CAPITOLO IV.

Tumulti in Pistoia, dove è inviato il Machiavelli. - Il Valentino in Toscana; Condotta da lui stipulata coi Fiorentini. - Nuovo esercito francese in Italia. - Nuovi tumulti in Pistoia, e nuova gita del Machiavelli colà. - Continua la guerra di Pisa. - Ribellione di Arezzo e della Val di Chiana. - Il Machiavelli ed il vescovo Soderini inviati presso il Valentino in Urbino. - I Francesi vengono in aiuto per sedare i disordini d'Arezzo. - Del modo di trattare i popoli della Val di Chiana ribellati. - Creazione del Gonfaloniere a vita.

(1501-1502)

E le faccende non mancavano davvero, sebbene la guerra di Pisa fosse alquanto sedata. A Pistoia s'erano gravemente rincrudeliti i sanguinosi tumulti tra i Cancellieri ed i Panciatichi, i quali ultimi erano stati cacciati dalla città, che restava sempre sottomessa a Firenze, ma con pericolo continuo di ribellione. Fu quindi necessario inviare a rimetter l'ordine, commissari speciali, uomini ed armi. Il Machiavelli non solo teneva la corrispondenza, dava ordini, veniva dai Signori e dai Dieci richiesto del suo avviso; ma fu più volte mandato colà. Ivi infatti lo troviamo nel febbraio, nel luglio e nell'ottobre, andato a vedere coi proprî occhi per poi riferire.

Molti dell'una e dell'altra parte furono confinati in Firenze; tutti i rimanenti invitati a rientrare in Pistoia, con obbligo a quel Comune di difenderli e di risarcirli largamente d'ogni nuovo danno che potessero patire, dandogli facoltà di rivalersene sugli offensori; e tutto ciò con una deliberazione dei Signori e dei Dieci fiorentini, in data del 28 aprile 1501. Volevano i Pistoiesi lasciar fuori della loro città i Panciatichi, perchè avversi a Firenze; ma il Machiavelli scriveva ai Commissari, in nome dei Signori, il 4 maggio, che il tenere i Cancellieri dentro e i Panciatichi fuori era assai pericoloso, potendosi così a un tratto «perdere tutta la città o tutto il contado, e forse questo e quella insieme, trovandosi l'uno malcontento, l'altra piena di sospetto.» Concludeva che si eseguissero senz'altro gli ordini dati, valendosi delle forze che erano colà, perchè i Panciatichi rientrassero disarmati e fossero tenuti sotto buona guardia.

Ben presto cominciavano più gravi pensieri da un altro lato. Il Valentino, impedito dagli ordini di Francia d'assalire Bologna, si rivolgeva verso la Toscana, ed insignoritosi di Brisighella, chiave della Val di Lamone, s'era, con l'aiuto di Dionigi Naldi, uomo d'armi e di gran parentado colà, messo in grado di disporre di tutto quel paese. Egli chiedeva, minaccioso, libero passaggio attraverso il territorio della Repubblica, dicendo di volersene coi suoi tornare a Roma. Ed i Fiorentini, che sapevano con chi avevano da fare, mandarono a lui Piero Del Bene suo amico privato, mandarono un commissario di guerra sul confine a Castrocaro, ed uno speciale inviato a Roma, per informare di tutto l'ambasciatore francese: apparecchiarono nello stesso tempo 20,000 ducati da spedirsi a Luigi XII, per averlo, come l'ebbero difatti, più decisamente favorevole. Intanto mille voci diverse correvano per tutto. I Senesi ed i Lucchesi mandavano continui aiuti a Pisa, dove Oliverotto da Fermo, soldato del Valentino, era entrato con alcuni cavalieri; i Vitelli aiutavano i Panciatichi a vendicarsi dei loro nemici. Da ogni parte erano noie e pericoli. Bisognava subito provvedere, ed il Machiavelli sembrava moltiplicarsi, scrivendo lettere, dando ordini ai capitani, ai commissari, ai magistrati. Fortunatamente però arrivarono avvisi di Francia, che promettevano sicuro aiuto, e così la Repubblica fu nel maggio assai più tranquilla.

Ma il Valentino non si fermava. A Firenze infatti venne la nuova che gli Orsini ed i Vitelli minacciavano già al confine; che un tal Ramazzotto, vecchio amico dei Medici, s'era presentato a Firenzuola, chiedendo la terra in nome del Duca e di Piero de' Medici. E per questi fatti gli animi si sollevarono in modo, che si parlava perfino di creare una Balìa con pieni poteri, cosa che poi non si fece; pure si pigliarono i necessarî provvedimenti a difendere la Città da un improvviso assalto. Si posero nei dintorni alcuni comandati, fatti venire dal Mugello e dal Casentino, sotto l'abate don Basilio; ne vennero anche dalla Romagna; altre genti furono messe dentro le mura. Il Machiavelli era l'anima di questi movimenti d'armati, e se ne occupava con un ardore singolarissimo in un uomo di lettere. Ma egli aveva, contro l'opinione prevalente allora, perduto ogni fede nelle armi mercenarie; questi comandati gli parevano il germe d'una milizia nazionale, chiamata a difendere la patria nel modo stesso che facevano gli antichi Romani, e ciò bastava a tener viva la sua fede, il suo entusiasmo.

Dopo di ciò si mandarono ambasciatori al Duca, invitandolo a passar pure se voleva; ma alla spicciolata, senza gli Orsini ed i Vitelli. Egli s'avanzò sdegnato pel Mugello, dove i suoi soldati venivano insultando e saccheggiando le terre; onde l'irritazione popolare andò sempre più crescendo nella Città e nella campagna, gridandosi per tutto contro la «pazienza asinina» dei magistrati, i quali dovettero durare grandissima fatica ad impedire una sollevazione generale contro quell'esercito di predoni. Il Duca finalmente, vedendo la mala parata, e sapendo che i Fiorentini adesso erano davvero protetti dalla Francia, dichiarò di volere stringere con essi sincera amicizia, mediante una condotta in qualità di loro capitano. Aggiungeva però che dovevano lasciargli libero il passo per andare alla sua impresa contro Piombino, e dovevano anche mutare la forma del governo, richiamando Piero dei Medici, affinchè si potesse esser sicuri delle loro promesse. Di fronte a queste pretese, i Fiorentini prima di tutto armarono altri mille uomini in Città, ordinando maggiore diligenza e buona guardia per ogni dove; risposero poi che, quanto all'impresa di Piombino, continuasse pure il suo viaggio; ma quanto al dovere essi mutare governo, non ne ragionasse neppure, che non era affar suo, e dei Medici nessuno voleva più sapere in Firenze. Il Valentino allora, non aggiungendo altro, arrivato che fu a Campi, fece sentire che si contentava d'una condotta di 36,000 ducati l'anno per un triennio, senza obbligo d'effettivo servizio, pronto però ad ogni richiesta, con 300 uomini d'arme, in caso di bisogno. In sostanza, non potendo ormai sperare altro, voleva almeno, secondo il solito, danari. Ed i Fiorentini, per farlo una volta partire, firmarono il 15 maggio 1501 la convenzione con cui gli concedevano la condotta, e fermavano alleanza perpetua fra le due parti. Essi in verità speravano di non dargli neppure un soldo, ed il Duca, che se n'era avvisto, accettava nonostante i patti, perchè, non avendo il danaro, avrebbe, in tempo più opportuno, trovato facile pretesto a nuove aggressioni. Intanto continuava il suo cammino saccheggiando, e giungeva a Piombino il 4 giugno. Ivi non potè far altro che pigliare qualche terra vicina e l'isola di Pianosa; passò poi, sopra alcune navi mandate dal Papa, nell'isola d'Elba. Ma di là fu subito richiamato, per accompagnare i Francesi, che tornavano alla guerra nel Napoletano; e così, lasciate ben difese le poche terre conquistate, se ne andò in fretta a Roma, dove entrò come un trionfatore, sebbene le sue imprese fossero state più di predatore che di capitano.

Ma se la guerra nel Reame liberava la Repubblica dalla presenza del Valentino, essa le recava pure altri danni e pensieri. L'esercito francese forte di 1000 lance e 10,000 fanti, di cui 4000 erano Svizzeri, senza tener conto di più che 6000 uomini, i quali venivano per mare, s'avanzava diviso in due parti, l'una delle quali passava, col maggior numero delle artiglierie, per Pontremoli e Pisa; l'altra, discendendo da Castrocaro, doveva traversare quasi tutta la Toscana. Al che s'aggiungeva, che soldati spicciolati del Valentino con Oliverotto da Fermo, Vitellozzo Vitelli ed altri capitani, venendo alla coda, sarebbero andati al solito predando, o entrati in Pisa, avrebbero aiutato i ribelli. Bisognò dunque scrivere ai Commissarî e Podestà, perchè apparecchiassero vettovaglie agli uni, si difendessero dagli altri; bisognò con 12,000 ducati soddisfare alle continue domande dei Francesi, fatte sempre col pretesto delle paghe dovute agli Svizzeri, che tanto male avevano servito la Repubblica. Il Machiavelli s'adoperò a tutt'uomo in queste faccende, e finalmente, come Dio volle, l'esercito abbandonò la Toscana ed entrò nello Stato del Papa. A questo allora solamente fu reso noto il trattato segreto concluso in Granata fra i re di Spagna e di Francia, ed egli col suo solito cinismo promise l'investitura ai due sovrani.

Arrivati i Francesi al confine napoletano, l'infelice Federico raccoglieva le sue poche genti, avendo già messo ogni speranza d'aiuto nella Spagna, il cui esercito era comandato dal valoroso Consalvo di Cordova. Ma questi allora appunto dichiarò che doveva ricusare i feudi nel Napoletano, perchè i suoi doveri di capitano di Spagna non si conciliavano più con quelli di vassallo di Federico. Così il misero Re si trovò senza aiuti, ed il Reame fu in breve tempo tutto occupato da stranieri. Solo Capua resistette ai Francesi, e fu presa d'assalto nel mese di luglio, messa crudelmente a sacco, perdendovi la vita da settemila persone. Il Guicciardini afferma, che neppure le vergini nei chiostri poterono sfuggire alla libidine dei soldati, che molte donne si gettarono disperate nel Volturno, altre si ricoverarono in una torre. Colà il Valentino, che aveva seguìto l'esercito colla sua guardia, ma senza comando effettivo, e s'era nel saccheggio abbandonato ad ogni eccesso, avrebbe, secondo lo stesso scrittore, voluto vederle per sceglierne quaranta delle più belle. Il 19 agosto i Francesi entrarono in Napoli, e poco dopo Federico cedette interamente al loro Re, che gli diè in Francia il Ducato d'Angiò con 30,000 scudi di rendita. Ivi egli morì il 9 settembre 1504; i suoi figli lo seguirono ben presto nella tomba l'un dopo l'altro, e con essi s'estinse la casa aragonese di Napoli. Consalvo aveva intanto, senza trovare resistenza, preso la parte del Reame che spettava alla Spagna. Se non che, il trattato di Granata era stato, forse non a caso, scritto in maniera da dar luogo, nella divisione, a diverse interpretazioni. Ben presto fu chiaro infatti che l'uno o l'altro dei due sovrani doveva restare padrone di tutto, e che la decisione finale spettava alle armi. Nondimeno fra gli eserciti si venne allora ad un temporaneo accordo, amministrando in comune le province soggette a disputa.

Ed ora le genti del Valentino entravano il 3 di settembre in Piombino, donde l'Appiano fuggiva, e dove nel febbraio veniva il Papa stesso col figlio a vedere i disegni delle fortezze, che questi voleva costruire colà. Così i Fiorentini si trovavano da capo col temuto nemico alle porte, mentre che i Lucchesi ed i Pisani si mostravano sempre più audaci, e la Francia tornava a dimostrarsi poco benevola, sebbene, dopo averle pagato 30,000 ducati per gli Svizzeri, si trattasse ora di pagargliene ancora da 120 a 150 mila, in tre o quattro anni, sempre con la solita vana promessa di restituire Pisa. Mentre tutto ciò teneva la Repubblica in sempre maggiori strettezze, e rendeva sempre più impopolari i Dieci, da Pistoia si chiedevano nell'ottobre pronti aiuti, perchè la città era di nuovo lacerata dal furore delle parti, e nessun ordine di governo vi era possibile. Il Machiavelli, che già era stato ripetutamente inviato colà, vi fu ora, nel mese d'ottobre, mandato altre due volte, per portare ordini, e suggerire, tornando, i necessari provvedimenti così ai Dieci come alla Signoria. E questa faceva poi da lui stesso scrivere, che unico rimedio era pensare adesso a riordinare il governo e l'amministrazione della città, facendovi subito tornare i Panciatichi, per pensare più tardi al contado, ove i guai erano anche maggiori. In questi mesi, tra le molte lettere, ordini ed istruzioni, egli scrisse ancora, nella sua qualità di segretario, una breve relazione dei fatti seguìti in Pistoia, per dare ai magistrati una più chiara idea di tutto. Di siffatte relazioni o narrazioni di quello che avveniva nel territorio della Repubblica, se ne compilavano allora molte nella cancelleria dei Dieci e della Signoria, e questa del Machiavelli, scrittura d'ufficio come le altre, non ha neppur essa maggiore importanza.

Calmati appena i torbidi di Pistoia, si sentiva nel maggio 1502 che Vitellozzo e gli Orsini s'avanzavano nella Val di Chiana, seguìti a poca distanza dal Valentino. E Massimiliano, volendo venire in Italia a prendere la corona, chiedeva ai Fiorentini, col solito pretesto di far guerra al Turco, 100,000 ducati, di cui 60,000 subito. Questi danari non furono dati; ma colla Francia bisognò bene obbligarsi a pagarle in tre anni 120,000 ducati, secondo un trattato d'alleanza, concluso il 12 aprile 1502, col quale il Re prometteva di difendere la Repubblica e mandarle 400 lance ad ogni richiesta. Tutto questo però non bastava punto a fermare il Valentino, che invece lentamente s'avanzava, e intanto s'era talmente esausta di danari la Repubblica, che non si poteva più ricorrere a nuove gravezze, essendosi già messa perfino la Decima scalata, che differisce poco da quella che noi oggi chiamiamo imposta progressiva. Così la guerra di Pisa dovè restare come sospesa, e restringersi solo a dare il guasto nel contado. I cittadini perciò furono da capo tanto scontenti dei Dieci, che di nuovo tornarono a non eleggerli, affidando le cose della guerra ad una commissione scelta dalla Signoria, il che le fece subito andare di male in peggio. I Pisani infatti s'avanzarono impadronendosi di Vico Pisano, e continuarono le trattative iniziate nello scorso dicembre col Papa e col Valentino, per formare uno Stato indipendente, che arrivasse fino al mare, e ripigliasse dall'altro lato le terre occupate dai Fiorentini, coi quali non volevano in nessun modo far mai pace o tregua. Il Valentino avrebbe avuto il titolo di duca di Pisa, e il Ducato sarebbe stato ereditario; verrebbe conservato l'antico magistrato degli Anziani, e uno dei Borgia sarebbe nominato arcivescovo della città. Questi disegni restarono senza effetto, ma bastavano a mettere in pensiero i Fiorentini, a danno dei quali i Borgia cercavano sollevare nemici in tutta Italia, dicendo ora di volerla unire in lega contro gli stranieri in genere ed i Francesi in particolare.

Intanto Vitellozzo era già presso Arezzo, con manifesta intenzione di sollevarla, ed il Valentino se ne stava a poca distanza, con la simulata apparenza di non pigliar nessuna parte a ciò che uno dei suoi proprî capitani faceva. Firenze, non potendo ora disporre di nessuna forza, spedì in gran fretta, come commissario di guerra, Guglielmo dei Pazzi, che era padre del vescovo d'Arezzo. Ma il commissario non era appena giunto colà, che il popolo si levò a tumulto (4 giugno), e dovettero, padre e figlio, chiudersi nella fortezza insieme col capitano fiorentino. Vitellozzo allora entrò con centoventi uomini d'arme e buon numero di fanti, seguìti subito da Giovan Paolo Baglioni, altro capitano del Valentino, con cinquanta uomini d'arme e cinquecento fanti. Per riparare a questi pericoli, Firenze richiese dalla Francia le 400 lance promesse, anzi mandò Piero Soderini a Milano, per farle addirittura partire. Le genti del campo di Pisa ebbero intanto ordine d'avanzarsi per la Val di Chiana, dove fu mandato commissario, con ufficio di capitano, Antonio Giacomini Tebalducci, il quale, datosi da qualche tempo al mestiere dell'armi, aveva già cominciato a provare alla Repubblica quanto i capitani proprî valessero più dei mercenarî. Ed il Machiavelli, che a lui continuamente doveva scrivere, ne seguiva i passi, e continuava le sue osservazioni, maturando le proprie idee sulla milizia nazionale. Ma le cose precipitavano, perchè la cittadella d'Arezzo, dopo una resistenza di 14 giorni, dovette arrendersi prima di poter ricevere aiuto dagli uomini partiti dal campo di Pisa, i quali perciò ebbero dai Dieci, nuovamente eletti, ordine di ritirarsi a Montevarchi, ora che i nemici, ingrossati in Arezzo, occupavano tutta la Val di Chiana, e Piero dei Medici col fratello s'era già unito ad essi.

I Fiorentini, com'è facile immaginarlo, aspettavano ansiosissimi gli aiuti di Francia, per uscire dall'imminente pericolo, quando il Valentino (19 giugno) chiese che gl'inviassero persona con cui conferire; ed essi mandarono subito Francesco Soderini vescovo di Volterra, accompagnato dal Machiavelli. Il Duca trovavasi in Urbino, di cui s'era a tradimento impadronito; e l'infelice Guidobaldo di Montefeltro aveva potuto appena, con una fuga precipitosa su pei monti, salvare la propria vita, dopo che s'era creduto amico dei Borgia, e li aveva aiutati colle sue genti, il che era valso invece a fargli torre improvvisamente lo Stato. Il Machiavelli restò in compagnia del Soderini qualche giorno solamente, per tornare subito in Firenze, a ragguagliare a voce i Signori. E però solo i due primi dispacci di questa legazione sono scritti da lui, sebbene anch'essi firmati dal vescovo Soderini. Nel secondo, che ha la data di Urbino 26 giugno, ante lucem, si trova descritto un ritratto del Valentino, che dimostra chiaro come questi avesse già lasciato una profonda impressione sull'animo del Segretario fiorentino. Furono ricevuti la sera del 24, a due ore di notte, nel palazzo in cui il Duca si trovava con pochi de' suoi, tenendo la porta sempre serrata e ben guardata. Egli disse di volere ormai uscire da ogni incertezza coi Fiorentini, ed essere loro amico o nemico vero. Quando non accettassero la sua amicizia, sarebbe scusato con Dio e cogli uomini, se avesse cercato d'assicurare in qualunque modo il proprio Stato, che confinava col loro per sì lungo tratto. «Io voglio avere esplicita sicurtà, chè troppo bene conosco come la città vostra non ha buono animo verso di me, anzi mi lascerà come un assassino, ed ha cerco già di darmi grandissimi carichi con il Papa e col re di Francia. Questo governo non mi piace, e dovete mutarlo, altrimenti se non mi volete amico, mi proverete nemico.» Gl'inviati risposero che Firenze aveva il governo che desiderava, e nessuno poteva in Italia vantarsi di serbar meglio la fede. Che se il Duca voleva davvero esserle amico, poteva provarlo subito, facendo ritirare Vitellozzo, che in fine era suo uomo. A questo egli disse, che Vitellozzo e gli altri operavano per proprio conto, sebbene a lui non dispiacesse punto che i Fiorentini ricevessero, senza sua colpa, una buona e meritata lezione. Nè altro fu possibile cavarne, onde gli ambasciatori scrissero subito, parendo loro che importasse assai far conoscere con quale intenzione erano stati dal Duca invitati, tanto più che «il modo del procedere di costoro è di essere altrui prima in casa che se ne sia alcuno avveduto, come è intervenuto a questo Signore passato, del quale si è prima sentito la morte che la malattia.»

Il Duca aveva detto ancora che della Francia era sicuro, e lo stesso fece ripetere loro dagli Orsini, i quali non solo lasciarono capire che l'impresa di Vitellozzo era fatta di comune accordo, ma aggiunsero che tutto era in ordine per invadere subito la Toscana con 20 o 25 mila uomini, che gli oratori però valutavano a 16 mila solamente. «Questo Signore,» concludeva la lettera, «è tanto animoso, che non è sì gran cosa che non li paia piccola, e per gloria e per acquistare Stato mai si riposa, nè conosce fatica o pericolo; giugne prima in un luogo, che se ne possa intendere la partita donde si lieva; fassi ben volere a' suoi soldati; ha cappati i migliori uomini d'Italia, le quali cose lo fanno vittorioso e formidabile, aggiunto con una perpetua fortuna.» Ma il fatto era, che egli sapeva che i Francesi venivano in aiuto de' Fiorentini, che voleva perciò stringere subito in ogni modo. Infatti a tre ore della notte dal 25 al 26, quando gli oratori avevano già parlato cogli Orsini, li fece chiamare di nuovo, per dire loro che voleva una pronta risposta dalla Signoria, nè fu possibile ottenere un indugio maggiore di quattro giorni. E però la lettera, finita all'alba, partì subito con un corriere espresso, cui teneva dietro il Machiavelli stesso, che altro non aveva ora da fare colà. Egli se ne tornava con l'animo pieno d'una strana ammirazione per questo nemico della sua patria, ammirazione che era stata in lui alimentata da quella che già aveva pei Borgia anche il vescovo Soderini. Questi restò presso il Duca, che faceva ogni giorno maggiori premure e minacce, a cui però i Fiorentini davano assai poca retta, perchè sapevano che già erano in via gli aiuti francesi.

E per la medesima ragione, al Giacomini, che aveva dato prova d'un coraggio, d'un'attività maravigliosa, e scriveva che, se gli mandavano 3000 fanti e mille comandati, sentivasi in grado d'assalire i nemici, rispondevano, ai primi di luglio, che si contentasse di stare sulla difensiva; giacchè erano in via le artiglierie e 4000 Svizzeri mandati dalla Francia; che bisognava subito dar loro le paghe, e non era perciò prudente impegnare la Repubblica in nuove spese, tanto più che il Valentino già abbassava le ali. E lo stesso ripetevano nei giorni successivi. Il 24 luglio il Re scriveva da Asti, che sarebbero arrivati uomini a piè ed a cavallo, con sufficienti artiglierie, capitano La Trémoille: si tenessero pronte le paghe e le vettovaglie. E ben presto il capitano Imbault presentavasi con pochi soldati ad Arezzo, dove Vitellozzo venne subito a patti, che furono di rendere tutte le terre, eccetto la città stessa, nella quale egli si trovava, e dove gli fu concesso di restare con Piero dei Medici fino al ritorno del cardinale Orsini, andato a trattar direttamente col Re. Ma anche questa concessione, che ai Fiorentini parve giustamente indecorosa, venne poi ritirata, perchè il Papa stesso e il Duca, gettando la colpa d'ogni cosa su Vitellozzo e sugli Orsini, che odiavano a morte, li abbandonarono; nè dei Medici in sostanza si curavano molto, appunto perchè amici e parenti degli Orsini. S'impegnarono inoltre ad aiutare la Francia nella impresa di Napoli. E i Fiorentini, ottenuto che al capitano Imbault, il quale li aveva scontentati, succedesse il De Langres, riebbero subito dopo tutte le loro terre, come annunziavano ai sudditi con lettera del 28 agosto, ordinando ancora pubbliche feste.

Il Machiavelli fu mandato, verso la metà d'agosto, al campo francese, per accompagnare il De Langres e raccogliere notizie a carico dell'Imbault; ma tornò subito al suo ufficio, essendo stati mandati in Arezzo Piero Soderini e Luca degli Albizzi, uomini autorevolissimi, con incarico di riordinare la terra appena sedata la ribellione, e fare che il De Langres non partisse troppo presto, non potendo i Fiorentini disporre delle loro forze, occupate contro i Pisani che s'avanzavano dall'altro lato. Dalla cancelleria intanto egli scriveva al Soderini, che si affrettasse a mandare in Firenze, prima che i Francesi partissero, tutti quegli Aretini, «che tu giudicherai, o per cervello o per animo o per bestialità o per ricchezza, potere trarsi dreto alcuno, e penderai più presto in mandarne più venti che manco uno, senza avere rispetto nè al numero nè a rimanere vota la terra.» L'11 ed il 17 settembre lasciò di nuovo l'ufficio per far due corse ad Arezzo, a fin di vedere da sè lo stato delle cose, e provvedere alla partenza dei Francesi, che erano ormai decisi ad andarsene.

Per fortuna tutto riuscì discretamente bene, ed egli che già da un pezzo meditava sulle faccende politiche, non solo come semplice segretario, ma più ancora come uomo di studio e di scienza, cercando sempre indagar le cagioni dei fatti, che raccoglieva e coordinava poi nella sua mente, sotto norme e principî generali, compose, dopo l'esperienza avuta delle cose d'Arezzo, il suo breve scritto: Del modo di trattare i popoli della Val di Chiana ribellati. È un discorso che l'autore suppone di fare ai magistrati della Repubblica, ma non fu compilato per obbligo d'ufficio nella segreteria; è anzi addirittura il primo tentativo per sollevarsi dalla pratica burocratica di tutti i giorni, alle sommità della scienza. E noi possiamo fin d'ora cominciare a vedere in germe i grandi pregi e i difetti che più tardi ritroveremo nelle opere maggiori del Machiavelli. Ciò che prima di tutto qui ferma la nostra attenzione, è il modo singolare con cui nella mente dello scrittore si trovano fra loro innestati l'esperienza dei fatti veduti, i giudizî che si era andato formando sulle azioni degli uomini da lui conosciuti, tra cui non ultimo il Valentino, con una straordinaria ammirazione dell'antichità romana, la quale sembra essere per lui quasi l'unico anello che congiunga le osservazioni raccolte di giorno in giorno con le generalità della sua scienza ancora incerta. - Paragonando, egli dice, quello che oggi succede con quello che in simili casi è seguito e s'è fatto a Roma, possiamo arrivare a capire quello che dovremmo fare noi, giacchè gli uomini in sostanza sono sempre gli stessi, hanno le medesime passioni, e però quando le condizioni sono identiche, le medesime cagioni portano i medesimi effetti, e quindi gli stessi fatti debbono suggerire le stesse regole di condotta.

Certo il ricorrere all'antichità ed alla storia per cercare, paragonandole coll'esperienza del presente, i principii che regolano l'andamento delle azioni umane, e debbono guidare i governi, era a quei tempi un pensiero ardito ed originale. Ma se la storia ci espone la successione delle umane vicende, essa anche ci dimostra che l'uomo e la società mutano di continuo, e però norme assolute ed immutabili difficilmente si possono trovare. Ed in verità, se bene si osserva, quantunque essa sia l'esemplare, il modello a cui di continuo ricorre il Machiavelli, pure assai spesso gli serve solo a dare maggiore autorità, o a fornirgli la dimostrazione di quelle massime che a lui, in sostanza, erano state già suggerite dalla esperienza. Ed in ciò si può trovare la prima sorgente di molti suoi pregi e difetti. Non essendo ancora riuscito a veder chiaro il processo, secondo cui dal passato risulta un presente sempre diverso, e pure ad esso intrinsecamente unito; non essendo ancora abbastanza sicuro del suo metodo, per cavare con rigore scientifico principii generali dai fatti particolari, tra gli uni e gli altri poneva l'antichità, la quale doveva riuscire un legame artificiale, ogni volta che era chiamata solo a dimostrare ciò, di cui egli s'era già innanzi persuaso. Tuttavia in questo suo primo tentativo noi vediamo assai chiaro, come solo salendo, direi quasi, sulle spalle di essa, a lui riuscisse, stanco com'era delle minute faccende di tutti i giorni e d'una politica di piccoli ripieghi, sollevarsi in un mondo superiore. Ivi portato e sospinto dalla potenza della sua analisi, dal suo genio, da una fantasia irrequieta, tentava creare una scienza nuova, non senza cadere qualche volta in eccessi, che nei suoi scritti non scomparvero mai del tutto, e che più tardi gli furono rimproverati anche dal Guicciardini, il quale lo accusò di amare troppo «le cose e modi estraordinarî.»

Ecco adunque come egli incomincia il suo discorso. «Lucio Furio Camillo, dopo aver vinto i popoli ribelli del Lazio, entrò in Senato e disse: Io ho fatto quello che si poteva colla guerra; ora tocca a voi, Padri Coscritti, sapervi stabilmente assicurare per l'avvenire dei ribelli. Ed il Senato perdonò generosamente ai vinti, facendo solo eccezione per le città di Veliterno e di Anzio. La prima fu demolita, e gli abitatori mandati a Roma; nella seconda si mandarono invece abitatori nuovi e fedeli, dopo aver distrutto le sue navi, proibito di costruirne altre. E ciò perchè i Romani sapevano che bisogna sempre fuggire le vie di mezzo, e guadagnarsi i popoli coi benefizî, o metterli nella impossibilità di offendere.» «Io ho sentito dire che la istoria è la maestra delle azioni nostre, e massime de' principi, e il mondo fu sempre ad un modo abitato da uomini che hanno avuto le medesime passioni, e sempre fu chi serve e chi comanda, e chi serve mal volentieri e chi serve volentieri, e che si ribella ed è ripreso.» «Si può dunque approvare la condotta da voi tenuta coi popoli della Val di Chiana in generale; ma non quella tenuta in particolare cogli Aretini, che si sono sempre ribellati, e che voi non avete saputo nè beneficare nè spegnere, secondo l'esempio romano. Non avete infatti beneficato gli Aretini, ma li avete tormentati col chiamarli a Firenze, toglier loro gli onori, vendere i loro possessi; nè ve ne siete assicurati, perchè avete lasciato in piedi le loro mura, lasciato in città i cinque sesti degli abitatori, non mandato altri che li tengano sotto. E così Arezzo sarà sempre pronta a ribellarsi di nuovo, il che non è cosa di poco momento, perchè Cesare Borgia è vicino, e cerca formarsi uno Stato forte col pigliare anche la Toscana. E i Borgia non vanno coi rispetti e colle vie di mezzo. Il cardinal Soderini, che li conobbe assai, più volte mi ha detto che fra le altre lodi di grande uomo, che si posson dare al Papa ed al figlio, vi è questa, che sono conoscitori della occasione e la sanno usare benissimo, il che viene confermato dalla esperienza di ciò che han fatto.» E qui si ferma in tronco questo discorso, di cui non abbiamo la fine.

Il Machiavelli che aveva messo tanto ardore nel condurre a fine l'affare della presa e condanna del Vitelli, ed il dì 8 settembre aveva scritto ai commissari fiorentini che, nel mandar via gli uomini pericolosi da Arezzo, preferissero inviarne piuttosto «venti di più che uno di meno, non temendo neppure di lasciar vuota la terra,» non aveva bisogno di dimostrare che a lui non piacevano in politica i mezzi termini, che credeva solo in una condotta risoluta e pronta, e non era punto contento del misero e continuo tergiversare dei Fiorentini. Ma non bisogna neppur credere, che in questi suoi discorsi teoretici egli volesse addirittura biasimare, senza riserve, la condotta dei magistrati. Sapeva bene che questi dovevano tener conto delle passioni e dell'indole degli uomini fra cui e su cui governavano; scriveva per indagare quale avrebbe dovuto essere la vera politica di un gran popolo, formato come lo immaginava, dopo aver letto e meditato la storia di Roma.

Certo è però che le cose della Repubblica procedevano allora così fiacche ed incerte, che tutti vedevano la necessità di qualche riforma. Una nuova legge s'era fatta nell'aprile di quell'anno, con la quale s'erano aboliti il Podestà ed il Capitano del popolo, antichi magistrati che avevano avuto in origine un ufficio politico e giudiziario; ma perduta da un pezzo la prima delle due loro attribuzioni, male adempivano ora anche la seconda, che pure era importantissima. Fu quindi istituita, secondo un antico suggerimento del Savonarola, la Ruota, composta di cinque dottori in legge, di cui ognuno presiedeva a turno per sei mesi, durante i quali teneva il luogo del Podestà. Essa, che doveva giudicar le cause civili e criminali, fu iniziata, con una provvisione del 15 aprile 1502, per soli tre anni, termine che venne poi prorogato. Con altra del 21 aprile fu riformata la Corte della Mercanzia, destinata a trattare i soli affari commerciali. Ma tutto ciò, come è ben facile immaginare, non rimediava punto all'andamento generale delle cose d'un governo, la cui debolezza nasceva principalmente dal mutare ogni due mesi il Gonfaloniere e la Signoria. In esso non si formavano tradizioni, nè vi potevano essere segreti di Stato; tutto si trattava in pubblico, e solamente il primo cancelliere, Marcello Virgilio, per la sua molta fede ed autorità, poteva mantenere una qualche coerenza ed uniformità nella condotta degli affari. I provvedimenti erano sempre lenti ed incerti, i danari si profondevano, i cittadini, gravati d'imposte, erano scontentissimi, e non potevano rivolgersi contro alcuno, perchè i magistrati scomparivano dalla scena quando appena s'erano seduti in ufficio. Così si finiva col non votare il danaro che era richiesto, e i soldati non si pagavano, e i cittadini autorevoli ricusavano di accettare le ambascerìe o gli uffici più onorevoli, che erano invece occupati da uomini leggieri e di poco conto, gente che, secondo la espressione del Guicciardini, avevano «più lingua che persona,» si facevano avanti, ed erano eletti perchè sempre pronti.

Per tutte queste ragioni si pensò di portare addirittura qualche mutamento nella forma stessa del governo. Fu dapprima proposto un Senato a vita, a similitudine dei Pregadi di Venezia, che era sempre il modello cui si guardava; ma temendo poi di restringere con ciò lo Stato in mano di pochi, si pensò invece di creare un Gonfaloniere a vita come il Doge, ed il 26 agosto 1502 fu votata la Provvisione. Il carattere e l'ufficio del nuovo Gonfaloniere non furono molto diversi da ciò che era stato in passato: egli era capo della Signoria e non altro. Se non che poteva sempre prendere in essa l'iniziativa delle proposte di legge; poteva ancora intervenire e votare coi giudici nelle sentenze criminali, il che già gli dava un aumento di potere. L'essere poi eletto non più per due mesi, ma a vita, fra magistrati politici che mutavano tutti così spesso (i Signori ogni due mesi, i Dieci ogni sei), era quello che gli dava ora un'autorità ed una forza assai maggiori. Doveva avere cinquant'anni almeno, e non poteva esercitare altri ufficî: i figli, fratelli e nipoti avevano divieto dall'ufficio dei Signori; a lui ed ai figli era vietato d'esercitare il commercio; lo stipendio era di 1200 fiorini l'anno. Il numero degli eleggibili era grande, essendovi ammessi anche i cittadini che appartenevano alle Arti Minori; la elezione doveva farsi dal Consiglio Maggiore, potendovi allora intervenire e votare tutti coloro che erano abilitati a sedervi. Ogni consigliere era chiamato a dare il nome del cittadino che voleva eleggere, e quelli che ottenevano la metà più uno dei voti, venivano sottomessi a nuovo scrutinio per tre volte, intendendosi la terza volta eletto colui che aveva raccolto più voti, tra coloro che ne avevano ottenuti più della metà. I Signori, i Collegi, i Dieci, i Capitani di Parte Guelfa e gli Otto, riuniti insieme, potevano con tre quarti di voti privarlo dell'ufficio, quando avesse violato le leggi. Questa Provvisione portata due volte negli Ottanta e due nel Consiglio Maggiore, dopo che molti l'ebbero difesa, fu finalmente vinta con 68 voti contro 31 negli Ottanta, e 818 contro 372 nel Consiglio Maggiore. Il 22 settembre venne poi con grandissimo favore eletto Piero Soderini, che, fratello del vescovo, era stato poco prima Gonfaloniere, aveva tenuto molti altri uffici politici, e sebbene fosse di antica e ricca famiglia, era tenuto amatore del popolo e del governo libero. Egli era inoltre facile parlatore, buon cittadino; non aveva figli, non aveva nè grande energia nè grandi doti da potere suscitare troppi odî o troppi amori, il che non fu tra le ultime cause della sua elezione. Il 23 dello stesso mese, il Machiavelli, in nome dei Dieci, gli faceva scrivere e mandare in Arezzo, dove era commissario, la lettera di partecipazione, esprimendogli la speranza che riuscisse a dare alla Repubblica quella felicità, per cui il nuovo ufficio era stato creato. Questa elezione fu un fatto assai importante, non solo nella storia di Firenze, ma anche nella vita del Machiavelli, perchè egli conosceva da più tempo la famiglia Soderini, alla quale subito scrisse rallegrandosi, e ben presto seppe guadagnarsi tutta quanta la fiducia del nuovo Gonfaloniere, che, come vedremo, si valse di lui continuamente ed in affari di molta importanza.

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