CAPITOLO V.

Legazione al duca Valentino in Romagna. - Ciò che nel medesimo tempo fa il Papa in Roma. - Il Machiavelli compone la Descrizione dei fatti di Romagna.

(1502-1503)

E qui son di nuovo i Borgia che richiamano l'attenzione di tutta Italia. La Lucrezia per sua fortuna scompariva adesso dalla scena di Roma, dove aveva continuato ad essere il soggetto principale dei più scandalosi e turpi racconti, dei quali sembrava curarsi assai poco. Infatti si era lasciata vedere col padre e col fratello assistere ridendo a mascherate, a balli così osceni, che erano veramente orgie, e sarebbe a noi impossibile descriverli. Ma nel gennaio del 1502 finalmente partiva per Ferrara, con un grandissimo séguito, con un lusso che passava ogni misura; e qualche volta promuove addirittura disgusto vedere i cronisti del tempo occuparsi minutamente a darcene eterne descrizioni. Andava in moglie al duca Alfonso d'Este in Ferrara, e colà per molti giorni continuavano da capo le feste col medesimo lusso. Ma la sua vita entrò allora in un periodo assai più tranquillo e riservato, perchè aveva da fare con un marito, il quale non avrebbe esitato molto a valersi delle arti stesse dei Borgia, per mandarla via dal mondo. I pochi fatti che potevano ricordare ancora la vita passata, restarono perciò avvolti sempre nel più gran mistero. Ella si circondò di letterati che l'adularono, si dètte anche ad opere di pietà; ed a ciò si deve la reputazione migliore che godette allora, e la difesa che fecero di lei molti scrittori.

A Roma, dove era il Papa, ed in Romagna, dove si trovava il Valentino, la scena invece mutava solo per divenire sempre più tragica e sanguinosa. Nella Città Eterna comparivano libelli, epigrammi atroci; ma il Papa non se ne curava punto, occupato com'era d'altri pensieri. Di tanto in tanto qualche cardinale, divenuto assai ricco, s'ammalava e moriva a un tratto, o sotto falso pretesto gli era fatto un processo sommario, per metterlo poi in Castel Sant'Angelo, donde non usciva più vivo. Mobili, tappezzerie, argenti e danari andavano subito in Vaticano. I loro uffici e benefizi venivano concessi ad altri, che, appena arricchiti, erano assai spesso destinati a fare la medesima fine. «Nostro Signore,» scriveva l'ambasciatore veneto, «suole prima ingrassarli, per far poi loro la festa.» Così avvenne nel luglio di quell'anno al datario Battista Ferrari, cardinale di Modena, che era stato il suo più fido strumento nell'aiutarlo a cavar danari da tutto e da tutti. Divenuto ricchissimo, s'ammalò improvvisamente; il Papa lo visitò nell'ultima ora, e poi al solito spogliò la casa e prese i danari. La più parte de' suoi benefizi andò a Sebastiano Pinzon, intimo segretario del defunto, a cui, secondo la comune opinione, aveva, per ordine del Santo Padre, amministrato il veleno.

In quei giorni la città era illuminata; il governatore di Roma e le guardie palatine, seguite da una gran turba, andavano per le vie gridando: Duca, Duca. Cesare Borgia era entrato in Camerino, ed aveva preso prigioniero il signor Giulio Cesare da Varano coi figli. Il Papa era per ciò pieno di tanta gioia, che gli riusciva impossibile frenarsi. Radunato il Concistoro con l'intendimento d'annunziare una vittoria degli Ungheresi contro i Turchi, parlò invece di Camerino e del Duca. Avvertito dal cardinale di Santa Prassede dello scopo che li aveva fatti radunare, mandò subito a pigliare la lettera; ma poi, continuando nel primo discorso, dimenticò di farla leggere. Parlando coll'ambasciatore veneto e collo spagnuolo, non poteva tenersi sulla sedia, e girava per la stanza; faceva leggere invece la lettera, in cui il Duca, dopo aver tutto narrato, concludeva: «che buon pro faccia alla Santità Sua;» ne esaltava la grandezza d'animo e la prudenza, «laudandolo ab omni parte.» Egli vedeva già le future conquiste del figlio, lo vedeva col pensiero signore di tutta l'Italia centrale. Non sapeva però che cosa avrebbe detto o fatto Venezia, in presenza di così rapidi progressi. Chiamato quindi l'ambasciatore veneto, aveva subito cominciato a fare grandi proteste d'amicizia, tanto per sentire che cosa dicesse. Ma Antonio Giustinian era una volpe vecchia, e scriveva al Doge: «In risposta di quanto è soprascritto, Principe Serenissimo, ambulavi super generalissimis, se il Pontefice andò super generalibus

Il Valentino intanto assumeva i titoli di Cesare Borgia di Francia, per la grazia di Dio, Duca di Romagna, di Valenza e d'Urbino, Principe di Andria, Signore di Piombino, Gonfaloniere e Capitano generale della Chiesa; e senza perdere tempo s'avanzava verso Bologna. Se non che, in questo punto arrivò il veto della Francia, la quale fece sentire, come non avrebbe mai permesso che i Borgia s'andassero così insignorendo d'Italia: smettessero dunque di pensare a Bologna ed alla Toscana. E nel medesimo tempo i principali capitani del Duca, la più parte piccoli tiranni dell'Italia centrale, vedendo come egli andasse, a uno per volta, distruggendo tutti i loro compagni, capirono che sarebbe ben presto sonata l'ora anche per essi. Seppero, in questo mezzo, che egli aveva già deliberato d'insignorirsi prima di Perugia e Città di Castello, di metter poi le mani sugli Orsini; onde, «per non essere a uno a uno devorati dal dragone,» si riunirono, deliberando di prendere le armi e ribellarsi contro di lui, sembrando opportuno il farlo ora che la Francia lo abbandonava. Il primo resultato di questo accordo fu, che il giorno 8 di ottobre alcuni de' congiurati s'impadronirono per sorpresa della rôcca di San Leo nel ducato d'Urbino, dove la cosa produsse una straordinaria impressione, come segno e principio di nuovi eventi. Il giorno 9 di ottobre, infatti, tutti i congiurati convennero alla Magione presso Perugia, per stipulare solennemente i patti della lega. V'erano molti degli Orsini, cioè il cardinale, il duca di Gravina, Paolo e Frangiotto; inoltre Ermes, figlio di Giovanni Bentivoglio, con pieno mandato del padre; Antonio da Venafro con pieno mandato di Pandolfo Petrucci; messer Gentile e Giovan Paolo Baglioni, e Vitellozzo Vitelli che, essendo ammalato, si fece portare in letto. Si obbligarono a difesa comune, a non muovere guerra senza mutuo accordo, ed a mettere insieme un esercito di 700 uomini d'arme in bianco, 100 cavalli leggieri, 9000 fanti e più, occorrendo; pena 50,000 ducati e la taccia di traditore a chi non osservasse questi patti legalmente stipulati. Si cercarono subito aiuti ai Fiorentini; ma si corse senz'altro aspettare alle armi, e il ducato d'Urbino fu da Paolo Vitelli, che il 15 ottobre prese d'assalto anche la rôcca della città, sollevato tutto, restando colà al Valentino qualcuna solamente delle molte fortezze che v'erano.

Questi capì bene la gravità di siffatta ribellione. Ma, senza perdersi d'animo, mandò contro i nemici quella parte dell'esercito che gli restava fedele, sotto il comando di don Michele Coriglia, crudelissimo spagnuolo, suo capitano e suo strangolatore, più noto col nome di don Micheletto. Questi entrò subito nella rocca della Pergola, che si teneva ancora pel Duca, e di là fece impeto nella terra che saccheggiò. Si racconta che allora scannasse Giulio da Varano con la moglie e due dei figli tenuti prigioni colà, mentre che un altro di loro veniva prima straziato in Pesaro, e poi menato semivivo in una chiesa, dove era trucidato da un prete spagnuolo, che a sua volta fu più tardi, a furore di popolo, fatto in pezzi a Cagli. Dalla Pergola l'esercito andò a Fossombrone, e allora molte donne, per scampare al furore dei soldati, si gettarono coi propri bimbi nel fiume. Se non che l'esercito dei ribelli, essendo già arrivato il Baglioni co' suoi, s'era ingrossato fino a 12,000 uomini, ed a tre miglia da Fossombrone venne a giornata con quello del Valentino, comandato ora da don Micheletto e da don Ugo di Moncada, anche questi spagnuolo. La disfatta dei ducheschi fu intera; don Ugo cadde prigioniero, don Micheletto scampò a stento, e la gioia dei ribelli fu al colmo. Il fuggitivo Guidobaldo di Montefeltro tornò di nuovo nel suo Stato, e venne accolto trionfalmente in Urbino; Giovan Maria da Varano, unico superstite della stirpe infelice, tornò a Camerino. Così pareva che ad un tratto la faticosa e sanguinosa opera dei Borgia andasse in fumo. Tuttavia seguivano ancora scontri abbastanza importanti: don Micheletto si difendeva sempre in Pesaro; il Duca era in Imola con buon numero di armati, che cercava aumentare. I ribelli avevano chiesto aiuto a Venezia, la quale se ne stava invece a guardare, ed a Firenze che, ricordando sempre le imprese degli Orsini e dei Vitelli in Toscana, nè volendo entrare in guerra coi Borgia, temporeggiò prima, poi ricusò addirittura. Il Duca invece ricorse ai Francesi, che gli mandarono subito alcune lance, sotto il comando di Carlo d'Amboise, signore di Chaumont. Questo atto, di cui furono universalmente biasimati, mutò a un tratto lo stato delle cose, perchè mise un timor panico nei nemici del Valentino, i quali, non avendo potuto o saputo profittar del momento, vedevano ormai nella bandiera di Francia la salvezza di lui e la loro rovina.

Fin dal momento in cui la rottura cogli Orsini divenne manifesta, il Valentino ed il Papa avevano con premura chiesto a Firenze, che mandasse ambasciatori presso di loro, volendo assicurarsi l'amicizia di uno Stato che, confinando così largamente colla Romagna, poteva molto giovare e molto nuocere. Quanto al Papa, i Fiorentini deliberarono subito di mandare Gian Vittorio Soderini, che per indisposizione di salute, partì solo il 7 dicembre, e intanto v'andò invece Alessandro Bracci. Ma quanto al Duca, vi fu lunga discussione, perchè, se non lo desideravano nemico, neanche volevano stringere con lui un'amicizia che li obbligasse ad aiutarlo. Certo a loro non metteva conto irritarlo, ma neppure tirarsi addosso l'ira dei ribelli, così numerosi ed in armi; non potevano poi, nè volevano decidersi a nulla senza previo accordo colla Francia. Sicchè dopo molto disputare non si potè vincere l'elezione, e fu deliberato invece, che i Dieci mandassero un inviato speciale. La loro scelta cadde su Niccolò Machiavelli, che non aveva nè il grado, nè la reputazione necessaria ad un ambasciatore; ma aveva fatto buona prova in altre legazioni, e, secondo osserva il Cerretani, era «uomo da servire bene alla voglia di pochi,» cioè da guadagnarsi la fiducia di coloro coi quali veniva in relazione diretta, come fece più tardi col gonfaloniere Soderini.

Essendo segretario dei Dieci, egli non poteva ricusare l'onorevole commissione; pure sembra che l'accettasse con grande rincrescimento, e partisse di malissima voglia. Ognuno di questi incarichi l'obbligava a far nuovi debiti, perchè era sempre assai poco retribuito, ed a lui piaceva lo spendere ed il tenere la dignità del suo ufficio. Sentiva ancora di non avere nè il grado nè l'autorità necessaria a trattare onorevolmente col Valentino. A tutto ciò si aggiungeva che da breve tempo aveva preso per moglie Marietta di Lodovico Corsini, la quale era a lui affezionata molto, e dolentissima perciò di una così pronta separazione. Veramente anche di questo fatto, certo importante nella vita privata del Machiavelli, conosciamo assai poco. Pure tutto ciò che si è scritto contro la povera Marietta, affermando che a lei avesse alluso il marito nella sua famosa novella di Belfagor, sappiamo che non ha ombra di fondamento. Alcune lettere di lei, e molte scritte da amici al Machiavelli, provano invece che ella era affezionata ai figli ed al marito. Questi pur troppo della moglie parla assai poco, nè pare che le scrivesse di frequente valendosi invece spesso di altri per farle arrivare le sue nuove. Anzi neppure il recente matrimonio gli fece smettere del tutto un abito di vivere assai poco morigerato, di che parlava e scriveva, ridendo, a molti, e fra gli altri al Buonaccorsi stesso, di cui appunto si valeva per ricevere notizie della Marietta, e mandarle le sue. Ma senza volergli attribuire, in fatto di costumi, una delicatezza raffinata di sentimenti, la quale egli certo non ebbe, non possiamo neppure concludere punto, che non sentisse molta affezione per la moglie e per la famiglia. Questo sarebbe un errore smentito dai fatti. Nella sua condotta, nei suoi discorsi dobbiamo invece vedere la conseguenza di quel poco rispetto, per non dire disprezzo della donna, cominciato in Italia con la decadenza morale della nazione, e di quel cinismo nel parlare di tutto ciò che s'attiene al costume, cinismo che largamente introdotto fra noi dagli eruditi, era divenuto allora un abito anche negli uomini più buoni ed affettuosi. Da quanto noi sappiamo infatti del Buonaccorsi, questi era d'un animo sotto ogni rispetto eccellente; eppure le sue lettere al Machiavelli ci forniscono un'altra prova assai chiara di quanto abbiam detto qui sopra, e nel pubblicarle bisogna spesso sopprimere molte parole ed anche molti periodi, per non disgustare troppo il lettore moderno. Comunque sia di ciò, il Machiavelli, non potendo ricusare la commissione che vollero dargli, ed avendo ogni ragione di credere che la sua assenza sarebbe stata assai breve, la fece credere alla moglie brevissima, e s'apparecchiò a partire.

Il 4 di ottobre fu firmato il salvocondotto; il dì seguente, la commissione che gli ordinava di partire senza indugio, per recarsi dal Duca, a fargli ogni più larga protesta di buona amicizia, e a dichiarargli che la Repubblica aveva esplicitamente negato ogni aiuto ai congiurati, i quali già ne avevano fatto richiesta. «Ed in questa parte ti allargherai quanto ti parrà a proposito; ma di quanto Sua Eccellenza ti ricercasse più oltre, ti rimetterai a darcene avviso, ed aspettarne risposta.» Gli veniva inoltre commesso di chiedere un salvocondotto pei mercanti fiorentini che, andando o venendo d'Oriente, passavano per gli Stati del Duca, raccomandando assai vivamente una tal cosa come quella «che è lo stomaco di questa città.» Ognuno capisce che ardua impresa dovesse essere pel modesto Segretario fiorentino, l'andare in sostanza a vender parole ad un uomo come il Valentino, che di parole ne faceva poche e dagli altri ne voleva meno, e che ora si trovava coll'animo assetato di vendetta. Pure, appunto in questa legazione così mal volentieri accettata, il Machiavelli cominciò la prima volta a manifestare tutto il suo genio di scrittore politico.

Ancora inesperto della vita pratica, e per natura più facile assai a scrutare e capire che ad operare, egli si trovò di fronte ad un uomo che non parlava, ma operava; che non discuteva, ma accennava il suo pensiero con un gesto, un atto, i quali indicassero la risoluzione già presa o eseguita. Sentendo tutta la superiorità del suo ingegno su quello del Duca, il Machiavelli sentiva del pari la sua inferiorità come uomo d'azione, e vedeva quanto poco giovasse, in mezzo all'urto delle passioni e nella realtà della vita, il troppo riflettere e troppo ponderare. Tutto questo cominciò subito a crescere in lui quell'ammirazione, di cui i primi segni vedemmo già nella sua andata col cardinal Soderini ad Urbino. Il Valentino non era, come già notammo, nè un gran politico, nè un gran capitano; ma una specie di capitano brigante, la cui forza veniva principalmente dal Papa e dalla Francia. Aveva però saputo creare uno Stato dal nulla, ispirando terrore a tutti, perfino al Papa stesso. Circondato a un tratto da gran numero di nemici potenti e armati, seppe liberarsene e disfarsene con un'audacia grande ed un'arte infernale. Quest'audacia e quest'arte erano ciò che tanti allora ammiravano, ed il Machiavelli anche più degli altri. Considerandole in sè stesse, e senza troppi scrupoli, egli si domandava: dove non potrebbero esse arrivare, quando fossero adoperate ad un diverso e più nobile fine? E così la sua mente cominciò ad esaltarsi. Il Duca, dall'altro lato, trovandosi di fronte ad un uomo educato sui libri e nella cancelleria di Firenze, sentiva di fronte a lui tutta la superiorità della propria forza, e lo mostrava chiaro ne' suoi discorsi. Quest'uomo era però Niccolò Machiavelli, il cui occhio penetrava assai addentro, e se non aveva sempre quell'istinto che suggerisce la pronta risposta e l'immediata azione, nessuno poteva al pari di lui, dopo il fatto, arrivare ad una più sicura analisi delle azioni altrui. Il Machiavelli non poteva nè voleva prendere nessuna parte a quel che seguiva sotto i suoi occhi; ma nella sua mente ora per la prima volta si cominciava a formulare preciso e chiaro il concetto, che lo dominò poi sempre, e che mirava a dare alla scienza politica una base scientifica e sicura, dandole un suo proprio valore indipendente, separato affatto da ogni valore morale, quasi un'arte di trovare i mezzi per ottenere il fine, qualunque esso fosse. E sebbene nella Repubblica che egli serviva si fosse tutt'altro che scrupolosi e teneri della morale, pure quest'arte egli la vedeva ora per la prima volta personificata, vivente nel Valentino, chiara dinanzi ai suoi occhi. Di lui fece perciò il tipo rappresentativo di essa, ed esaltandosi sempre di più, finì con l'ammirarlo quasi fosse la creatura della sua propria mente. Ma su di ciò torneremo più oltre.

Il Machiavelli partì subito a cavallo, e giunto a Scarperia, si mise in vettura, continuando fino ad Imola, dove arrivò il 7 ottobre, e ad ore 18, senza neppure mutare abiti, si presentò al Duca (scrive egli ai Dieci) così cavalchereccio com'ero. Allora la ribellione era appena cominciata, e non se ne poteva misurare l'importanza. Il Duca ascoltò le proteste d'amicizia fatte dal Machiavelli in nome della Repubblica, senza rispondere, tenendole come semplici formole d'uso. Disse volergli confidare dei segreti, che non aveva mai rivelati ad uomo vivo; e cominciò a raccontare come gli Orsini s'erano altra volta quasi gettati ai suoi piedi, perchè assalisse Firenze, ed egli non aveva mai voluto consentirvi. Della loro andata in Arezzo non aveva saputo nulla, ma non gli era dispiaciuta, perchè i Fiorentini non gli avevano mantenuto la fede. Venute poi le lettere di Francia e del Papa, dovè ordinare che si ritirassero. Da ciò gli odî che li avevano portati a questa «dieta di falliti;» ma erano pazzi, perchè l'essere il Papa vivo e il Re di Francia in Italia, gli facevano «tanto fuoco sotto, che ci voleva altra acqua che coloro a spegnerlo.» La conclusione di tutto il discorso fu, che questo era pei Fiorentini il momento di fare una stretta alleanza con lui. Se aspettavano che egli si fosse «rimpiastrato cogli Orsini,» tornavano i medesimi rispetti e le stesse difficoltà di prima. Bisognava quindi dichiararsi e venire subito ai patti. Il Machiavelli dovè rispondere che avrebbe scritto a Firenze, il che subito annoiò per modo il Duca, che non volle aggiungere altro, quando fu pregato che determinasse in qualche modo, che specie d'accordo voleva. «E non ostante che io gli entrassi sotto, per trarre da lui qualche particolare, sempre girò largo.»

Il giorno 9, quello in cui i ribelli firmarono i patti alla Magione, il Duca chiamò il Machiavelli, colmandolo di tali gentilezze, che questi diceva di non saper come fare a descriverle. Gli fece sentire alcune lettere favorevoli, venute di Francia, volendo che leggesse la firma al Machiavelli già nota, e insisteva da capo sulla necessità di pronti accordi. «Si vede chiaro,» concludeva il Machiavelli, dopo aver dato molti altri ragguagli, «che il Duca è pronto ora ad ogni mercato; ma sarebbe necessario mandare un ambasciatore con patti definiti e precisi.» Il segretario e gli agenti del Duca gli ripetevano le medesime cose, stringendolo da ogni lato. Arrivava intanto la nuova della rotta data a don Ugo e don Micheletto dagli Orsini e Vitelli, ed il Machiavelli trovava una difficoltà grandissima a conoscerne i particolari, «perchè in questa Corte tutto si governa con un segreto mirabile, e le cose che sono da tacere non si dicono mai.» Il Duca, sempre impenetrabile, affettava un sommo disprezzo pe' suoi nemici e pel numero delle genti d'arme, che pretendevano di avere, dicendo, che facevano bene a chiamarle «uomini d'arme in bianco, che vuol dire in nulla.» Vitellozzo fra gli altri non s'era mai visto fare «una cosa da uomo di cuore, scusandosi col mal francioso. Solo è buono a guastare i paesi che non hanno difesa, e a rubare chi non gli mostra il volto, e a fare di questi tradimenti.» In ciò dire si diffuse assai, «parlando così pianamente senza mostrarsi punto alterato.» Il pericolo lo aveva reso più mite, ed il Machiavelli potè allora ottenere il salvocondotto pei mercanti fiorentini, che mandò subito ai Dieci, aggiungendo sempre tutte le notizie che poteva raccogliere.

Il 23 ottobre ebbe un'altra lunga conferenza col Duca, che gli lesse una lettera assai amichevole del Re di Francia, aggiungendo che le lance francesi erano per arrivare subito, e così i fanti forestieri. Poi parlò con grandissimo sdegno del tradimento degli Orsini, i quali ragionavano d'accordo. «Ora fanno,» egli disse, «gli amici, e scrivonmi buone lettere. Oggi deve venire a trovarmi il signor Paolo, domani il Cardinale, e così mi scoccoveggiano a loro modo. Io dall'altro canto temporeggio, porgo orecchio ad ogni cosa, ed aspetto il tempo mio.» E tornò a ripetere, che i Fiorentini avrebbero dovuto fare con lui amicizia esplicita. Era sempre la stessa conclusione, alla quale l'oratore non poteva mai dare risposta. A tutto ciò s'aggiungeva, per crescere la sua confusione, che egli non riusciva a capire qual risultato potessero avere gli accordi iniziati coi ribelli. Il 27 ottobre arrivava Paolo Orsini, travestito da corriere, per trattare; «ma quale animo sia ora quello del Duca, io non lo giudicherei: non vedo come egli possa perdonare l'offesa, nè come gli Orsini possano lasciare la paura.» Il segretario Agapito lo avvertiva che non si era anche concluso nulla, perchè il Duca voleva nei patti aggiungere una clausola, «la quale, se è accettata, gli apre una finestra, se ricusata, una porta per uscire di questi capitoli, dei quali infino alli putti se ne debbono ridere.» Altri agenti tornavano a ripetergli, che quello era il momento per Firenze di stringere amicizia col Duca, dandogli la condotta promessa, senza perdere un tempo prezioso. «Quanto agli accordi coi ribelli, dicevano, non erano anche conclusi, e in ogni caso non doveva darsene pensiero, perchè dove è uomini è modo. Una parte sola degli Orsini sarà salva; ma di Vitellozzo, che è il vero nemico di Firenze, il Duca non vuol neppure sentir parlare, per essere un serpente avvelenato, il fuoco di Toscana e d'Italia.»

Finalmente i capitoli dell'accordo furono conclusi colla data del 28 ottobre, firmati dal Duca e da Paolo Orsini; ed il Machiavelli con la lettera del 10 novembre ne mandava ai Dieci una copia ottenuta segretamente. Si giurava pace e lega offensiva e difensiva tra il Duca e i ribelli, con l'obbligo di rimettere in obbedienza Urbino e Camerino. Il Duca prometteva tenere ai suoi stipendi gli Orsini ed i Vitelli, come prima, con questo che essi non erano obbligati a stare in campo più d'uno alla volta, ed il Cardinale non era tenuto a stare in Roma se non quando a lui piacesse. Il Papa avrebbe, come fece, confermato i capitoli. Quanto al Bentivoglio, non venne incluso in questi patti, e ciò perchè, avendo la protezione di Francia, non sarebbe stato possibile ai Borgia violarli. Era chiara la diffidenza con cui veniva da una parte e dall'altra fatto l'accordo, nè si può capire come mai gli Orsini ed i Vitelli si lasciassero così miseramente tirare nella rete, se non fosse che l'aiuto delle lance francesi al Duca li aveva atterriti, e la mancanza di danaro rendeva loro impossibile continuare la guerra con un avversario potente, sostenuto dal Papa e dalla Francia. Speravano prendere tempo, per tornare da capo alle cospirazioni; ma il Duca era in sull'avviso, e sebbene circondato da molti nemici, doveva riuscirgli facile sbrancarne qualcuno, e indebolirli, cosa che non potevano essi, avendo da fare con un uomo solo. Il Machiavelli descriveva ai Dieci con la più grande evidenza, passo per passo, tutto il procedere di questi eventi; e quando il dì 11 novembre essi si dolevano con lui di non avere per otto giorni ricevuto alcuna sua lettera rispondeva: «Le SS. VV. mi abbino per scusato, e pensino che le cose non s'indovinano, e intendino che si ha a fare qui con un principe che si governa da sè, e che chi non vuole scrivere ghiribizzi e sogni, bisogna che riscontri le cose, e nel riscontrarle va tempo, e io m'ingegno di spenderlo e non lo gittare via.» Egli infatti osserva, esamina, studia il dramma che si svolge sotto i suoi occhi, con tutto l'ardore di chi, con uno spirito ed un metodo scientifico, va dietro alla ricerca del vero. Qualche volta par proprio di vedere un anatomico che sezioni un cadavere, nel quale è sicuro di scoprire il germe d'un male ignoto. Racconta con una fedeltà ed una evidenza non mai uguagliata, ed il suo stile acquista un vigore, una originalità, di cui la prosa moderna non aveva ancora dato esempio. Qui, sotto i nostri occhi, si cominciano a formare ed a formulare le dottrine politiche, il rigore metodico, e si manifesta finalmente tutta quanta l'eloquenza, di cui è capace il Machiavelli.

Eppure, strano a dirsi, egli era scontentissimo, e chiedeva ogni giorno con maggiore insistenza d'essere richiamato. Alcune ragioni di questa sua scontentezza le abbiamo già notate. Di natura irrequieto, non gli piaceva il restar lungamente fermo in un luogo; in questa come in tutte le sue legazioni non trovava modo di vivere con quel poco che la Repubblica gli dava, e non volendo, come altri facevano, starsene a spese del Duca nella Corte, nè mancare in nulla alla dignità del proprio grado, gli toccava spendere e far debiti. La moglie, trovandosi, appena sposata, priva del marito, che le aveva promesso di rimanere assente soli otto giorni, ed invece non tornava e di rado le scriveva, lasciandola anche in domestiche strettezze, era ogni giorno nella cancelleria a chiedere nuove di lui, a dolersi, a strepitare col Buonaccorsi e cogli altri amici, che di continuo gli scrivevano di ciò. A queste ragioni se ne aggiungevano però altre, anche di maggior peso per lui. Era certo un ufficio penosissimo stare a temporeggiar col Duca, senza nulla poter concludere, trovarlo ogni giorno più impaziente, e sentirsi con derisione ripetere dagli agenti di lui, «che chi aspetta tempo ed hallo, cerca miglior pane che di grano.» A concludere ci voleva in ogni modo un ambasciatore, che venisse con proposte chiare e decise. Era stato, secondo lui, un errore mandarne uno a Roma invece che ad Imola, perchè dell'accordo doveva contentarsi il Duca e non il Papa, il quale non avrebbe mai potuto disfare ciò che il Duca faceva, mentre l'opposto poteva facilmente seguire. Ma sebbene, per queste inquietudini e travagli, la sua stessa salute ne soffrisse, ed egli se ne dolesse, i suoi lamenti non approdavano a nulla, avendo i Fiorentini assai buone ragioni per voler temporeggiare.

Nè dei Borgia, nè degli Orsini e Vitelli potevasi la Repubblica in modo alcuno fidare, perchè gli accordi fatti con essi valevano solo finchè tornava loro il conto. La base della sua politica in Italia era l'alleanza colla Francia, non certo sicura, ma non così mal fida come quella dei Borgia. A questi dunque non si volevano dare che parole, e però un ambasciatore poteva bene mandarsi per ossequio al Papa, ma non al Duca che voleva subito stringere. Per inviarlo anche a lui, era necessario aspettare avvisi ed istruzioni di Francia. Questo i Dieci scrivevano di continuo al Machiavelli, che non se ne contentava, giacchè la sua condizione restava sempre la stessa. Da un altro lato a Firenze v'era bisogno grandissimo d'informazioni esatte sui movimenti non solo, ma ancora sulle intenzioni del Duca, e per questo verso la importanza delle lettere del Machiavelli era ormai così universalmente riconosciuta da tutti, che nessuno voleva sentir parlare di richiamarlo, non potendosi trovare uomo più di lui adatto al suo ufficio presente. Niccolò Valori gli scriveva il 21 ottobre: «E veramente queste due ultime (lettere) ci avete mandate, v'è suto tanto nervo, e vi si mostra sì buono iudicio vostro, che non le potrebbano essere sute più aprovate. Ed in spezie ne parlai a lungo a Piero Soderini, che non iudica si possa a nessun modo rimuovervi di costì.» Più tardi gli scrissero il Buonaccorsi, Marcello Virgilio ed il Gonfaloniere stesso, ripetendogli che non era possibile richiamarlo, perchè bisognava pure che uno stésse presso il Valentino, e più adatto di lui non si sapeva trovarlo. Il Gonfaloniere e i Dieci aggiungevano a ciò l'invio di 25 ducati d'oro e 16 braccia di damasco, i primi affinchè egli si potesse mantenere più convenientemente colà, il drappo per donativi da farsi.

Ma a tutte le ragioni sinora accennate del suo scontento, bisogna aggiungerne un'altra. Sebbene il Machiavelli trovasse grandissima materia di studio nell'osservare le azioni del Valentino e di coloro che lo circondavano, pure, per quanto egli astraesse la politica dalla morale, e non avesse una coscienza troppo tenera e troppo scrupolosa nelle faccende di Stato, il vivere in mezzo a una rete così continua e fitta d'infamie; fra uomini così pieni di delitti, così pronti al tradimento ed al sangue, i quali tutti non rispettavano altro che la forza, senza potere egli nè impedire, nè moderare le loro azioni in modo alcuno, era più assai di ciò che la sua indole potesse comportare. Non c'è un'opinione più erronea di quella di coloro i quali vollero supporre, che in questo momento le azioni del Valentino fossero consigliate e guidate dal Machiavelli. Da tutte le lettere che questi scrisse, si vede chiaro come egli durasse invece una gran fatica a scoprire le intenzioni e i segreti disegni del Duca, assai spesso non riuscendovi e restando al buio di tutto. Il Duca non aveva bisogno dei consigli del Segretario fiorentino, di cui qualche volta sembrava quasi prendersi gioco. Il Machiavelli non era punto sanguinario e crudele, anzi quando si trovava proprio in presenza ed in contatto del male, anche per mitezza d'indole ne rifuggiva. Più volte, difatti, in questa legazione cadono dalla sua penna parole che, sotto l'apparente cinismo, tradiscono un certo angoscioso terrore. Ed allora, per allontanarsi dal tristo spettacolo, scriveva lettere oscene e facete ai compagni d'ufficio, i quali rispondevano che, leggendole, smascellavano dalle risa, e poi gli raccontavano a loro volta i pettegolezzi e le baruffe seguite nella cancelleria, dove in sua assenza il disordine era sempre grande, o pure i loro stravizî e le loro oscenità. Altra volta, stanco di tutto ciò, si chiudeva in sè stesso a meditare sugli antichi scrittori, e lo vediamo chiedere con febbrile insistenza le Vite di Plutarco al suo Buonaccorsi, cui ricorreva di continuo per libri, per danari e per mille altre faccende, trovandolo sempre pronto e servizievole. Questi in una lettera del 21 ottobre gli scriveva: «Habbiamo fatto cercare delle Vite di Plutarco, e non se ne truova in Firenze da vendere. Abbiate pazienza, che bisogna scrivere a Venezia; ed a dirvi il vero, voi siete lo 'nfracida a chiedere tante cose.» Singolare spettacolo è questo del Machiavelli che, contemplando gli eroi di Plutarco da un lato e le azioni del Valentino dall'altro, comincia a creare quella scienza politica che deve fondarsi sulla storia del passato e sull'esperienza del presente. La scolastica aveva cercato le origini prime e la base della società umana, partendo dal concetto di Dio e del Sommo Bene, perdendosi in considerazioni che non avevano nessun valore nella pratica della vita. Lo stesso Dante Alighieri non s'era potuto nella sua Monarchia liberare dalle troppo artificiali e astratte teorie. Il Machiavelli non aveva nè tempo, nè opportunità, nè voglia da ciò. Trovandosi dinanzi alla realtà delle cose, indagava secondo quali leggi seguivano i fatti umani, per cavarne precetti utili a governare gli uomini. Voleva sapere donde tragga la sua forza l'uomo di Stato, e come debba adoperarla per ottenere il fine propostosi, e quando non rispondevano i moderni, interrogava gli antichi.

Intanto gli riusciva sempre più difficile vedere il Duca, il quale, quando lo riceveva, tornava sempre sulla necessità di stringere alleanza, di confermargli la condotta già stipulata, e quando sentiva nuove proteste d'amicizia, senza che si venisse a proposte determinate, prorompeva sdegnato: «ecco che qui non si stringe nulla.» Pure di tanto in tanto lo chiamava e cercava di scoprire terreno, sotto colore di far nuove confidenze. Un giorno gli disse che Giovan Paolo Baglioni aveva nel passato chiesto una lettera, con cui gli si ordinasse di seguire Vitellozzo, per aiutarlo a rimettere i Medici in Firenze, ed egli l'aveva scritta. «Ora non so,» seguì egli, guardando a un tratto il Machiavelli, «se se ne sarà fatto bello, per darmi carico.» Al che questi rispose di non averne notizia. Un altro giorno cominciò con molta gravità a confidargli, come Paolo Orsini dicesse d'avere allora appunto avuto dai Fiorentini offerta d'una condotta, per andare al campo di Pisa, offerta che fu ricusata. Al che il Machiavelli chiese se l'Orsini aveva pronunziato il nome di chi gli portò l'offerta, o fatto vedere le lettere, e se aveva mai detto bugìe. Il Duca, accorgendosi che il Segretario non cadeva nella rete, rispose che l'Orsini non aveva detto i nomi, nè mostrato le lettere; ma che delle bugìe gliene aveva dette assai. «E così si risolvè questa cosa ridendo, nonostante che nel principio lui ne parlasse turbato, mostrando di crederla e che la gli dolesse.» Raccontò poi d'un segreto accordo fatto dai Veneziani in Rimini, per mezzo d'un Veneto che abitava colà, aggiungendo che egli, «per l'onor loro, lo aveva fatto impiccare.» Dato questo avvertimento, come di passaggio, venne a parlare della espugnazione di Pisa, ed osservò che sarebbe la più gloriosa impresa che potesse fare un capitano. «Di qui saltò in Lucca, dicendo che era la più ricca terra, e che era un boccone da ghiotti. Poi aggiunse che se egli, Firenze e Ferrara fossero d'accordo, non avrebbero avuto a temere di nulla.» Pareva proprio il gatto che volesse pigliarsi gioco del topo, se non che il topo era Niccolò Machiavelli.

In questo mezzo le trattative già iniziate continuavano, per tirarvi dentro quanti più si poteva. Vitellozzo era ancora restìo e temporeggiava, sicchè di lui parlavasi con grande sdegno nella Corte. «Questo traditore ci ha data una coltellata, e ora crede guarirla con le parole.» Pure anch'egli fu preso finalmente al laccio. Tutto essendo ormai concluso, il Duca d'Urbino si trovò da capo abbandonato; laonde dovè subito pensare ai casi suoi, e quindi, demolite alcune delle fortezze, altre lasciate in mano di gente fida, se ne fuggì sopra una muletta, piangendo, ed era fatto cercare a morte, con furore indescrivibile, dal Papa e dal Valentino. L'angoscia e la fatica furono tali, che a Castel Durante si svenne. Pure riuscì a salvarsi. Nel suo Stato fu dal Borgia mandato ad amministrare giustizia Antonio da San Savino, il quale procedette con qualche moderazione; in Romagna invece adempiva lo stesso ufficio, con crudeltà inaudita, un tal messer Ramiro. Nel medesimo tempo il Valentino partiva con l'esercito per Forlì; il Machiavelli lo seguiva, ed il 14 dicembre scriveva da Cesena, pieno d'incertezza, che tutti erano sospesi, vedendo che non licenziava neppure una lancia: e però, sebbene ci fosse l'accordo, il passato faceva giudicare dell'avvenire, e costringeva a creder che volesse ora assicurarsi de' suoi nemici. Tornava poi sulla necessità di concludere accordo per mezzo di un ambasciatore, e chiedeva nuovamente d'essere richiamato. Ma la Repubblica meno che mai lo ascoltava ora che le cose si avvicinavano ad una soluzione, e che la Francia faceva capire di non voler più lasciare la briglia sciolta ai Borgia.

Infatti le 450 lance francesi, che avevano dato al Duca tanta riputazione, furono a un tratto richiamate, e partirono il 22 dicembre: cosa, scriveva il Machiavelli, che ha mandato il cervello sossopra a questa Corte....; e «ognuno fa sua castellucci.» La ragione di così subito mutamento non si capiva allora, e le conseguenze di un tal procedere non si potevano prevedere. Certo è però, che questo fatto, l'essere ancora tutte le fortezze d'Urbino o smantellate o tenute sempre in nome di Guidobaldo, il non aversi nè potersi avere nessuna fiducia negli accordi conclusi, «avevano subito tolto metà delle forze e due terzi della riputazione al Duca.» Pure le sue artiglierie andavano innanzi, come se nulla fosse. Mille Svizzeri erano arrivati a Faenza, altri 1500 ne aveva già tra Svizzeri e Guasconi. Nessuno sapeva indovinare lo scopo di tali mosse, tutto era mistero, perchè «questo signore non comunica mai cosa alcuna, se non quando e' la commette, e commettela quando la necessità strigne, e in sul fatto e non altrimenti; donde io prego VV. SS. mi scusino, nè m'imputino a negligenza, quando io non satisfaccia alle SS. VV. con gli avvisi, perchè il più delle volte io non satisfo etiam a me medesimo.» E ad accrescere il mistero seguiva, in quei giorni appunto, un caso strano. Messer Rimino o Ramiro, il fidato strumento del Duca in Romagna, autore delle più nefande crudeltà per sottomettere quel paese, da cui era perciò odiatissimo, arrivato da Pesaro in Cesena, fu, con generale maraviglia di tutti, preso il 22 dicembre e messo in fondo d'una torre. Dopo quattro giorni il Machiavelli scriveva ai Dieci: «Messer Rimino questa mattina è stato trovato in dua pezzi, in sulla piazza dove è ancora, e tutto questo popolo lo ha possuto vedere: non si sa bene la cagione della sua morte, se non che li è piaciuto così al principe, il quale mostra di saper fare e disfare gli uomini a sua posta, secondo i meriti loro.»

Ma ora le cose procedevano rapidamente al loro fine; tutto era diretto alla presa di Sinigaglia. Questa terra, fino dai tempi di Sisto IV appartenuta a Giovanni della Rovere, marito di Giovanna sorella di Guidobaldo d'Urbino, era per la morte di quel Signore, pervenuta nel 1501 al figlio suo Francesco Maria, di anni 11, che Alessandro VI nominò prefetto di Roma, come era stato il padre. Nella sua prima fuga Guidobaldo aveva menato seco il nipote, che trovavasi ora di nuovo in Sinigaglia con la madre, la quale governava pel figlio, aiutata dai consigli del celebre Andrea Doria tutore di lui, ed era chiamata la prefettessa. Vedendo che l'esercito del Valentino s'avvicinava in gran fretta, e innanzi a lui erano già le genti di Vitellozzo e degli Orsini, disposte ad assalir la città, il Doria salvò la madre ed il figlio alle sue cure affidati, e poi, ordinato ai suoi di difendere la fortezza più che potevano, se n'andò egli stesso a Firenze. Il 29 dicembre, il Machiavelli scriveva da Pesaro una lettera che andò smarrita, nella quale narrava minutamente ciò che compendiò poi in altre, cioè come Vitellozzo e gli Orsini erano entrati in Sinigaglia, e come il Duca, avutone notizia, ordinò subito che ponessero le loro genti nel borgo, fuori delle mura, e s'avanzò col suo esercito verso la terra, in cui entrò la mattina del 31. Primo a farglisi incontro fu Vitellozzo, colui appunto che più di tutti aveva resistito all'accordo, il quale, sapendo d'essere perciò il più odiato, veniva sopra una muletta, disarmato, dimesso, con la berretta in mano. Seguivano il duca di Gravina, Paolo Orsini, Oliverotto da Fermo, e tutti quattro accompagnarono il Duca per le vie della città, nella casa in cui alloggiò. Egli che già aveva fatto cenno a chi doveva guardarli, entrato che fu con essi in una stanza, li fece subito prendere prigioni; dette ordine che fossero svaligiate le loro fanterie nel borgo, ed inviò una metà del suo esercito per fare lo stesso alle genti d'arme, che erano alloggiate nelle vicine castella, a sei o sette miglia da Sinigaglia. Quel medesimo giorno il Machiavelli dava immediata notizia del fatto ai Dieci, aggiungendo: «La terra va tuttavia a sacco, e siamo a ore 23. Sono in un travaglio grandissimo; non so se i' mi potrò spedire la lettera, per non avere chi venga. Scriverò a lungo per altra; e secondo la mia opinione, non fieno vivi domattina.»

Un'altra lettera, più lunga e più importante assai, scritta quel medesimo giorno, andò perduta. Abbiamo però quella del primo di gennaio 1503, in cui egli racconta come verso un'ora della notte innanzi era stato chiamato dal Duca, il quale «colla miglior cera del mondo si rallegrò meco di questo successo, aggiungendo parole savie e affezionatissime sopra modo verso cotesta Città. Disse che questo era il servigio che aveva promesso di rendervi a tempo opportuno. E come aveva dichiarato, che vi offrirebbe la sua amicizia con istanza tanto maggiore, quanto più fosse stato sicuro di sè, così ora teneva la promessa; e venne esponendo tutte le ragioni che l'inducono a desiderare questa amicizia, con parole che mi fecero restare ammirato. M'invitò ancora a scrivervi che, avendo spento i capitali nemici suoi, di Firenze e di Francia, e levata quella zizzania che minacciava guastare l'Italia, dovevate dargli segno manifesto d'amicizia, col mandar gente verso Perugia dove s'avviava ora, e col ritenere per lui il duca Guidobaldo, se nella sua nuova fuga entrasse in Toscana. È seguìto poi che questa notte passata, a ore dieci, fece strangolare Vitellozzo e messer Oliverotto da Fermo;» «gli altri due sono rimasi ancora vivi, credesi, per vedere se il Papa arà avuti nelle mani il cardinale e gli altri che erano a Roma, che si crede di sì, e dipoi ne delibereranno tutti di bella brigata.» La rôcca s'era già arresa; l'esercito era partito quel giorno stesso alla volta di Perugia, per continuare verso Siena; il Machiavelli lo seguiva, ed essendo inverno, erano grandissimi gli stenti dei soldati e di chiunque andava con essi.

Il disordine, il trambusto divennero universali, ed all'avvicinarsi del Duca tutti i piccoli tiranni del paese fuggivano come dinanzi all'idra. Ben si può credere che, in tanta confusione, corrieri per portar le lettere non se ne trovassero, o non fossero sicuri, e però non poche di quelle scritte allora dal Machiavelli andarono perdute. Il 4 gennaio 1503, egli avvisò che le genti vitellesche ed orsine erano riuscite a scampare. Intanto s'andava innanzi, e i Baglioni fuggivano da Perugia, che il giorno 6 si arrese. Le loro sorelle, arrivate al confine, donde il Commissario fiorentino Piero Ardinghelli aveva, per gli ordini ricevuti, respinto tutti i profughi, vestirono due figlie giovinette da uomo, abbandonandole per forza alla compassione di lui, piuttosto che vederle cadere nelle mani dei nemici. Sicchè quegli scriveva il 19 gennaio al gonfaloniere Soderini: «Ora io non ho potuto far che la pietà di questa fortuna, di questa età non mi abbia commosso.... Ho eletto scriverne in proprio all'E. V., per intendere se le persone sole delle quattro donne o almeno le due pulzelle io possi qui receptare.... Quando non fussi contro la pubblica intenzione, io che naturalmente ho compassione agli afflitti, me ne terrò obbligatissimo.» E gli fu permesso.

Il giorno 8 Niccolò Machiavelli scriveva da Assisi, che tutti si maravigliavano come ancora non fosse venuto da Firenze alcuno a congratularsi col Duca, il quale ripeteva d'avere cogli ultimi fatti reso gran servigio alla Repubblica, perchè «alle SS. VV. sarebbe costo lo spegnere Vitellozzo e gli Orsini dugento mila ducati, e poi non sarebbe riuscito loro sì netto.» E intanto continuava il suo cammino, procedendo sempre «con una fortuna inaudita, un animo e una speranza più che umana,» risoluto a cacciare di Siena il tiranno Pandolfo Petrucci, e, potendo, anche impadronirsi della sua persona, al qual fine il Papa cercava «addormentarlo coi Brevi,» perchè è bene, diceva il Duca, «ingannare costoro che sono suti li maestri dei tradimenti.» Non si attentava d'impadronirsi della città stessa, non permettendolo la Francia; ma quanto a Pandolfo, che era stato «il cervello» dei congiurati, voleva levarlo di mezzo.

Il 13 gennaio si trovavano a Castello della Pieve, ed essendo finalmente per arrivare il nuovo ambasciatore fiorentino, Iacopo Salviati, il Machiavelli s'apparecchiava a partire, come fece poi il 20. Ma prima, per sopperire alle molte lettere perdute, si pose a scriverne una che riepiloga tutti i fatti seguìti, della quale sfortunatamente non abbiamo che il primo foglio. In essa egli incomincia con grandissima cura ed amore a fare un quadro generale dell'impresa che, sin dalle prime parole, dichiara veramente «rara e memorabile.» Non accenna nel Duca alcun disegno premeditato di tradire, ma piuttosto un animo risoluto a vendicarsi in tempo, quando s'avvide che, per la partenza delle lance francesi, volevano tradirlo. Descrive la somma accortezza che egli usò per tener celato agli Orsini ed ai Vitelli il numero delle genti che ancora gli rimanevano, facendole credere minori che non erano. Con uguale ammirazione descrive minutamente gli ordini dati per dividere in piccoli drappelli tutto l'esercito, e condurlo poi unito a Sinigaglia, in modo da arrivare inaspettato con forze preponderanti, trovando disseminate lungi dalla città quelle dei falsi amici, i quali così non avrebbero potuto disobbedirgli, senza scoprirsi traditori prima del tempo. Ma appunto quando si è per descrivere l'entrata in Sinigaglia, finisce il brano di questa lettera, in cui lo scrittore, cercando pure di restar fedele alla verità storica, sembra quasi esaltarsi a descrivere un eroe, cosa di cui qualche rimprovero gli era stato già fatto da Firenze, come apparisce dalle lettere stesse del Buonaccorsi.

Il Machiavelli trovavasi ancora il giorno 18 gennaio a Castello della Pieve, quando il Valentino, ricevuta la notizia lungamente aspettata, che il Papa aveva cioè preso prigioniero il cardinale Orsini e gli altri in Roma, fece strangolare anche Paolo e il duca di Gravina Orsini, che aveva menati seco da Sinigaglia, sotto buona guardia. Il Duca procedette saccheggiando le terre del Senese, e minacciando di assalire la città stessa, se non ne cacciavano subito il Petrucci; ma si contentò poi di lasciarlo partire, quando questi chiese un salvocondotto, perchè la Francia gli vietava d'assalire la terra, ed il Papa lo chiamava in fretta a Roma. Ciò per altro non impedì punto che, dopo avergli concesso il salvocondotto e raccomandatolo con lettera ai Lucchesi, gli mandasse dietro cinquanta uomini armati, per averlo, morto o vivo, nelle mani. E veramente il tiranno di Siena scampò questa volta per miracolo. Il 28 gennaio, infatti, aveva lasciato la sua città, e fuggiva più che in fretta con Giovan Paolo Baglioni verso Lucca, perchè, sebbene non sapessero di essere inseguiti, pure nessuno si fidava dei Borgia. E gli sgherri erano sul punto di raggiungerlo, se non che, durando sempre la guerra tra Firenze e Pisa, il commissario fiorentino, ignaro di tutto, non volle permettere che uomini armati corressero liberamente un paese guerreggiato, e li fermò chiedendo istruzioni a Firenze. Questo bastò perchè la desiderata preda avesse il tempo necessario a sfuggire dagli artigli avvelenati del Duca. Ed egli dovette ora finalmente decidersi ad andar subito verso Roma, chiamatovi con febbrile istanza dal Papa, il quale non si sentiva punto sicuro, essendo la Campagna piena d'armati che lo minacciavano. La Francia da un altro lato aveva di nuovo e severamente vietato che si procedesse oltre nelle conquiste.

Mentre in Romagna e nell'Italia centrale vediamo il Duca, e Niccolò Machiavelli che con tanta evidenza ci fa assistere a tutto quello che seguiva colà; a Roma possiamo osservare il rovescio, non meno tragico, della medaglia. Ivi si trovavano di fronte il Papa, che sapeva dominarsi assai meno del figlio, e Antonio Giustinian che, senza avere nè l'ingegno nè la cultura del Machiavelli, aveva assai maggiore autorità, maggiore esperienza del mondo, straordinaria conoscenza degli uomini, e, come ambasciatore veneto, molti mezzi che mancavano al Segretario fiorentino, per conoscere il segreto delle cose. Fin dal 6 agosto egli aveva scritto al Doge, che Vitellozzo andava «scantonando» il Duca, e che tutto faceva prevedere che questi ed il Papa fossero decisi a «mozzar le ali» agli Orsini. Quando vennero le nuove della ribellione, e della rotta di don Ugo e don Micheletto, il Papa si scagliò in Concistoro con un furore forsennato contro gli Orsini, ma poi subito, a poco a poco, abbassò la voce in modo da mostrarsi, scrive l'oratore, quasi umile ed avvilito. Alle prime notizie dei favori di Francia la sua gioia era di nuovo tale, che i cardinali sogghignavano fra loro, vedendo che il Santo Padre sapeva così poco frenarsi. Cominciarono poi le trattative per gli accordi, e subito l'ambasciatore veneto, senza avere i dubbi e le incertezze del fiorentino, notava che erano condotti in modo da non farvi entrare di mezzo persone potenti, per non trovare poi ostacoli a violarli, venendo al sangue.

Intanto non si perdeva tempo. Il Papa confessava d'avere in pochi giorni mandato al Duca 36,000 ducati; e raccoglieva artiglierie, armava come se i nemici fossero alle porte, pigliando danari «cusì da amici come da nemici, non avendo respetto che sieno nè Orsini, nè Colonnesi: e fa come chi se aniega, che se attacca alle frasche.» Senza punto occuparsi di cercare i principî o teorie d'una nuova scienza dello Stato, il Giustinian era, quanto e più del Machiavelli, intento a dare una fotografia di quel che vedeva; e sin dai primi di novembre, notando che la mala fede grandissima con cui procedevano gli accordi, traspariva dalle parole stesse del Papa, le riferiva al Doge de verbo ad verbum, aggiungendo: «E se possibile fosse, vorìa depenzerli la cosa inanti li occhi, perchè el modo fa molte fiate vegnir li uomini in cognizion dell'intrinseco più che le parole:» ognuno è persuaso che sia un finto accordo. Infatti quando si lessero i nomi degli Orsini che lo avevano firmato, il Papa disse ridendo all'ambasciatore fiorentino: «Non vi pare che questa sia una compagnia di tristi e di falliti? Non vedete dai patti, come diffidano e si confessano traditori, non escluso il cardinale stesso, che ci fa l'amico, e intanto vuol mettere per condizione di stare a Roma solo quando gli pare?» Al quale proposito, il Giustinian scriveva: Gli Orsini possono essere ben certi d'aver preso il «tossego a termene.» Nessuno invero capiva la cecità loro, massime del cardinale, che era sempre intorno al Papa, quasi volesse da sè medesimo entrare nella rete.

A misura che Alessandro VI credeva più vicini e sicuri i nuovi trionfi del Duca in Romagna, faceva ogni opera per cattivarsi l'amicizia della repubblica veneziana. Egli chiamava a parte l'ambasciatore, ed incrociando le braccia, stringendole al petto, deplorava che la gelosia dei governi d'Italia avesse dato il paese in mano a stranieri, che stavano con la bocca aperta per pigliarsi il resto. «Finora ci ha salvati solo la gelosia tra Francia e Spagna, altrimenti saremmo già rovinati. Ma non vi pensate esser figli dell'oca bianca. Ce ne sarebbe stato anche per voi. Noi siamo vecchi e dobbiamo pensare alla nostra posterità, onde non possiamo sperare in altri che nella serenissima Repubblica, che è eterna. Per amor di Dio, uniamoci insieme e provvediamo alla salute d'Italia. Sapete che cosa si dice? Che volete esser troppo savî. Contentatevi d'esser savî e lasciate quel troppo. E nel dir queste cose (aggiunge l'ambasciatore) pareva quasi gli si aprisse il petto, e che le parole gli uscissero dal core e non dalla bocca.» Ma chi poteva prestar fede ai Borgia? E però gli disse in risposta brevissime parole; «e solum rengraziai la Santità Sua del bon volere dimostrato verso la Eccellentissima Signoria Vostra.» Del resto neppur Venezia era allora capace di seguire una politica veramente nazionale, e tale da cavar partito dalle giuste idee che, per suo proprio interesse e per fini malamente mascherati, esponeva il Papa, pronto il giorno dopo a fare il contrario di quel che con tanta passione diceva allora.

Comunque sia di ciò, il 24 novembre, quando il Machiavelli in Romagna era ancora al buio dei disegni del Valentino, e invano si stillava il cervello, il Giustinian scriveva da Roma: «La prima botta sarà a Sinigaglia, per impedire che la Prefettessa aiuti il duca d'Urbino, che il Papa ha una passione sfrenata d'aver nelle mani.» Raccoglieva e mandava di continuo danari al figlio, che spendeva da 1000 ducati al giorno, e s'aiutava perciò col saccheggiare e rubare. Aspettava con straordinaria impazienza le nuove dei progressi di lui, a segno tale che quando lo seppe per qualche tempo fermo a Cesena, andava gridando, fuori di sè per la stizza: Non sappiamo che diavolo stia a fare colà; gli abbiamo scritto che si spicci in sua buon'ora. E ad alta voce, per ben tre volte ripeteva, sì che tutti l'udirono: «Al fio de putta bastardo!» e simili parole e bestemmie in spagnuolo. Per riposarsi poi da questi pensieri, e deviare la pubblica attenzione da' suoi segreti maneggi, promuoveva in Roma feste e mascherate popolari, che percorrevano le strade, e divenivano più oscene, quando arrivavano sotto le sue finestre, donde egli guardava ridendo il suo solito riso di vecchio dissoluto. La sera la passava in Vaticano, continuando spesso fino a giorno «ne li consueti solazzi,» non mancandovi mai le solite belle donne, senza le quali «non se ne fa festa che diletti,» e giocavansi qualche volta centinaia di ducati. A questi sollazzi interveniva anche il cardinale Orsini, con maraviglia di tutta la Corte, la quale non capiva come egli si andasse così da se stesso «intrapolando.»

Il 31 dicembre il Papa girava per le stanze del Vaticano, dicendo di non saper capire che cosa facesse il Duca, consumando invano mille ducati al giorno; ma poi non poteva celare il suo buon umore, e ridendo aggiungeva: «Vuol far sempre cose nuove, ha troppo grande animo.» Ed i cardinali gli dicevano che stesse contento, perchè il Duca sapeva spender con profitto il danaro. « - Noi tutti, essi aggiungevano, lo aspettiamo presto qui di ritorno per fare un bel carnevale. - Lo sappiamo bene, lo sappiamo, diceva il Papa, continuando a ridere, che voi non pensate ad altro. - » Era quello il giorno stesso, in cui Niccolò Machiavelli annunziava ai Dieci la presa di Sinigaglia e dei nemici del Duca. Il giorno dipoi il Santo Padre, finita la messa, chiamò gli ambasciatori presenti, e dètte loro la grande notizia, mostrandosi quasi maravigliato; ed aggiungeva che il Duca non perdonava mai a chi gli faceva ingiuria, e la vendetta non la lasciava ad altri, e minacciò quelli che l'avevano offeso, ed in particolare Oliverotto, «el qual el Duca aveva giurato in ogni modo di appiccar con le soe proprie mane.» I cardinali lo circondavano, e con varî rallegramenti «li grattavan le orecchie,» mentre che esso «entrò in un gran cantar della virtù e magnanimità del Duca.» Poi si guardavano in viso, e stringendosi nelle spalle, pensavano a quello che presto sarebbe seguito.»

Infatti il giorno 3 di gennaio 1503, essendo arrivata al Papa, sebbene ancora tenuta segreta, la notizia certa che Oliverotto e Vitellozzo erano stati strangolati, egli fece in gran fretta chiamare in Vaticano il cardinale Orsini, che venne col Governatore e con Iacopo da Santa Croce, i quali pare avessero ordine d'accompagnarlo, sebbene fingessero di venir con lui a caso. Non era anche arrivato, che fu preso e messo, come tutti prevedevano, in Castel Sant'Angelo, per non uscirne mai più vivo. La casa fu subito svaligiata, e la madre con due giovinette che le tenevano compagnia, cacciate senza poter portare seco altro che quello avevano in dosso. Le tre donne andaron raminghe per Roma, non trovando chi volesse riceverle, perchè ognuno temeva. Seguirono senza indugi moltissimi altri arresti. L'auditor della Camera, vescovo di Cesena, fu portato via dal letto con la febbre, e la sua casa del pari svaligiata; lo stesso fu fatto al protonotario Andrea de Spiritibus, e così ad altri ed altri ancora. Chiunque aveva danari tremava per la sua vita, perchè ora «non par che il Pontefice pensi ad altro che a recuperar denari. Si afferma che abbia, tra robe, ufficî e beneficî, raccolto non meno di 100,000 ducati; e dice che quel che è fatto è nulla a quello che farà.» I Medici stessi a Roma erano assai sbigottiti, ed il vescovo di Chiusi morì di spavento. Quelli che fuggirono erano già tanti, che il Papa credè necessario chiamare i Conservatori della Città, per dir loro che ormai erano presi tutti quelli che avevano commesso male: attendessero dunque gli altri a fare un bel carnevale. Ed egli stesso, pure continuando la sua opera di sterminio, passò i due mesi di gennaio e febbraio tra le feste carnevalesche. L'ambasciatore veneto, andato a parlargli d'affari, lo trovò al balcone che rideva guardando il popolo mascherato buffoneggiare sotto le sue finestre. Invitato poi a veglia una sera, lo trovò che assisteva, dopo aver passato il giorno a veder correre palii, alla recita di commedie, delle quali fu sempre amantissimo, in presenza d'altri diplomatici, in mezzo ai cardinali, «alcuni con l'abito cardinalesco, ed alcuni anco da maschera, con quelle compagnie che soleno gradir al Pontefice, e qualcuna ne era a' piedi del Santo Padre.»

Il giorno che seguì a quella festa, il cardinale Orsini spirava nella prigione di Castel Sant'Angelo, dove, secondo che tutti dicevano, era stato avvelenato. Invano i cardinali avevano supplicato per la sua vita, invano i parenti avevano offerto 25 mila ducati per salvarlo. La madre, cui prima era stato concesso di mandar cibo al figlio, e poi vietato, inviò una donna amata dal cardinale, con l'offerta d'una grossa perla al Papa, che da più tempo la desiderava, sperando così di muoverlo a pietà. Prese la perla, ma non fece la grazia. Solo concesse che si mandasse di nuovo il desinare. Allora però il cardinale cominciava a dar «segni di frenesia,» e secondo la comune opinione, aveva già bevuto alla tazza avvelenata: quasi per ironia si ordinò poi ai medici lo curassero con ogni diligenza. Il 15 si disse che lo avevano trovato con la febbre: il 22 era morto; il 24 quelli che lo avevano assistito furono chiamati a giurare che era stata morte naturale. Vennero poi, per ordine di Sua Santità, celebrate pubbliche esequie.

Ed ora s'aspettava il Duca. Il cardinale d'Este era già fuggito da Roma a tale annunzio, temendo per la propria vita. Tra le mille voci che correvano, dicevasi anche che egli amasse donna Sancia cognata del Duca, e da questo pure amata. Quelli fra gli Orsini che erano avanzati alla strage, i Savelli, i Colonna, corsi alle armi, s'erano fortificati in Ceri, Bracciano, altrove, ed avevano il 23 gennaio assalito il ponte Nomentano. Sebbene fossero stati respinti, pure il Papa aveva armato il Palazzo; era fuori di sè per la rabbia e la paura; andava gridando che voleva sradicar casa Orsini, e chiedeva al suo Duca, che non perdesse tempo, s'affrettasse a venire. Ed egli s'era avanzato, portando sterminio dovunque arrivava. A San Quirico, non trovò che due vecchi e nove vecchie, essendo fuggiti tutti gli altri. Li fece sospendere per le braccia, ponendo il fuoco sotto i loro piedi, perchè rivelassero dove erano nascosti i tesori; e non potendo nè sapendo essi rispondere nulla, dovettero morire. Simili atrocità commise a Montefiascone, Acquapendente, Viterbo, ecc. Ma quantunque tutto cedesse dinanzi a lui, e molti dei nemici si fossero ritirati, pure Ceri e Bracciano resistevano, non bastando a sottometterli le artiglierie mandate dal Papa, nè il Duca osando secondarlo ora con troppo zelo, a cagione degli ordini ricevuti di Francia, dei quali l'altro non si curava punto. In questo modo le cose andarono per le lunghe; e però il Valentino, lasciati in una villa vicina 50 uomini armati, coi quali era venuto, entrò il 26 febbraio in Roma, insieme con il cardinale Borgia, il cardinale d'Alibret e tre servitori, tutti in maschera. La sera assisteva mascherato alla rappresentazione d'una delle solite commedie in Vaticano, sebbene ognuno lo riconoscesse.

Il Machiavelli intanto, con la fantasia esaltata, piena la mente di tutto quello che aveva veduto e sentito del Valentino e dei Borgia, era tornato a Firenze, dove continuava nella cancelleria a leggere ed a scriver lettere che parlavan di loro. Ma chi credesse che egli si fosse addirittura illuso nel giudicare il vero carattere del Papa e del figlio, dovrebbe rileggere la sua prima Legazione a Roma, ed il suo primo Decennale, per convincersi facilmente del contrario. In questo egli chiama il Duca uomo senza pietà, ribellante a Cristo, l'idra, il basilisco, degno della più trista fine, e parla in termini non molto diversi del Papa. Pure fu, come dicemmo, accanto al Valentino, che nella sua mente sorse la prima volta e cominciò a formularsi assai chiaro il pensiero, che doveva poi occupare tutta la sua vita, d'una scienza dello Stato, separata, indipendente da ogni concetto morale. In questa separazione egli credette di vedere l'unico mezzo per concepire chiaramente, e fondare su nuova base la vera arte di governare. Si trovò in uno stato d'animo e di mente non molto diverso da quello di chi si fosse la prima volta messo a ricercare le leggi, secondo cui si aumenta o si diminuisce la ricchezza delle nazioni, ed avesse esaminato il fenomeno economico così nel mercante, nell'industriale e nell'agricoltore che producono, come nel soldato che saccheggia, nel brigante e nel pirata che rubano. Da questa separazione, più o meno astratta e forzata, di uno solo dei fenomeni sociali da tutti gli altri, cominciò infatti la scienza economica a formarsi, ed a ciò dovette così il suo rapido progresso come anche alcuni di quegli errori che più tardi cercò di correggere. E da una separazione non molto diversa partiva il Machiavelli, quando cominciò ad esaminare, a studiare le azioni del Valentino: in esse l'assoluta distinzione della politica dalla morale non appariva come un'ipotesi o un'astrazione, perchè era invece un fatto reale. Se non che, allora il Machiavelli riusciva solo a formulare alcune massime generali, senza innalzarsi ad un concepimento teoretico di principî, e molto meno poteva riuscire ad esser tanto sicuro del suo metodo, da tentar di raccoglierli in un corpo di dottrine. Le sue idee, quasi inconsapevolmente, lo conducevano piuttosto a formar nella sua mente un personaggio ideale, che rappresentava l'uomo politico, accorto, abile, audace, non trattenuto da nessuno scrupolo di coscienza, da nessuna autorità morale, pur di giungere, superando ogni ostacolo, anche attraverso il sangue ed i tradimenti, allo scopo che s'era prefisso. In sostanza, esaminando le azioni del Valentino, egli aveva finito col concepire un Valentino immaginario, al quale ritornò continuamente più tardi. È la nota figura che così spesso ricomparisce in mezzo alle considerazioni dei Discorsi e del Principe, come a ricordare la loro prima sorgente, ed a testimoniare di nuovo che l'autore ha cercato il fondamento della sua politica, non già risalendo al Sommo Bene, o movendo da qualche metafisica astrazione, ma solo esaminando la realtà della vita. Ad un simile impulso egli obbediva, quando più tardi scrisse la Vita di Castruccio Castracani, la quale, come tutti sanno, non è storia, ma è invece un tentativo per cavare dalla storia il suo proprio ideale politico. Tutto questo ci spiega com'egli potesse tanto lodare e tanto biasimare il Valentino. Le lodi vanno generalmente al personaggio della sua mente, il biasimo a quello della storia. L'uno però non è così diverso dall'altro, che non ci accada qualche volta di confonderli insieme, tanto più che ciò segue anche all'autore, trasportato come è da una fantasia, che spesso lo domina con forza tanto maggiore, quanto più egli crede di ragionare a freddo. Nè è veramente raro il caso di vedere appunto gli uomini che più riflettono e ponderano, cadere a un tratto in assoluta balìa della propria immaginazione.

Qualunque del resto fosse lo stato del suo animo e delle sue idee, il Machiavelli non aveva allora il tempo necessario alle scientifiche meditazioni, ed a scrivere lavori di lunga lena. Si provò quindi solamente a narrare in breve tutto quel che aveva veduto in Romagna, non per darne un esatto ragguaglio storico, che già trovavasi nelle molte lettere della sua legazione, sebbene più d'una ne fosse andata perduta; ma per mettere, invece, anche meglio in chiaro la prudenza e l'arte, secondo lui maravigliose, del Duca. Compose perciò la ben nota Descrizione, in cui il modo da questo tenuto nell'uccidere i suoi nemici, vien dipinto in quella forma che meglio rispondeva allo scopo che lo scrittore aveva preso di mira. Così e non altrimenti si può spiegare perchè il Machiavelli ora descriva i fatti tanto diversamente da quel che vedemmo nella Legazione, quando egli era sul luogo, e ragguagliava i Dieci per dovere d'ufficio.

Nella Descrizione comincia col presentarci il Duca che ritorna di Lombardia, dove era stato a scusarsi col Re di Francia «di molte calunnie gli erano state date da' Fiorentini per la ribellione d'Arezzo.» Il che non è vero, perchè i Fiorentini non lo avevano calunniato, e ciò dovrebbe in ogni caso bastare a far ricredere tutti coloro che in questa Descrizione non vollero vedere altro che una delle sue solite lettere ai Dieci o ai Signori. Certo il Segretario non avrebbe potuto, scrivendo ad essi, parlare delle calunnie de' Fiorentini. Continuando poi, egli narra con molta brevità la congiura alla Magione, e l'accordo più tardi seguìto fra i ribelli e il Duca, del quale fa in ogni maniera risaltare l'astuzia. Qui il Duca parte da Imola alla «uscita di novembre,» e nella Legazione il 10 dicembre; parte da Cesena «intorno a mezzo dicembre,» e nella Legazione, invece, era il 26 dicembre ancora «in sul partire.» Si procede poi narrando come, presa Sinigaglia dai Vitelli e dagli Orsini, la fortezza non si volle arrendere, avendo il castellano dichiarato di cederla solo «alla persona del Duca,» che fu perciò invitato a venire. A lui, osserva il Machiavelli, parve la occasione buona e da non dare ombra, e per meglio colorire la cosa licenziò i Francesi. Nella Legazione invece aveva detto, come del resto da tutti gli storici ed ambasciatori del tempo risulta chiaro, che i Francesi partirono improvvisamente il 22 dicembre, perchè furono richiamati senza che se ne sapesse la ragione, e in ogni modo con grande dispiacere e pericolo del Duca. Anzi il 20 dicembre scriveva che la cosa aveva «mandato il cervello sottosopra a questa Corte,» ed il 23, che al Duca erano così «mancate più che la metà delle forze e a due terzi della reputazione.» Nella Descrizione, invece, tutto ciò si muta in un tratto di fina accortezza del Valentino. Anche la strada che da Fano mena a Sinigaglia, apparisce qui assai diversa da quella minutamente descritta nel brano che ci resta della citata lettera, in cui si epiloga il racconto dei fatti. E sino alla fine si continua sempre allo stesso modo. Il Duca comunica il suo disegno a otto de' suoi fidi, di alcuni dei quali sono dati i nomi della Descrizione, sebbene nella Legazione di ciò non si faccia parola. Si racconta diversamente anche la presa dei quattro capitani, e si danno le parole dette da Oliverotto e Vitellozzo in sul morire, parole di cui nessuno può confermare o negare la verità storica, non avendone l'autore accennato nulla altrove, nè essendo presumibile che le conoscesse di certa scienza. Come si spiegherebbero mai così patenti contradizioni, se non si ammettesse che qui non si tratta di storia vera e propria? Il Valentino che il Machiavelli ci descrive ora, calunniato dai Fiorentini, abile ed accorto anche più di quel che appaia nella Legazione, non è altro che il precursore del suo Principe, nel quale ci sarà più tardi esposto in una forma teoretica ciò che ora vediamo invece in una forma individuale e concreta. Il concetto scientifico, sebbene ancora non apparisca molto chiaro, è però già nascosto nel personaggio ideale che ci sta dinanzi.

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