CAPITOLO VII.

I Fiorentini si dimostrano avversi ai Veneziani. - Legazione a Roma. - Gli Spagnuoli trionfano nel Reame. - Seconda legazione in Francia. - Si ripiglia la guerra di Pisa. - Vani tentativi per deviare l'Arno. - Decennale Primo. - Uno scritto perduto.

(1503-1504)

Quando a Roma seguivano i fatti da noi ora descritti, Firenze teneva l'occhio rivolto a quello che accadeva negli Stati già appartenuti al Valentino, coi quali essa confinava. Ciò che più di tutto voleva evitare era l'avanzarsi dei Veneziani, che aspiravano sempre alla Monarchia d'Italia. E però il Machiavelli, per ordine e in nome dei Dieci, scriveva ai commissarî e podestà, che favorissero la Chiesa o il ritorno degli antichi Signori o quello del Duca stesso, secondo la piega che gli avvenimenti pigliavano, pur di chiudere la porta a Venezia. Nè si tralasciasse di considerare, se non fosse possibile profittare del generale trambusto, impadronendosi per conto proprio di qualche terra vicina: si raccomandava però sempre di farlo con molta prudenza, e senza esporre la Repubblica a conseguenze pericolose. In questo senso i Dieci scrivevano al commissario Ridolfi per Citerna, Faenza, Forlì, dichiarandosi pronti a spendere, per avere quest'ultima terra, sino a 10,000 ducati. Ma aggiungevano al solito che, non avendo la Repubblica forze sufficienti a fare imprese ardite, bisognava, ad eccezione dei Veneziani, favorire in ogni caso chiunque avesse maggiore probabilità di fortunato successo. Mentre però si discuteva se conveniva impadronirsi di Forlì, v'entrò invece il signor Antonio Ordelaffi, il quale fu bene accolto dalle popolazioni, e dichiarò subito di rimettersi tutto alla protezione dei Fiorentini. Questi allora non seppero più come regolarsi. Non potevano convenientemente ricusargli protezione; ma non si sentivano in forze da difenderlo contro la Chiesa e contro il Valentino, che facilmente lo avrebbero assalito. Ricorsero quindi al ripiego d'invitarlo a Firenze, dicendo che ivi starebbe più sicuro, e che avevano da trattare con lui faccende di importanza. Nello stesso tempo il Machiavelli scriveva al commissario in Castrocaro: «Questa venuta farà sollevare gli animi dei Forlivesi, e insospettire le genti del Duca. Ai primi dirai che lo abbiamo fatto venire per aiutarlo meglio; ai secondi, invece, che lo abbiamo chiamato per vantaggio del Duca, e per chiudere quella porta aperta ai Veneziani, togliendo loro di mano uno strumento. E così verrai bilanciando la cosa per farci guadagnare tempo. Bisogna però governare con destrezza e segretamente questo maneggio, e colorirlo in modo che nessuna delle parti s'avvegga d'essere aggirata o tenuta in pratica.» Un così continuo e misero tergiversare era ciò che più di tutto disgustava il Machiavelli, che vi si trovava, per obbligo d'ufficio, costretto, e lo spingeva sempre più ad un'esagerata ammirazione per la condotta di uomini come il Valentino, i quali, senza riguardi umani nè divini, andavano diritti al loro fine.

Per buona fortuna egli fu presto levato da siffatta tortura, giacchè il 23 ottobre ebbe le istruzioni e l'ordine di recarsi a Roma, con lettere di raccomandazione a molti cardinali che doveva visitare, specialmente al cardinal Soderini, che trattava colà i principali affari della Repubblica, e dal quale egli doveva dipendere. Era mandato a far condoglianze per la morte di Pio III; a raccogliere tutte le notizie che poteva, durante il Conclave, ed ancora a concludere, mediante il cardinale di Rouen, una condotta con G. P. Baglioni. Questa si faceva in nome dei Fiorentini, ma tutta nell'interesse ed a servizio della Francia, per bilanciare il danno da essa risentito a causa dell'abbandono degli Orsini, che insieme coi Colonna s'erano uniti a Consalvo di Cordova, appena che l'amicizia del Valentino era stata accettata dai Francesi. Come era naturale, la condotta fu subito conclusa, ed il Baglioni s'apparecchiò senza indugio a partire, per riscuotere il danaro in Firenze, che s'era impegnata a pagarlo coi 60,000 ducati dovuti alla Francia «per conto della protezione.» Al quale proposito il Machiavelli scriveva di lui, «che anch'egli era come gli altri che saccheggiano Roma, i quali sono più ladruncoli che soldati, e vengono cercati più pel nome e le amicizie che hanno, che pel loro valore o per gli uomini di cui dispongono. Obbligati come sono alle proprie passioni, le alleanze fatte con essi durano fino a quando non torna loro l'occasione d'offendere, e però chi li conosce cerca solo di temporeggiarli.»

Del resto gli avvenimenti mutarono subito lo scopo e l'indole di questa legazione. Al giungere del Machiavelli in Roma, già erano in sul finire quegli scandalosi maneggi coi quali, secondo che scriveva l'ambasciatore veneto, i voti s'erano contrattati non a migliaia, ma a diecine di migliaia di ducati, chè «ormai non è differenzia dal papato al soldanato, perchè plus offerenti dabitur Il cardinale Giuliano Della Rovere aveva così guadagnato rapidissimamente terreno, ed essendogli, come già dicemmo, riuscito, mercè le promesse fatte al Valentino, di avere il favore dei cardinali spagnuoli, era sicuro del fatto suo. Gli animi erano però sempre assai agitati, e grandissimo il disordine nella città, a segno tale che un servitore di quel cardinale, la sera del 31 ottobre, fu accompagnato da venti uomini armati, nell'andare a casa del Machiavelli. Tuttavia questi scriveva la sera stessa, che l'elezione era omai sicura. Il giorno seguente, infatti, radunatosi il Conclave, veniva proclamato il nuovo Papa, che prese subito il nome di Giulio II, e senza esitare strinse con mano fermissima le redini del governo. Così ora non si trattava più di pensare a raccogliere e trasmettere notizie intorno al Conclave; ma sorgevano invece due altre questioni assai più gravi. Che cosa il Papa intendeva fare del Valentino, cui aveva tanto promesso? Che condotta voleva tenere di fronte a Venezia, la quale già si dimostrava deliberata ad avanzarsi in Romagna?

E due erano gli uomini, che con maggiore diligenza e penetrazione le esaminavano: il Machiavelli ed il Giustinian. Questi però, come era naturale, s'occupava assai meno dell'affare del Valentino, di cui la sua Repubblica poco temeva. Fin da quando sentì parlare delle promesse, che gli faceva colui che stava per essere eletto Papa, era andato con grande accortezza a scrutarne l'animo. E gli fu risposto: «Fate che l'elezione riesca, e non dubitate. Voi vedete la miseria, in cui ci ha condotto la carogna che dopo sè ha lasciato papa Alessandro, con questo gran numero di cardinali. La necessità costringe gli uomini a fare quello che non vogliono, finchè dipendono da altri; ma, una volta liberati, fanno poi in diverso modo.» Il Giustinian non ebbe dopo ciò bisogno d'altre spiegazioni, nè più si occupò del Valentino, anzi ripetutamente da lui pregato che venisse a trovarlo, non volle andare, per non crescergli importanza. Invece scrutava, con una riserva e costanza maravigliose, i più segreti pensieri del Papa circa l'avanzarsi dei Veneziani, e ne ragguagliava il suo Governo con una diligenza insuperabile. Egli si era subito avvisto che i primi segni di benevolenza e le prime incertezze del Papa erano solo apparenti ed illusorie, essendo questi deciso a mettere a repentaglio la tiara e la pace d'Europa, per riprendere le terre, che, secondo lui, appartenevano alla Chiesa. E così, prima che si manifestino ad altro occhio umano, noi vediamo i germi della Lega di Cambray nei dispacci del veneto ambasciatore, che invano dava consigli di prudenza al suo Governo, ed invano cercava calmare l'animo irritato e fiero del Papa. Diversa assai apparisce di fronte a questi fatti la condizione del Machiavelli. I Fiorentini erano sopra ogni altra cosa impazientissimi di vedere Giulio II dichiararsi nemico dei Veneziani. Le necessarie riserve da lui usate alle prime notizie dell'avanzarsi di costoro, venivano da essi interpetrate non solo come segni d'imperdonabile freddezza; ma quasi come una prova che egli fosse contento, e forse andasse d'accordo, per impedire così il ritorno del Valentino. Il Machiavelli perciò veniva dai Dieci spronato a destare con ogni arte gelosia e odio contro Venezia; ma ben presto egli si dovette avvedere che la cosa era assai facile, perchè i primi accenni del passionato e deliberato sdegno del Papa non tardarono a manifestarsi. Invece doveva tener d'occhio il Valentino, il quale, quando fosse andato in Romagna, avrebbe dovuto passare per la Toscana, il che non sarebbe stato un piccolo malanno per la Repubblica. Egli poi non aveva come il Giustinian molto frequenti occasioni d'avvicinare il Papa, e quindi non sapeva quale fosse veramente l'animo di lui verso un uomo che aveva molto odiato, ma a cui aveva pure molto promesso.

L'importanza di questa legazione, per quel che risguarda la vita del Machiavelli, viene dal trovarsi egli, dopo breve tempo, nuovamente in presenza del Valentino, caduto dal potere e dalla fortuna in cui lo aveva la prima volta veduto. Infatti ora ne scrive e ragiona con una indifferenza ed un freddo disprezzo, che ha scandalezzato moltissimi, i quali vollero in ciò vedere non solo una flagrante contradizione con quanto aveva scritto di lui altra volta; ma anche la prova di un animo basso, che sapeva ammirare solo il prospero successo e la buona fortuna, pronto a calpestare il proprio eroe appena lo vedeva caduto. Questo falso giudizio però non è altro che la conseguenza naturale del precedente errore, commesso nel voler dare all'ammirazione del Machiavelli pel Valentino un significato ed un valore che non potevano avere. Anche presso un capo di briganti, che fosse stato assai audace ed accorto, tale da saper mettere a soqquadro tutto un paese e dominarlo, il Machiavelli ne avrebbe ammirato l'accortezza ed il coraggio, senza lasciarsi spaventare da qualsiasi azione più sanguinosa e crudele. Ne avrebbe anzi potuto formare nella propria fantasia una specie d'eroe immaginario, lodandone la prudenza e la virtù, nel senso che a questa parola dava il Rinascimento italiano. E tutto ciò per la natura del suo ingegno, per l'indole dei tempi, ed anche, se vuolsi, per la freddezza del suo cuore, non punto cattivo, ma neppur sempre riscaldato da troppo ardenti entusiasmi pel bene. Se però avesse più tardi ritrovato il medesimo brigante, caduto dalla prima fortuna, ritornato nella vita privata, e si fosse visto dinanzi l'uomo, avvilito ed abbietto, nella sua ributtante ed immorale mostruosità, egli, seguendo sempre lo stesso esame impassibile della realtà, senza punto esitare e senza punto temere di contradirsi, lo avrebbe descritto e giudicato quale veramente lo vedeva ed era. Non molto diverso dobbiam credere che fosse allora lo stato del suo animo di fronte al Valentino; e la contradizione non è perciò ne' suoi giudizî, ma in quelli di chi volle attribuirgli opinioni, virtù o vizi che non ebbe mai.

Intanto molte e molto varie erano le voci che correvano sulle intenzioni del Papa, a proposito delle promesse fatte. Non voleva mantenerle, e non voleva passare per violatore della fede, accusa da lui tante volte lanciata ai Borgia. E il Duca dall'altro lato, scriveva il Machiavelli, trasportato sempre «da quella sua animosa confidenza, crede che le parole d'altri sieno per essere più ferme che non sono sute le sue, e che la fede data de' parentadi debba tenere.» Il 5 novembre le lettere dei Dieci narravano come Imola s'era ribellata dal Valentino, e i Veneziani s'avanzavano verso Faenza. Il Machiavelli recò queste notizie prima al Papa, che le ascoltò senza turbarsi, e poi ad alcuni cardinali, cui disse che, andando di questo passo, Sua Santità si ridurrebbe ad essere il cappellano dei Veneziani. Si presentò quindi al Duca, che subito si turbò sopra modo, e si dolse amaramente dei Fiorentini, i quali, egli diceva, con cento uomini avrebbero potuto assicurargli quegli Stati, e non lo avevano fatto. «Giacchè Imola è perduta, Faenza assalita, egli dice che non vuol più raccogliere gente, nè essere uccellato da voi: metterà tutto quello che gli resta, in mano dei Veneziani. Così crede che vedrà presto rovinato lo Stato vostro, e sarà per ridersene, avendo i Francesi tanto da fare nel Reame, che non potranno aiutarvi.» «E qui si distese con parole piene di veleno e di passione. A me non mancava materia di rispondergli, nè anco mi sarebbe mancato parole; pure presi partito di andarlo addolcendo, e più destramente ch'io posse' mi spiccai da lui, che mi parve mill'anni.» Lo stato delle cose era adesso totalmente mutato da quello d'una volta; il Duca non aveva più la forza a suo comando; si trattava solo di ragionare e discutere, ed in ciò il Machiavelli sentiva tutta la propria superiorità sul suo interlocutore, che altra volta gli era apparso tanto maggiore.

A Roma si trattavano adesso i più grandi affari diplomatici e politici del mondo: quelli della Francia e della Spagna, che erano i più importanti in Europa; le faccende della Romagna; le fazioni dei baroni nel Reame e nello Stato della Chiesa. Ma il Papa, obbligato a tutti per la sua elezione, non avendo ancora raccolto proprie forze o danari, non poteva decidersi a favorire alcuno. «Conviene di necessità che giocoli di mezzo, infino a tanto che i tempi e la variazione delle cose lo sforzino a dichiararsi, o che sia in modo rassettato a sedere, che possa, secondo lo animo suo, aderire a fare imprese.» «Nessuno capisce che cosa voglia fare col Valentino: lo spinge a partire, ha scritto e fatto scrivere a VV. SS. che gli diate il salvocondotto, ma non si cura poi che lo abbia davvero. Questi s'apparecchia a prendere la via di Porto Venere o Spezia, e di là per la Garfagnana e Modena, in Romagna. Le sue genti, che sono 300 cavalli leggieri e 400 fanti, passerebbero per la Toscana, avuto il salvocondotto da VV. SS., verso cui si dimostra ora tutto benigno. Ma chi si può fidare della sua amicizia, massime ora che egli stesso non sembra sapere che cosa voglia? Il cardinal di Volterra lo ha trovato» «vario, inresoluto e sospettoso, e non stare fermo in alcuna conclusione, o che sia così per sua natura, o perchè questi colpi di fortuna lo abbino stupefatto, e lui, insolito ad assaggiarli, vi si aggiri drento.» Il cardinal d'Elna ha detto che «gli pareva uscito di cervello, perchè non sapeva lui stesso quello si volesse fare, sì era avviluppato e irresoluto.»

Il nome del Valentino poi era così odiato dalla generalità dei cittadini in Firenze, che, nonostante le raccomandazioni, certo non molto calde, del cardinal Soderini e del cardinal di Roano, portata nel Consiglio degli Ottanta la proposta del suo salvocondotto, sopra 110 votanti ve ne furono 90 contrarî. Ed al ricevere questa notizia, Sua Santità, alzando il capo, disse al Machiavelli, che andava bene così e che era contento; laonde questi scriveva: «si vede chiaro che vuol levarselo dinanzi, senza parere di mancare alla fede, e quindi non si cura punto di quel che altri faccia contro di lui.» Ben diversa naturalmente doveva essere l'impressione prodotta nell'animo del Duca, il quale, appena vide il Machiavelli, andò in furore, dicendo che aveva già inviato le sue genti, che era per montare in acqua, e non voleva più aspettare. L'oratore cercò calmarlo col promettergli di scrivere a Firenze, dove anche il Duca poteva spedire un suo uomo, e qualcosa di buono si sarebbe certo concluso. Ma ai Dieci scriveva invece d'aver parlato così per calmarlo, e perchè esso minacciava che, ove non si concludesse subito, si sarebbe gettato ai Pisani, ai Veneziani, al diavolo, pur di far loro male. «Venendo il suo uomo, VV. SS. potranno trascurarlo e governarsene come parrà loro. Quanto alle genti che sono già partite, 100 uomini d'arme e 250 cavalli leggieri, cercheranno intendere di loro essere, e, quando paia a proposito, opereranno che le si svaligino in qualche modo.» Il Valentino partiva per Ostia con 400 o 500 persone, secondo la pubblica voce, la quale faceva ascendere a 700 i cavalli in via per la Toscana, e il vescovo di Veroli li aveva preceduti, recandosi a Firenze con una lettera di raccomandazione, firmata dal cardinal Soderini, e scritta di mano del Machiavelli, che subito ne inviava direttamente un'altra, con cui avvertiva che erano lustre per addormentare e mandar via il Duca. Potevano regolarsi come volevano.

Ora però le cose si complicavano, perchè arrivava la notizia che i Veneziani avevano preso Faenza, e non molto dopo che avevano acquistato Rimini, per accordo col Malatesta. Il Machiavelli allora, con un linguaggio veramente profetico, scriveva che questa impresa dei Veneziani «o la sarà una porta che aprirà loro tutta Italia, o la fia la ruina loro.» Infatti qui è il germe della futura lega di Cambray. Il cardinal di Rouen, fieramente alterato, giurava sull'anima sua che, se i Veneziani minacciavano Firenze, il Re lascerebbe tutto per soccorrerla; il Papa dichiarava che, se non mutavano consiglio e non si fermavano, s'accozzerebbe con la Francia, con l'Imperatore, con chiunque, per pensare solo alla loro rovina, come difatti poi fece.

E non potendo più stare alle mosse, se prima aveva tollerato che il Valentino se ne andasse ad Ostia, senza lasciare i contrassegni delle fortezze di Cesena e Forlì, che ancora si tenevano per lui, mandava ora il cardinal di Volterra ed il cardinal di Sorrento, perchè se li facessero dare in ogni modo, avvertendolo che altrimenti Sua Santità lo avrebbe fatto arrestare, e dato ordine che fossero svaligiate le genti di lui. Infatti, essendo essi tornati senza aver potuto nulla concludere, spedì subito l'ordine al comandante delle navi in Ostia, che s'impadronisse del Duca; e scrisse a Siena ed a Perugia, perchè ne svaligiassero le genti, e, potendo, gli mandassero prigioniero don Michele che le comandava. Tutto ciò fece correr la voce che Cesare Borgia era stato gettato addirittura nel Tevere, cosa a cui il Machiavelli non prestava piena fede, aggiungendo però: «Credo bene che quando non sia, che sarà.... Questo Papa comincia a pagare i debiti suoi assai onorevolmente, e li cancella con la bambagia del calamaio; e poichè gli è preso (il Duca), o vivo o morto che sia, si può fare senza pensare più al caso suo.... Vedesi che i peccati sua lo hanno a poco a poco condotto alla penitenza: che Iddio lasci seguire il meglio.» Ecco un esempio di quel linguaggio che tanto scandalezza coloro i quali, dopo aver fatto del Machiavelli non solo un cieco ammiratore, ma quasi un consigliere ed un agente segreto del Valentino, si debbono maravigliare, non possono comprendere che ne parli ora con così freddo disprezzo, e trovano quindi in ciò materia di nuove accuse contro di lui. Ma la condotta del Valentino in questi giorni apparve a tutti, quale veramente era, bassa, inconseguente, spregevole. Invece di difendere colla spada i male acquistati dominî, divenuto umile ed incerto, fidava solo nei più volgari intrighi. Non è questi più l'uomo che il Machiavelli aveva ammirato e lodato. E per quanto il suo presente linguaggio paia cinico a coloro che lo vogliono, in ogni modo, o troppo lodare o troppo biasimare, assai diverso era il giudizio dei contemporanei. A Firenze egli veniva invece accusato di voler sempre fare gran caso del Duca, al che i meno benevoli aggiungevano ancora la derisione e perfino la calunnia. «Voi,» dice una lettera del Buonaccorsi, «nell'universale ne siete uccellato, scrivendo di lui gagliardo; nè è chi manchi di credere, che voi ancora vogliate cercare di qualche mancia, che non è per riuscirvi.»

Cesare Borgia intanto, accompagnato dalla guardia del Papa, arrivava il 29 novembre per il Tevere, sopra un galeone, fino a San Paolo, donde la sera entrò in Roma. «Le SS. VV.,» scriveva il Machiavelli, «non hanno a pensare per ora dove possa spelagare. Le genti partite con lui son tornate alla sfilata, quelle venute con don Michele in costà, non la faranno molto bene.» Il primo dicembre infatti arrivava la notizia che esse, inseguite dai Baglioni e dai Senesi, erano state disfatte e svaligiate, e don Michele, preso dalle genti di Castiglion Fiorentino, mandato prigioniero a Firenze. Il Papa ne fu lietissimo, e voleva averlo nelle mani, per «scoprire tutte le crudeltà di ruberìe, omicidî, sacrilegi e altri infiniti mali, che da undici anni in qua si sono fatti a Roma contro Dio e gli uomini. A me disse sorridendo, che voleva parlargli, per imparare qualche tratto da lui, per saper meglio governare la Chiesa. Spera che voi glielo mandiate, ed il cardinal di Volterra gliene ha dato ferma speranza, e conforta quanto e' può le SS. VV. a fargliene un presente, come di uomo spogliatore della Chiesa.» Il Duca, come era naturale, ne restò sempre più avvilito nelle stanze del cardinal di Sorrento, dove alloggiava. Non per questo però mutava modo. Aveva finalmente dato i contrassegni a Pietro d'Oviedo, che doveva partire con essi, per far cedere le fortezze; ma chiedeva dal Papa assicurazioni per le terre di Romagna, e che il cardinal di Rouen gli guarentisse in iscritto queste assicurazioni. Ma mentre che egli «sta così in sul tirato,» scriveva il Machiavelli, «e pretende guardarla pel sottile, il Papa, sicuro del fatto suo, lascia correre e non vuole sforzarlo. Credesi però che, senza altra assicurazione, il D'Oviedo parta domani;» «e così pare che a poco a poco questo Duca sdruccioli nello avello.»

È inutile ora fermarsi a raccontare come il D'Oviedo partisse; come venisse in Romagna impiccato da uno dei comandanti delle fortezze, che non volle cedere, perchè il suo signore era sempre in potere del Papa, e come questi avesse finalmente le fortezze, ed il Valentino, da tutti abbandonato, andasse a Napoli, dove Consalvo di Cordova lo prese prigioniero, e lo mandò nella Spagna. Sono cose molto note, ed estranee al soggetto di questa narrazione. Importa invece ricordare un ultimo fatto, che illustra assai bene la condotta del Valentino in questi giorni, gettando una luce sinistra sul suo carattere. Egli, che aveva così iniquamente tradito il povero duca Guidobaldo d'Urbino, inseguendolo, cercandolo a morte, volendolo costringere a sciogliere il matrimonio come impotente, a rinunziare al proprio Stato di cui già lo aveva spogliato, ed a farsi prete, come più volte ripetè, aggiungendo che senza questo non li darìa uno suspiro, adesso invece chiedeva, supplicava, come «una grazia speciale,» d'essere ricevuto dal duca Guidobaldo, che da Urbino era venuto a Roma, dove trovavasi in assai buoni termini col Papa. Guidobaldo, sdegnato e disgustato, come era naturale, ricusava di vederlo; ma pure cedè finalmente alle intercessioni di Sua Santità. Il Valentino, scrive un testimone oculare, entrò con la berretta in mano, e s'avanzò facendo due volte umile riverenza, trascinandosi con le ginocchia per terra, fino al duca d'Urbino, che sedeva nell'anticamera dei pontefici sopra una specie di letto. Questi, al vederlo in tale posizione, mosso da un sentimento di dignità e quasi di rispetto per sè stesso, si levò e lo fece con le proprie mani alzare e sedere accanto a sè. Chiese il Valentino umilmente perdono del passato, «incolpando la gioventù sua, li mali consigli suoi, le triste pratiche, la pessima natura del Pontefice, e qualche uno altro che l'haveva spinto a tale impresa, dilatandosi sopra el Pontefice, e maledicendo l'anima sua.» Promise di restituirgli la roba rubata, salvo alcuni «panni troiani» dati al cardinale di Rouen, e qualche altra cosa che più non aveva. Guidobaldo rispose poche parole cortesi, ma tali che l'altro «remase pauroso assai e bene chiarito.» Nonostante, continuò con tutti nella stessa petulante e bassa umiltà, come apparisce dal seguito della citata lettera e dai dispacci dei varî ambasciatori italiani a Roma. Possiamo noi dunque maravigliarci, che il Machiavelli sentisse ora per la persona del Valentino un freddo disprezzo, e cercasse quasi cancellar dalla sua memoria il presente spettacolo, per non perdere la reminiscenza delle osservazioni già fatte, e delle idee che altra volta gli erano state suggerite dallo stesso individuo in condizioni ben diverse?

La legazione può dirsi adesso quasi finita. Il Machiavelli si trattenne qualche giorno di più in Roma, impedito di partire da una tosse allora prevalente colà, e dalle premure del cardinal Soderini, che mal volentieri si separava da lui. In questo mezzo continuò a trasmettere le notizie che raccoglieva alla giornata. Annunziò la presa d'un segretario, che si riteneva avesse, per ordine di Alessandro VI, avvelenato il cardinale Michiel, e che si diceva ora sarebbe perciò stato pubblicamente arso; continuò, come aveva fatto sempre, a dare le notizie che correvano sulla guerra nel Reame, e scritta qualche altra cosa del Valentino, che ormai era come prigione, mandava la sua ultima lettera in data del 16 dicembre, e partiva per Firenze con una del cardinal Soderini, la quale faceva di lui i più alti elogi alla Repubblica, come uomo di fede, diligenza e prudenza senza pari.

Durante la sua dimora in Roma, il Machiavelli aveva mandato sempre notizie incerte e contradittorie sulla guerra che seguiva allora fra gli Spagnuoli ed i Francesi, i quali si trovavano accampati da una parte e dall'altra del Garigliano, su terreni paludosi, sotto piogge continue. Fino alla sua partenza, infatti, non era seguìto nulla di veramente decisivo, e non v'erano che voci sempre diverse. Ma egli non era appena giunto a Firenze, che arrivò la notizia di quella che si chiamò la rotta del Garigliano, seguìta nella fine del dicembre, e che fu pei Francesi una vera catastrofe. Il loro esercito venne disperso e distrutto; i loro migliori capitani uccisi, prigionieri o fuggiaschi; il Reame ormai fu tutto nelle mani degli Spagnuoli. Fra le tante notizie arrivate allora a Firenze, ve ne fu una che rallegrò assai la Città: Piero de' Medici, che seguiva l'esercito francese, era rimasto, come altri non pochi, affogato nel Garigliano, mentre cercava passarlo in una barca. L'essere finalmente liberati da questo tiranno odioso e spregiato, era però un piccolo compenso di fronte alla gravità dei nuovi pericoli che ora appunto minacciavano la Repubblica. A molti pareva già di vedere il gran capitano Consalvo, alla testa del suo esercito vittorioso, avanzarsi fino in Lombardia, per cacciare addirittura dall'Italia i Francesi. Che sarebbe stato allora di Firenze? Sapevasi che Consalvo favoriva i Pisani. E quale animo poteva mai essere il suo verso la più fida alleata di Francia nella Penisola?

Per tutte queste ragioni il Machiavelli, quasi non aveva ancora ripreso il suo ufficio in Firenze, che fu per la seconda volta, spedito in Francia, dove era già ambasciatore residente Niccolò Valori. Le istruzioni, in data 19 gennaio 1501, firmate da Marcello Virgilio, dicevano: «Anderai a Lione presso il nostro oratore Niccolò Valori e presso la Maestà del Re, per far loro conoscere lo stato delle cose di qua; vedere in viso le provvisioni che fanno i Francesi, e scrivercene subito, dando il giudizio tuo. E quando non ti paiano sufficienti, farai bene intendere, che noi non siamo in grado di mettere insieme tante forze da poterci difendere; e però saremmo costretti di volgerci altrove, per cercare la salute nostra donde si può averla, non ci restando altro che questa piccola libertà, la quale ci conviene salvare con ogni industria. Nè ti contenterai di grandi promesse e disegni, ma farai capire che occorrono aiuti effettivi ed immediati.» Oltre di ciò, essendo stata rotta la condotta del Baglioni, doveva sollecitar qualche provvedimento anche per questo verso.

Il Machiavelli partì subito, ed il 22 gennaio 1504 scriveva da Milano, che il signore di Chaumont non credeva che Consalvo fosse per venire innanzi, e affermava che in ogni caso il Re avrebbe saputo difendere i suoi amici, ed egli stesso gli avrebbe scritto, perchè si fermasse la condotta col Baglioni, e s'aiutasse la Repubblica a fare amicizia «con questi spicciolati d'Italia;» quanto ai Veneziani «li farebbero attendere a pescare.» Altri gli assicuravano invece che il re di Francia si trovava senza danari, con poche genti e sparse in più luoghi, mentre «i nemici erano in sulla sella, freschi e «in sulla vittoria.» Il 26 il Machiavelli arrivava a Lione, ed il 27 si presentava col Valori al cardinale di Rouen, cui parlò assai vivamente, esponendo lo stato delle cose e la necessità d'immediati provvedimenti. Le risposte erano sempre vaghe e tali da non soddisfare; ma ad un tratto si vide che l'orizzonte abbuiato rapidamente si rischiarava. La Spagna, sebbene avesse ottenuto una straordinaria vittoria, non s'era lasciata ubriacare dalla prospera fortuna, e cercava consolidare quello che aveva conquistato, piuttosto che slanciarsi in nuove e pericolose imprese. Essa prestava perciò facile ascolto alle proposte di tregua fatte dalla Francia, la quale non poteva negli accordi dimenticare i Fiorentini, che così vedevano inaspettatamente dileguarsi i temuti pericoli. Una tregua di tre anni fu infatti firmata a Lione il dì 11 febbraio. Gli Spagnuoli restavano per ora padroni del Reame, le buone relazioni venivano ristabilite temporaneamente fra i due potentati, e i Fiorentini erano inclusi nella tregua come amici della Francia. Subito il Valori ne dava notizia ai Dieci; ed ora al Machiavelli non restava da fare altro che apparecchiarsi a partire. Il 25 febbraio, infatti, egli scriveva che, appena giunta la notizia della tregua, era stato in sulle staffe per tornarsene, come fece dopo qualche giorno, essendo trattenuto solo per affari di poco momento dal Valori. Questi faceva di lui moltissimo conto; ne lodava ai Dieci lo zelo e l'intelligenza; si valse molto de' suoi consigli; ma pure continuò sempre a tenere da sè la corrispondenza diplomatica, e così in tutta questa Legazione non troviamo che tre lettere del Machiavelli, fra le quali solo quella scritta da Milano è notevole.

Tornato questi a Firenze, venne il 2 di aprile mandato a Piombino, per dare a quel Signore assicurazioni di sincera amicizia da parte della Repubblica, e metterlo in diffidenza contro i Senesi. Al solito gli ordinavano di esaminare attentamente quale fosse l'animo di lui e di chi lo avvicinava, per poi riferirne, come fece, quando fu di nuovo in Firenze. E dopo ciò ricominciarono più fitti che mai gli affari della cancelleria, ripigliandosi con nuovo zelo la guerra di Pisa.

Il Soderini aveva ora preso animo, e cominciava un poco a fare di sua testa; il Machiavelli, che aveva gran potere su di lui, lo secondava per meglio dominarlo. L'ufficio di Gonfaloniere perpetuo toglieva naturalmente importanza a tutti gli altri, nei quali si rimaneva assai poco, e vi entravano perciò uomini di minore autorità, che lasciavano mano sempre più libera a colui che era il capo effettivo dello Stato, ed al quale un'amministrazione assai economica dava, dopo il tanto profonder danari, sempre maggior credito appresso gli uomini prudenti. Per il che egli otteneva facilmente dalla Pratica, dagli Ottanta e anche dal Consiglio Maggiore quello che voleva, sebbene non mancassero già le gelosie contro di lui, ed anche contro del Machiavelli, nel quale egli aveva riposto pienissima fiducia. In ogni modo si fermarono le condotte con G. P. Baglioni, Marcantonio Colonna e con altri capitani più o meno reputati, per 50, per 100 o più uomini d'arme ognuno. Si assoldarono 3000 fanti per dare il guasto. Era allora commissario di guerra il Giacomini, che incominciò subito le operazioni militari. Nel maggio uscì a dare il guasto a San Rossore, e tutto fu compiuto in quattro giorni; lo stesso fece in val di Serchio, e poi subito prese Librafatta. Si assoldarono tre galee, che furono assai utili ad impedire l'arrivo di vettovaglie ai nemici, ed intanto egli eseguì varie scorrerìe nel Lucchese, per fare vendetta degli aiuti che di là venivano sempre ai Pisani. A lui scrivevano il dì 1° luglio i Dieci, per mezzo del Machiavelli, rallegrandosi di ciò che aveva compiuto, ed invitandolo a far ben capire, essere egli deliberato ad operare in modo che i Lucchesi «non presumino rinfrescare di un bicchiere d'acqua i Pisani; e perchè sai che da essi li è mantenuto loro la vita in corpo, hai fatto fermo pensiero che non vada più così, e sarai per andarli a trovare fin dentro in Lucca.»

Ma tutto ciò non aveva nulla d'insolito. Se non che era entrata ora nella testa del Soderini un'idea assai infelice, nella quale egli ed il Machiavelli s'erano riscaldati stranamente, contro il parere delle persone più competenti. Trattavasi nientemeno che di deviare l'Arno presso Pisa, gettandolo in uno stagno vicino a Livorno, per lasciare a secco quella città, e toglierle ogni comunicazione col mare. Consultati i maestri d'acqua, dissero che con 2000 operai e certa quantità di legname, poteva farsi una pescaia, la quale avrebbe fermato il corso del fiume, deviandolo e gettandolo nello stagno, per mezzo di due fossi a questo fine cavati, e di là poi nel mare. Bastavano 30,000 o 40,000 giornate di lavoro. Portata la cosa dai Dieci nella Pratica, non fu consentita, parendo «più tosto ghiribizzo che altro.» Ma il Gonfaloniere allora la girò per tante vie che ne venne a capo, e fu deliberata. Il 20 agosto Niccolò Machiavelli scriveva una lunga lettera al Giacomini, comunicandogli la risoluzione presa, ed ordinandogli di metter mano ai necessari provvedimenti per eseguirla, d'accordo con Giuliano Lapi e Colombino, mandati espressamente. La cosa non persuadeva punto nè al Bentivoglio, nè al Giacomini. Il primo con la penna in mano dimostrava che, avendosi in tutto a cavare 800,000 braccia quadre di terreno, occorrevano 200,000 opere almeno, e poi non si sarebbe concluso nulla. Il Giacomini, pur dichiarandosi, come doveva, pronto ad eseguire gli ordini avuti, scriveva: «Vedranno VV. SS. che ci nascerà grandissime difficultà ogni giorno, e che la tanta facilità monstrasi, resterà inferiore.» Anch'egli in tutto ciò non vedeva altro che una perdita di danaro e di tempo, con l'obbligo di stare a guardare gli operai, senza poter fare intanto altre fazioni di guerra. Ed essendo uomo di poca pazienza, ben presto, tolta occasione dalle febbri che davvero lo avevano ridotto a mal partito, chiese con lettera del 15 settembre licenza, che gli fu concessa il giorno seguente, inviando i Dieci a succedergli Tommaso Tosinghi.

Il Machiavelli intanto scriveva una serie interminabile di lettere per dirigere i lavori. Si ordinava a tutti i Comuni l'invio al campo di zappatori per fare i fossi; si ordinava il mettere soldati a guardia per difendere i lavori; si mandavano maestri d'ascia per la pescaia; si facevano venire maestri d'acqua da Ferrara: non si posava mai. Il lavoro dei due canali che dovevano essere profondi sette braccia, e larghi, l'uno 20, l'altro 30, procedeva rapidamente; ma più rapida ancora procedeva la spesa, non essendosi con 80,000 opere anche a mezzo dell'impresa. E quel che era peggio, ben presto cominciarono gravi dubbi sulla possibile riuscita; giacchè, fatta, durante una piena, entrar l'acqua nel primo dei fossi che era già compiuto, ritornò tutta in Arno cessata che fu la piena. Si affermava che la pescaia, fermando il corso del fiume, ne avrebbe rialzato il letto; ma si vide poi che, dovendola costruire a poco per volta, si restringeva il corso delle acque, che subito procedevano più rapide, e quindi invece lo abbassavano. Si rispondeva che l'inconveniente sarebbe cessato una volta compiuto il lavoro, e intanto i soldati restavano oziosi a far guardia agli operai.

Il Soderini tuttavia non si dava per vinto, ma, portata la cosa prima nella Pratica e poi nel Consiglio degli Ottanta, fece deliberare che si continuasse, e così fu scritto al Tosinghi il 28 e 29 settembre. Tuttavia ben presto si cominciò a desiderar solamente, che la spesa già fatta di 7000 ducati non riuscisse del tutto inutile, operando in modo che i fossi, allagando il paese, servissero almeno ad impedire l'avanzarsi dei Pisani. Si mandò poi fuori un bando, che fu letto sotto le mura di Pisa, e diceva che i Signori avevano dal Consiglio Maggiore ottenuto di poter perdonare coloro che, uscendo da quella città, si dichiarassero obbedienti alla Repubblica. Ma anche questo riuscì male, perchè i Fiorentini speravano così di levar forze ai Pisani, e questi ne profittarono invece per scaricarsi delle bocche inutili, durante la carestìa. Altri si fecero, uscendo, reintegrare nei loro beni, e tornavano poi di nascosto. Fu quindi necessario riscrivere subito a fin di provvedere in modo, che le intenzioni benevole del bando non ne facessero frodare lo scopo. Ma tutto andò rapidamente a rovina in questi giorni. Le navi noleggiate per guardare il mare, erano già naufragate con la morte di 80 uomini; le genti d'arme si dimostravano sempre più scontente; gli operai al sopravvenire delle pioggie andavano via. E sebbene nuovi maestri d'acqua, venuti da Ferrara, uniti con quelli che erano al campo, non dessero la impresa per disperata affatto, pure il 12 ottobre si commetteva al Tosinghi che decidesse egli se bisognava andar oltre, o licenziare l'esercito e sospendere tutto, il che significava che in Firenze ormai mancava ogni fiducia per continuare. Infatti il Tosinghi poco dopo fu richiamato, inviandogli un successore; l'esercito fu licenziato, e i fossi con tanta spesa e fatica condotti, vennero in fretta ripieni dai Pisani. Così ebbe fine la mal consigliata impresa.

In questo momento appunto il Machiavelli si mise a scrivere i primi versi che abbiamo di lui, ed in quindici giorni compose il suo Decennale Primo, che con lettera del 9 novembre 1504 dedicò ad Alamanno Salviati, uno degli uomini più autorevoli in Firenze, e del quale si fanno nel Decennale medesimo grandi lodi, sebbene più tardi egli si dimostrasse molto avverso al Machiavelli. In questo breve lavoro noi non possiamo dire di trovar poesia vera, perchè si tratta d'una semplice narrazione storica dei fatti seguìti in Italia nel decennio che incominciò coll'anno 1494. Il racconto procede assai rapido, in terzine semplici e disinvolte, accennando solo i principalissimi avvenimenti, senza tralasciarne alcuno d'importanza, massime in tutto quel che risguarda la storia di Firenze. Di tanto in tanto però scoppia una pungente ironìa, che ravviva coi suoi frizzi la narrazione, e fa singolare contrasto colle espressioni di vero dolore, che non meno spesso sfuggono all'autore.

Egli invoca la Musa, perchè l'aiuti a descrivere le sventure d'Italia, incominciate quando questa si lasciò nuovamente calpestare dalle genti barbariche, così chiama sempre gli stranieri. I Francesi invitati dalle nostre discordie nazionali, percorrono la Penisola, senza che alcuno osi far loro fronte. Solo in Firenze resiste il coraggio di Piero Capponi:

Lo strepito dell'armi e de' cavalli

Non potè far che non fosse sentita

La voce d'un Cappon fra cento Galli.

Ma quando essi si debbono ritirare dall'Italia, ed al Taro passano, respingendo l'esercito della Lega, Firenze non sa più separarsi dalla loro alleanza, e «col becco aperto aspetta sempre che qualcuno venga d'oltr'Alpe a portarle la manna nel deserto.» Invece fu ingannata, e per tutto le si levarono contro nemici, che ne misero a pericolo l'esistenza, specialmente quando essa si lasciò «dominare e dividere dalle dottrine di quel gran Savonarola, che, afflato da virtù divina, l'avvolse colla sua parola.» Nè vi sarebbe stato più modo a riunirla, conclude egli cinicamente:

Se non cresceva o se non era spento

Il suo lume divin con maggior foco.

Seguono i guai della guerra nel Casentino, della guerra di Pisa, ed il Machiavelli accenna chiaro al tradimento di Paolo Vitelli «cagion di tanto danno.» Egli continua ricordando le guerre di Lombardia e la ribellione di Arezzo, al quale proposito esalta anche più del dovere la virtù e prudenza di Piero Soderini, che trovavasi allora Gonfaloniere, non però ancora a vita. Descrive poi i fatti di Romagna, rappresentando il Valentino e i suoi capitani come serpenti avvelenati che si lacerano, rivolgendo l'un contro l'altro i denti e gli ugnoni. Il Duca è fra essi il basilisco che, soavemente fischiando, li attira nella sua tana e li uccide. E mentre di nuovo i Francesi scendono in Italia, per tornare all'impresa di Napoli, «lo spirito glorioso di papa Alessandro è portato fra l'anime dei beati, e ne seguono i passi tre sue indivisibili ancelle: lussuria, crudeltà e simonìa.» Giulio II venne allora eletto «portinar di Paradiso;» i Francesi furono disfatti, ed il Valentino ebbe finalmente dal Papa e da Consalvo la punizione

Che meritava un ribellante a Cristo.

Per dieci anni, conchiude il Machiavelli, tornando di nuovo serio e grave, il sole ha girato su questi eventi crudeli, che tinsero il mondo di sangue. Ora esso raddoppia l'orzo ai suoi corsieri, perchè presto seguiranno altri fatti, in paragone dei quali parrà nulla tutto ciò che è avvenuto sinora. La fortuna non è ancora contenta; la fine delle italiche guerre non è ancora vicina. Il Papa vuol ripigliare le terre della Chiesa; l'Imperatore vuole essere coronato; la Francia si duole del colpo avuto; la Spagna tende lacci ai vicini, per assicurarsi quello che ha preso; Firenze vuole Pisa; Venezia ondeggia fra la paura e l'ambizione di nuove conquiste; onde facilmente si vede che la nuova fiamma, una volta riaccesa, arriverà fino al cielo. Il mio animo resta tra la speranza ed il timore,

Tanto che si consuma a dramma a dramma,

perchè vorrei sapere dove anderà a riparare la navicella della nostra Repubblica. Io m'affido tutto al suo accorto nocchiero; ma il cammino sarebbe assai più facile e certo, se i Fiorentini riaprissero il tempio di Marte.

In tutto questo lavoro troviamo un continuo e singolare contrasto. Non solo, come già notammo, una pungente e qualche volta cinica ironìa trovasi accanto al più profondo dolore per le sventure d'Italia; ma un sentimento assai vivo della unità nazionale, sta di fronte all'amore anche più vivo per la piccola patria fiorentina. L'autore incomincia col deplorare le crudeli ferite che l'Italia riceve dagli stranieri, e vorrebbe saperle guarire; ma l'odio contro Pisa, Venezia e gli altri Stati vicini prorompe subito. Spesso egli ritorna al suo primo e nobile dolore; ma il pensiero con cui il canto si chiude, è rivolto a Firenze, non all'Italia. L'ultimo verso accenna poi all'idea, che da un pezzo agitava la sua mente, di salvare cioè la Repubblica, armandola di proprie armi. Del resto questa lotta di scetticismo e di fede politica, d'ironìa e di dolore sincero, di sentimento nazionale e di municipalismo, trovasi in tutto il Rinascimento italiano; è però meglio che in altri personificata nel Machiavelli, massime in questi anni, nei quali, non potendo egli darsi a studî più serî e prolungati, gettava sulla carta i più intimi suoi pensieri così come venivano.

Questo Decennale Primo fu dato alle stampe solo nel principio del 1506, per opera d'uno dei coadiutori della cancelleria; ne venne poi subito fatta una ristampa illegale, ad insaputa dell'autore, e così circolò subito largamente fra gli amici, letto con grande avidità, a causa delle allusioni contemporanee, senza però esser tale da poter crescere di molto la fama dell'autore. È tuttavia notevole una lettera che il dì 25 febbraio del 1506, gli scrisse da Cascina, dove era a servizio della Repubblica, il signor Ercole Bentivoglio, cui il Machiavelli aveva inviato un esemplare del proprio scritto. Ringraziandolo, lodava prima di tutto l'arte, con la quale in sì piccolo spazio erano raccolti i principali eventi del decennio, senza tralasciarne alcuno che fosse notevole davvero. Lo confortava poi a continuare, «perchè, sebbene questi tempi sono stati e sono tanto infelici, che il ricordarli rinnuova ed accresce a noi altri dolori non pochi, pure ci è gratissimo che queste cose scritte in verità pervenghino a chi verrà dopo noi, sì che conoscendo la mala sorte nostra di questi tempi, non c'imputino che siamo stati cattivi preservatori dell'onore e riputazione italiana.» «Chi non legge la storia di questi anni,» conchiude il Bentivoglio, «non potrà mai credere, come in sì breve tempo l'Italia sia da tanta prosperità precipitata a così grande rovina, alla quale pur troppo sembra correre, come a cosa desiderata, anche tutto il poco che resta, se non ci salva inopinatamente Colui che salvò dai Faraoni il popolo d'Israele.» È certo singolare assai questo serio e severo linguaggio in un capitano di ventura; ma tali erano i tempi, e tale era il presentimento che tormentava allora tutti coloro che pensavano in Italia.

Pare che il Machiavelli si dilettasse in quegli anni d'accoppiare spesso l'ironìa e la satira al quotidiano lavoro degli affari, ed alle severe meditazioni politiche; giacchè è assai probabile che allora appunto componesse anche un secondo lavoro letterario, il quale sfortunatamente andò perduto. Era un'imitazione delle Nuvole e di altre commedie d'Aristofane, intitolata Le Maschere. Tutto quello che ne sappiamo è che la scrisse ad istigazione di Marcello Virgilio, e che pervenne con altre sue carte e lavori nelle mani di Giuliano de' Ricci, il quale non volle copiarla, come aveva fatto di tante altre cose inedite del suo illustre antenato, perchè era ridotta in frammenti appena leggibili, e perchè l'autore «sotto nomi finti va lacerando e maltrattando molti di quelli cittadini, che nel 1504 vivevano.» Dopo di che lo stesso scrittore aggiunge: «Fu Niccolò in tutte quante le sue composizioni assai licenzioso, si nel tassare persone grandi, ecclesiastiche e secolari, come anche nel ridurre tutte le cose a cause naturali o fortuite.» E veramente questo spirito satirico e mordace fu quello che gli procurò molti nemici, molti dispiaceri nella vita; ma l'ostinarsi a ridurre tutti i fatti, massime della storia, a cause naturali, se fu, come osserva con dolore il Ricci, la cagione che ne fece proibire le opere da Paolo IV e dal Concilio di Trento, fu quella ancora che lo condusse ad iniziare la scienza della storia e la scienza politica.

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