Grimoaldo re — Lotta e poi accordo tra Papa e Imperatore — Costante II in Italia — Morte di Grimoaldo — Bertarido — Cuniberto — Conversione dei Longobardi al cattolicismo — Liutprando
Morto Rotari (652), gli successe il figlio Rodoaldo, che venne ben presto ucciso; ed a lui seguì il cognato Ariperto (653-61), figlio di quel Gundobaldo fratello di Teodolinda, venuto con lei di Baviera, e morto poi duca di Asti. Di Ariperto si sa poco o nulla; e subito dopo segue un periodo assai oscuro, alterato da molte leggende, dalle quali non riesce facile cavare un qualche costrutto storico.
Ariperto lasciò il regno diviso fra i suoi due figli Bertarido e Godeberto, divisione questa assai comune presso gli altri barbari, sopra tutto i Franchi; ma affatto insolita fra i Longobardi, il regno dei quali era già troppo diviso in Ducati. Nè meno singolare è il vedere che i due fratelli ebbero le loro rispettive capitali, il primogenito a Milano, il secondo a Pavia. Così non solo esse erano l'una vicina all'altra; ma il secondogenito risiedeva nella più importante delle due, Pavia essendo stata sempre la [317] capitale del regno. I due fratelli, com'era naturale in tali condizioni, furon subito in guerra fra di loro. E Godeberto mandò Garibaldo duca di Torino a Grimoaldo duca di Benevento, promettendogli in isposa la propria sorella, se veniva a Pavia per aiutarlo contro Bertarido. Grimoaldo allora, quello stesso che vedemmo scampato alla strage seguìta nel Friuli, uomo assai avventuroso, lasciato il governo di Benevento in mano del proprio figlio, si mosse subito con un piccolo esercito, che s'andò ingrossando per via. Arrivato a Pavia, secondo il racconto, che in parte almeno è leggendario, invece d'aiutare Godeberto, lo uccise inopinatamente, tanto che il figlio ebbe appena il tempo di mettersi in salvo. Bertarido, saputo quello che era seguìto, se ne fuggì anch'egli, ricoverando presso gli Avari in tal fretta, che lasciò indietro la moglie ed il figlio Cuniberto, i quali caddero ambedue nelle mani di Grimoaldo, che li mandò prigionieri a Benevento. Grimoaldo sposò poi la sorella di Godeberto, che gli era stata promessa per indurlo a venire in aiuto del fratello, da lui invece detronizzato ed ucciso. Il duca di Torino, che aveva secondato il tradimento, fu da un parente del tradito Godeberto ucciso; ma Grimoaldo venne confermato a Pavia re dei Longobardi (662). Questo fatto aveva grande importanza, perchè egli rimaneva anche duca di Benevento, dove suo figlio governava per lui; e fu la prima, anzi l'unica volta in cui quasi tutta Italia si trovò unita sotto un re longobardo, il che poteva, se fosse durato, avere gravissime conseguenze. Ma chi già se ne risentiva non poco era il Papa, il quale si trovò come stretto in un cerchio di ferro, circondato per ogni lato dai Longobardi. Ciò lo spinse ad avvicinarsi improvvisamente all'Imperatore, col quale era stato fino allora in assai aspro dissenso.
Noi abbiamo già accennato alla disputa monotelita, inasprita [318] dalla pubblicazione dell'Ecthesis, e dall'essersi nel 640 l'Esarca impadronito del tesoro lateranense. Seguì poi la pubblicazione del Tipo, nel quale l'imperatore Costante II (642-68) minacciava pene severissime a coloro che avessero continuato a disputare sulla doppia volontà di Gesù Cristo. Ma papa Martino I (649-53), che aveva un carattere assai energico, raccolse in Laterano un Concilio (649), nel quale intervennero 202 vescovi, che condannarono l'empiissima Ecthesis di Eraclio, e lo scelleratissimo Tipo di Costante. Era la prima volta che un Papa osasse condannare a questo modo editti imperiali; e però l'esarca Olimpio ebbe ordine d'impadronirsi colla forza della persona stessa di Martino I, e mandarlo a Costantinopoli. La leggenda narra che l'Esarca aveva dato ordine d'uccidere il Papa, mentre celebrava la messa; e che l'assassino il quale ne aveva assunto l'incarico accecò nel momento stesso in cui doveva compiere il delitto. Ma allora appunto il rapido avanzarsi dei Musulmani nel Caucaso, nella Siria, in Egitto, più oltre nell'Africa, e finalmente in Sicilia, costrinse Olimpio ad andar loro incontro nell'isola, donde, essendo essi in piccolo numero, si ritirarono. Ed in questo momento scoppiò di nuovo la lotta fra l'imperatore Costante ed il Papa, che il nuovo esarca Teodoro Calliopas, venuto a Roma con un esercito nel giugno del 653, doveva imprigionare. Arrivato che fu l'Esarca, lo trovò a letto, presso l'altare della Basilica lateranense. Il popolo voleva allora colla forza respingere la forza; Martino I però vi s'oppose, vietando che si venisse per lui a spargimento di sangue. Così si lasciò prendere e menare a Costantinopoli, dove sopportò la fame e la tortura; fu poi condotto con un anello al collo nella loggia dove si esponevano i malfattori, senza che con ciò si riuscisse a piegarlo. Finirono col mandarlo in Crimea, dove morì nel settembre [319] del 655, e fu dichiarato Santo dalla Chiesa. All'abate Massimo, che era stato ardente sostenitore delle due volontà, venne mozza la destra e strappata la lingua.
Or fu appunto, quando a questo Papa così iniquamente trattato successero prima Eugenio I (654-57) e poi Vitaliano I (657-72), che noi vediamo iniziato e concluso l'accordo politico coll'Imperatore, senza che questi avesse da Roma ottenuto nessuna concessione nella disputa religiosa. Ciò si dovette in parte al minaccioso e continuo avanzarsi dei Musulmani, i quali nel 655, in un luogo detto alle Colonne, presso il Monte Fenice, sulla costa della Licia, in una grande battaglia navale sconfissero e posero in fuga l'imperatore Costante. A questo fatto, che portò un vero spavento in tutta la Cristianità, s'aggiunsero la cresciuta potenza dei Longobardi, e i dissensi religiosi che agitavano l'Italia. In Aquileia s'era riaccesa la controversia dei tre Capitoli, sebbene i Papi avessero fatto ogni opera per sopirla. La Chiesa di Milano dava segni manifesti di volersi rendere indipendente a similitudine di quella di Ravenna, dove un tale desiderio era assai antico, e dove l'arcivescovo Mauro voleva ora assumere addirittura il titolo di Patriarca.
In conseguenza di tutto ciò, messo pel momento da parte ogni dissenso religioso, Papa e Imperatore si unirono. Nel 662 Costante partiva da Costantinopoli per venire con un esercito in Italia, dove nessuno sapeva indovinare con precisione che fine veramente egli avesse. Secondo alcuni voleva portar la sua sede in Sicilia, per farne centro dell'Impero, a meglio difenderlo contro i Musulmani; secondo altri veniva invece per frenare la potenza dei Longobardi. In questo caso il momento non sarebbe stato male scelto. Egli era infatti partito da Costantinopoli nell'anno in cui Grimoaldo fu proclamato re dei Longobardi; sbarcava a Taranto nel 663, ed ingrossato [320] per via l'esercito, andò subito verso Benevento, quando, per le discordie con violenza scoppiate nell'alta Italia, era assai difficile che Grimoaldo potesse mandare aiuti al figlio Romualdo. Il quale tuttavia, vedendo addensarsi sul suo capo la tempesta, mandò il proprio balio Sessualdo ad avvertire di tutto il padre in Pavia. Questi, senza metter tempo in mezzo, senza pensare al pericolo di lasciare un regno a mala pena conquistato con un colpo di mano e pieno perciò di scontento, si mosse subito in aiuto del figlio. Non lo sgomentarono le diserzioni seguite per via, nè la voce sparsa che egli non sarebbe potuto più tornare a Pavia. Sessualdo che lo aveva preceduto, tornando per avvertire il figlio del prossimo arrivo degli aiuti, fu fatto prigioniero da Costante, il quale lo condusse sotto le mura di Benevento, dove voleva colle minacce e con la violenza indurlo ad affermare a Romualdo, che il padre non sarebbe in nessun modo potuto venire a soccorrerlo. Ma Sessualdo invece, quando vide il giovane Duca alle mura, esclamò eroicamente: — Fatti animo, Grimoaldo è per giungere; questa notte sarà al fiume Sangro. — Dopo di che, prevedendo il suo inevitabile destino, gli raccomandò la moglie ed i figli. Infatti ben presto l'Imperatore gli fece troncar la testa, che fu con una macchina di guerra gettata dentro le mura di Benevento, dove Romualdo la baciò piangendo. Costante si ritirò, lasciando intorno a Benevento 20,000 uomini, che furon battuti dalle forze riunite di Romualdo e di Grimoaldo.
L'Imperatore andatosene allora a Roma (5 luglio 663), donde il Papa gli venne incontro a sei miglia dalle mura, visitò le chiese, lasciandovi donativi; ma portò via preziosi bronzi, fra cui anche il tetto del Panteon, che era dorato. Di là, per Napoli e le Calabrie, se ne tornò in Sicilia, dove per cinque anni, oppresse siffattamente il [321] paese, che nel 668 venne affogato in un bagno. Gli successe il figlio Costantino Pogonato (668-85).
Grimoaldo doveva pensare adesso a ristabilire l'ordine nel suo regno. Lasciato quindi il figlio al governo di Benevento, dette una sua figlia in isposa al conte di Capua, che lo aveva aiutato nella guerra contro l'Imperatore, e lo nominò duca di Spoleto. Tornato a Pavia, si diede a combattere coloro che lo avevano abbandonato o tradito. Quegli di cui più doveva temere era certo Bertarido, che rifugiatosi presso gli Avari, divenne subito il richiamo di tutti gli scontenti. Grimoaldo invano fece il tentativo d'indurre gli Avari a darglielo nelle mani. Allora Bertarido, fattosi animo, mandò il suo fido Unulfo a dirgli, che sarebbe venuto spontaneamente, sicuro della lealtà di lui; e Grimoaldo lo accolse amichevolmente nel suo proprio palazzo. Ma tale e tanto fu il numero di coloro che accorrevano a lui, che i sospetti crebbero ogni giorno, ed il Re decise finalmente di uccidere il suo ospite. Questi fattone consapevole, riuscì a fuggire coll'aiuto di Unulfo, a lui sempre fido compagno. Grimoaldo si diede allora a combattere Lupo, duca del Friuli, un altro di coloro che gli si erano ribellati durante la guerra; e gli mosse contro gli Avari, che lo sconfissero ed uccisero. Dopo aver fatto altre vendette, strinse amicizia coi Franchi nel 671, e poi morì. Forte, valoroso ed avventuroso, par che fosse anche tra i convertiti al cattolicismo. Nel 668 aggiunse alcuni nuovi capitoli all'Editto di Rotari. Fu certo fortunato nelle sue imprese guerresche; ma anche a lui mancò un concetto politico direttivo. Quando infatti l'imperatore Costante si era ritirato in Sicilia, egli avrebbe dovuto dedicarsi a compiere la conquista dell'Italia meridionale, ad impadronirsi di Napoli e di Roma, il che lo avrebbe reso più forte anche nell'Italia superiore; ma invece, tornatosene [322] subito nel settentrione, perdè il tempo in piccole vendette o guerre alla spicciolata. Così tutto ricadde nell'antico disordine; e morendo egli lasciò nuovamente l'Italia divisa. Il suo primogenito Romualdo ebbe il ducato di Benevento; il secondogenito Garibaldo governò sotto la reggenza della madre, che era sorella di Bertarido. Ma questi, che s'era rifugiato in Francia, accorse ora in Italia, dove fu subito riconosciuto re dei Longobardi; e di Garibaldo non si sentì più parlare. Bertarido che era anch'esso fervido cattolico, regnò diciassette anni, costruì molte chiese e conventi, favorì sempre più la generale conversione dei Longobardi, che procedette assai rapida, ma pel grande mutamento che portava, fu causa continua di disordini.
Il fatto più notevole che avvenne, fu la ribellione di Alachi duca di Trento, assai avverso al clero, che Bertarido invece favoriva con ardore. Ma questi, dopo averlo sottomesso, volle usargli clemenza, sebbene prevedesse che ciò sarebbe riuscito funesto alla sua famiglia. Infatti, morto che fu Bertarido nel 688, lasciando erede il figlio Cuniberto, Alachi insorse di nuovo e s'impadronì colla violenza del regno. Se non che il suo carattere violento e dispotico, la sua avversione al clero, la sua condotta sleale promossero una ribellione che richiamò Cuniberto, e così il regno si trovò diviso in due partiti, lacerato da due pretendenti, i quali finalmente s'affrontarono sull'Adda, dove Alachi venne sconfitto e rimase ucciso.
Durante questo tempo la società longobarda subiva una notevole trasformazione. Il progresso del cattolicismo promoveva la cultura, faceva a poco a poco un popolo solo dei vincitori e dei vinti, che sembravano risorgere a vita novella. E ciò si scorge nel linguaggio stesso adoperato da Paolo Diacono, quando descrive la lotta fra [323] Alachi e Cuniberto, dando allora per la prima volta importanza alle città della Penisola. Infatti egli dice che Alachi, passando per Piacenza e per la parte orientale del regno, cercò colla forza e colle blandizie di farsi amiche e socie le varie città, singulas civitates. Giunto poi a Vicenza i cittadini gli mossero guerra; ma dopo essere stati vinti, gli divennero anch'essi socii (V. 39). Queste ed altre espressioni finora insolite nella sua storia, farebbero credere che a lui apparisse già chiaro, come le città italiane cominciassero allora ad acquistar nuova importanza. Certo è in ogni modo che Cuniberto regnò fino al 700 in buonissimi termini col clero, e nella Corte di Pavia si videro allora per la prima volta fiorire i germi d'una nuova cultura.
Ma alla sua morte ricominciarono i disordini, perchè al figlio Liutberto, affidato alle cure del fido e valoroso Ansprando, si oppose il parente Ragimberto, che s'impadronì del trono e lo lasciò ben presto al figlio Ariberto II (701-12). Questi dovette però difendersi contro Ansprando, e lo vinse pienamente, costringendolo a cercare scampo in Baviera. Fece crudele vendetta contro la moglie e i figli di lui, ai quali tagliò le orecchie, cavò gli occhi, strappò la lingua. Lasciò tuttavia che presso il padre si ponesse in salvo solamente il giovanetto Liutprando, che per la tenera età egli credette innocuo; ma che invece era destinato ad essere il più illustre re dei Longobardi. Infatti, quando Ariberto pareva sicuro sul trono, e nonostante le molte sue crudeltà, era lodato e sostenuto dal clero pel suo zelo religioso, pei doni alle chiese, per la restituzione fatta al Papa o, come si diceva, a S. Pietro di alcune terre nelle Alpi Cozie, usurpate dai Longobardi, giunse invece il giorno della vendetta. Ansprando, che era riuscito in Baviera a mettere assieme un esercito, venne in Italia; ed Ariberto dopo debole resistenza [324] cedette, cercando di ricoverarsi in Francia. Corse perciò a Pavia, raccolse quanto oro potè, e si dette con esso a precipitosa fuga, tentando di ripassare a nuoto il Ticino, così carico come era; ma invece, pel peso che seco aveva, affogò. Ansprando allora salì sul trono, ed essendo morto poco dopo (18 giugno 712), lo lasciò al figlio Liutprando. Così ebbe fine questo lungo periodo di confusione e di disordine, quasi d'anarchia, cui fu in preda la società longobarda, durante la sua conversione al Cattolicismo.