchi, sgomenti, volevano ritirarsi, quando, per [387] divina volontà, i nemici si dettero invece a precipitosa fuga. Un'altra leggenda dice che ciò avvenne, perchè alcuni dei capi longobardi tradirono. Una terza narra che, quando re Carlo si trovò nella impossibilità di andar oltre, un giullare longobardo si presentò a lui, offrendosi d'indicargli un sentiero sconosciuto, pel quale poteva passare inavvertito. E così i Franchi, discesi nella pianura, avrebbero preso il nemico alle spalle, ponendolo in rotta. Si sarebbe allora chiesto al giullare che compenso voleva, ed egli, salito sopra un colle, e dato fiato al suo corno, avrebbe chiesto che fin là dove il suono s'udiva, il terreno fosse suo. E gli fu concesso. Ma lasciando da parte queste ed altre leggende, noi possiamo dir solo che tra Franchi e Longobardi vi fu una battaglia, vinta certamente dai primi, della quale però non sono conosciuti i particolari. Sembra che, mentre re Carlo combatteva di fronte i Longobardi, l'esercito comandato da Bernardo, avanzatosi rapidamente per una via poco conosciuta, li prendesse alle spalle, ponendoli così in fuga precipitosa. Desiderio allora si ritirò a Pavia per difendersi, e suo figlio Adelchi si chiuse in Verona, dove si era rifugiata anche Gerberga, la vedova di Carlomanno, coi figli.

Carlo s'avanzò subito coll'esercito, occupando varie terre importanti, fra cui Torino e Milano. Poi mise l'assedio a Pavia, che poteva resistere a lungo. Adesso lo scopo della guerra non era più, come a tempo di Pipino, di far restituire le terre alla Chiesa. Carlo non voleva venire a patti, faceva ai Longobardi addirittura una guerra di sterminio, per annientarne la potenza, ed impadronirsi di tutto il loro regno. Prevedendo che l'assedio, già regolarmente cominciato, dovesse andare in lungo, fece di Francia venir la moglie Ildegarda, e compiè parecchie escursioni, occupando altre città, che s'arresero senza [388] resistere. Fra queste fu anche Verona; e caddero allora nelle sue mani Gerberga e i figli, che finirono in un convento. Adelchi invece riuscì a scampare, e dopo essere rimasto qualche tempo a Salerno, se ne andò a Costantinopoli.

Essendo passati già sei mesi, senza che la fine dell'assedio si vedesse vicina, Carlo pensò d'andare quell'anno (774) in Roma, a passarvi, com'era allora il sogno di tutti i credenti, la Pasqua, che cadeva quell'anno il 2 di aprile. Il Re avrebbe anche avuto a Roma il modo d'accordarsi col Papa sulle grandi questioni politiche, che in conseguenza della guerra presente, dovevano sorgere inevitabilmente. Infatti, conquistato che avesse il regno longobardo, che cosa doveva farne? Non certo restituirlo all'Impero, perchè vi si sarebbe opposto Adriano I, nè egli era venuto in Italia per ciò. Darlo tutto alla Chiesa non avrebbe voluto, nè il Papa, disarmato come era, sarebbe stato in grado di governarlo. Tenerlo tutto per sè, sarebbe stato un mancare alle promesse fatte al Papa, col quale voleva andare d'accordo: per difenderlo e favorirlo egli era venuto in Italia, ed aveva intrapreso la guerra. Era dunque necessario intendersi, ed anche per ciò la sua gita a Roma riusciva assai opportuna.

Quello a cui già da un pezzo miravano i Papi, ed a cui mirava più che mai Adriano, adesso che il regno longobardo era vicino a cadere, trasparisce abbastanza chiaro dalle loro lettere e dalla così detta donazione di Costantino, la quale, sebbene sia un documento falso, compilato in questo tempo appunto da qualcuno della Curia, ha certo un notevole valore storico, perchè scopre chiaramente le mire ambiziose, che da lungo tempo aveva sempre avute la Chiesa. Questa donazione, che vien fuori adesso, ed è ben presto citata dai Papi come un documento autentico, diceva che l'Imperatore, dopo aver [389] concesso al Papa il palazzo Laterano insieme con i più alti onori imperiali, dopo aver riconosciuto la superiorità della Chiesa, e riconosciuto nei prelati e nei cardinali la dignità senatoria, concedeva «la città di Roma e tutti i luoghi, le province e città d'Italia al beatissimo papa Silvestro ed ai suoi successori.» Per quanto vaghe e fantastiche potessero sembrare queste concessioni, risulta sempre più chiaro che i Papi aspiravano a prendere in Italia il posto che l'Impero era costretto a lasciare; e i fatti provano che Adriano I non si contentava più delle sole terre che Pipino aveva tolte all'Impero. Appunto ora gli Spoletini, per evitar di cadere sotto il dominio di Carlo, erano venuti in Roma a fare atto di sottomissione al Papa, giurandogli obbedienza, facendosi, secondo l'uso di quel tempo, tagliare i capelli e radere la barba; ed il Papa aveva accettato, riconoscendo, quasi fosse già loro legittimo signore, il nuovo Duca che si erano scelto. Osimo, Fermo, Ancona e Città di Castello imitarono l'esempio di Spoleto. Che Adriano I però pensasse sul serio di potere in Italia succedere all'Impero ed ai Longobardi, non è facile crederlo. Egli doveva ben capire che, anche avendola, non avrebbe mai potuto, nè saputo governar tutta la Penisola. Il concetto perciò che a Carlo si presentava come più pratico e più facilmente attuabile, era quello di formare nella Lombardia e nella Liguria un regno franco, cedendo al Papa, oltre il Ducato di Roma, l'Esarcato e la Pentapoli, dandogli altrove anche i territori e le proprietà su cui la Chiesa avesse potuto dimostrare d'avere giusti diritti patrimoniali. Tutto questo però non era ancora ben definito nella mente di nessuno; era sempre un argomento fluttuante, aperto alla discussione, che si sarebbe potuta fare a Roma.

A trenta miglia di distanza dalla Città, presso il lago di Bracciano, Carlo incontrò i primi dignitari mandati [390] dal Papa. Ad un miglio di distanza dalle mura incontrò le Scholae della milizia, gli studenti con rami d'ulivo, tutta una moltitudine che s'avanzava cantando inni religiosi, portando in mano grandi croci, come s'era usato nel ricevere l'Esarca. Appena che Carlo li vide, discese da cavallo, ed andò a piedi sino a S. Pietro. L'antica chiesa, che la tradizione diceva costruita per ordine di Costantino, era assai diversa dalla presente, ed assai più bella, pel suo carattere veramente originale. Si trovava fuori delle mura, le quali ancora non circondavano il quartiere vaticano, che era come un sobborgo della Città. La vasta basilica a forma di croce aveva cinque navate, la principale delle quali finiva con un abside semicircolare. Alla chiesa s'arrivava traversando un atrio spazioso a forma di chiostro, detto il Paradiso di S. Pietro. Il pavimento così della chiesa come dell'atrio, si trovava alcune braccia più in alto della piazza. Vi si ascendeva per una scala larga quanto la facciata o muro esterno. Le novantasei colonne, nonchè i mattoni coi quali erano state costruite le mura e gli archi, erano stati tolti dal vicino anfiteatro di Nerone, e da altri edifizi pagani: si vedeva una grande varietà di sagome, di capitelli, di colonne. E questo gran tempio cristiano, composto coi frammenti di tempii pagani, sembrava sfavillar da lontano, perchè il tetto era formato da tegoli di bronzo dorato, tolti anch'essi dagli antichi tempii di Roma e di Venere. Nell'interno i diversi colori dei mosaici e delle pitture davano a quella chiesa una solenne e severa varietà, che armonizzava col sentimento religioso assai più del S. Pietro moderno, che sembra quasi un'immensa galleria. Molte erano le statue di marmo e di bronzo, alcune delle quali anch'esse tolte ai tempii pagani, e adattate ad uso cristiano. A tutto ciò s'aggiungevano ricchi broccati, veli a trapunto, lamine d'oro e d'argento. Nel [391] mezzo della croce era la Confessione dell'Apostolo, rivestita d'argento, coperta da un tempietto con sei colonne di onice a spira, con un centinaio di lampade e candele, le quali ardevano giorno e notte. Ivi erano tutti i giorni prostrati in ginocchio migliaia di fedeli d'ogni sesso ed età, d'ogni condizione sociale, venuti da tutte le parti del mondo a chiedere perdono dei loro peccati. Insomma era un tempio unico veramente, che poteva dirsi il centro religioso del mondo.

In cima della scala d'ingresso, circondato dal clero, da numeroso popolo, il Papa sin dal mattino aspettava il Re, che nel vederlo cadde in ginocchio ai piedi della scala, ed in ginocchio ne salì gli scalini, baciandoli l'un dopo l'altro. Giunto che fu dinanzi alla porta, il Papa lo baciò, e poi strettagli la mano, traversato con lui l'atrio, lo condusse nel tempio fino alla Confessione, dove il clero ed i cantori intonarono il versetto: «Benedetto chi viene in nome del Signore». Quel giorno stesso, sabato santo, 1º di aprile, Re e Papa, circondati da nobili franchi e romani, scesero nella Confessione, dove era la tomba di S. Pietro, e si giurarono mutua fedeltà. Dopo di che andarono a S. Giovanni in Laterano, dove il Re assistette al battesimo amministrato dal Papa. Il giorno seguente, era la Pasqua, ed il Re ascoltò la messa solenne, celebrata in S. M. Maggiore dal Papa. Il terzo giorno, che era la prima festa di Pasqua, vi fu gran banchetto; il quarto venne solennizzato in S. Pietro, dove colle lodi del Santo furono celebrate quelle del Re; il quinto in S. Paolo.

Ma più importante di tutti fu il sesto giorno, 6 aprile, quarta festa di Pasqua. Il Papa usciva di città, in solenne processione, e s'incamminava nuovamente col Re a S. Pietro, dove prese a scongiurarlo perchè volesse adempiere interamente le promesse fatte da Pipino, e [392] da lui confermate. Allora, secondo il Libro pontificale, che è la fonte quasi unica che qui abbiamo, Carlo si fece leggere la donazione fatta da Pipino a Quierzy, la quale venne da lui e dai suoi Grandi riconfermata. Ordinò poi che venisse trascritta dal suo cappellano e notaio, nuovamente impegnandosi a concedere le terre in essa menzionate, facendone anche più specificatamente designare i confini, che si trovano infatti ripetuti nel citato racconto. Questa carta di donazione, che noi più non abbiamo, sottoscritta dal Re, dai suoi vescovi, abati, duchi e conti, fu messa sull'altare di S. Pietro; poi dentro la sacra Confessione; e finalmente venne data al Papa con solenne giuramento che sarebbe osservata. Una seconda copia, di mano dello stesso notaio Eterio, fu, a maggiore solennità e sicurtà, messa nella Confessione, là dove era il corpo di S. Pietro, sotto gli Evangeli, che ivi si solevano baciare: una terza restò nelle mani del Re. Questa narrazione ci è data dal Libro pontificale, nella vita di Adriano I, il cui autore dice d'aver visto coi propri occhi l'atto di donazione. Ciò nondimeno, sulla esistenza di esso e su tutto il racconto si sono fatte dispute infinite, che hanno dato origine ad una intera letteratura: si è parlato di falsificazioni, d'interpolazioni, e simili. Il resultato della lunga disputa è stato però, che oggi si presta fede allo scrittore della vita d'Adriano: le divergenze sorgono piuttosto sul modo d'interpetrare le sue parole.

Secondo lui adunque l'atto di donazione dava al Papa l'Esarcato, nella sua più antica e vasta estensione. Non ricordava espressamente la Pentapoli, ma par certo che intendesse d'includervela; aggiungeva poi i Ducati di Spoleto e di Benevento, la Toscana intera e la Corsica, la Venezia e l'Istria. Così il nuovo regno che Carlo avrebbe serbato esclusivamente per sè, si sarebbe ridotto in assai [393] angusti confini nell'Italia settentrionale, ed il Papa sarebbe divenuto padrone di quasi tutta l'Italia centrale e meridionale, con una parte anche della settentrionale. È certo però, che i confini delle terre concesse al Papa, al di fuori del Ducato romano, dell'Esarcato e della Pentapoli, sono indicati in un modo assai indeterminato. E bisogna concludere, che o s'intese accennar solamente ai beni patrimoniali che la Chiesa affermava di possedere nelle altre province, ed il cui possesso credeva di poter documentare; o se si volle veramente promettere in queste un vero e proprio diritto di sovranità, siffatte promesse non furono certo mantenute. E ciò potè essere avvenuto non perchè il Re avesse mutato animo, o avesse voluto ingannare; ma perchè ben presto dovette accorgersi che il Papa non era in grado di conservare neppur quello che gli era stato già concesso. In ogni modo, anche volendo, nel 774 era assai difficile determinare con precisione quello che gli si sarebbe veramente potuto dare. Da una parte le pretese del Papa crescevano ogni giorno; e da un'altra si trattava di conceder quello che si doveva ancora conquistare. L'incertezza ne seguiva perciò come necessaria conseguenza, ed apriva la porta a molte discussioni, a cui solo l'esito finale della guerra poteva porre un termine.

Tra la fine di maggio ed i primi di giugno, re Carlo, fatta a Roma un'assai breve dimora, se ne tornava a Pavia, che dopo avere già resistito circa otto mesi, dovette finalmente arrendersi. E qui la leggenda viene di nuovo a mescolarsi colla storia. Si narra che una figlia di Desiderio, innamoratasi di Carlo, gli facesse, per mezzo d'un proiettile spinto attraverso il Ticino, pervenire una sua lettera, e che dalla risposta avuta s'accendesse vieppiù nel suo amore. Furtivamente allora prese le chiavi della città, che erano sospese al letto del padre, e di notte aprì [394] la porta al nemico. Quando però ella andò incontro a Carlo, venne dai cavalieri franchi, che furiosamente s'avanzavano, calpestata ed uccisa. Tutto questo sembra significare, che Pavia s'arrese non solo per la fame e per le malattie, ma ancora per le discordie interne dei Longobardi. Il re Desiderio fu condotto via, con la moglie e la figlia, in Francia, dove morì oscuro monaco. Il valoroso Adelchi s'era già, per la resa di Verona, che alcuni vorrebbero avvenuta dopo quella di Pavia, rifugiato a Costantinopoli. Tutte le altre terre longobarde, nell'alta e nella media Italia, cedettero l'una dopo l'altra. E così può dirsi colla caduta di Pavia caduto il regno dei Longobardi, che era durato più di due secoli.

Share on Twitter Share on Facebook