CAPITOLO III.

Luigi XII in Italia. - Disfatta e prigionia del Moro. - Niccolò Machiavelli al campo di Pisa. - Prima legazione in Francia.

(1499-1500)

I Fiorentini s'erano affrettati a condannare il Vitelli, anche perchè non volevano che i nuovi e prosperi successi della Francia in Lombardia ponessero ostacolo alla esecuzione della sentenza. Questi eventi, infatti, portarono non piccola alterazione nelle cose di Toscana, e però dobbiamo ora parlarne.

Dopo la battaglia di Fornuovo, il Moro pareva divenuto davvero, secondo il suo antico desiderio, arbitro delle cose d'Italia. E per Firenze si ripeteva:

Cristo in cielo e il Moro in terra

Solo sa il fine di questa guerra.

Egli stesso aveva fatto coniare una medaglia d'argento, con un vaso d'acqua da un lato, e il fuoco dall'altro, a simboleggiare che si teneva padrone della pace e della guerra. Aveva anche sopra una parete del suo palazzo fatto disegnare la carta d'Italia con molti galli, galletti e pulcini, ed un moro che li spazzava tutti con la granata in mano. Quando però chiese all'ambasciatore fiorentino, Francesco Gualterotti, che cosa pensasse del quadro, questi rispose che l'invenzione era bella, ma gli sembrava che quel moro, volendo spazzare i galli fuori d'Italia, si tirasse addosso tutta la spazzatura. E così fu veramente.

Luigi XII pretese sempre d'aver diritti sul Ducato di Milano. Salito che fu sul trono di Francia, cominciò subito col provvedere alla sicurezza interna dello Stato, diminuì le imposte, ordinò l'amministrazione, nominò ministro dirigente Giorgio d'Amboise arcivescovo di Rouen, rispettò le autorità costituite, e non deliberò mai senza consultarle, mantenne l'indipendenza delle Corti di giustizia, incoraggiò le libertà gallicane, fu economo. Quando con questo nuovo indirizzo egli ebbe assicurato l'ordine allo Stato, e molto favore a sè stesso, rivolse l'animo alla guerra d'Italia, che ormai non era più impopolare in Francia, per la maggiore fiducia che s'aveva nel nuovo Re, e pel desiderio di vendicare le umiliazioni sofferte. Il 9 febbraio del 1499 egli concluse coi Veneziani una lega offensiva e difensiva, per la conquista del Ducato di Milano, di cui s'obbligava a ceder loro una parte. Così il Moro si trovò tra due fuochi, senza speranza di soccorso, giacchè i Fiorentini erano stati sempre amici della Francia, ed il Papa, dopo le promesse di aiuti al Valentino, la secondava anch'egli. L'esercito francese, comandato da G. G. Trivulzio milanese, che dopo la battaglia di Fornuovo aveva acquistato un gran nome, e da altri capitani di grido, forte di molti Svizzeri, si avanzò con una grande rapidità senza trovare ostacoli. I capitani del Moro parte lo tradirono, parte furono incapaci, ed il popolo si sollevò contro di lui; sicchè egli dovè pensare alla fuga, prima ancora che si fosse riavuto da questi inaspettati rovesci. Si fece precedere dai due figli, accompagnati da suo fratello, il cardinale Ascanio, cui affidò la somma di 240,000 ducati. Il 2 settembre li seguì egli stesso in Germania.

Il dì 11 di quel mese l'esercito francese entrò in Milano, e poco dipoi fece il suo solenne ingresso Luigi XII, cui subito si presentarono gli ambasciatori dei vari Stati italiani, tra i quali ricevettero migliore accoglienza quelli di Firenze, per essersi la Repubblica, nonostante qualche oscillazione, serbata sempre fedele alla Francia così nella prospera, come nell'avversa fortuna.

I Fiorentini avevano però molte ragioni d'essere scontenti dei capitani francesi restati in Toscana, ai quali attribuivano la resistenza dei Pisani, e in parte l'esito sfortunato dell'assedio, il che li aveva appunto allora costretti a levare il campo ed a decapitare Paolo Vitelli. Ma invece di perdersi in vani lamenti, conchiusero in Milano un nuovo trattato col Re (19 ottobre 1499). Questi si obbligò ad aiutarli a sottomettere Pisa in ogni modo; essi dovevano tener pronti, per mandarli a Milano, 400 uomini d'arme e 3000 fanti, aiutare l'impresa di Napoli con 500 uomini d'arme e 50,000 scudi. La resa di Pisa doveva seguire prima che i Francesi tornassero nel Napoletano, e i Fiorentini dovevano intanto restituire al Re le somme imprestate loro dal Moro, secondo che verrebbero determinate da G. G. Trivulzio, dopo avere esaminato le carte trovate a Milano. E promettevano inoltre pigliare a loro soldo il prefetto Giovanni della Rovere, fratello del cardinale di San Piero in Vincoli, cui la Francia voleva far cosa grata.

Ma tutto ciò rimase sospeso a cagione di nuovi eventi. I Francesi, specialmente il loro generale Trivulzio, che era stato nominato governatore di Milano, scontentarono per modo le popolazioni, che il Moro, presentatosi alla testa di 8000 Svizzeri da lui nuovamente assoldati, e 500 uomini d'arme, venne acclamato da coloro stessi che poco prima lo avevano cacciato, ed entrò in Milano il giorno 5 di febbraio. Il Trivulzio ne era già prima uscito, lasciando però ben guardato il castello; a Novara lasciò altri 400 uomini, e s'avanzò verso Mortara, dove stette ad aspettare rinforzi, mentre parecchi de' suoi Svizzeri lo abbandonavano per servire anch'essi il Moro, che dava paghe migliori. Se non che, nell'aprile, scesero in Italia, sotto il comando del La Trémoille, 10,000 Svizzeri, i quali combattevano agli stipendi della Francia. Ben presto i due eserciti si trovarono di fronte, già in ordine di battaglia, quando gli Svizzeri del Moro dichiararono che essi erano stati assoldati individualmente, e però non potevano combattere contro la bandiera elvetica, portata dai loro connazionali, che Luigi XII aveva avuti mediante trattato concluso direttamente con la Confederazione. E così lo tradirono in faccia al nemico, chiedendo ancora, con mille pretesti e senza indugio, le paghe scadute, non volendo neppure aspettare fino a che arrivassero a lui aiuti italiani. Tutto quello che il misero Duca potè ottenere, fu di nascondersi nelle loro file, travestito da frate per salvarsi. Ma, fosse la sua paura o il nuovo tradimento d'alcuni soldati, egli fu riconosciuto e preso prigioniero il 10 di aprile 1500. La stessa sorte toccò a parecchi de' suoi capitani ed al fratello Ascanio, che, fuggito da Milano, fu da un falso amico tradito ai Veneziani, e da essi ceduto ai Francesi. Così, secondo la profezia del Gualterotti, il Moro s'era veramente «tirata addosso tutta la spazzatura,» e la sua fortuna cadde per sempre. Quando entrò prigioniero a Lione, accorse a vederlo una tal moltitudine, che bisognò difenderlo colle armi. Chiuso nel castello di Loches in Turena, vi morì dopo 10 anni di dura prigionìa. Il cardinale Ascanio fu condotto invece nella torre di Bourges, ma venne dopo qualche tempo rimesso in libertà.

Il Re, fatto accorto dalla passata esperienza, mandò a governare la Lombardia Giorgio d'Amboise, il quale era adesso cardinale, e lo chiamavano in Italia il cardinale di Roano (Rouen). Egli, pensando che valeva meglio «taglieggiare che saccheggiare,» condannò Milano a pagare per le spese di guerra 300,000 ducati, e così, in proporzione, le altre città, promovendo assai minore scontento di quel che aveva fatto il Trivulzio. Dopo di ciò fece il suo ingresso nella capitale lombarda, precedendo di poco il Re, che subito fu colà raggiunto dall'ambasciatore fiorentino, Tommaso Soderini, venuto a congratularsi ed a trattare circa il numero dei soldati da mandare a Pisa, secondo i patti già prima fermati. Fu giudicato che bastassero 500 lance, 4000 Svizzeri e 2000 Guasconi, le prime a spese della Francia, gli altri invece, con le artiglierie e carriaggi, pagati dai Fiorentini, a ragione di 24,000 ducati il mese. Questi patti erano onerosissimi per la Repubblica, che già aveva assunto tanti altri obblighi verso la Francia; pure si piegò a tutto, per la speranza di potere con un valido esercito venir subito a termine dell'impresa, sborsando solo due o tre paghe.

Invece dovette fare adesso una nuova e più dura esperienza dei Francesi. Il cardinale di Rouen, nelle cui mani era la somma delle cose, cercava di far mantenere da altri l'esercito del Re, e quindi volle non solo che le paghe cominciassero a decorrere dal maggio, assai prima cioè che le genti fossero in Toscana, ma ancora che se ne promettesse una pel ritorno. E bisognò consentire. Ai 22 di giugno finalmente gli Svizzeri ed i Guasconi partirono da Piacenza con 22 falconetti e 6 cannoni, sotto il comando del Beaumont, chiesto dai Fiorentini stessi, invece d'Ives d'Alègre, che il Re voleva mandar loro. Il Beaumont o Belmonte, come lo chiamavano tra noi, era il solo dei capitani francesi rimasti in Toscana, che avesse serbato la fede. Messo al comando di Livorno, l'aveva, secondo i patti, ceduta ai Fiorentini, i quali per ciò appunto di lui solamente si fidavano. I nuovi mercenarî svizzeri e guasconi s'avanzarono con lentezza, taglieggiando e saccheggiando le terre per cui passavano, a benefizio proprio o del Re, sebbene avessero già riscosso le paghe. Anzi, quando a Piacenza furono numerati, se ne trovarono 1200 più del fissato, e bisognò, per una volta almeno, pagare anch'essi. La condotta di tutta questa gente sarebbe davvero inesplicabile, se non si sapesse che cosa erano allora i soldati mercenarî, e se non si sapesse che il cardinale di Rouen mirava sopratutto a cavar danari da amici e da nemici. Si fermarono quindi a Bologna per averne dal Bentivoglio; ed in Lunigiana, contro ogni volontà dei Fiorentini, spogliarono Alberigo Malaspina di parte del suo proprio Stato, istigati a ciò dal fratello Gabriello, cui lo cedettero. Pigliarono Pietrasanta, e non la resero ai Fiorentini, come avrebbero dovuto. Le grida, i tumulti e le minacce che facevano per avere le vettovaglie, di cui parevano sempre scontenti, erano poi qualche cosa d'incredibile.

La Repubblica aveva già mandato Giovan Battista Bartolini commissario al campo, perchè apparecchiasse tutto; ma conoscendo che cosa era la petulante insolenza dei soldati stranieri, aveva mandato anche presso di loro due commissarî speciali, Luca degli Albizzi e Giovan Battista Ridolfi, con Niccolò Machiavelli in qualità di loro segretario. Questi avevano assai difficile faccenda alle mani, perchè dovevano accompagnare l'esercito e provvedere alle insaziabili voglie di quelle orde affamate, che dopo il pasto avevano più fame che prima. Presero la via di Pistoia e Pescia, ragguagliando i Signori con brevi lettere del loro cammino. Il 18 giugno, arrivati a Camaiore, incontrarono l'esercito che accompagnarono a Cascina, dove giunsero il 23. Qui si cominciarono subito a sentire più forti i minacciosi lamenti, per la pretesa mancanza di vettovaglie, specialmente del vino. Giovan Battista Ridolfi, che sin dal principio era stato contrario al chiedere o accettare gli aiuti di Francia, dai quali non si aspettava nulla di bene, appena seguirono i primi disordini, se ne partì col pretesto di far conoscere ai Signori lo stato delle cose, e sollecitare pronti rimedî. Ma Luca degli Albizzi, uomo d'un coraggio quasi temerario, restò invece col Machiavelli in mezzo alle orde minacciose, senza mai perdersi d'animo. A qualcuno che lo consigliava di starsene alquanto lontano dal campo, rispose: chi ha paura, torni a Firenze, e andò oltre con l'esercito. Vennero ambasciatori pisani, offerendo di cedere la città in mano dei Francesi, con la condizione però che la tenessero un 25 o 30 giorni prima di darla ai Fiorentini. Il Beaumont voleva accettare; ma l'Albizzi, in nome dei Signori, ricusò, dicendo che in un mese potevano seguire mutamenti impreveduti, e che ormai, essendo armati era necessario usare la forza.

Il 29 giugno l'esercito era finalmente sotto le mura di Pisa, in numero di 8000 uomini, sempre lamentando la mancanza di vettovaglie; pure la notte si piantarono le tende, e poi si puntarono le artiglierie. L'Albizzi, sempre in mezzo a loro, faceva quanto era in lui perchè nulla mancasse, e non si sgomentava, sebbene vedesse molto chiaro che da un momento all'altro poteva trovarsi a gravissimo pericolo. «S'egli è possibile mandarci del pane, voi ci rimetterete l'anima in corpo,» scriveva il 30 di giugno al commissario Bartolini, che si trovava in Cascina. Quello stesso giorno si cominciò a far fuoco, e si durò fino alle ore 21, quando furono gettate a terra da quaranta braccia di mura. Era il momento di dare l'assalto e farla finita; ma s'avvidero, invece, che i Pisani avevano cavato un fosso dietro al muro, e dietro al fosso fatto ripari, dai quali si difendevano; sicchè non fu possibile andar oltre. E così anche questa volta, nel momento in cui la città pareva presa, tutto andò in fumo. L'esercito invilito cominciò a ritirarsi ed a tumultuare di nuovo, per la mancanza o la cattiva qualità delle vettovaglie, e subito fu in un così gran disordine, che il Beaumont disse all'Albizzi di non poter più rispondere della impresa, dando la colpa di tutto ai cattivi provvedimenti de' Fiorentini. Nè valsero proteste o assicurazioni in contrario.

Il 7 luglio i soldati guasconi se ne erano senz'altro partiti, tanto che l'Albizzi scriveva al Bartolini, che li trattasse addirittura da nemici. Ma il giorno seguente scriveva ai Signori, che gli Svizzeri erano entrati nella sua camera, chiedendo danari e minacciando pagarsi del suo sangue. «I Francesi sembrano spaventati, scusansi e confortansi con l'acqua fresca; lo stesso capitano Beaumont è smarrito, ma insiste sempre per aver le paghe. Io non volli prima annoiare invano le Signorie Vostre; ma ora bisogna in ogni modo risolvere che partito si vuol prendere con questa gente, e provvedere. Sarebbe bene pensare anche se si vuole salvare la mia vita.» «Non reputino le Signorie Vostre che viltà muova a questo, che io intendo a ogni modo non fuggire il pericolo, quando sia giudicato a proposito della Città.»

Le previsioni dell'Albizzi s'erano il giorno dopo già avverate. Il Machiavelli, della cui mano sono la più parte di queste lettere, scriveva dal campo, in suo proprio nome, che verso le tre ore s'erano presentati un centinaio di Svizzeri, chiedendo danari, e non ottenendoli, avevano menato prigioniero l'Albizzi. Questi venne trascinato a piedi fino all'alloggiamento del baglì di Dijon, e di là scriveva lo stesso giorno, che trovavasi d'ora in ora a disputare la vita, in mezzo ai soldati che lo minacciavano con le alabarde in sul viso. Volevano che désse le paghe anche ad una compagnia di circa 500 Svizzeri arrivati da Roma, alla qual cosa, non avendo essa alcun fondamento di ragione, s'era opposto energicamente. Neppure in quei difficili momenti egli perdette la calma, anzi nella stessa lettera dava utili consigli; si doleva però amaramente d'essere stato abbandonato «come persona rifiutata e perduta.... Che Dio mi conforti almeno, se non con altro, con la morte.» Non ci fu però verso d'essere liberato fino a che non sottoscrisse, obbligandosi personalmente a pagare 1300 ducati per gli Svizzeri venuti da Roma. L'esercito allora si sciolse, ultimi a partire essendo stati gli uomini d'arme. Dopo tante spese e tanti sacrifizi, i Fiorentini si trovavano ora col campo sfornito di gente, e coi Pisani divenuti più audaci di prima. Mandarono subito Piero Vespucci e Francesco Della Casa, nuovi commissari, a provvedere, per quanto si poteva, così alle paghe, come a raccogliere dai luoghi vicini nuove genti. Il Re scrisse lettere, dolendosi dell'accaduto, rimproverando i capitani, minacciando i soldati, promettendo di sottomettere Pisa in ogni modo. Ma erano parole, cui non tenevano dietro i fatti. Mandò il Duplessis, signore di Courçon, che a Firenze chiamavano Corcu o Corco, perchè esaminasse sul luogo quanto era accaduto, e riferisse.

Intanto però i Pisani uscivano dalle mura, e pigliavano prima Librafatta, poi il bastione detto della Ventura, che con molta spesa era stato costruito dal Vitelli. In questo modo aprivano le loro comunicazioni con Lucca, di dove ricevevano aiuti continui. Il Courçon, è vero, offeriva ai Fiorentini nuove genti del Re, con le quali potevano, egli diceva, fare continue scorrerìe, e stancare nel verno i Pisani, per sottometterli poi, al sopravvenire della buona stagione. Ma essi non vollero ormai più sapere nè di Francesi nè di Svizzeri, cosa che irritò moltissimo il Re, il quale, scontento dell'esito dell'impresa, perchè vergognoso alle sue armi, ne dava colpa ai Fiorentini, che avevano voluto a loro capitano il Beaumont e non Ives d'Alègre, da lui offerto; non avevano provveduto alle vettovaglie, nè dato in tempo le paghe richieste. Ma la principale ragione del suo scontento, era il vedere svanita la speranza di potere più a lungo addossare a Firenze la spesa d'una parte del suo esercito. Questi lamenti, non senza minacce, erano assai gravi, ed i nemici della Repubblica soffiavano tanto nel fuoco, che si credette necessario mandare in Francia messer Francesco Della Casa e Niccolò Machiavelli, come quelli che essendosi trovati ambedue al campo, potevano ragguagliare de visu il Re, e smentire le ingiuste e calunniose accuse, annunziando anche l'arrivo sollecito di nuovi ambasciatori, per trattare accordi.

Fino all'anno 1498 Niccolò Machiavelli aveva assai poco conosciuto gli uomini ed il mondo; il suo spirito s'era formato principalmente coi libri, massime cogli scrittori latini e la storia di Roma. Ma nei due anni trascorsi dipoi aveva con molta rapidità cominciato a fare esperienza della vita reale e delle faccende di Stato. La legazione a Forlì gli aveva dato una prima idea degl'intrighi diplomatici; l'affare del Vitelli e la condotta degli Svizzeri gli avevano ispirato un profondo disprezzo, quasi un odio contro i soldati mercenarî. La morte di suo padre, seguìta il 19 maggio 1500, quattro anni dopo quella della madre, e pochi mesi prima che morisse la sorella sposata al Vernacci, lo costrinse a far da capo della famiglia, sebbene non ne fosse il primogenito, e gli aumentò quindi cure e pensieri. La gita in Francia apriva adesso un nuovo campo di osservazione ed un largo orizzonte dinanzi al suo spirito, tanto più che, dopo i primi mesi, essendosi ammalato il suo collega, egli restò solo incaricato della modesta, ma pure importante legazione.

Il 18 luglio 1500 fu fatta la deliberazione, che mandava il Della Casa ed il Machiavelli al Re, e vennero scritte le istruzioni con cui erano incaricati di persuadergli, che tutti i disordini del campo erano seguiti per colpa solamente de' suoi soldati, e cercare d'indurlo a diminuire le ingiuste ed esorbitanti pretese di denari, che egli voleva prima d'aver sottomesso Pisa. Dovevano far capo dal cardinale di Rouen, e guardarsi bene dallo sparlargli del capitano Beaumont, suo protetto. «Se però,» dicevano i Signori, «voi trovaste disposizione a sentirne dir male, allora fatelo vivamente e dategli imputazione di viltà e di corruzione.» Lorenzo Lenzi, che era stato già da più tempo con Francesco Gualterotti ambasciatore fiorentino in Francia, sebbene fosse per andar via, ripeteva loro presso a poco le stesse cose. Potevano essi sparlare quanto volevano degl'Italiani al campo; ma, «solo come in un trascorso di lingua,» lasciarsi andare ad accusare i veri colpevoli.

Bisognava dunque navigare tra Scilla e Cariddi, per non offendere l'insolenza francese. Ed a queste difficoltà s'aggiungeva ancora l'essere i due inviati uomini di assai modesta condizione sociale, non ricchi e male retribuiti. A Francesco Della Casa era assegnato lo stipendio di lire otto di fiorini piccoli al giorno, ed al Machiavelli, che aveva grado inferiore, solo dopo molti lamenti da lui fatti per le spese incomportabili che sosteneva, non punto minori di quelle del suo collega, fu dato uguale stipendio: ma l'uscita restò sempre superiore all'entrata. Ben presto egli aveva già speso di suo quaranta ducati, ed ordinato al fratello Totto di far nuovo debito per altri settanta. Dovendo seguire il Re di città in città, era stato necessario fornirsi di servi e di cavalli, e sebbene in sul partire avessero avuto 80 fiorini ciascuno, avevano subito speso 100 ducati; il vivere e mantenersi decentemente costava loro uno scudo e mezzo al giorno, cioè più di quello che ricevevano. Così ambedue se ne lamentavano, massime il Machiavelli, che non era ricco, ma di sua natura facile allo spendere.

Comunque sia di ciò, il 28 di luglio essi erano a Lione, dove trovarono il Re partito. Lo raggiunsero a Nevers, e dopo aver parlato col cardinale di Rouen, furono ricevuti il 7 agosto, presente esso cardinale, il Rubertet, il Trivulzio ed altri. Gl'Italiani formavano un terzo della Corte, erano tutti scontentissimi e desiderosi che l'esercito francese tornasse presto a rivalicare le Alpi. Esposti i fatti, appena che si accennava ad accusare i soldati di Francia, il Re ed i suoi «tagliavano i discorsi.» Tutto doveva essere colpa dei Fiorentini. Luigi XII voleva pel suo decoro condurre a termine l'impresa di Pisa, e però bisognava dar subito i danari necessarî. Gli oratori risposero che alla Repubblica, esausta come era, col popolo scontento per gli ultimi fatti, sarebbe stato impossibile trovarli. Si poteva bene sperare di averli ad impresa finita, quando la città di Pisa fosse stata consegnata. Ma qui subito esclamarono tutti ad una voce, che questa era una sconvenientissima proposta, perchè il Re non poteva fare le spese ai Fiorentini. E così si continuò per molti giorni sempre allo stesso modo. Luigi XII vuol mandare i soldati, che i Fiorentini non vogliono; lamenta che gli Svizzeri non abbiano avuto il danaro fissato, e non dà ascolto quando gli si osserva che neppure avevano prestato il servizio promesso. Il cardinale insiste vivamente, ed il Courçon, tornato di Toscana, aggrava lo stato delle cose, che finisce col divenire minaccioso davvero. «I Francesi,» scrivevano i due oratori, «sono accecati dalla loro potenza, e stimano solo chi è armato o è pronto a dar danari. Vedono in voi mancare queste due qualità, e però reputanvi ser Nichilo, battezzando l'impossibilità vostra, disunione, e la disonestà dell'esercito loro, cattivo governo vostro. Gli ambasciatori qui residenti sono partiti, nè si sente che arrivino i nuovi. Il grado e la qualità nostra, senza commissione grata, non sono per ripescare una cosa che sommerga. Il Re è quindi scontentissimo, lamenta sempre d'aver dovuto pagare agli Svizzeri 38,000 franchi, i quali, secondo la convenzione di Milano, dovevate pagar voi, e minaccia fare di Pisa e d'altre terre vicine uno Stato indipendente.» Per dar poi un utile consiglio, i due oratori suggerivano alla Repubblica «di farsi, mediante danaro, alcuni amici in Francia, mossi da altro che da affezione naturale; giacchè così fa chiunque ha da trattare qualche faccenda in questa Corte. E chi non fa così, crede di vincere il piato senza pagare il procuratore».

Fino al 14 settembre le lettere erano state firmate sempre dai due inviati, ma erano quasi tutte scritte di mano del Machiavelli. Quel giorno poi il Re partiva da Melun, e il Della Casa, ammalato, andava per curarsi a Parigi; sicchè il Machiavelli restava solo a continuare il viaggio e la legazione, che dal 26 settembre in poi prende subito maggiore importanza, e s'estende in un più vasto campo. Egli non si ferma più al solo affare, pel quale era stato inviato; ma interroga, discorre sulle varie questioni attinenti alla politica italiana; di tutto ragguaglia i Signori, e poco dopo, invece, ragguaglia i Dieci, che furono allora rieletti, e tutto ciò fa con tale e tanta premura, con tanto ardore, che qualche volta sembra quasi perdere di vista lo scopo particolare, molto limitato, della sua commissione. Valendosi ora del latino ed ora del francese, giacchè nella stessa Corte ben pochi parlavano l'italiano, egli ragionava con tutti, interrogava ognuno. E per la prima volta vediamo incominciare a manifestarsi tutta la penetrazione e l'originalità del suo ingegno, la potenza e la forza maravigliosa del suo stile. Viaggiando col cardinale di Rouen, e trovandolo sempre duro sull'altare del danaro, volse il discorso sull'esercito che il Papa raccoglieva cogli aiuti di Francia, per secondare i disegni del Valentino. E potè capire, «che se il Re aveva concesso tutto per l'impresa di Romagna, era stato mosso più dal non saper resistere alle sfrenate voglie del Papa, che dal desiderare veramente un esito favorevole. Pure,» continuava il Machiavelli, «quanto più teme di Germania tanto più favorisce Roma, perchè ivi è il capo della religione, che è bene armato, ed ancora ve lo spinge il Cardinale, il quale, sentendosi qui invidiato da molti per avere in mano la somma delle cose, spera ricevere di là protezione efficace.» E appena si tornò a parlar di danari, subito il Cardinale s'infuriò di nuovo, e minacciò dicendo «che i Fiorentini sapevano far molto buone le loro ragioni, ma finirebbero col pentirsi della loro ostinazione.»

Fortunatamente allora appunto l'aspetto delle cose cominciò a migliorare assai, essendo stato in Firenze eletto il nuovo ambasciatore Pier Francesco Tosinghi con più ampi poteri, ed avendo i Signori ottenuto dai Consigli facoltà di dare nuova somma di danari. Così al Machiavelli riuscì meno arduo calmare i furori dei Francesi, e continuare con essi ragionamenti di politica più generale: egli ottenne anche la esplicita assicurazione, che il Valentino non avrebbe danneggiato la Toscana. Ma il 21 novembre gli veniva da un amico affermato, che il Papa faceva ogni opera per metter male, assicurando che a lui sarebbe bastato l'animo, con l'aiuto che sperava dai Veneziani, di rimettere in Firenze Piero de' Medici, il quale avrebbe subito pagato al Re tutti i danari che voleva. Prometteva inoltre di tòrre lo Stato al Bentivoglio, e quanto a Ferrara ed a Mantova, che si mostravano pur sempre amiche di Firenze, farle «venire con la correggia al collo.» Il Machiavelli cercò allora di veder subito il Cardinale, e trovatolo ozioso, potè parlargli a lungo. Per combattere le calunnie del Papa contro i Fiorentini, addusse «non la loro fede, ma il loro interesse a stare uniti con la Francia. Il Papa cerca con ogni arte la distruzione degli amici del Re, per cavargli più facilmente l'Italia dalle mani.» «Ma Sua Maestà dovrebbe seguire l'ordine di coloro che hanno per lo addietro voluto possedere una provincia esterna, che è: diminuire i potenti, vezzeggiare i sudditi, mantenere gli amici, e guardarsi da' compagni, cioè da coloro che vogliono in tale luogo avere uguale autorità.» «E certo non sono i Fiorentini, nè Bologna o Ferrara che vogliono essere compagni del Re; ma piuttosto coloro che sempre pretesero dominare l'Italia, cioè i Veneziani e sopra tutti il Papa.» Il Cardinale prestò benigno ascolto a queste teorìe, che il modesto Segretario, esaltandosi sempre più nel parlare, esponeva in tòno quasi di maestro, e rispose che il Re «aveva gli orecchi lunghi ed il creder corto; ascoltava cioè tutti ma credeva solo a ciò che toccava con mano.» E forse fu questa l'occasione in cui, avendo il Cardinale detto che gl'Italiani non s'intendevano della guerra, il Machiavelli gli rispose che i Francesi non s'intendevano dello Stato, «perchè intendendosene, non avrebbero lasciato venire la Chiesa in tanta grandezza.»

Il 24 novembre scrisse le due ultime lettere di questa legazione. Il Valentino aveva fatto allora minacciosi progressi, e i Fiorentini, impensieriti di ciò, avevano non solo sollecitata la partenza del nuovo ambasciatore, ma promesso ai rappresentanti della Francia, che in breve tempo avrebbero mandato danari al Re. Questi aspettava quindi più tranquillo, e mandò ordini precisi al Valentino, che non osasse assalire Bologna nè Firenze. Ed il Machiavelli, data con una prima lettera questa notizia, scriveva lo stesso giorno la seconda ed ultima, con cui raccomandava la lite di un tal Giulio De Scruciatis napoletano, contro gli eredi Bandini in Firenze. «Aveva il De Scruciatis reso, e poteva rendere ancora utili servigi alla Repubblica. Io non so nulla,» egli continuava, «di questa sua causa; ma so bene che, mentre lo essere vostro con questa Maestà è tenero e in aria, pochi vi possono giovare, e ciascuno vi può nuocere. Perciò è necessario intrattenerlo almeno con buone parole, altrimenti alla prima vostra lettera che arriva qui, egli sarà come una folgore in questa Corte;» «e fiegli creduto il male più facilmente che non gli è stato creduto il bene; e lui è uomo di qualche credito, loquace, audacissimo, importuno, terribile e senza mezzo nelle sue passioni, e per questo da fare qualche effetto in ogni sua impresa.» Dopo di ciò s'apparecchiava a partire.

Il lettore si sarà accorto come in alcuni punti di questa legazione, paia già quasi veder balenare da lontano, sebbene ancora in nube, lo scrittore dei Discorsi e del Principe. Quelle massime che più tardi il Machiavelli esporrà in una forma scientifica, vengono ora con mano ancora incerta abbozzate alla sfuggita, e come per caso: nelle successive legazioni vedremo che egli andrà sempre più chiaramente determinando e formulando gli stessi concetti. Anche il suo stile già comincia a prendere quel vigore, col quale ben presto egli riescirà a scolpire, con pochi tocchi di penna, uomini veri e vivi, a dare una straordinaria lucidità al proprio pensiero, e quindi a meritare d'essere universalmente giudicato il primo prosatore italiano. Non recherà quindi maraviglia il sentire come questa legazione facesse in Firenze un grandissimo onore al Machiavelli, e come il Buonaccorsi, fin dal 23 agosto, gli scrivesse con vero compiacimento, che le lettere da lui inviate venivano molto lodate dai più autorevoli cittadini. E nell'agosto egli era ancora col Della Casa, che poneva la firma prima di lui, come principale incaricato. Possiamo dunque supporre facilmente che la Repubblica restasse poi sempre più soddisfatta del suo Segretario.

Tornato in patria, il Machiavelli si rimise con l'usato ardore al proprio ufficio, e i registri della Cancelleria son di nuovo ogni giorno pieni delle sue lettere. Gli affari procedettero subito con ordine maggiore, sia perchè egli esercitava molta autorità sui suoi sottoposti, sia perchè erano stati rieletti i Dieci, i quali venivano scelti fra le persone più pratiche di cose militari, erano meno distratti da altre cure, duravano in ufficio sei mesi e non due solamente come i Signori. Le loro attribuzioni inoltre erano state, con la Provvisione del 18 settembre 1500, che li ristabiliva, meglio definite e limitate, non potendo più di loro autorità far paci o leghe, nè condotte per più di otto giorni, e dovendo in tutte le cose d'importanza avere l'approvazione degli Ottanta, prima che fossero definitivamente deliberate.

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