Rotari re — Eraclio imperatore — Guerra persiana — Maometto — L'Ecthesis— L'editto di Rotari
L'Italia andava adesso soggetta ad una doppia crisi. Erano scomparsi dalla scena due uomini grandi, quali Agilulfo e Gregorio I. La conversione già cominciata dei Longobardi aveva seminato fra di loro la discordia, e questa fece ben presto scoppiare una ribellione contro il giovane Adaloaldo, che era cattolico, e se ne dovette ora fuggire a Ravenna. Gli successe Ariovaldo il quale era invece ariano (625). Di lui, che pure regnò diversi anni, sappiamo assai poco; ed ignoriamo ancora che cosa pensasse o facesse in questo mezzo Teodolinda. Si direbbe che assistesse omai spettatrice impassibile a tutti i mutamenti che seguivano. Nel 628 cessò di vivere, ed Ariovaldo, che aveva sposato la figlia di lei, Gundeberga, morì verso il 636. Allora fu concessa alla sua vedova, come già a Teodolinda, facoltà di scegliersi un secondo marito, che sarebbe stato il nuovo re. Ed anche questa volta la scelta riuscì felice, essendo per essa salito sul trono Rotari, che fu il re legislatore dei Longobardi.
Intanto, per le difficili condizioni dell'Impero, occupato nella guerra persiana divenuta sempre più grossa e minacciosa, non solamente non si potevano mandare aiuti a Ravenna, ma si mutavano continuamente gli esarchi, per evitare che sorgesse in loro l'ambizione di rendersi indipendenti. Infatti a Smeraldo era successo quel Giovanni, che secondo alcuni era chiamato Lemigius Thrax (611-616), ed a questo un Euleterio (616-620), il [302] quale pensò di assumere in proprio nome il governo dell'Esarcato. Ma i soldati allora gli si ribellarono, lo uccisero e ne mandarono la testa a Costantinopoli, di dove fu spedito un altro esarca.
In questo mezzo grave assai era la crisi che traversava l'impero, ed essa naturalmente si ripercoteva sull'Italia. Il 5 ottobre 610 era morto l'imperatore Foca, al quale Smeraldo aveva eretto la celebre colonna nel Foro Romano, ed il cui regno crudele era stato turbato da continue cospirazioni. A lui succedeva Eraclio (610-41), un vero carattere orientale, che passava da una straordinaria attività ad una straordinaria indolenza. Infatti, salito che fu sul trono, pareva nei primi dieci anni che se ne stesse a guardare, senza impensierirsi del rapido avanzarsi dei Persiani, aiutati dagli Avari. Pure il pericolo era grande davvero, perchè i Persiani occuparono la Siria, entrarono in Damasco, poi nella Palestina, e s'impadronirono della stessa Gerusalemme coi luoghi santi (614 e 15), portando via perfino il legno della sacra croce. Dopo ciò s'avanzarono nell'Egitto, minacciando d'andare più oltre ancora. Dove queste gravi perdite si dovessero fermare, nessuno poteva prevederlo. Il nemico sembrava minacciare la stessa Costantinopoli, e neppure allora Eraclio si moveva: si sarebbe detto che era addirittura spaventato. Vi fu un momento (618) nel quale pareva che volesse trasportare la capitale a Cartagine, sperando potere di là meglio difendere l'Impero.
Fu questo invece il momento in cui tutto mutò a un tratto. Alla minaccia di perder la capitale, lo spirito pubblico, religioso e politico, si sollevò in Costantinopoli. E finalmente si ridestò dal suo letargo anche Eraclio, il quale si trovò alla testa d'una grossa guerra, combattuta a difesa non solo dell'Impero, ma anche della fede, per liberare Gerusalemme e le sacre reliquie dalle mani profanatrici [303] degli adoratori del fuoco. Egli parve divenuto allora un altro uomo. Fatta nel 620 una tregua cogli Avari per due anni, si apparecchiò febbrilmente alla guerra. Nel 622 si mosse coll'esercito, e quasi nuovo Belisario, in una serie di fortunate battaglie, nel 622-25, sconfisse ripetutamente i Persiani che dovettero ritirarsi presso il Mar Nero, dove svernarono. Cosroe loro principe si apparecchiò allora ad uno sforzo supremo; e fece alleanza coi Bulgari, cogli Slavi, cogli Avari. Questi ultimi, col loro Cacàno alla testa, mossero ad un formidabile assalto contro la stessa Costantinopoli, mentre contemporaneamente e con ugual vigore i Persiani movevano contro Eraclio. Ma a Costantinopoli il popolo, il clero, i soldati fecero una disperata difesa, che dovette esser vittoriosa davvero, perchè da questo momento non sentiamo più parlare degli Avari. Pare che Eraclio avesse deliberato di disfarsene affatto, dimostrandosi invece assai più favorevole agli Slavi. Certo è che d'ora in poi gli Avari cominciano quasi del tutto a scomparire dalla storia; gli Slavi, invece, ben più numerosi, s'avanzano, occupando prima la penisola balcanica, e dilatandosi poi anche in altri paesi verso l'Europa centrale. Eraclio continuò le sue vittorie fino a che Cosroe, umiliato per le ricevute sconfitte, fu nel 628 da una ribellione popolare deposto ed ucciso. Gli successe il figlio, che fece la pace coll'Impero, abbandonando tutte le conquiste fatte dal padre, restituendo i prigionieri ed il legno della sacra croce, che Eraclio, dopo d'essere entrato trionfante in Costantinopoli, riportò l'anno seguente a Gerusalemme, nella chiesa del Santo Sepolcro.
Di tutte le guerre sostenute nella lunga lotta contro i Persiani, questa di Eraclio fu certo la più vittoriosa, e pareva anche definitiva. Essa però mise sempre più in luce un lato assai debole dell'Impero d'Oriente, il quale [304] aveva uno spirito greco, seguiva una politica romana, ed era composto di province fra loro assai eterogenee. Il rapido avanzarsi dei Persiani sin dal principio della guerra, aveva fatto toccar con mano, quanta poca coesione vi fosse tra le varie province. Parecchie di esse non erano state assimilate all'Impero, da cui poterono perciò esser facilmente staccate. A riconquistarle era stata necessaria una grossa guerra, che aveva obbligato a lasciare indifese quelle che erano le parti più vitali o più assimilate, e che restarono esposte alle invasioni di altri barbari. Di ciò s'era già avuto un altro esempio a tempo di Giustiniano, il quale, per riprendere l'Africa, la Spagna e l'Italia, aveva trascurato la difesa della Tracia, della Macedonia, della Grecia, che vennero invase dai Bulgari, dagli Avari, sopra tutto dagli Slavi. Lo stesso fatto, ed in più larghe proporzioni, si era ripetuto a tempo di Eraclio. Gli Avari, è ben vero, erano scomparsi dalla scena, ma gli Slavi che fino a quel tempo avevano proceduto in loro compagnia, combattendo insieme, inondarono addirittura la penisola balcanica, avanzandosi nella Grecia, nella Dalmazia, nell'Istria, nella Carniola. Il destino di questi due popoli, gli Avari che erano finnici, e gli Slavi, indo-europei e numerosissimi, somiglia di molto al destino degli Unni e dei Germani. I primi, finnici anch'essi, cominciarono col combattere e vincere la potenza dei secondi, i quali, uniti poi ai Romani, li disfecero e li obbligarono a ritirarsi, dopo di che gli Unni scomparvero quasi del tutto. E così gli Avari, che erano sembrati dapprima prevalere sugli Slavi, furon poi da questi e dall'Impero distrutti o forse anche assorbiti ed assimilati: certo per lungo tempo non se ne sentì più parlare. Questi popoli finnici, turanici appariscon quasi tutti come un uragano, cui nulla può resistere. Ma se con grande facilità si avanzano, con grande difficoltà riescono ad organizzarsi stabilmente, e presto si decompongono per disciogliersi [305] e sparire colla stessa rapidità con la quale s'erano riuniti. Un'eccezione notevole sono però gli Ungari, detti poi Ungheresi, che vennero in Europa assai più tardi, e formano ancora oggi come un'isola compatta e forte in mezzo ai popoli ariani.
Certo è in ogni modo che tanto le imprese militari di Giustiniano, quanto quelle di Eraclio non ebbero effetto duraturo, perchè le province che essi riconquistarono finirono coll'essere definitivamente abbandonate. L'opera dei secoli VII e VIII mirò a riprendere e conservare almeno quelle più omogenee, che s'erano meglio assimilate. Il lavoro di disintegrazione, vittoriosamente combattuto da Eraclio, ricominciò prima che egli morisse. Ed il ripetersi di un tal fatto dimostrava che esso era tutt'altro che transitorio.
S'apparecchiava allora un grande avvenimento politico-religioso, che doveva turbare profondamente l'Oriente e l'Occidente. Maometto nel 628 cominciava dall'Arabia, colla predicazione e colle armi, a propagare la sua nuova dottrina. Essa era un monoteismo, che lasciava da parte tutte le sottili teorie e disputazioni filosofiche sulla Trinità, sulla doppia natura di Gesù Cristo, che egli riteneva suo predecessore. Queste dispute, che tanto infiammavano ed agitavano lo spirito dei Greci, non erano punto adatte alla intelligenza delle popolazioni in altre parti dell'Impero. La nuova religione non riconosceva inoltre distinzione di classi sociali, giacchè gli uomini, secondo Maometto, sono uguali «come i denti di un pettine;» prometteva nell'altro mondo un eterno paradiso, con tutti quanti i piaceri dei sensi, a coloro che per essa combattevano e morivano; ed inculcava un fatalismo che rendeva indifferenti ad ogni pericolo di morte. Certo è che l'esaltamento religioso degli Arabi e dei Saraceni (era questo il nome che i Bizantini davano a tutti coloro che professavano [306] la dottrina musulmana) divenne in breve tempo straordinario. Morto Maometto nel 632, le popolazioni arabe, di loro natura guerriere, educate nel deserto ad una vita perennemente militare, guidate dai Califfi che gli successero, andarono rapidamente di conquista in conquista ripigliando tutte quelle terre nelle quali s'erano poco prima avanzati i Persiani, respinti poi da Eraclio. Nel 635 fu presa Damasco, nel 636 Antiochia, nel 637 Gerusalemme, nel 638 la Mesopotamia, fra il 639 e 40 l'Egitto. L'imperatore Eraclio pareva ricaduto nella sua prima apatia, e dopo una debole, inefficace resistenza, morì nel 641, quando l'Impero aveva per sempre perduto le terre al di là del Tauro.
La conquista musulmana era stata preceduta ed apparecchiata dalla conversione religiosa, agevolata anch'essa dalla natura di quelle popolazioni. L'Egitto, la Mesopotamia, l'Armenia avevano sempre resistito alle dottrine del Concilio di Calcedonia sulla Trinità e sulla doppia natura di Gesù Cristo. Le abbiamo già viste inclinare costantemente al Monofisismo, che riconosceva in Gesù Cristo una sola natura, la divina, sostenendo che essa aveva assorbito l'umana. Quest'avversione ad ammettere la doppia natura di Gesù Cristo le rendeva ben disposte al monoteismo musulmano, pel quale le dispute sulla Trinità non avevano nessuna ragione di essere: si lasciavano quindi facilmente convertire alla nuova fede. E il dissidio religioso si mutava allora facilmente in conflitto politico, perchè quelli che divenivano musulmani, chiamavano in loro aiuto gli Arabi, per esser difesi contro l'Impero. Eraclio s'era avvisto in tempo del pericolo religioso, ed aveva cercato di mettervi riparo. Aiutato dal patriarca Sergio, si manifestò fautore della dottrina monotelita, che riconosce in Gesù Cristo una volontà sola, pure ammettendo la sua doppia natura. E con questa specie di compromesso, [307] che sperava di fare accettare a Roma, cercava di soddisfare le tendenze dei monofisiti, per evitare la loro separazione dall'Impero. Pare che papa Onorio fosse a ciò favorevole, avendo detto che l'insistere troppo sulla volontà unica o doppia era una disputa grammaticale ed oziosa. Ma lo spirito della Chiesa cattolica ripugnava sempre a queste transazioni, e più che mai a tollerare che le dispute religiose venissero decise dall'Imperatore: peggio ancora quando la decisione era ispirata da ragioni politiche. Nel 638 Eraclio, incoraggiato dall'attitudine del Papa, pubblicava l'Ecthesis o esposizione della fede, ordinando che non si disputasse più sulla doppia volontà di Gesù Cristo, essendo colla doppia natura ammissibile la volontà unica. Ma la opposizione che si sollevò allora in Italia fu tale, che lo stesso papa Onorio difficilmente si sarebbe potuto astenere dal condannare l'Ecthesis, se quando questo pervenne a Roma, egli non fosse già morto.
La discordia fra Roma e Costantinopoli s'era così di nuovo accesa, ed a farla crescere s'aggiungeva ora il fatto che l'esarca Isacco, venuto a Roma, portò via il tesoro del Laterano, sotto il pretesto d'averne bisogno per dare ai soldati le paghe, che da Costantinopoli non arrivavano. Eletto nel 640 il nuovo papa Severino, si cominciò col non volerlo confermare se prima non approvava l'Ecthesis; ma si dovette poi cedere e riconoscere l'elezione, sebbene egli avesse dichiarato di volere star fermo alla dottrina di Calcedonia. Pochi mesi dopo, nello stesso anno, gli successe Giovanni IV, che convocò subito un Concilio, il quale condannò la dottrina monotelita, senza nominar nè l'imperatore Eraclio, nè il patriarca Sergio, e molto meno papa Onorio, che la Chiesa naturalmente voleva lasciar da parte. La disputa monotelita continuò tuttavia ancora per un secolo, e così l'Ecthesis non era riuscito ad altro che ad aumentar la discordia, aggiungendo [308] ai molti che già v'erano un nuovo scisma, come era seguìto in passato con l'Enotikon.
Quando dunque nel 641 Eraclio moriva, potevasi dire che l'Impero, sempre più violentemente assalito dai Musulmani, sempre più diviso dalle dispute religiose, si trovava in un grandissimo disordine. Rotari quindi non aveva adesso nulla a temere da questo lato. Non mancavano però le discordie interne anche fra i Longobardi, i quali si trovavano in un periodo di transizione, per essersi già molti di loro convertiti al cattolicismo. Rotari, duca di Brescia, scelto a secondo marito da Gundeberga, cattolica e vedova di Arioaldo morto nel 636, era ariano, il che non poteva certo favorire la pace domestica. La divisione religiosa era tale e tanta che, secondo Paolo Diacono, non di rado in una stessa città si trovavano due vescovi, cattolico l'uno, ariano l'altro. Il nuovo re cominciò col fare uccidere parecchi nobili a lui avversi; trattò assai male la moglie cattolica, che tenne per cinque anni chiusa in carcere, nel suo palazzo di Pavia, non sappiamo se per dissensi religiosi o per altra ragione. Essa fu poi liberata per intercessione del re dei Franchi, Clodoveo II, e si dette sempre più a vita devota, facendo limosine, ricostruendo a Pavia la basilica di San Giovanni, nella quale fu poi sepolta.
Non ostante tutti questi turbamenti, Rotari sicuro dalla parte dell'Impero, che era sempre più minacciato ed assalito dai Musulmani, ne profittò per estendere il proprio dominio nella Lunigiana, avanzandosi nella Liguria sino al confine franco verso Marsiglia. E dopo di ciò si volse contro i Bizantini, prese Oderzo, e li battè sul Panaro in una battaglia campale, nella quale, secondo Paolo Diacono, l'esercito che essi avevano raccolto da Roma e da Ravenna, avrebbe perduto 8000 uomini.
In questo tempo (641) moriva il duca di Benevento [309] Arichi, il quale fu prode in guerra, ed aveva esteso il suo Stato nel Sannio, nella Campania, nelle Puglie, nella Lucania, nei Bruzi. Forse allora appunto anche Salerno venne annesso al suo territorio. E così il ducato di Benevento confinava a nord con lo Stato della Chiesa e col ducato di Spoleto, al sud s'estendeva in quasi tutta l'Italia meridionale, divenendo sempre più indipendente. Presso quel Duca s'erano, come vedemmo, rifugiati Rodoaldo e Grimoaldo, i due figli maggiori di Gisulfo suo parente, scampati alla strage fatta dagli Avari nel Friuli. Venendo ora a morte, Arichi raccomandò che si desse la successione ad uno di essi, piuttosto che al proprio figlio Aione, il quale pareva scemo di mente, in conseguenza, si diceva, d'una bevanda misteriosa datagli dall'Esarca. Tuttavia egli successe al padre, ma poco dopo morì (642), ucciso dagli Slavi, che dalla Dalmazia erano venuti a stabilirsi in Siponto. Allora solamente Rodoaldo, il quale li sconfisse e cacciò dal Ducato, potè impadronirsi del potere, che dopo cinque anni lasciò, morendo (647), al fratello Grimoaldo, che lo tenne fino al 662. Essi furono ambedue valorosi, ma dell'uno e dell'altro si sa assai poco. Ignorasi perfino se Rodoaldo si trovasse nel 643 alla grande assemblea di Pavia, dove venne sanzionato il celebre Editto di Rotari; come s'ignora se questo Editto fu allora messo in vigore anche nel ducato di Benevento.
L'Editto pubblicato nel 643, è certamente ciò che Rotari fece di più notevole in tutto quanto il suo regno durato fino al 652. Esso è un monumento storico di grande importanza, e costituisce un atto di vera e indipendente sovranità. Era la prima volta che un barbaro osasse legiferare in Italia, senza tener conto alcuno dell'Impero nè, consapevolmente almeno, della legge romana. Rotari, lo dice nel proemio, non fece altro che raccogliere in iscritto le consuetudini già prevalenti nel suo popolo, cercando di [310] compierle e migliorarle, levandone il superfluo. Tutto ciò «col consiglio e consenso dei Primati nostri Giudici, e di tutto il fedelissimo nostro esercito.» Giudici e Primati erano i Gasindi, i Duchi, i Gastaldi, che comandavano in guerra e giudicavano in pace: esercito, secondo l'uso barbarico, era il popolo stesso dei Longobardi in armi. L'usanza di consultare i Grandi ed il popolo nelle faccende di generale interesse, era antica presso tutti i popoli germanici, come sappiamo anche da Tacito. Ma questa usanza, per le condizioni affatto speciali di vita, e per l'organizzazione tutta militare dei Longobardi, aveva perduto il suo carattere primitivo, ed era divenuta affare più di forma che di sostanza. I Primati non deliberavano, davano solo un parere, un consiglio; il popolo si limitava ad approvare.
Fra le compilazioni di leggi barbariche, l'Editto di Rotari è certo una delle migliori. Ciò si deve al fatto, che gli altri barbari scrissero le loro leggi o consuetudini poco dopo entrati nell'Impero, ed i Longobardi assai più tardi. Sebbene poi questi non se ne avvedessero, è tuttavia per noi visibile nelle loro leggi l'azione indiretta del diritto romano, che apparisce non solo nella stessa lingua latina in cui sono scritte, ma anche in alcune frasi affatto giustinianee, in un ordinamento già fin dal principio alquanto sistematico, ed in alcune disposizioni che evidentemente non possono essere di origine germanica. L'Editto è diviso in trecento ottantotto capitoli, di cui gli ultimi dodici sembrano aggiunti più tardi. Si comincia coi delitti contro [311] lo Stato e le persone; si prosegue col diritto ereditario, l'ordine della famiglia e della proprietà; di diritto pubblico v'è poco o nulla.
Si è molto disputato per sapere se questo Editto si applicava solo ai Longobardi o anche ai Romani. Generalmente le leggi barbariche avevano un carattere personale, erano cioè esclusivamente del popolo che le aveva scritte, e che le portava seco dovunque andava. Quelle dei Longobardi però, e non di essi solamente, avevano anche un carattere territoriale, perchè si applicavano a tutti i popoli venuti con loro in Italia. Prova ne sarebbe, secondo alcuni, il fatto che i Sassoni, i quali volevano vivere colle proprie leggi e le proprie istituzioni, dovettero andar via. Rotari dice nel suo Editto, che egli lo ha compilato per la giustizia, e per amore de' suoi sudditi, senza far tra di essi distinzione alcuna, il che farebbe credere all'applicazione della legge longobarda anche ai Romani: questione, come è noto, assai dibattuta. Certo è che più di una volta l'Editto accenna alla esistenza di altre legislazioni diverse dalla longobarda; e non pare credibile che, se la legge romana fosse stata veramente annullata del tutto, d'una cosa di così grande importanza non si facesse chiaramente menzione neppure una volta. Nè si può concepire come i Longobardi, anche volendo, avrebbero potuto distruggere un diritto, che aveva messo radici secolari, creando fra i vinti Italiani una quantità di relazioni giuridiche, molte delle quali erano ai loro vincitori sconosciute in modo, che per esse la loro legge non provvedeva e non poteva provvedere nulla addirittura. Non si capirebbe poi come, ammessa una volta l'assoluta distruzione del diritto romano nell'Italia longobarda, questo si ritrovasse più tardi in vigore, senza che del suo sparire e del suo riapparire si facesse nei documenti o nelle cronache cenno alcuno. La conclusione più probabile [312] cui bisogna, secondo noi, arrivare è che, sebbene la legge romana non venisse officialmente riconosciuta, pure in molte delle relazioni private che da antico correvano fra gl'Italiani, essa fosse lasciata vivere sotto forma per lo meno consuetudinaria.
Ed invero se dall'Editto di Rotari si può solamente indurre la persistenza del diritto romano, questa apparisce manifesta come un fatto normale nella legislazione posteriore di re Liutprando. «Se un Longobardo, noi leggiamo in essa, dopo avere avuto figli, si fa chierico, questi continueranno a vivere sotto la legge stessa, sotto la quale viveva il padre prima di farsi chierico.» Ciò vuol dire non solamente che v'era un'altra legge, ma che ad essa era sottoposto anche il Longobardo che si faceva chierico. E quale poteva esser mai quest'altra legge se non la romana? Il diritto canonico, che pur vigeva certamente, non era forse pieno d'elementi di diritto romano, e non dovette perciò contribuire a favorirne quel rapido incremento, che apparisce infatti sempre più manifesto? La longobarda è una legislazione essenzialmente barbarica, sulla quale si scorge sin dal principio l'azione d'una civiltà superiore, esercitata per mezzo del diritto romano e del Cristianesimo. Lo stesso Rotari, che dice di raccogliere le consuetudini nazionali e migliorarle, dichiara assurdo l'uso barbarico del duello per risolvere questioni di diritto, e cerca diminuirlo, come cerca di aumentare le composizioni, per mettere un qualche freno alla vendetta (faida) barbarica. In alcuni casi egli condanna l'uccisione delle streghe, come contraria all'umanità ed ai principii del Cristianesimo. Liutprando dice addirittura, che egli crede poco al valore dei così detti giudizi di Dio. Certo [313] a misura che si è approfondito lo studio del diritto longobardo, più chiari sono in esso apparsi gli elementi nascosti di diritto romano. Risorge perciò sempre più la teoria sostenuta dal grande Savigny a favore della persistenza del diritto romano, vera di certo nella sua sostanza, sebbene egli l'abbia qualche volta esagerata. Anche l'esistenza in tutto il Medio Evo di scuole di grammatica e di diritto romano a Ravenna, a Roma ed altrove, apparisce sempre più dimostrata.
La legislazione longobarda è certo un prodotto sostanzialmente germanico, e manifesta costantemente questo suo carattere fondamentale, sebbene in alcuni punti apparisca alquanto alterato dalle condizioni speciali in cui essa venne formulata. È innanzi tutto la legislazione d'un popolo in armi, ma d'un popolo di agricoltori sparsi per la campagna, in case separate, con siepi che circondano i campi. Rotari dichiara fin dal principio d'essere mosso dall'interesse dei propri sudditi, «specialmente rispetto ai continui travagli dei poveri, ed alle esazioni inutili contro i deboli, che noi sappiamo aver patito violenza.» Un tale concetto si può in parte attribuire, come è stato sostenuto, al Cristianesimo; ma in parte si deve anche attribuire al fatto, che i barbari in generale rivolgevano la loro ostilità sopra tutto contro i latifondisti oppressori dei poveri; spogliavano, uccidevano i primi, e spesso favorivano i secondi, ai quali nulla potevano togliere. Certo furono verso i poveri meno oppressori dei Bizantini; nè si sa che nelle campagne o nelle città li opprimessero al pari dei ricchi.
La legislazione longobarda è inoltre, anzi è sopra tutto la legislazione barbarica d'un popolo armato e conquistatore; ed è di sua natura intrinsecamente, essenzialmente contraria allo spirito vero del diritto romano. Quello che vi domina non è il concetto giuridico dello Stato, ma il [314] concetto della forza. La famiglia, primo nucleo e fondamento di una società, in cui il governo è ancora assai debole, si trova fortemente costituita a propria difesa; ma non apparisce giuridicamente coordinata allo Stato, risultando invece unita dai primitivi vincoli del sangue. La donna, come debole, è sottoposta ad una perpetua tutela, che si chiama mundio, da cui non può mai liberarsi: non può mai essere selbmundia. La tutela a cui ella è sottoposta, secondo il diritto romano, è in gran parte determinata dall'interesse della famiglia, che si vuol tenere unita, e della quale non si vuole perciò dividere il patrimonio. Per questa ragione la tutela romana può in alcuni casi cessare. La donna longobarda passa dal mundio del padre a quello del marito, alla morte del quale va sotto il mundio dei parenti di lui, ed in alcuni casi anche dei propri fratelli o del proprio figlio; in ultimo, della Curtis regia: non essendo capace di portare le armi, ella dev'esser sempre sotto il mundio di qualcuno. I maschi la escludono quasi affatto dalla eredità, di cui, quando è nubile, ha solo una piccola parte. La famiglia longobarda non era come la romana una specie di monarchia assoluta, nella quale, massime sotto la Repubblica, il padre aveva un potere illimitato; però anche presso i Longobardi questo potere era grandissimo. La donna maritata trovava qualche protezione nell'autorità serbata ai suoi parenti; e l'autorità paterna sul figlio aveva dei limiti ignoti alla legge romana. Divenuto atto alle armi, esso poteva separarsi dalla propria famiglia, e costituirne un'altra. La legislazione barbarica in generale, come è noto, non conosceva il regime dotale; ma presso i Longobardi la donna possedeva quello che le veniva dal marito, il quale doveva liberarla dal mundio del padre o dei fratelli, pagandone il prezzo; darle la meta che si può dire una specie di dote, e il dono del [315] mattino, morgengab. Il padre le doveva solo il faderfium, che era un dono a suo beneplacito. Presso di essi la proprietà collettiva germanica era scomparsa quasi del tutto, essendone solo qua e là sopravvissuta qualche debole traccia. Osserviamo ancora che nei primi tempi non si trova il testamento, e quando, sotto l'azione del diritto romano, comincia ad apparire, esso è, come la donazione, di sua natura irrevocabile.
Il carattere germanico di questa legislazione, opposto a quello del diritto romano, apparisce più chiaro ancora nel diritto penale. La pena di morte, che era assai rara, si applicava, secondo l'Editto, innanzi tutto a chi attentava alla vita del re, che era tenuta sacra: «il cuore del re è in mano di Dio;» all'adultera, che poteva anche essere uccisa dal marito; alla donna che uccideva il proprio marito; allo schiavo che uccideva il padrone; a chi disertava al nemico, si ribellava contro il re o i duchi, eccitava i soldati alla ribellione. Quanto al resto, tutto il diritto penale longobardo era una serie di composizioni pecuniarie, graduate secondo le persone e secondo i reati. Ma questa pena era intesa a soddisfare la faida, o sia la vendetta privata, riconosciuta legale, ed affidata a tutta la famiglia; non era destinata, come presso i Romani, a ristabilire la giustizia, a vendicare la Repubblica. Qui era il contrasto fondamentale, che ai Romani doveva apparire una barbarie enorme, incomportabile. Il sistema della prova si fondava, oltrechè sul giuramento, sul duello, sul così detto giudizio di Dio, e sui sacramentali, che servivano a scemare i duelli. Il guidrigildo era la pena che si pagava per l'uccisione d'un uomo o d'una donna, ed andava dapprima alla famiglia dell'offeso, più tardi, parte ad essa, parte al Re.
Il vedere che nell'Editto di Rotari non si trova determinato nessun guidrigildo per il Romano ucciso, fece sostenere [316] che dai Longobardi non si desse alla sua vita valore alcuno, e che perciò fosse schiavo. Ma abbiamo già detto, che nessuno più crede alla schiavitù dei Romani, e quindi neppure che alla loro vita non si desse valore alcuno; nessuno più osa dal silenzio della legge dedurre così gravi conseguenze. È superfluo dunque fermarsi a combatterle.