CAPITOLO VI.

Necessità di nuove imposte. - Discorso sulla provvisione del danaro. - Provvedimenti contro i Borgia. - Guerra di Pisa. - Nuovi misfatti del Papa. - Prevalenza degli Spagnuoli nel Reame. - Morte di Alessandro VI. - Elezione di Pio III e di Giulio II.

(1503)

La Repubblica trovavasi ora molto angustiata dall'urgente bisogno di danari necessarî ad assoldare nuove genti; giacchè non solo i Borgia minacciavano da un lato e i Pisani dall'altro, ma un nuovo esercito francese era in via per Napoli, ed a nessuno era dato prevedere le complicazioni e i pericoli che da ciò potevano nascere. Pure fu questo il momento, in cui il gonfaloniere Soderini, che finora aveva governato con grandissimo favore, e tutto gli era riuscito, trovò la prima forte opposizione nei cittadini. Sette proposte diverse furono nel febbraio e nel marzo 1503 presentate al Consiglio Maggiore, per ottenere il danaro necessario, e nessuna fu vinta. Nè si sapeva più a quale partito appigliarsi, perchè se la imposta che si proponeva era grossa, non poteva essere accettata da un popolo già tanto gravato; se piccola, non soddisfaceva al bisogno. A queste ragioni di scontento se ne univano altre, che rendevano la presente opposizione assai viva. I cittadini più ricchi avevano non solo pagato le ordinarie gravezze; ma erano stati costretti ad imprestare non piccole somme di danaro al Comune, il quale perciò aveva con essi un debito di 400,000 fiorini, di cui 18,000 erano dovuti al Soderini ed ai suoi nipoti. Non volevano adunque i ricchi sentir parlare di provvedimenti straordinarî; ma chiedevano una imposta ordinaria e generale che, cadendo del pari su tutti, desse alla Repubblica modo di pagare qualche parte de' suoi debiti a chi essa aveva finora più aggravato. Questa norma s'era appunto seguìta nelle varie proposte sostenute dal Gonfaloniere, e respinte dal Consiglio, in cui prevalevano i meno ricchi, i quali si dolevano che egli, eletto dal popolo, favorisse invece i potenti. Ed aggiungevano che tutto ciò seguiva, perchè voleva ora farsi pagare i crediti che aveva egli verso lo Stato, dal quale riscoteva pure così grosso stipendio. Nè bastando, si univano a questi lamenti anche le grida di coloro che erano stati colpiti dai molti risparmî introdotti nella nuova amministrazione; e si faceva perfino un gran brontolare, perchè la moglie del Gonfaloniere, che era dei marchesi Malaspina, «bellissima, benchè attempata, e savia con modi regî,» secondo l'espressione del Cerretani, avesse allora preso alloggio in Palazzo, e quindi si vedesse per quelle scale un gran salire e scendere di signore, cosa fino allora insolita a Firenze.

La conseguenza naturale di tutto ciò fu, che il credito della Repubblica, rapidamente salito per la elezione del nuovo Gonfaloniere, e per la ordinata amministrazione di lui, discese ora con uguale rapidità, e i luoghi del Monte Comune e del Monte delle Fanciulle si tornavano a negoziare a bassissimo prezzo come in passato. Onde egli, stanco ormai di più temporeggiare, radunò il Consiglio Maggiore, e fece un solenne discorso, in cui, esposti gl'imminenti pericoli, rimise nei cittadini stessi la forma da dare alla nuova gravezza, pur che il danaro necessario a conservare e difendere la Repubblica, fosse una volta deliberato. E così finalmente si vinse una Decima universale su tutti i beni immobili, compresi gli ecclesiastici, quando se ne avesse il permesso da Roma, consentendo anche «un poco d'arbitrio.» Era l'arbitrio una tassa sull'esercizio delle professioni, e questo nome derivava forse dal mettersi senza regole molto determinate, massime poi nel caso presente, in cui veniva affidata del tutto alla discrezione dei magistrati. In ogni modo le cose tornarono subito nel loro stato normale, essendosi così superate le difficoltà assai più facilmente che non si sarebbe potuto supporre.

Il Machiavelli si provò allora a mettere sulla carta il discorso che, secondo lui, avrebbe dovuto essere fatto in quella occasione. Se lo scrivesse per ordine del Soderini, e se veramente sia lo stesso che questi lesse o recitò in Consiglio, noi non possiamo affermarlo. Certo egli lo compose come se a ciò fosse destinato. Scritto in modo da poter essere, nel pronunziarlo, ancora più ampliato e svolto, ha una forza e concisione di stile singolarissime, e vi si trovano molte di quelle massime, di quelle sentenze generali e reminiscenze storiche, che, quasi direi, galleggiavano ancora non bene coordinate fra loro nella mente del Segretario fiorentino, ma venivano pur sempre da lui esposte e ripetute con una lucidità inarrivabile. Egli incomincia col notare che tutti gli Stati hanno bisogno d'unire la forza alla prudenza. I Fiorentini avevano fatto prova di prudenza, nel dare unità e capo al governo; mancarono però subito al debito loro, non volendo provvedere alle armi, quando pochi mesi prima erano stati, per opera del Valentino, vicini all'ultima rovina. Nè valeva il dire che ora egli non aveva più ragione di offendere, «perchè bisogna sempre tenere che sia nemico chiunque può levarci il nostro, senza che noi siamo in grado di difenderci. E voi non potete ora difendere i vostri sudditi, e siete fra due o tre città, che desiderano più la vostra morte che la loro vita. Se andate poi fuori di Toscana, troverete che l'Italia gira tutta sotto i Veneziani, il Papa e il Re di Francia. I primi vi odiano e vi chiedono danari, per farvi guerra: meglio spenderli voi, per farla ad essi. Ognuno conosce che fede si può avere nel Papa e nel Duca, coi quali finora non vi è stato possibile concludere alleanza di sorta, e quando pure vi riuscisse, io vi ripeto che quei signori solamente vi saranno amici, che non vi potranno offendere, perchè fra gli uomini privati le leggi, le scritte, i patti fanno osservare la fede, e fra i Signori le armi. Quanto al Re di Francia, ci vuol proprio chi osi dirvi il vero, e quest'uno son io. O egli non troverà altro ostacolo che voi in Italia, e allora siete perduti, o vi saranno anche altri, e la salute vostra dipenderà solo dal sapervi fare rispettare in modo, che non si pensi d'abbandonarvi in preda a lui, e che egli non creda potervi lasciare fra i perduti. Pensate, in ogni caso, che non sempre si può mettere mano sulla spada di altri, e però gli è bene averla allato e cingersela, quando il nemico è discosto. Molti di voi debbono ricordare che, quando Costantinopoli fu per esser presa dal Turco, l'Imperatore previde la rovina, e non potendo provvedere colle sue entrate, chiamò i cittadini, ed espose quali erano i pericoli ed i rimedî; e se ne feciono beffe.» «La ossidione venne. Quelli cittadini che aveano prima poco stimato i ricordi del loro Signore, come sentirono suonare le artiglierie nelle loro mura, e fremere lo esercito de' nemici, corsono piangendo all'Imperadore con grembi pieni di danari, i quali lui cacciò via, dicendo: andate a morire con codesti danari, poi che voi non avete voluto vivere senz'essi.... Se però gli altri diventano savi per li pericoli dei vicini, voi non rinsavite per li vostri.... Perch'io vi dico, che la fortuna non muta sentenza dove non si muta ordine; nè i cieli vogliono o possono sostenere una cosa che voglia ruinare ad ogni modo. Il che io non posso credere, veggendovi Fiorentini liberi, ed essere nelle mani vostre la vostra libertà. Alla quale credo che voi avrete quei rispetti, che ha avuto chi è nato libero e desidera viver libero.» Quello che noi dobbiamo per ora notare si è la tendenza, che apparisce sempre più chiara nel Machiavelli, a formulare massime di politica generale, anche parlando di un affare così semplice come era il raccomandare una nuova imposta.

Le trattative intanto iniziate dai Borgia, per fare alleanza coi Fiorentini, continuavano senza speranza d'alcun resultato, perchè questi volevano procedere in tutto col consenso della Francia, la quale ora s'allontanava dal Papa, che dimostrava favore agli Spagnuoli. Essa cercava di favorire una lega tra Siena, Firenze, Lucca e Bologna, il che era finora riuscito solo ad aiutare il Petrucci a tornare in Siena. Colà i Fiorentini mandarono nell'aprile il Machiavelli, per comunicare a quel Signore le pratiche e le premure fatte dal Papa; e ciò per dargli una prova d'amicizia, più che per speranza o desiderio avessero di venire a qualche pratico resultato. E però vinta che fu la provvisione del danaro, pensarono seriamente a mettersi in difesa contro inaspettati assalti dei Borgia, ed il Machiavelli era di nuovo al suo banco a scrivere lettere. Ad un commissario scriveva di tener d'occhio i nemici, ad un altro d'armare la fortezza, un terzo veniva rimproverato aspramente di mollezza e pigrizia. Nel maggio avvertiva che il Valentino licenziava le sue genti, le quali potevano fare qualche colpo di mano per proprio conto, o anche tentar, sotto queste mentite apparenze, di meglio servire il loro signore. Intanto esse erano verso Perugia, e minacciavano il confine. «Laonde, sebbene il divieto della Francia non ci faccia credere possibile un assalto, nè abbiamo pelo addosso che pensi quella Maestà essere per consentirgliene; pure non bisogna punto addormentarsi, ma stare in guardia come se ci si credesse, visto il modo con cui procedono ora le cose, riuscendo quasi sempre dove nessuno immagina. Più adunque le vedi rannugolarsi e le conosci pericolose, e più terrai gli occhi aperti.» I Dieci invero temevano poco un assalto manifesto, ma dubitavano molto di furti, di rapine, di saccheggi o anche di ribellione provocata in qualche terra, per poi scusarsene. «Se si ha a dubitare di assalto manifesto a 12 soldi per lira, e' se n'ha a dubitare a 18 soldi di furto.» Forse ancora tutti questi segni di minacce avevano per unico scopo d'impedire che si désse il solito guasto ai Pisani, richiamando altrove l'attenzione e le forze della Repubblica. Ma quanto a ciò, essa era fermamente decisa a profittar della buona stagione.

Infatti s'erano già inviati al campo, come commissarî di guerra, Antonio Giacomini, che faceva anche l'ufficio di capitano con ardore sempre maggiore, e Tommaso Tosinghi. Nell'aprile una circolare dei Dieci ordinava che s'arrolassero nel territorio alcune migliaia di marraiuoli per dare il guasto, e nel maggio si mandavano al campo travi, bombarde, maestri d'ascia, e si annunziavano pronti a partire fanti, uomini d'arme e guastatori, tanto che i Pisani si spaventarono e dettero segno di voler venire ad accordi. Ma nè il Giacomini nè il Tosinghi si lasciarono prendere a questa pania, dichiarando di volere stare ai fatti, non alle parole, e ne furono molto lodati dai Dieci, in nome dei quali Niccolò Machiavelli scriveva loro il 22 maggio, confortandoli «a seguire co' medesimi termini in ogni vostra azione, mostrando sempre dall'una mano la spada e dall'altra l'unguento, in modo che conoscano essere in loro arbitrio pigliare quale e' vogliano.» E il 23 del mese uscirono in campagna 300 uomini d'arme, 200 cavalli leggeri, 3000 fanti e 2000 guastatori, che per l'energia del Giacomini, in due giorni, dettero dalla parte dell'Arno un guasto così generale, che i Dieci stessi ne restarono assai soddisfatti, anzi maravigliati, e incoraggiavano a continuare in Val di Serchio. Il Machiavelli, nello scrivere tutte queste lettere, non solo trasmetteva gli ordini avuti; ma qualche volta si distendeva a dare consigli, direzioni, suggerimenti, entrando nei più minuti particolari, quasi fosse un uomo di guerra, e che si trovasse in sul posto, pure ripetendo sempre che la Repubblica si rimetteva del tutto ai giudizî dei commissarî e capitani.

Ai primi di giugno era finito il guasto anche nella Valle del Serchio, ed arrivava il balì di Caen, il quale, portando poco più che la bandiera di Francia, e qualche uomo d'arme, cominciava subito coi soliti lamenti e le solite pretese. Tuttavia la sua presenza e quella dei suoi, senza poter fare nè gran male nè gran bene, toglievano animo ai Pisani e ne davano ai Fiorentini, i quali subito presero Vico Pisano e la Verruca, di che i Dieci molto si rallegrarono, ed il 18 giugno ordinarono che si espugnassero Librafatta e la Torre di Foce. Ma la notizia che i Francesi comandati dal La Trémoille s'avanzavano verso Napoli, fece sospendere queste operazioni, essendo ora necessario d'avere l'esercito libero ad ogni occorrenza imprevista; e però fu dato invece ordine di limitarsi a pigliar solo la Torre di Foce, «perchè si lievi questo riceptacolo ai Pisani, e che non possino più rifarci nidio alcuno.» Dopo di ciò la guerra fu da quel lato sospesa, ed il Giacomini richiamato per mandarlo ai confini.

Le cose del Reame avevano preso una piega assai contraria alla Francia, di cui i Borgia perciò cominciavano a curarsi assai poco, e quindi i Fiorentini si sentivano ora meno sicuri che mai. Alcune genti del Valentino scorrevano già nel Senese, di che il commissario Giovanni Ridolfi era in grandissimo pensiero, e però, con lettera del 4 agosto, il Machiavelli cercava fargli animo, scrivendo: «Gaeta non è poi all'olio santo come tu supponi, gli Spagnuoli cominciano a ritirarsi, i Francesi s'avanzano. Ed è falsa la tua opinione che l'esercito loro resti in Lombardia per paura dei Veneziani;» «e' quali non sono meglio in su le staffe, che si sieno stati tutto questo anno, nè si sente che tramutino un cavallo, nè che muovino un uomo d'arme, tale che, per tornare al proposito, noi non veggiamo come el Duca in su el traino di queste cose, abbi a cominciare una guerra e turbare apertamente le cose di Toscana, possendo in mille modi esserli, colla metà di questi favori, messo fuoco sino sotto el letto.» Tuttavia, non ostante questa fiducia apparente, si davano gli ordini per la difesa, e si mandavano al Ridolfi 250 lance francesi. Così fra questo ondeggiare passò buona parte dell'anno, quando nuovi eventi in Roma mutarono affatto le condizioni della politica italiana.

Colà, dopo che le genti del Duca avevano finalmente preso Ceri, pareva che fosse nato dissenso fra lui ed il Papa, non volendo quegli procedere risoluto contro Bracciano e gli Orsini, per rispetto della Francia, quando l'altro si mostrava per ciò pieno di così gran furore, che minacciava scomunicare il figlio; e corse perfino la voce che una sera erano tra loro venuti alle mani. Ma tutto questo, secondo l'ambasciatore veneziano, era una commedia. Nella presente incertezza intorno ai prossimi eventi del Reame, il Papa dimostrava d'inclinare a Spagna, il Duca a Francia. Pure, «buttandosela un all'altro, continuava il Giustinian, non restano di far li soi disegni.» La verità era che adesso più che mai speravano poterli finalmente, fra i prossimi ed inevitabili disordini, porre in atto, e perciò con ogni mezzo davano opera a far danari. Il dì 29 marzo lo stesso ambasciatore scriveva che erano stati con una Bolla creati ottanta nuovi ufficî nella Curia, venduti subito a 760 ducati l'uno. «La Sublimità Vostra fazi el conto, e vedrà quanti denari ha toccato el Pontefice.» E nel maggio aggiungeva, che erano stati nominati nove cardinali, uomini della peggior sorte, pagando tutti buona somma di danaro, alcuni da 20,000 ducati in su, tanto che s'erano messi insieme da 120 a 130 mila ducati. Così Alessandro aveva fatto vedere al mondo, che le entrate d'un Papa possono esser quali e quante esso vuole.

Ma tutto ciò non bastava, e si ricorreva quindi ad altri mezzi. La notte dal 10 all'11 aprile, il cardinale Michiel, dopo due giorni di vomito, moriva, e prima dell'alba la sua casa era svaligiata, per ordine del Papa, che, secondo il Giustinian, tra danari, argenti, tappezzerie, prese più di 150,000 ducati. Infatti, andato questi in Vaticano, trovò tutte le porte serrate, e non fu ricevuto, perchè erano occupati a contar danari, e continuavano ancora nella sala, in cui fu condotto la mattina del 13, quando v'andò perchè invitato dal Papa. Questi gli disse: «Vedete, non sono che 23,832 ducati, e pure tutta la terra è piena della notizia che abbiamo avuto in contanti da 80 a 100 mila ducati.» E domandava la testimonianza di quelli che erano presenti, «quasi,» osservava l'ambasciatore, «ch'el fosse gran cosa che loro el dovessero servire di busìa.» E tuttavia il Papa gli faceva vivissime premure, perchè si ricercasse nel Veneto dove erano gli altri danari del cardinale, parendogli pochi quelli che aveva trovati. Non andò guari, e Iacopo da Santa Croce, colui che lo aveva aiutato ad impadronirsi del cardinale Orsini, accompagnandolo in Vaticano, fu fatto prigioniero anch'egli, e dopo pattuito con lui di lasciarlo vivo, mediante buona somma di danari, gli fu invece il dì 8 giugno tagliata la testa. Il suo cadavere venne lasciato per terra sul ponte Sant'Angelo fino a sera, i suoi beni mobili e immobili confiscati, la moglie ed il figlio mandati raminghi.

Intanto il 19 maggio era a un tratto fuggito di Roma il Troches o Troccio, uno dei più fidati strumenti degli assassinii de' Borgia, i quali ora lo cercavano a morte. Il Valentino, con lettera dello stesso giorno, pregava gli amici, ed ordinava «a tucti nostri vaxalli,» sotto pena di ribellione, che lo ritenessero prigioniero, fuggendo egli per cose che erano «contro l'onore del Re di Francia.» Altri però affermavano, che causa della fuga di questo assassino era stata lo sdegno di non esser messo nella lista dei nuovi cardinali, sdegno da lui manifestato al Papa, il quale gli avrebbe risposto che tacesse, se non voleva essere ammazzato dal Duca; e ciò lo aveva, come si affermava, indotto a rivelare alla Francia i loro segreti maneggi colla Spagna. Quindi il furore dei Borgia, e la brama ardente d'averlo nelle mani. Comunque sia, fu preso in una nave che lo menava in Corsica, e portato subito a Roma, venne chiuso in una torre nel Trastevere. Colà, dopo poche ore, comparve il Duca che gli parlò brevemente, e poi, ritiratosi in luogo donde lo vedeva e non era visto, mandò don Micheletto a strangolarlo. La sua roba, che era stata già inventariata, fu distribuita secondo gli ordini del Papa. E così, osservava il Giustinian, di tutti i più sicuri e fedeli strumenti dei Borgia restavano ora vivi solo don Micheletto e Romolino, ai quali era forse tra poco serbata la medesima sorte degli altri. Veramente pareva che non vi dovesse essere più fine alle persecuzioni ed alle morti. Molti vennero imprigionati come ebrei, altri in maggior numero come marrani: con questi pretesti s'entrava nelle loro case, svaligiandole d'ogni cosa; poi si pattuiva con ciascuno di essi di lasciar solo salva la vita, mediante una somma più o meno grossa. «Sono tutte invenzioni da far danari,» scriveva l'ambasciatore fiorentino Vittorio Soderini, e lo stesso diceva presso a poco il veneto. Questi annunziava più tardi che il dì 1° agosto, verso l'Ave Maria, dopo due soli giorni di malattia, era improvvisamente morto il cardinal di Monreale, Giovanni Borgia, «per la morte del quale el Pontefice ha abuto una bona zera, benchè li fosse nepote.» Andato l'ambasciatore in Vaticano, non fu ricevuto, scusandosi il Papa col dire d'esser fastidito per la morte del cardinale nepote; «et el fastidio doveva esser in contar danari e manizar zogie.» Infatti, tutto computato, si trovò, fra contanti ed altro, pel valore di 100,000 ducati; e pubblicamente si affermava, «che lui etiam sia sta' mandato per la via che sono tutti gli altri, da poi che sono bene ingrassati; e dassi di questo la colpa al Duca.» Le cose erano ormai arrivate a tal punto, che chi aveva danari o fama d'averne, tremava per la sua vita, parendogli da tutta ora aver el barisello alle spalle.»

I Borgia facevano ora ogni sforzo, per trovarsi pronti a nuove imprese, in mezzo al disordine generale che s'aspettava pei rapidi mutamenti che seguivano nel Napoletano. Il D'Aubigny era stato disfatto in Calabria dagli Spagnuoli sopravvenuti di Sicilia; il Nemours alla Cerignola da Consalvo di Cordova, che era uscito di Barletta, e dopo una splendida vittoria entrò nel maggio trionfante in Napoli. In breve ai Francesi non restò che la fortezza di Gaeta, dove si rifugiò il maggior numero dei loro soldati avanzati alla rotta; Venosa, dove era Luigi d'Ars; Santa Severina, dove era assediato il principe di Rossano. Luigi XII si dovette quindi rifar da capo, assalendo direttamente la Spagna, ed inviando in Italia un nuovo esercito sotto Luigi La Trémoille e Francesco Gonzaga, esercito che doveva essere poi accresciuto cogli aiuti promessi da Firenze, Siena, Mantova, Bologna, Ferrara. Questa spedizione procedeva però con una lentezza incredibile, a causa della sospetta neutralità di Venezia, e della sempre più mutabile e meno comprensibile politica del Papa. Egli manifestamente inclinava a Spagna, cui permetteva fare pubblici arrolamenti in Roma; ma faceva poi sentire ai Francesi, che gli avrebbe aiutati nella loro impresa, pagando sino a due terzi della spesa, quando però dessero il Reame o la Sicilia al Valentino, rifacendosi nell'Italia superiore a loro piacere. Nello stesso tempo faceva le più grandi profferte d'amicizia e d'alleanza ai Veneziani, perchè s'unissero con lui contro la Francia e contro la Spagna, a difesa comune dell'Italia dagli stranieri. A Massimiliano re dei Romani, che pensava sempre di venire in Italia a pigliar la corona imperiale, chiedeva invece con grande istanza la investitura di Pisa pel Duca, dicendo che altrimenti sarebbe obbligato d'abbandonarsi alla Francia, che gli prometteva il Reame in cambio della Romagna. Che riuscita potesse avere una così stolta condotta, lo lasceremo giudicare a coloro che esaltarono l'accortezza e il senno politico dei Borgia. Trattando con tutti contro tutti, dopo tanto agitarsi, il Papa si trovava condannato alla immobilità, senza poter contare sull'amicizia di alcuno. E il Duca, che s'armava con animo d'andar contro Siena, di unirsi a Pisa, e, fattosene padrone, spingersi contro Firenze, non poteva neppur egli muovere ora un passo; giacchè avrebbe per via incontrato l'esercito francese, e gli sarebbe stato necessario dichiararsi amico o nemico, cioè combatterlo o unirsi con esso e seguirlo nel Reame. Volendo invece serbarsi pronto a tutti i possibili eventi, a lui non conveniva nè l'uno nè l'altro partito, e quindi il resultato di tanto agitarsi, di tante astuzie, di tanti assassinii, era anche per lui l'immobilità e l'incertezza.

Ma un fatto inaspettato venne a mutare improvvisamente lo stato delle cose. Il 5 agosto verso sera, il Papa andò col Duca a cena nella vigna del cardinale Adriano da Corneto, in Vaticano, e stettero colà fino a notte. Il mese di agosto, sempre cattivo per le febbri romane, era quell'anno pessimo. Alcuni degli ambasciatori, moltissimi della Curia, specialmente coloro che abitavano in Palazzo, s'erano ammalati; e però tutti quelli che erano stati alla cena, se ne risentirono più o meno gravemente. Il giorno 7 il Giustinian andò dal Papa che, rinchiuso e rimbacuccato, gli disse volersi aver cura, perchè gli facevano paura le tante febbri e morti che allora seguivano in Roma. Il giorno 11 il cardinale Adriano era a letto colla febbre; il 12 il Papa fu preso da un assalto di febbre e di vomito; il Duca s'ammalò anch'egli dello stesso male. Il Papa aveva allora 73 anni, e quindi era evidente la gravità del suo stato. Infatti cominciarono subito minacce di congestione cerebrale, cui si cercò riparare con abbondanti salassi, i quali, indebolendo il malato, rendevano più forte la febbre. Sopravvenne un sopore minaccioso, che pareva quasi di morte. Il 17 la febbre, che l'ambasciatore di Ferrara chiama tertiana nota, tornò con parossismi così violenti, che il medico dichiarò il caso disperato. Il disordine fu subito grandissimo in Vaticano, molti cominciavano già a mettere in salvo le loro robe. Alessandro VI, che durante tutto questo tempo non aveva neppur chiesto notizia del Duca o della Lucrezia, il giorno 18 si confessò e comunicò. Verso le ore 6 si svenne in modo che parve spirare, e si rinvenne solamente per dar subito dopo l'estremo respiro, verso l'ora di vespro, in presenza del vescovo di Carinola, del Datario e di alcuni camerieri.

Allora la confusione fu al colmo. Il Duca, sebbene stésse sempre assai male, tanto che pareva in pericolo di vita, aveva fatto trasportare in Castello buona parte delle proprie robe, e dato ordine alle sue genti di venire in Roma. Don Michele era con alcuni armati entrato nelle stanze del Papa, e, chiuse le porte, aveva fatto puntare un pugnale alla gola del cardinal Casanova, minacciando di ucciderlo e gettarlo dalle finestre, se non dava subito le chiavi e i danari del Papa. Così furono presi pel Valentino da 100,000 ducati in contanti, oltre le argenterie e le gioie, in tutto un valore di più che 300,000 ducati. Fu però dimenticata la stanza accanto a quella, in cui era spirato Alessandro, nella quale erano le mitrie preziose, anelli e vasi d'argento da empirne molte casse. I servitori pigliarono ogni altra cosa che trovarono nelle camere già saccheggiate. Da ultimo si spalancarono gli usci e fu pubblicata la morte.

Tutto ebbe un aspetto lugubre e sinistro fino alla sepoltura. Lavato e vestito il cadavere, fu abbandonato con due soli ceri accesi. I cardinali chiamati non vennero, e neppure i penitenzieri che dovevano dire l'ufficio dei morti. Il giorno seguente il cadavere s'era, per la corruzione del sangue, alterato in modo che aveva perduto ogni forma umana. Nerissimo, gonfio, quasi altrettanto largo che lungo; la lingua s'era ingrossata così che riempiva tutta la bocca, la quale rimaneva aperta. In sul mezzogiorno del 19 agosto fu esposto, secondo il costume, in San Pietro; «tamen per esser el più brutto, mostruoso et orrendo corpo di morto che si vedesse mai, senza alcuna forma nè figura de omo, da vergogna lo tennero un pezzo coperto, e poi avanti el sol a monte, lo sepelite, adstantibus duobus cardinalibus de' suoi di Palazzo.» In San Pietro mancava il libro per leggere le preci, e poi seguì un tafferuglio tra preti e soldati, in conseguenza del quale il clero, smesso il canto, fuggì verso la sagrestia, ed il cadavere del Papa restò quasi abbandonato. Portatolo all'altar maggiore, si dubitò d'insulti per l'ira popolare, e lo posero perciò con quattro ceri dietro un'inferriata che venne chiusa: così restò tutto il giorno. Dopo 24 ore fu portato nella cappella de febribus, dove sei facchini, beffando ed insultando la sua memoria, cavarono la fossa per seppellirlo, mentre che due falegnami, i quali avevano fatto la cassa troppo corta e stretta per lui, messa la mitria per parte, copertolo con un vecchio tappeto, ve lo introdussero pestandolo a forza di pugni. La sepoltura fu tale, che il marchese di Mantova, il quale nel settembre trovavasi coll'esercito francese presso Roma, scriveva a sua moglie, la marchesa Isabella: «Fugli fatto un deposito tanto misero, che la nana, moglie del zoppo, l'ha lì a Mantova più onorevole.»

La rapida decomposizione del cadavere per la corruzione del sangue, e l'essersi nello stesso tempo ammalati il Papa, il Valentino ed il cardinale Adriano, fecero spargere la voce, e credere universalmente, che vi fosse stato veleno, opinione che veniva suggerita dal nome stesso dei Borgia. Si disse che il Papa e il Duca volevano disfarsi del cardinale; ma che per errore, il vino, già prima avvelenato per lui, era stato dato invece ad essi. Senza qui osservare che i Borgia non erano nel proprio mestiere tanto inesperti da lasciar facilmente commettere, a proprio danno, simili errori, non si capirebbe in questo caso, come mai anche il cardinale si fosse ammalato. Da altri si affermava che questi si salvò, perchè, avvedutosi a tempo del pericolo, corruppe con 10,000 ducati il coppiere, che dètte perciò il veleno solo ai Borgia. Ma tutte queste voci pèrdono ogni valore dinanzi ai dispacci degli ambasciatori, massime del Giustinian, il quale descrisse, giorno per giorno, l'origine ed il progresso della malattia; parlò continuamente col medico del Papa, e così seppe che la congestione cerebrale, sopravvenuta alla febbre, aveva prodotto la morte. Lo stesso ambasciatore ferrarese Beltrando Costabili, che il 19, dopo la rapida corruzione del cadavere, annunziava la voce per questa ragione diffusa e creduta di avvelenamento, aveva il 14 dichiarato esplicito, che era febbre terzana, di che nessuno poteva maravigliarsi, perchè quasi tutti della Corte erano stati presi dallo stesso male, che allora infieriva in Roma, «per la mala conditione de aere.» Sarebbe in ogni caso assai strano, per non dire di più, che il veleno dato la sera della cena avesse cominciato a produrre i suoi effetti visibili solo dopo sette giorni, quando infatti cominciò la febbre. Anche l'oratore ufficiale, che dinanzi ai Cardinali radunati prima del Conclave, pronunziò la orazione funebre sopra Alessandro VI, dice che fu quadriduana febris quella che lui e medio abstulit.

Noi risparmieremo al lettore tutti gli altri racconti che furono allora ripetuti, di diavoli visti presso al letto del Papa, con cui avevano pattuito sin dal principio del pontificato, per avere la sua anima, e simili altre favole, tanto più credute, quanto più incredulo era il secolo. Il 19 agosto anche il Duca sembrava vicino a morte, le botteghe si chiudevano, gli Spagnuoli si nascondevano, e correva voce che Fabio Orsini era entrato in Roma coll'Alviano e cogli altri di sua casa, pieni d'un furore indescrivibile di vendetta. Cesare Borgia lo sapeva; ma egli che, come disse al Machiavelli più tardi, aveva pensato a tutto meno che al caso di trovarsi moribondo quando il Papa era morto, sembrava che ora si fosse perciò affatto smarrito. I suoi soldati tumultuavano e mettevano fuoco alle case degli Orsini, bruciandone una parte. Finalmente il Conclave, per mezzo degli ambasciatori, riuscì a persuadere tutti ad una specie di tregua. Gli Orsini ed i Colonna si allontanarono quindi da Roma; il Duca, essendo migliorato, mandò innanzi le sue artiglierie, ed il 2 settembre uscì anch'egli da Roma in portantina, per andarsene al castello di Nepi ancora suo. Colà si trovava vicino all'esercito francese, già in via per Napoli, e da esso sperava aiuto, essendosi a un tratto dichiarato per la Francia, sebbene ponesse sempre tutta la sua fiducia nei cardinali spagnuoli, dai quali era circondato e favorito.

Arrivarono a Roma il cardinale Giuliano Della Rovere, dopo un esilio di dieci anni; il cardinale Ascanio Sforza, liberato dalla prigionìa per opera del cardinale di Rouen, che aspirava al papato, ed altri molti. Il 3 di settembre furono fatte le esequie solenni e di rito al Papa morto; il 22 fu eletto finalmente Francesco Todeschini dei Piccolomini, nipote di Pio II, e prese il nome di Pio III. Aveva allora 64 anni, ed era così malato, che saliva sul trono come un'ombra passeggera, quasi destinato solamente a lasciar continuare le trame che d'ogni parte si ordivano, e dar tempo di misurarsi ai varî partiti, che già erano in moto per la prossima elezione. L'esercito francese che s'era fermato, proclamato che fu il nuovo Papa, continuò il suo cammino; ed allora il Duca, trovandosi solo co' suoi a Nepi, dove s'avvicinava l'Alviano assetato di sangue e di vendetta, tornò subito a Roma. Ivi seppe che le città, già sue una volta, richiamavano i loro antichi signori, i quali tornavano ed erano festosamente accolti. La Romagna però, essendo stata da lui assai meglio governata, gli restava ancora fedele, e le sue fortezze colà, occupate da comandanti spagnuoli, si mantenevano sempre per lui. Pure non gli venne mai l'idea di mettersi alla testa del suo piccolo esercito, per aprirsi la via fra i nemici, riconquistare e difendere il proprio Stato colle armi. Sperava sempre e solo negli intrighi orditi, acciò la prossima elezione riuscisse a lui favorevole. Intanto il nuovo Papa, d'indole mitissima, gli dimostrava per ora compassione. Ma gli Orsini, sentito che egli s'era volto a Francia ed era stato accettato, ne furono sdegnatissimi, e fecero subito alleanza coi Colonna, con Consalvo e la Spagna. Una parte di essi assalirono Borgo, misero fuoco a porta Torrione, per entrare in Vaticano ed ivi impadronirsi del Borgia, che essi cercavano a morte. A fatica ed in fretta egli potè essere salvato da alcuni cardinali, i quali lo menarono pel corridoio in Castel Sant'Angelo. E così là dove tante vittime di lui e del padre erano spirate nelle tenebre, fra i tormenti, consumati dal veleno, si trovò finalmente anch'egli per un momento quasi prigioniero. Seppe allora che Pio III, il quale non s'era potuto tenere in piedi il giorno 8 ottobre, quando fu incoronato, dopo dieci giorni era morto.

Il resultato della nuova elezione non poteva ormai essere più dubbio, perchè tutto era stato apparecchiato con danari, concertato con promesse, con intrighi fatti per ogni verso, anche coi cardinali spagnuoli, per mezzo del Valentino, il quale credeva così d'essersi assicurata valida protezione. Il 31 ottobre trentacinque cardinali entrarono in Conclave. S'erano a mala pena radunati, e quasi non s'era ancora, secondo il costume, chiusa la porta, che già il nuovo Papa veniva proclamato nella persona di Giuliano Della Rovere, che prese il nome di Giulio II. Questo acerrimo nemico dei Borgia, il quale pure seppe a tempo favorirli, nato presso Savona, di bassa origine, aveva allora 60 anni; ma della forte stirpe di Sisto IV, di cui era nipote, cardinale dal 1471 e per molti vescovadi ricchissimo, aveva una tempra di ferro. Sebbene la sua gioventù non fosse stata molto diversa da quella dei prelati d'allora, e sebbene non fosse uomo di molti scrupoli, pure egli mirava alla potenza e grandezza politica della Chiesa con un ardore ed un ardire maravigliosi alla sua età. Senza abbandonare i suoi, non voleva sacrificare ad essi gl'interessi dello Stato e della Chiesa, e però non trasmodò mai troppo nel nepotismo. Le sue vie, le sue mire, il suo carattere impetuoso, violento, erano affatto contrari a quelli dei Borgia. Pure sapeva a tempo simulare e dissimulare, e non aveva avuto scrupolo alcuno di trattare col Valentino per la propria elezione, promettendo di farlo Gonfaloniere della Chiesa, lasciargli governar la Romagna, far sposare la figlia di lui con Francesco Della Rovere, prefetto di Roma. Sebbene però egli non fosse proprio deliberato a violare queste promesse, era ben altro che deciso a mantenerle. Tutto dipendeva dal vedere se il Duca poteva, per un po' di tempo almeno, essere utile strumento ai disegni del Papa, che erano di respingere i Veneziani dalla Romagna, dove s'avanzavano. Prima o poi doveva consegnare le fortezze che ancora si tenevano per lui, qualunque fossero le promesse fatte o le speranze date; giacchè l'interesse generale della Chiesa non poteva cedere dinanzi ad alcun riguardo umano. In questi propositi Giulio II era saldo e deliberato, ed il suo carattere era tale, che nulla poteva ormai farlo deviare. Lo stato delle cose s'andò quindi rapidissimamente complicando; con questo Papa anzi cominciò addirittura un'epoca nuova, non solamente in Italia, ma in Europa. Ha perciò tanto maggiore importanza la nuova legazione del Machiavelli, che allora appunto fu spedito a Roma.

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