CAPITOLO VII

Formazione del regno franco in Italia — Congiure e ribellioni contro il Papa, che chiede aiuto a Carlo — Questi torna in Italia, e celebra in Roma la Pasqua del 781

Carlo, che era giunto appena alla età di circa trentadue anni, ed aveva da ogni parte assicurato il suo vasto regno, reso vastissimo dalle conquiste, prese ora il titolo di re dei Franchi, re dei Longobardi e patrizio dei Romani. La sua cancelleria cominciò nei pubblici atti a computare gli anni del regno dalla presa di Pavia, e così fecero anche i privati: il nome dell'Imperatore di Costantinopoli fu in questi documenti come dimenticato. Il nuovo regno dei Franchi nell'alta Italia si estese al di là dell'Isonzo fino all'Istria; ma la supremazia di fatto esercitata da Carlo si allargò a tutta l'Italia centrale. Spoleto che aveva giurato obbedienza al Papa, se ne allontanò, [395] per sottomettersi a Carlo. Il duca di Benevento, Arichi, continuava però a farla da sovrano indipendente; quello del Friuli s'era sottomesso assai di mala voglia, ed aspettava una qualche occasione per ribellarsi. In ogni modo il titolo di Patrizio dei Romani assunto da Carlo non era più un semplice ornamento, ma cominciava ad acquistare un valore reale, perchè egli era divenuto davvero il protettore e difensore della Chiesa. Infatti anche le province più esplicitamente proprie di essa giurarono a lui fedeltà. Par che egli si serbasse il diritto di decidere le condanne capitali, togliendole alle autorità ecclesiastiche; più di una volta infatti lo vediamo sedere pro tribunali, e giudicare nella stessa Roma. Con grande accorgimento non assunse però mai il titolo di re d'Italia, ma quello solamente di re dei Longobardi; e non volle aggregare alla Francia neppur quella parte d'Italia, che ritenne per sè. Ne formò come una provincia separata, quasi un regno autonomo, cui lasciò le antiche istituzioni e gli antichi Duchi: in qualche luogo pose, invece del Duca, un Conte. A Pavia però cominciò subito ad ordinare un'amministrazione nuova, pigliando per sè i beni della corona longobarda, una parte dei quali dette ad alcuni conventi in Francia, il che si potrebbe dire un principio di assimilazione.

Ad un tratto re Carlo fu costretto a ripassare improvvisamente le Alpi, per correre a domare la ribellione dei Sassoni, contro i quali vinse nel 775 una grande battaglia, dopo di che tornò, come vedremo, in Italia a sottomettere il duca del Friuli; ma dovette di nuovo traversare le Alpi, per continuare contro i Sassoni quella lotta, che pareva non dovesse aver mai fine. Sebbene però la resistenza loro e degli Alamanni fosse oltre ogni dire ostinata, gli uni e gli altri, come popolazioni più omogenee, finirono coll'essere assimilati ai Franchi. Lo [396] stesso non potè mai seguire degl'Italiani, che resistettero assai più debolmente e furono più facilmente domati. Durante i due secoli vissuti insieme, Longobardi e Romani s'erano fusi in un popolo solo, e quindi v'era una generale e persistente ripugnanza degli uni e degli altri contro i Franchi, soprattutto poi nei Duchi ed in genere nella classe governante. Nè meno profonde erano queste antipatie nelle terre occupate ancora dai Bizantini, i quali, essendo irritatissimi per ciò che era stato loro tolto dai Franchi, si sforzavano in ogni modo di seminare nelle popolazioni odio contro di essi. Tutto ciò fu causa di grandi disordini, cui se ne aggiunsero, come inevitabile conseguenza, altri di natura diversa, ma non meno gravi.

Gli arcivescovi di Ravenna avevano, noi già lo vedemmo, dato origine a molti dissensi e conflitti con Roma; e questi, nel disordine presente, rinascevano più vivi che mai. L'arcivescovo Leone era riuscito nel 771 ad assumere l'alto ufficio, vincendo il suo rivale con l'aiuto di Carlo ed il favore del Papa, al quale si dichiarò allora obbediente; ma adesso, mutati i tempi, cominciò invece a fare opposizione. Gli pareva che, cessato in Ravenna il dominio bizantino, l'Arcivescovo dovesse nella sua sede assumere quella medesima autorità che il Papa assumeva in Roma. Si faceva forte non solamente delle speciali condizioni in cui s'era sempre trovato il seggio episcopale nell'Esarcato; ma anche della Prammatica sanzione, che dava ai Vescovi facoltà di nominare i giudici, i quali erano anche amministratori. — Non s'era a lui stesso rivolto Adriano I, quando si trattava di far giudicare l'Afiarta; non aveva egli fatto eseguire la sentenza di morte, senza neppur consultare il Papa? Le facoltà concesse dall'Imperatore ai Vescovi non potevano diminuire per la donazione fatta da Carlo a quello di Roma; nè potevano esser distrutte dall'autorità che il titolo di Patrizio dava al Re. [397] I mutamenti avvenuti erano stati fatti in nome del popolo romano, il quale non poteva certo essere tenuto superiore all'Imperatore. — Così pare che ragionasse l'arcivescovo di Ravenna: certo si può affermare che la sua condotta appariva guidata da queste idee. E però egli voleva nell'Esarcato e nella Pentapoli assumere la stessa posizione (e per le stesse ragioni), che il Papa assumeva nelle terre da cui l'Impero si ritirava. Trovò, è vero, una viva resistenza nella Pentapoli, che si dichiarò favorevole al Papa; ma nell'Esarcato gli riuscì d'insediare i suoi ufficiali, facendo respingere quelli mandati da Roma. L'Arcivescovo aveva avuto l'accortezza di mostrarsi avversissimo ai Longobardi, favorevole ai Franchi; e però Carlo non poteva osteggiarlo. Un tale stato di cose riusciva utile al Re, per tenere un po' a freno l'ambizione sempre crescente del Papa.

Di tutto ciò Adriano I era naturalmente scontentissimo, e ne moveva lamento a Carlo, incitandolo a tornare in Italia, per ristabilirvi l'autorità della Chiesa, e mantenere le promesse fatte. E continuando ne' suoi rammarichi, gli rendeva conto d'una congiura tramata in Italia, d'accordo con Costantinopoli, contro i Franchi. Egli esagerava non poco la parte che solo indirettamente potè avervi presa l'arcivescovo di Ravenna, il quale s'era, come dicemmo, dichiarato amico dei Franchi; e quella ancora che vi avevano presa i duchi di Benevento e di Spoleto, che nuovamente s'erano alienati da lui. Il Papa affermava, fra le altre cose, che una lettera, nella quale il patriarca di Grado gli rendeva conto della congiura, eragli pervenuta coi suggelli rotti dall'Arcivescovo, che l'aveva aperta per renderne conto ai due Duchi coi quali cospirava. La verità è che una cospirazione si tramava davvero da parecchi duchi longobardi contro i Franchi e contro il Papa. Chi diceva [398] che Rodogaudo duca del Friuli aspirava alla corona di Desiderio, e chi diceva che i Longobardi volevano ripristinare l'interregno che s'era avuto dopo la morte di Clefi. Si aggiungeva che da Costantinopoli erano partite navi, comandate da Adelchi, per secondare la trama. È possibile che l'arcivescovo Leone la favorisse, perchè essa riusciva a danno del Papa, col quale si trovava in lotta; ma non è credibile che egli avesse voluto cooperare alla cacciata dei Franchi, dei quali era amico, ed alla ricostituzione del dominio longobardo, al quale s'era manifestato avverso. Sembra però certo che a Spoleto si era tenuta un'adunanza, nella quale fu deliberata la congiura di cui il Papa, esagerandola, avvertiva re Carlo.

Questi, pigliando la cosa con molta calma, cercò prima di tutto di separar dagli altri cospiratori i duchi di Spoleto e di Benevento, promettendo di lasciar loro una maggiore indipendenza. Oltre di ciò, la notizia arrivata in Italia nel febbraio del 776, che l'imperatore Copronimo era morto, levava ai cospiratori il principale appoggio su cui avevano fatto assegnamento. Intanto il Re, che si trovava allora libero dalla guerra contro i Sassoni, si mosse con poche genti verso l'Italia, dove pervenne colla rapidità del fulmine, ed attaccò battaglia col solo Rodogaudo, che fu subito vinto, e pare anche ucciso. Così Carlo fu padrone del Friuli, avendo ben presto superato anche la poca resistenza fatta da Treviso, dove il 14 aprile 776 potè celebrare la Pasqua. Se nella sua prima venuta in Italia egli s'era dimostrato assai indulgente, adesso, invece, irritato dalla congiura, si dimostrò severissimo. Molti furono, per la confisca dei loro beni, ridotti alla miseria, e quando non vennero chiusi in carcere, andarono pel mondo raminghi. Fu imprigionato tra gli altri anche il fratello dello storico Paolo Diacono. E questi, dopo aver lodata la generosità dimostrata dal Re nella sua prima [399] venuta in Italia, dovette ora lamentare la lunga e crudele prigionìa del proprio fratello, la cui moglie andò limosinando coi figli, laceri e privi di tutto. Carlo cominciò adesso a porre nelle città italiane, molto più che non aveva fatto prima, Conti invece di Duchi. I primi erano meno potenti, più sottomessi a lui che li nominava, e quindi più obbedienti. Ai confini del regno, per meglio difenderli, egli soleva costituire le Marche, riunendo in una più contee, che affidava a conti di Marche, i quali erano perciò non meno potenti dei duchi: e così fece ora nel Friuli. Dopo di ciò, dovendo da capo ripigliare la guerra contro i Sassoni, ripartì dall'Italia, senza avere neppure visitato il Papa, verso il quale par che fosse questa volta un po' freddo, dimostrando invece, almeno in apparenza, qualche favore all'arcivescovo di Ravenna. Vinti dopo fiera resistenza i Sassoni, Carlo dovette andare rapidamente verso la Spagna, e, passati i Pirenei, mosse guerra agli Arabi, prese Pamplona, e s'avanzò fino a Saragozza. Ma allora fu subito costretto a tornare indietro per combattere di nuovo i Sassoni. La sua retroguardia venne per via fieramente assalita dai Baschi, e addirittura distrutta nella celebre rotta di Roncisvalle (778), nella quale morì il fiore dei paladini franchi, e fra gli altri quell'Orlando, il cui valore è tanto celebrato nei poemi cavallereschi. Ciò non ostante, Carlo continuò il suo cammino, inflisse nel 779 una nuova disfatta ai Sassoni, e poi ripassò per la terza volta le Alpi, venendo in Italia, dove lo stato delle cose imperiosamente lo chiamava.

A Ravenna allora era morto l'arcivescovo Leone, ma non era cessata del tutto l'opposizione al Papa, al quale avversissimi si mostravano sempre più anche i duchi di Spoleto e di Benevento. Questi davano animo a tutti i nemici, a tutte le terre che a lui si ribellavano, come [400] ora aveva fatto Terracina, che, seguendo l'esempio di Gaeta, s'era dichiarata pei Bizantini. Di ciò il Papa amaramente si doleva col Re, invocandone l'aiuto. Ed ora per la prima volta faceva ufficialmente allusione alla donazione di Costantino a Silvestro. Nel determinare però quali erano i dominii che pretendeva per la Chiesa, si manteneva in limiti assai più modesti di quelli indicati nella donazione. Infatti egli accennava solamente ai patrimoni spettanti a S. Pietro nella Toscana, nello Spoletino, nel Beneventano, nella Corsica e nel territorio sabino, patrimoni che i Longobardi avevano usurpati, ma che erano della Chiesa, in conseguenza di donazioni fatte da Imperatori, da Esarchi e da altri per la salute delle loro anime, come poteva con documenti provare. Sembrerebbe perciò che, ad eccezione del Ducato romano, dell'Esarcato e della Pentapoli, si trattasse, per ora almeno, solo di poderi, di terre, e di case sparse in diversi luoghi. Il Libro pontificale avrebbe quindi, in modo più o meno indeterminato e vago, esagerato, mutando il diritto di proprietà sopra alcuni terreni in diritto di sovranità sulle province in cui essi si trovavano.

Il Papa si rivolgeva ora a Carlo, come a legittimo signore, chiedendogli ciò che secondo lui apparteneva alla Chiesa, difendendosi nello stesso tempo dalle calunnie che gli erano state fatte da' suoi nemici circa la corruzione del clero, circa il commercio degli schiavi, che dicevano da lui favorito, e che egli invece aveva condannato e cercato d'impedire. Ma quello che è più notevole, come prova della grandissima autorità che il Papa riconosceva sempre nel Re, gli chiedeva ora il permesso di tagliare alberi nei boschi dello Spoletino, per avere le travi necessarie a restaurare il tetto della chiesa di S. Pietro. Ciò dimostra ad evidenza che Adriano era ben lungi dal presumere di volerla far da padrone in quasi [401] tutta l'Italia centrale e meridionale, come vorrebbe far credere il Libro pontificale.

Verso la fine del 780 Carlo passava il Natale a Pavia con la moglie Ildegarda, e i figli Carlomanno e Lodovico. Sebbene fosse questa volta venuto in Italia senza un esercito, la sua dimora fu pure importantissima, per le leggi o capitolari che allora pubblicò, cercando di dare assetto definitivo al governo del paese. Alcune di queste leggi, già pubblicate in Francia, vennero ora sanzionate in Italia; altre furono fatte specialmente per essa, e quasi tutte a vantaggio della Chiesa. A questa egli assicurava la riscossione delle decime, aumentava le rendite; cercava di regolare anche il pagamento dei censi che le eran dovuti, di determinare la dipendenza dai metropoliti, e di render sicura l'amministrazione della giustizia per parte dei conti. Tutto ciò, com'è naturale, di pieno accordo e con soddisfazione del Papa, col quale il 15 aprile 781 passava la Pasqua in Roma, dove fece da lui ribattezzare il proprio figlio Carlomanno, che prese allora il nome di Pipino. E perciò d'ora in poi Carlo nelle lettere papali è chiamato sempre compater noster. Nello stesso giorno Pipino venne dal Papa consacrato re d'Italia, e Lodovico re d'Aquitania: atto questo di pura forma, giacchè l'uno di essi aveva appena compiuto quattro anni, e l'altro due solamente.

Certo tutto ciò accresceva non poco l'autorità del capo della Chiesa, il quale sembrava assumere ognor più la facoltà di fare e disfare i regni. Ma il potere supremo, effettivo e reale, anche in Italia, rimaneva nelle mani di Carlo, il quale solo firmava i pubblici documenti del regno, che uscivano ora dalla cancelleria franca.

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