CAPITOLO VIII.

Tristi condizioni dell'Umbria. - Legazione a Perugia. - Pericoli di guerra. - Nuova Legazione a Siena. - Rotta dell'Alviano. - I Fiorentini assaltano Pisa e sono respinti. - Legazione presso Giulio II. - Istituzione della milizia fiorentina.

(1505-1507)

Verso la fine del 1504 le cose sembravano avviarsi assai male per la Repubblica. Bartolommeo d'Alviano s'era partito scontento da Consalvo di Cordova, e dicevasi volesse tentare qualche impresa per suo conto nell'Italia centrale. I Vitelli, gli Orsini, il signore di Piombino e quello di Siena lo secondavano; ma quel che era peggio, pareva che anche G. P. Baglioni, sebbene capitano dei Fiorentini, fosse con lui d'accordo. Questi se ne stava a Perugia, senza rinnovare la condotta scaduta, ed alle lettere che essi gli scrivevano, rispondeva evasivamente, o non rispondeva affatto. Le cose non procedevano bene nè a Livorno nè a Pisa, ed alla fine del marzo 1505, incontrandosi sul fiume Osole, al ponte a Cappellese, e venuti fra loro alle mani buon numero di Pisani e di Fiorentini, questi ebbero una vera disfatta, dovuta quasi esclusivamente alla negligenza dei loro capi. Di tale rotta, com'è naturale, la Repubblica si dolse amaramente, e dopo aver mandato danari al campo per riordinarlo, pensò ad assicurarsi per l'avvenire. Ma prima di tutto fu mandato Niccolò Machiavelli a Perugia, a fin d'indagare quale fosse veramente l'animo del Baglioni.

È difficile farsi un'idea dello stato d'anarchia in cui trovavasi allora tutta l'Umbria, specialmente Perugia, e del modo con cui in questa dominavano i Baglioni. Era uno stato di guerra continua. Le città vicine erano tutte piene de' suoi esuli, fra i quali primeggiavano gli Oddi, che di tanto in tanto tornavano per sorpresa, ed insanguinavano ferocemente le strade. Quando Alessandro VI, cacciato dalla paura di Carlo VIII, andò a Perugia nel 1495, pensò profittare dell'occasione, e propose ai Baglioni che facessero qualche gran festa, col segreto intendimento di pigliarli nella rete tutti in una volta. Ma Guido Baglioni rispose, che la più bella festa sarebbe stata di fargli vedere il popolo armato sotto il comando de' suoi parenti, che ne erano i condottieri. Allora, dice il cronista Matarazzo, Sua Beatitudine capì che Guido «aveva sale in testa,» e non insistè più oltre. Non era appena partito il Papa, che i Baglioni combattevano per le vie di Perugia, alcuni di essi ancora in camicia, per essere stati improvvisamente assaliti dagli Oddi, i quali, entrati di notte in città, li avevano cercati a morte nelle case, fin dentro i proprî letti. Più di cento furono i cadaveri sparsi per le vie o impiccati alle finestre: il sangue corse a fiumi, e ne bevvero, secondo che afferma il medesimo cronista, i cani ed anche un orso domestico, che girava per le strade. Finalmente i Baglioni restarono vittoriosi.

Dopo due anni venne il cardinale Borgia, mandato da Roma a mettere ordine nell'Umbria. Tutti si dichiaravano obbedienti all'autorità del Sommo Pontefice; ma aggiungevano essere pronti piuttosto a spianare al suolo la loro città, che rinunziare alle vendette. Laonde il cardinale scriveva essergli impossibile concludere nulla, se non gli mandavano genti d'arme per combattere «contra questi demonii, che non fugono per acqua santa.» Partito il cardinale, senza aver nulla concluso, seguì una guerra tra i Baglioni stessi, divisi per gli odii di Guido e Ridolfo fratelli. I giorni della state del 1500, nei quali si celebravano le feste per le nozze di Astorre figlio di Guido, furono quelli appunto in cui si venne alle mani. I Varano di Camerino cominciarono la strage, uccidendo molti dei Baglioni, prima che avessero tempo di svegliarsi. Giovan Paolo che fuggì, dopo essersi difeso colla spada, fu creduto morto, e Grifone Baglioni trionfava pel sangue sparso de' suoi parenti. La madre lo maledisse e lo respinse dalla casa, in cui s'era ritirata coi figli di Giovan Paolo. Ma dopo poco, questi entrò in città, alla testa d'uomini armati, che aveva raccolti fuori delle mura, e si sentirono le grida di Grifone pugnalato nella piazza. A mala pena la desolata madre fu in tempo per accorrere colla moglie a vederlo spirare. Gli assassini si ritirarono, compresi di rispetto, ed il figlio, obbedendo, strinse «la bianca mano de la sua giovanile matre,» in segno di perdono ai nemici, e spirò. Il suo cadavere fu messo nella stessa bara, in cui era stato ventiquattro ore innanzi Astorre da lui fatto uccidere, in quei giorni in cui se ne celebravano le nozze. Così G. P. Baglioni rimase signore di Perugia per la distruzione dei suoi, e passò trionfante davanti all'arco innalzato a celebrare gli sponsali del cugino, e su di esso si leggeva l'iscrizione poco prima composta dal Matarazzo. Questi, dopo averci data la minuta narrazione dei fatti sanguinosi, conclude dicendo, che «Perugia non si potrà più chiamare augusta, ma angusta, et, quod peius est, combusta.» Pure egli va in estasi quando parla dei Baglioni, quando descrive il terrore che ispiravano a tutti, e la fama che di loro correva nel mondo. Ogni volta che uno di essi comparisce coll'elmo in testa e la spada in pugno, è sempre per lui un nuovo San Giorgio, un nuovo Marte, e la città doveva essere superba delle loro prodezze. Questi erano i tempi!

G. Paolo Baglioni non era però contento di viversene tranquillo a Perugia; ma cercava sempre agguati, guerre ed avventure dentro e fuori della città, lasciando governare i suoi parenti superstiti. Unitosi con Vitellozzo, noi lo vediamo andare alla caccia di un tale Altobello da Todi, contro del quale l'odio popolare si scatenò così ferocemente, che molti si ferirono colle proprie armi, per volere ognuno essere primo ad ucciderlo. I Perugini mangiarono la sua carne, secondo che afferma il cronista, il quale aggiunge che uno di essi ne morì d'indigestione; che altri la cercavano invano ad altissimo prezzo, e non potendola avere, per furore di vendetta ponevano nelle vie carboni accesi sul suo sangue. Dopo di ciò il Baglioni si trovò fra i congiurati della Magione; ma questa volta, meno fortunato, dovè presto fuggire innanzi all'idra che s'avanzava. Allora fu capitano di ventura a servizio dei Francesi e dei Fiorentini, e Carlo Baglioni governò pel Valentino in Perugia. Quando però si seppe, nell'agosto del 1503, la morte del Papa, Giovan Paolo lasciò subito il soldo dei Fiorentini, ed insieme con Gentile, che era cugino di Carlo Baglioni, corse armato a ripigliare il proprio Stato. Il dì 8 di settembre fu dato l'assalto; i due cugini Carlo e Gentile vennero alle mani inferociti come due leoni, «mostrandosi la virtù di ciascheduno, e quanta sia la virtù e fortezza che Marte concesse a questa magnifica casa Baglioni, la cui fama per Italia resona.» Il 9 settembre Giovan Paolo era di nuovo signore di Perugia, e tornò al soldo di Firenze; ma con uno o un altro pretesto non prestava effettivo servizio. Chiamato con più insistenza che mai, quando si cominciò a diffidare di lui, propose che dessero a suo figlio una condotta con qualche lancia, sperando così di far credere ad essi che restava fedele alla Repubblica, senza compromettersi coi loro nemici. Ed anche in ciò i Fiorentini s'erano indotti a contentarlo; ma ora che l'Alviano s'avanzava, e sopra tutto dopo la rotta che essi avevano avuta dai Pisani, al ponte a Cappellese, non volevano più restare in questa incertezza. Mandarono quindi parte della prestanza o anticipazione che soleva darsi a chi veniva in campo, ordinandogli d'inviar subito i cavalli leggieri, e seguire senza indugio egli stesso colle genti d'arme, che avrebbe trovato il resto della prestanza. Vedendo che non pigliava il danaro e non partiva, si decisero a mandare il Machiavelli, perchè venisse in chiaro di tutto, se poteva.

Le istruzioni, in data 8 aprile, dicevano, che egli doveva far le viste di prestar fede alle pretese ragioni che avrebbe addotte il Baglioni per scusarsi; ma, «pungendolo poi in qualche parte,» cercare di scoprir le vere, e indagare se operava così solo per migliorare i patti, o perchè s'era addirittura collegato coll'Alviano e cogli altri nemici di Firenze. Il giorno 11 il Machiavelli scriveva, che G. P. Baglioni adduceva, per non muoversi, le macchinazioni fatte contro di lui in Perugia, e l'essere a servizio della Repubblica i Colonna ed i Savelli suoi capitali nemici, aggiungendo, che aveva fatto esaminare da molti dottori perugini i capitoli della condotta, e che gli era stato assicurato non doversi per essi tenere obbligato a servire i Fiorentini. Io gli risposi, continuava il Machiavelli, che da ciò poteva venire più danno a lui che a voi, giacchè se per colpa sua «voi rimanete ora allo scoperto ex improvviso di 130 uomini d'arme, egli era tanti cavalli in Italia fuora della stalla, che voi non eri per rimanere a piè, a nessun modo.» «Ma il suo male invece non era curabile, perchè, se anche voi non vi dolevate di lui, chiunque conosce il suo procedere, e sa la condotta data al figlio a sua richiesta, e la prestanza portata a lui infino a casa,» «lo accuserà d'ingratitudine e d'infedeltà, e sarà tenuto un cavallo che inciampa, che non trova persona che lo cavalchi, perchè non facci fiaccare il collo a chi vi è su, e che queste cose non hanno a essere giudicate da dottori, ma da' signori, e che chi fa conto della corazza e vuolvisi onorare drento, non fa perdita veruna che la stimi tanto quanto quella della fede, e che mi pareva che a questa volta e' se la giuocasse.» «Gli uomini debbono far di tutto per non aversi mai a giustificare; ma a lui seguiva invece di doversi giustificare troppo spesso.» «E così lo punsi per ritto e per il traverso, dicendogli molte cose come ad amico e da me; e benchè più volte li vedessi mutare il viso, mai fece col parlare segno da potere sperare che mutassi opinione.» Il risultato di tutto ciò fu, che il Machiavelli si convinse esservi accordo fra l'Alviano, gli Orsini ed il Baglioni, per tòrre Pisa a' Fiorentini, e fare anche peggio potendo; che il Petrucci di Siena secondava queste trame, e che se tutti in parole professavano amicizia per Firenze, in fatto si armavano. Laonde, ripetuto anche una volta al Baglioni, che pensasse bene a quel che faceva, perchè «questa cosa pesava più che non pesava Perugia,» se ne tornò a casa. Questa Legazione è composta d'una sola lettera, scritta però con molto vigore, con una singolare evidenza, ravvivando col linguaggio più domestico e familiare la dignità diplomatica, il che forma uno dei grandi pregi nella prosa del Segretario fiorentino, aggiunge vivo colorito alla originalità sua propria.

In Firenze ora si spingevano innanzi, a tutta possa, le cose della guerra, per essere pronti alla difesa contro i minacciati pericoli. Si sparse in quei mesi la voce che Luigi XII era morto, e subito si diceva che l'Alviano, aiutato non solo dagli Orsini e dai Vitelli, ma dai Veneziani, dallo stesso Consalvo di Cordova e dal cardinale Ascanio Sforza, si sarebbe avanzato per rimettere i Medici in Toscana, e poi cacciare i Francesi da Milano, dove avrebbe nella persona del cardinale ristabilito il dominio degli Sforza. Tutte queste voci però svanirono qual fumo al vento, quando si seppe che il re di Francia non era morto, e che nel maggio moriva invece Ascanio. Non per questo l'Alviano si fermava; ma i suoi disegni si restringevano alla Toscana, come s'era sin dal principio sospettato, tanto che alcuni in Firenze fecero persino la strana proposta di dargli una condotta, e così farla finita. Quantunque non pochi cercassero di sostenere un tale partito, esso non poteva riuscire accetto a nessun uomo prudente, perchè contrario alla dignità della Repubblica, ed anche assai pericoloso, sapendo ognuno che l'Alviano e gli Orsini desideravano il ritorno dei Medici. E quindi, colla elezione dei nuovi Dieci, tutti gl'intrighi andarono a monte, prevalendo invece la proposta di fare una condotta di 300 uomini d'arme col marchese di Mantova, come capitano generale. Ma anche qui le trattative andarono in lungo, e sebbene il 4 maggio si spedisse il Machiavelli per concludere, non si venne a capo di nulla, affacciando il Marchese sempre nuove difficoltà.

Le gravi cure dei Fiorentini perciò non diminuivano, ma invece crescevano ogni giorno. Anche il signore di Piombino sembrava ora unirsi ai nemici di Firenze, e si parlava del prossimo arrivo colà di 1000 fanti spagnuoli; laonde al commissario Pier Antonio Carnesecchi fu dato ordine d'andare a vedere un poco quale fosse il vero stato delle cose. Ranieri della Sassetta, altro venturiero nemico di Firenze, si recava in Piombino, ed il Machiavelli, in data del 28 giugno, scriveva di nuovo al Carnesecchi, che sembra fosse alquanto incerto e prosuntuoso, che si tenesse in forze da quel lato, e se la intendesse bene col governatore Ercole Bentivoglio. «Il che non ti si è ricordato per diffidarsi di te, nè per parerci che' e' panni tuoi non sieno finissimi, e per questo volere che tu ti vesta con quelli d'altri;» «ma perchè egli è prudente, ha ai suoi ordini tutte le nostre forze, e quindi bisogna pure in ogni modo intendersela con lui.» Lo stesso giorno fu scritto al Bentivoglio, esponendogli i dubbî che avevano i Dieci sul procedere del signore di Piombino, incerto sempre tra Pandolfo Petrucci e i Fiorentini, diffidente di questi e di quello. «Si era rivolto a Consalvo, il quale dicevasi avesse mandato 800 fanti spagnuoli per farli pagare agli altri, e intanto sbigottire con essi Firenze. Se tutte queste notizie,» concludeva la lettera, «non sono certe, è certo l'arrivo degli Spagnuoli, onde bisogna in ogni modo stare in guardia.» Si pensò quindi d'inviare un ambasciatore a Consalvo stesso, e sebbene il Soderini desiderasse mandarvi Niccolò Machiavelli, trovò ne' Consigli tale opposizione, che fu eletto invece Roberto Acciaiuoli. Il Machiavelli ebbe allora un'assai più modesta commissione presso il Petrucci in Siena, il quale era noto avversario dei Fiorentini; eppure avvertiva ora delle mene dell'Alviano contro di essi, coi quali proponeva di fare alleanza, offerendo 100 uomini d'arme per l'impresa di Pisa, e 50 di più l'anno seguente. La cosa pareva assai strana, e si voleva quindi indagare che intenzione egli veramente avesse.

Se il Baglioni era un tiranno della scuola del Valentino, il Petrucci non era uomo di guerra, ma uno di quelli che s'impadronivano allora del potere quasi unicamente con l'accortezza e l'astuzia, come i Medici, non senza di tanto in tanto ricorrere al sangue. Era suo consigliere e segretario Antonio da Venafro, che di poco conosciuti natali, fu prima professore nello Studio di Siena, e giudice delle Riformagioni; poi, mescolandosi nella politica, s'arricchì, e co' suoi consigli aiutò assai efficacemente il Petrucci a farsi tiranno. La potenza di costui, cominciata a consolidarsi nel 1495, quando, tornando Carlo VIII da Napoli, lasciava a Siena alcune lance francesi, si andò rafforzando negli anni successivi colla morte de' suoi più temuti rivali, i quali furono in un modo o nell'altro assassinati, aiutandolo sempre il Venafro co' suoi consigli. Cacciato dal Valentino, che lo chiamava il cervello dei congiurati della Magione, dove infatti aveva inviato il Venafro come uno dei più abili ad ordire la trama, era tornato coll'aiuto francese e col favore di tutto il popolo. Questo gli si era affezionato, perchè lo vedeva uomo d'ingegno, e perchè gli oppositori erano peggiori di lui, il quale, una volta sicuro di sè, cercò d'esser mite e giusto nel governare. A ciò si aggiungeva, che l'odio universale contro il Valentino destava nel popolo una simpatia assai naturale verso un uomo che, quasi per miracolo, era scampato vivo dalle mani di lui. Il Petrucci non ostante continuò sempre ad aver mano in tutti gl'intrighi, desiderando esserne stimato come l'autore principale. In mezzo alle nuove complicazioni che nascevano ora, si destreggiava con grandissima accortezza, e mentre si dimostrava amico di Firenze, da cui certo poteva ricevere molti danni, cercava avvicinarsi anche ai nemici di essa, vedendo che la cattiva fortuna di Francia aumentava la loro forza, e rendeva sempre più potenti gli amici di Spagna.

Le istruzioni, in data 16 luglio 1505, dicevano al Machiavelli: «Tu chiederai consiglio sul da fare, e allargandoti su questa materia, la rivolterai per tutti i versi, regolandoti, secondo che procederà il discorso, con quella prudenza che fu sempre tua, per arrivare a conoscere quale sia l'animo di quel signore.» Ed il 17 egli scriveva da Siena, che il Petrucci voleva stringere accordo con Firenze, senza punto impegnarsi a far desistere l'Alviano dalla sua impresa, proponendo che si dovesse prima indebolirlo, isolandolo dai Vitelli, «perchè, essendo di natura fiera e senza rispetti, trovandosi ora armato e senza Stato, poteva far qualche colpo disperato; e l'Italia era piena di ladri, usi a vivere di quel d'altri, onde molti per predare gli sarebbero corsi dietro.» Da più lati però l'oratore veniva messo in diffidenza, ed assicurato che Pandolfo Petrucci era nemico di Firenze e del Gonfaloniere, andava d'accordo con Consalvo e con l'Alviano, era l'autore di tutti i movimenti che ora seguivano, «e teneva il piè sempre in mille staffe, in modo da poternelo trarre a sua posta.» Sicchè, quando egli e Antonio da Venafro, «che è il cuore suo e il caffo degli altri uomini,» tornarono a proporre che si facesse prima l'accordo, per pensar poi ad isolare l'Alviano dagli altri, il Machiavelli, temendo che volessero così compromettere sempre più la Repubblica, chiedeva invece che si venisse prima ai fatti, cominciando «a por piè in su queste faville.»

Il 21 luglio si venne ancora più alle strette, dichiarando il Petrucci con lungo ragionamento, che, nonostante il suo buon volere, non poteva solo e senza previo accordo opporsi all'Alviano, e fermare quei movimenti. «Non era già vero che lui avesse in questo caso la briglia e gli sproni; perchè gli sproni non ci ebbe mai, e la briglia tira quanto può.» Invano il Machiavelli replicava tutte le ragioni suggerite dal suo ingegno, chè l'altro, ben fermo nel suo proposito, cercava aggirarlo con strani consigli e notizie contradittorie. E però egli scrisse ai Dieci: «Per fargli capire che intendevo bene quegli aggiramenti, dissi che queste pratiche mi facevano in modo confuso, che io dubitavo non dare la volta avanti me ne ritornassi. Ora si sentiva che Bartolommeo d'Alviano veniva coi danari e fanti di Spagna, ed ora invece che Consalvo gli era contrario e l'avrebbe fermato; ora che era pronto a passare, ed ora che limosinava aiuto; ora che era d'accordo col Papa, ed ora che erano nemici; ora che era d'accordo con Siena, ed ora che i suoi soldati predavano i cittadini senesi. Pertanto io desideravo che Sua Signoria mi rilevasse questa ragione.» E Pandolfo, senza punto confondersi, rispose: «Io ti dirò come disse il re Federico ad un mio mandato in un simil quesito, e questo fu, che io mi governassi dì per dì, e giudicassi le cose ora per ora, volendo meno errare, perchè questi tempi sono superiori a' cervelli,» aggiungendo che l'Alviano li secondava, perchè «uomo da dare in un tratto speranza e timore ai suoi vicini, mentre che sarà così armato.» Ed in questo tenore continuò fino all'ultimo il Petrucci, il quale era tale, dice il Machiavelli, «che per guardarlo in viso non si guadagna nulla o poco.» La sera del 23 il Petrucci gli fece leggere una lettera, che avvisava avere Consalvo ordinato all'Alviano di non alterare le cose di Toscana; e chiedendogli l'oratore che cosa ne pensasse, rispose: «La ragione vorrebbe che l'Alviano obbedisse e restasse fermo; pure gli uomini non sempre seguono la ragione, quindi potrebbe invece muoverlo la disperazione.» «E benchè di quelli che si muovono per disperati, de' quattro, tre capitino male, tamen sarebbe bene che questa disperazione egli non l'usasse, perchè non si può muovere una cosa, non se ne muova mille, e gli eventi sono varî.» Perciò era bene che i Fiorentini provvedessero. Nè ci fu verso di cavarne mai nulla; sicchè, dopo un colloquio avuto col Venafro, cui disse di avere da un pezzo in qua veduti molti «ridere la state e piangere il verno,» il Machiavelli se ne tornò a Firenze più confuso di quel che ne fosse partito.

Non c'era dunque che apparecchiarsi alla guerra, e i Dieci richiamarono in ufficio il prode commissario Giacomini, inviandogli la patente il 30 luglio, con ordine di mettersi subito d'accordo col governatore sul da fare; e nello stesso tempo davano coraggio al commissario Carnesecchi in Maremma, assicurandolo che non v'era immediato pericolo. Ben presto però dovettero ricredersi, dolendosi con lui stesso che già l'Alviano fosse presso a Campiglia, e cominciasse ad assalire «avanti che la testa nostra sia fatta. Ma ci pare che la tela sia ordinata in modo che, per la prudenza vostra, si potrà rassettare ogni cosa.» E promettevano solleciti rinforzi. L'Alviano sapeva di non poter far nulla contro la voglia di Consalvo, il quale non voleva che i Fiorentini pigliassero Pisa, ma neppure che fossero direttamente assaliti, perchè erano compresi nella tregua firmata in Francia, e aveva mandato pochi fanti spagnuoli in Piombino, solo acciò si tenessero pronti ad ogni possibile evento. L'altro adunque, sebbene avesse con sè il favore ed i segreti aiuti del Baglioni e del Petrucci, non aveva ancora potuto deliberare un disegno di guerra. Avrebbe bene accettata una condotta dai Fiorentini, per far poi a suo modo; ma questo non sembrando ormai possibile, restò fino al 17 luglio in Vignale, luogo del signore di Piombino, ed ora s'apparecchiava ad entrare in Pisa, donde poteva assai danneggiarli. Circa la metà di agosto, infatti, il Giacomini faceva sapere che i nemici s'avanzavano, e che egli era deciso di venire a giornata; al che i Dieci rispondevano, rimettendo il giudizio di tutto in lui e nel governatore: «Osservassero però che se l'entrata dell'Alviano in Pisa era pericolosa, più pericolosa assai poteva essere una zuffa, in cui si dovesse tutto vincere o tutto perdere.»

I Fiorentini avevano in campo 550 uomini d'arme e 320 cavalli leggieri, oltre poca artiglieria, e qualche migliaio di fanti. Di questi un cento uomini d'armi erano a Cascina, gli altri a Campiglia ed a Bibbona, centro principale delle loro forze. Quelle dell'Alviano non erano minori, e quindi lo scontro poteva essere aspro e decisivo. Il 14 venne al Giacomini l'avviso che il nemico s'avanzava, ed il mattino del 17, in sul far del giorno, che già era vicino, ordinato a battaglia: i Fiorentini lo affrontarono alla Torre di San Vincenzo, e cominciò subito la zuffa. Le fanterie che erano, a quanto si diceva, pagate coi denari del Petrucci, furono rotte al primo scontro, e poi subito detter l'assalto gli squadroni di Iacopo Savello e Marcantonio Colonna, di fronte ai quali cominciarono a piegare tutte le genti dell'Alviano. Questi allora si fece innanzi coi suoi 100 uomini d'arme, e guadagnò terreno; ma sopravvenuto dall'altro lato Ercole Bentivoglio col grosso delle forze fiorentine, la vittoria fu sua, e l'artiglieria finì di sbaragliare il nemico. Il combattimento non durò più di due ore, nel qual tempo l'Alviano, assai abile capitano, ma quasi sempre sfortunato, dopo la totale disfatta de' suoi, ferito nel viso, a mala pena scampò con 8 o 10 cavalli nel Senese. I Fiorentini presero da 1000 cavalli, grandissimo numero di carri, di prigionieri, e videro l'esercito che li minacciava, come per incanto scomparso: la gioia fu universale nella Città.

Ma questa vittoria riuscì a loro assai poco utile, per la troppa fiducia in cui vennero delle proprie forze. Il Giacomini aveva reso conto della rotta data al nemico, senza aggiungere altro; il Bentivoglio, invece, che era tenuto generalmente più capace a far disegni di battaglie che ad eseguirli, proponeva d'assaltare Pisa senza metter tempo in mezzo, dando poi ancora qualche colpo a Siena ed a Lucca. Il Gonfaloniere allora s'infatuò appunto nel pensiero d'assaltare e prendere subito Pisa, profittando del caldo della vittoria. Invano s'opposero i cittadini più prudenti e i Dieci, facendo osservare che non si avevano forze, e che si correva un gran rischio, essendo gli Spagnuoli in Piombino. Questi erano pochi, è vero, ma altri ne potevano d'ora in ora arrivare, imbarcandosi, se non s'erano già imbarcati, a Napoli. Alcuni parlavano pure d'un campo formato o da formarsi in Livorno. Certo il Gran Capitano s'era assai adirato, e chiamato a sè l'Acciaiuoli, aveva fatto grandissime minacce ai Fiorentini, i quali avevano, diceva egli, promesso di lasciar stare per ora almeno la città di Pisa, la quale egli farebbe in ogni modo difendere da' suoi soldati. Ma il Soderini rideva di ciò, affermando che in otto giorni l'impresa sarebbe compiuta. Tenuta dai Dieci una Pratica assai numerosa, la sua proposta non fu approvata; ma egli portò la cosa negli Ottanta e nel Consiglio Maggiore, dove volle spuntarla e la spuntò, riuscendo il 19 agosto a far votare 100,000 fiorini per correre senza indugio all'assalto.

Il Machiavelli venne spedito in campo a portare gli ordini al Giacomini ed al Bentivoglio, che fu nominato capitano generale. Il 24 egli era di ritorno a Firenze, dove faceva conoscere quello che occorreva al campo, e ponevasi con ardore a spingere innanzi i necessarî provvedimenti. Si ordinarono fanti in tutto il territorio; se ne assoldarono in Bologna, in Romagna, e perfino in Roma, dove vennero pagati 575 Spagnuoli, che erano liberi, non per servirsene, ma solo per impedire che andassero in aiuto dei Pisani. Si comandarono marraiuoli; si spedirono armi, munizioni, tutte le artiglierie.

Il 7 di settembre il campo si trovava a poche ore da Pisa, e il giorno dipoi 11 cannoni furono piantati dinanzi alla porta Calcesana. Cominciato il fuoco al levare del sole, verso le 22 ore s'erano buttate a terra 36 braccia di mura; ma, dato l'assalto, venne subito respinto. Tuttavia, essendosi adoperato solo un terzo delle forze fiorentine, il cattivo successo non aveva importanza. Se non che, in quel mezzo entravano per la Porta a Mare 300 fanti spagnuoli, partiti da Piombino per ordine di Consalvo, e questo era un pessimo segno. Pure, mutata la posizione delle artiglierie, si ricominciò a far fuoco, continuando nei giorni 10, 11 e parte del 12. A ore 18 cadevano a terra 136 braccia di mura, e si diè un secondo e più generale assalto, che riuscì assai peggio del primo, non avendo voluto le fanterie fiorentine combattere in modo alcuno, preferendo piuttosto farsi ammazzare dai loro capi che presentarsi davanti alla breccia. E allora cominciarono le mille voci che provano il disordine e la dissoluzione morale di un esercito. Si parlava di 2000 Spagnuoli entrati in Pisa, di altri partiti da Napoli per Livorno, e si affermava già formato colà un campo che nessuno vide mai. A Firenze poi, dove tanti avevano biasimata l'impresa, e dove alcuni erano perfino accusati d'essersi intesi col nemico per non farla riuscire, la notizia dell'esercito per la seconda volta respinto, e del campo in pieno disordine, produsse tale effetto, che fu subito deciso di abbandonare l'impresa. In breve, alla mezzanotte del 14, si levarono le artiglierie; il 15 fu portato il campo a Ripoli, poi a Cascina, donde le genti d'arme andarono alle loro stanze.

L'autorità del Soderini per questo fatto ne scapitò assai; ma, non potendo tutti pigliarsela con lui, le ire si rivolsero assai ingiustamente contro il Giacomini, che aveva eseguito gli ordini avuti con indomita energia e mirabile coraggio. Egli fu assai sdegnato di questa ingratitudine, e mandò la sua rinunzia, che venne subito accettata, inviandogli anche il successore. Da quel giorno, dopo aver reso tanti servigi alla patria, la sua fortuna cadde per sempre, e la sua vita militare può dirsi finita. Il Machiavelli fu dei pochi che gli restarono sempre fedeli, e nel Decennale Secondo ne esaltò la virtù, biasimando l'ingratitudine dei Fiorentini, che lasciarono morire il loro generoso concittadino, cieco, povero e vecchio, senza aiutarlo, e lo fece con un linguaggio che onora del pari l'uno e l'altro. Iacopo Nardi lo pose accanto a Francesco Ferrucci, nè meno largo di lodi gli fu il Pitti; e tutto ciò aumenta non poco la vergogna di coloro che così vilmente lo abbandonarono finchè visse.

Il deplorabile resultato che ebbe l'assalto di Pisa, fece nel 1506 rivolgere l'animo del Machiavelli, con più ardore che mai, ad un suo antico disegno, l'istituzione cioè d'una milizia propria della Repubblica fiorentina. A questo pensiero egli rivolse ora per molti anni tutte le sue forze. Ma prima di cominciare a parlarne, noi dobbiamo accennare alla legazione presso Giulio II, che fu un episodio importante della sua vita, in questo medesimo anno. Il nuovo Papa non trascurò i parenti, ma provvide subito ai casi loro, per darsi poi tutto all'impresa di riconquistare alla Chiesa le provincie che le appartenevano. Ora che gli Spagnuoli dominavano nel Napoletano, era più che mai necessario distendersi verso il settentrione, per non restare in balìa dei vicini. Cacciare i Veneziani dalla Romagna, distruggere i piccoli tiranni ritornati ivi potenti per la caduta dei Borgia, e tutto ciò a benefizio della Chiesa, non dei nipoti, ecco lo scopo che si propose, ed a cui questo vecchio di 63 anni dedicò il resto della sua vita, con una volontà di ferro, con un ardore giovanile, con un coraggio da soldato e non da sacerdote. Già nel trattato firmato a Blois, tra la Francia e la Spagna, il 22 settembre del 1504, s'era per opera sua convenuto, che Luigi XII, l'Imperatore e l'arciduca Filippo assalirebbero i Veneziani. Ciò non ebbe effetto; ma la pace definitivamente conclusa nella medesima città, il 26 ottobre del 1505, tra i Francesi e gli Spagnuoli, che dovettero sottomettersi a molti sacrifizî per restare padroni del Reame, lasciava l'Italia tranquilla; ed il Papa si decise allora a cominciare da sè quello che gli altri non volevano fare per lui. E prima di tutto, per esser sicuro della quiete in Roma, reintegrò molti dei nobili negli averi tolti loro da Alessandro VI, che nelle sue Bolle egli chiamava fraudolento, ingannatore ed usurpatore. Strinse ancora parentado cogli Orsini e coi Colonna, dando una sua figlia in moglie a Giovan Giordano Orsini, ed una nipote al giovane Marcantonio Colonna. Dopo di ciò, il 26 agosto, con ventiquattro cardinali, alla testa di 400 uomini d'arme, e della sua poca guardia di Svizzeri, partì per andare alla conquista di Perugia e di Bologna, due città fortissime e ben difese da armati. Aspettava da Napoli 100 Stradiotti; altre genti dai Gonzaga, dagli Este, dai Montefeltro, dalla Francia e dai Fiorentini, che tutti erano amici. Questi ultimi, ai quali aveva chiesto il loro capitano Marcantonio Colonna con la sua compagnia, spedivano il 25 agosto Niccolò Machiavelli, per dirgli che erano pronti a favorire la sua «santa opera;» ma non potevano in sul momento mandare il Colonna, per non lasciare senza comando il campo di Pisa; promettevano però dargli tutto quel che voleva, quando la sua impresa fosse «in sul fatto.»

Il Machiavelli andò subito, ed il 28 agosto scriveva da Civita Castellana, che a Nepi aveva trovato il Papa già pronto a partire, pieno di buona speranza. Era contento delle promesse dei Fiorentini, aspettava 400 o 500 lance dai Francesi, oltre i 100 Stradiotti da Napoli, «e de' fanti aveva piena la scarsella.» Cavalcava in persona, alla testa delle sue genti comandate dal duca d'Urbino. L'ambasciatore veneto gli prometteva aiuti dai Veneziani, se lasciava loro tenere Faenza e Rimini; ma egli se ne faceva beffe, e andava innanzi sicuro. Il 5 settembre già il Baglioni, spaventato dal fatto insolito di vedere il capo stesso della Chiesa venirgli contro in persona, s'era presentato ad Orvieto, per trattare della resa. Ed il 9 il Machiavelli scriveva da Castel della Pieve, che l'accordo era concluso: già erano cedute le porte e le fortezze della città. Quel signore servirebbe nella impresa come capitano del Papa, il quale dichiarava perdonargli il passato; ma se peccasse poi anco venialmente, lo avrebbe impiccato. Giulio II aveva deliberato di porre 500 fanti nella piazza di Perugia, e 50 a ciascuna delle porte, per poi entrare in città; ma tale e tanta era la sua furia, che il 13 settembre entrava coi cardinali, senza lasciare al duca d'Urbino il tempo necessario per eseguire gli ordini ricevuti. Questi aveva condotto le sue genti presso alle porte, e poco discosto si trovavano quelle del Baglioni, in modo che il Papa e i cardinali erano a disposizione di costui. «Se non farà male,» scriveva il Machiavelli, «a chi è venuto a tòrgli lo Stato, sarà per sua buona natura e umanità. Che termine si abbi ad avere questa cosa io non lo so; doverassi vedere fra 6 o 8 dì che 'l Papa sarà qui.» Giovan Paolo diceva di avere preferito allora salvare lo Stato con la umiltà, piuttosto che con la forza, affidandosi perciò al duca d'Urbino. Ma il Papa, senza curarsi d'altro, occupata che ebbe la città, vi fece entrare i fuorusciti vecchi, non però i nuovi, giudicandoli troppo pericolosi all'ormai spodestato signore: intanto arrivarono da Napoli i cento Stradiotti che aspettava.

È noto che, nei Discorsi sulla Prima Deca di Tito Livio, il Machiavelli biasimò la condotta del Baglioni, accusandolo di viltà, per non avere osato impadronirsi della persona del Papa e dei cardinali, levandoli addirittura dal mondo, e dimostrando il primo ai prelati «quanto sia da stimare poco chi vive e regna come loro.» Ma noi non dobbiamo qui fermarci, ad esaminare ciò che egli disse assai più tardi in opere di un'indole affatto teoretica e scientifica. Questa Legazione ci obbliga invece a fare un'altra osservazione. Colui il quale s'era potuto esaltare accanto al Valentino, ammirandone l'astuzia e le arti assai poco oneste, rimane ora quasi indifferente dinanzi a Giulio II, che, nonostante molti difetti e molte colpe, aveva pure alcune parti di vera grandezza. È certo che non solamente egli restò maravigliato assai, vedendo che il Baglioni non osava resistere, profittando della occasione propizia; ma la sua indifferenza verso il Papa fu tale, che questa Legazione riesce una delle meno importanti, quantunque ci sarebbe stato da aspettarsi appunto il contrario. Adempì strettamente il dovere d'ufficio, senza trovare materia particolare di studio, senza abbandonarsi a nessuna considerazione generale o estranea allo scopo pratico del momento.

Il suo pensiero era in verità rivolto altrove, alla istituzione cioè della milizia fiorentina da lui già iniziata; e però egli ardeva del desiderio di tornare a casa per condurla a termine: ne chiedeva infatti e riceveva continue notizie dal Buonaccorsi. Inoltre il Machiavelli aveva un disprezzo, quasi un odio singolare contro i preti, e più specialmente contro i Papi, che secondo lui erano stati sempre la rovina d'Italia. Era poi persuaso che l'uomo politico poteva apprendere ben poco dallo studio fatto sui principati ecclesiastici, perchè la loro forza, egli diceva, viene tutta dalla religione, ed essi sono i soli che si mantengano sempre, comunque siano governati. Se l'autorità della religione e la potenza della Chiesa erano ancora tali che un uomo perfido, accorto, audace come il Baglioni, si sentiva spaventato dalla sola presenza del Papa, il Machiavelli non credeva che da questo fatto potesse molto apprendere colui che cercava indagare l'arte dell'uomo di Stato, e voleva nel fenomeno politico ritrovare le cause naturali, le passioni umane che lo producono. Ciò che era o pretendeva essere divino usciva dalla sfera de' suoi studî prediletti, e però non se ne occupava. Il fato, i capricci stessi della fortuna potevano secondo lui essere soggetto di studio, non la volontà di Dio, che, comunque si consideri, trascende sempre il nostro intelletto. Quanto poi al generoso ardimento di Giulio II, che a 63 anni, nel fitto della state, s'avanzava senza curarsi se cadeva in balìa del nemico, questo non gli sembrava che fosse prova di vero accorgimento politico. La prudenza e l'astuzia infernale del Valentino potevano essere studiate come modelli dell'arte; ma la cieca audacia del Papa, se poteva essere una sua virtù personale, non dimostrava le qualità vere di un uomo di Stato, e quindi egli se ne occupava assai poco. Come aveva separato il fenomeno politico dal morale, così separava anche l'arte politica dal carattere individuale, privato di colui che la esercitava, cercando in esso solamente le qualità utili o necessarie a bene adoperarla.

E non si fermò neppure a descrivere come venisse allora ordinato il nuovo governo in Perugia. Il 25 settembre scriveva da Urbino, che il Papa era più caldo che mai nel voler compiere la sua impresa, la quale era difficile prevedere dove e come andasse a finire, potendo egli, se mancavano gli aiuti francesi, colla sua furia precipitare. I Veneziani lo aspettavano a qualche stretta, per farlo, con l'aiuto del Re, venire alla voglia loro; altri affermavano invece che il Papa avrebbe saputo condurre il Re, «tali sproni gli metterà ai fianchi...; ma che sproni si abbino ad essere questi, io non li so.» Certo il 3 di ottobre Luigi XII s'era già chiarito pel Papa contro Venezia e Bologna, e sei oratori di questa città erano in Cesena per trattare della resa. Quando però essi gli ricordarono i capitoli firmati già da più Papi, Giulio II rispose che non se ne curava punto, e non voleva sapere neppur di quelli che avesse egli stesso firmati. S'era mosso per liberare quel popolo dai tiranni, e sottomettere alla Chiesa tutto ciò che le spettava; non facendolo, gli sarebbe sembrato di non poter trovare scusa appresso Dio.

Sicuro ormai degli aiuti francesi, fatta in Cesena una mostra delle sue genti, 600 uomini d'arme, 1600 fanti e 300 Svizzeri, chiese ai Fiorentini che mandassero senz'altro indugio il Colonna co' suoi 100 uomini d'arme, essendo egli vicino a partire per Bologna. Giovanni Bentivoglio già cominciava a parlare di resa; ma quando propose che il Papa entrasse in città colla sola sua guardia svizzera, questi, in risposta, pubblicò una Bolla contro di lui e de' suoi seguaci, dichiarandoli ribelli di Santa Chiesa, dando le loro robe in preda a chiunque le pigliasse, concedendo indulgenza a chiunque operasse contro di loro o anche li ammazzasse, e continuò il suo cammino. Non volendo ora toccar le terre usurpate dai Veneziani, andò da Forlì ad Imola, passando pel territorio dei Fiorentini, di che dette loro avviso, quando già era per passare il confine. Essi fecero nondimeno tutto quello che potevano per dimostrargli amicizia ed ossequio. Marcantonio Colonna ebbe da loro ordine di partire in ogni modo il 17 per raggiungerlo; Niccolò Machiavelli s'avanzò, perchè in un viaggio così rapido ed improvviso non mancassero al Papa le cose più necessarie. I Dieci scrivevano poi in fretta a Piero Guicciardini, commissario in Mugello, che Sua Santità s'avanzava: «Gli spedisse incontro quattro o sei some del vino di Puliciano, e del migliore che vi si trovava, qualche poco di trebbiano, qualche soma di caci raviggiuoli buoni, e una soma almeno di belle pere camille.» Il Papa passò rapidamente per Marradi e Palazzuolo, dove tutto fu pronto; il 21 era ad Imola e vi pose il suo quartier generale. Di là il Machiavelli scriveva lo stesso giorno, che Sua Santità voleva dal Bentivoglio resa incondizionata, e tutto faceva prevedere che l'avrebbe. Se non che, divenendo ora lo stato delle cose assai più grave, e dovendosi trattare delle condizioni generali d'Italia, era necessario che fosse mandato al campo un ambasciatore. Il Papa lo aveva chiesto, ed i Fiorentini gl'inviarono Francesco Pepi, che arrivò il 26 ad Imola, donde partì il Machiavelli per tornar subito a Firenze.

Il Bentivoglio avrebbe potuto respingere l'assalto, quando non fosse stato in odio al suo popolo, che già s'era sollevato all'arrivo delle Bolle papali, e non fosse stato abbandonato dalla Francia, che mandò in aiuto di Giulio II 8000 uomini comandati da Carlo d'Amboise, il quale s'impadronì subito di Castelfranco. I Bolognesi, temendo il saccheggio, obbligarono il loro Signore ad andarsene il giorno 2 di novembre, e poi inviarono messi ad Imola, per sottomettersi addirittura al Papa. Quando però i Francesi volevano entrare, il popolo si levò a tumulto, andò contro il campo nemico, mostrandosi parato alla difesa; e così obbligò il Papa a licenziare l'Amboise, mediante buona somma di danaro, oltre la promessa del cappello cardinalizio al fratello di lui. Giulio II potè allora, il dì 11 novembre, entrare in Bologna trionfante come un Cesare, in mezzo a cardinali, vescovi, prelati e signori delle vicine città. Egli mutò subito il governo, istituendo un Senato di quaranta cittadini, il quale durò poi lunghissimo tempo; rispettò gli Statuti municipali; fece costruire una fortezza, e finalmente il 22 di febbraio 1507 se ne partì contentissimo d'essere così riuscito in tutto quello che aveva voluto. Il 27 marzo arrivava pel Tevere a Ponte Molle, e faceva poi la sua entrata solenne nella Città eterna. Questa impresa lo aveva già innalzato, con maravigliosa rapidità, ad una grande altezza dinanzi agli occhi de' suoi contemporanei.

Il Machiavelli intanto, giunto a Firenze, s'era già dato al suo lavoro prediletto per la milizia. Da un gran pezzo egli s'era persuaso, che la rovina degli Stati italiani veniva dal non avere essi armi proprie, dal dovere perciò sempre ricorrere a soldati mercenarî. E si confermò in questa sua idea ogni volta che, costretto ad andare in campo, potè coi proprî occhi osservare il disordine, l'insolenza e la mala fede di quei venturieri, nella cui balìa i magistrati si trovavano costretti a rimettere la salute della patria. Aveva visto la forza acquistata dal Valentino, quando «comandò un uomo per casa nelle sue terre,» formando così un grosso nucleo di soldati proprî. Tutti gli Stati d'Europa che si facevano rispettare, come la Spagna, la Germania, la Francia, avevano proprî eserciti, che fedelmente li servivano; la Svizzera stessa, così piccolo paese, ma con libere istituzioni, era riuscita ad aver la prima fanteria del mondo; perchè non potevano gl'Italiani, i Fiorentini fare lo stesso? Non lo avevano fatto i Comuni del Medio Evo; non se ne vedeva ora un debole esempio nella pertinace difesa dei Pisani, dalla necessità educati alle armi; non lo avevano sopra tutto fatto i Romani, maestri al mondo nelle arti della pace e della guerra? Perchè non si potevano i loro ordini e quelli degli Svizzeri imitare in Firenze; ed imitandoli, che dubbio poteva esserci, che identici ne sarebbero stati gli effetti? Così pensava il Machiavelli, e l'animo suo era a tali idee singolarmente esaltato. Dare a Firenze, e più tardi forse all'Italia, armi proprie, e con esse quella forza che loro mancava, quella dignità politica che gli Stati deboli non hanno mai, fu d'ora in poi il sogno della sua vita. A questo si dedicò con un ardore così disinteressato, con un entusiasmo così giovanile, che il suo carattere desta adesso in noi una simpatia, un'ammirazione che ancora non avevamo potuto provare per lui. Il cinico sorriso del freddo diplomatico scomparisce dalle sue labbra; la sua fisonomia si colorisce a un tratto, dinanzi ai nostri occhi, di una seria e severa solennità, che ci rivela la fiamma d'un sincero patriottismo, la quale arde nel suo cuore e nobilita la sua esistenza. Come padre, come marito e come figlio, se poco abbiamo trovato da biasimare in lui, poco abbiamo anche trovato da ammirare. I suoi costumi non erano liberi dalle colpe del secolo. Come cittadino, finora egli non ha fatto che servire fedelmente la Repubblica, con quell'ingegno che la natura gli aveva così prodigamente largito. Ma ciò non bastava a sollevare in alto il suo carattere. Lo abbiam visto, è vero, nelle molte legazioni che gli furono affidate, non pensar mai a valersi della opportunità, per farsi strada nel mondo; abbandonarsi invece a cercare i principî d'una nuova scienza, con un ardore che gli faceva dimenticare i suoi interessi personali, e qualche volta trascurare anche i più piccoli affari che di giorno in giorno gli venivano raccomandati. Ma questo era un disinteresse scientifico, di cui infiniti esempî troviamo in mezzo alla corruzione del Rinascimento italiano. Quando però il Machiavelli cerca di esaltare l'animo del Gonfaloniere, per indurlo a fondare la nuova milizia, e scrive al cardinale Soderini, perchè lo aiuti a persuadere di ciò il fratello, e corre tutto il territorio della Repubblica, portando armi, arrolando fanti, scrivendo migliaia di lettere, e si raccomanda che non lo levino di mezzo ai campi ed agli armati, noi non possiamo in tutto ciò non vedere la prova d'una sincera, d'una profonda abnegazione in favore del pubblico bene. Come segretario e come uomo di lettere, che non seguì mai il mestiere delle armi, non poteva da questo suo lavoro aspettarsi alcun grande vantaggio personale, avanzare di grado nel proprio ufficio. Suo unico movente fu quindi allora quel patriottismo, di cui gli esempî cominciavano già a divenir troppo rari in Italia; ed esso circonda perciò la sua immagine di un'aureola, che invano ricerchiamo intorno a quella degli altri più illustri letterati del secolo.

Da quanto abbiam detto non segue però che sia opportuno esaltarsi qui a segno da dimenticare gli errori o i difetti del Machiavelli, e neppure da farne, come alcuni han preteso, un genio militare. La grandezza e la originalità del suo pensiero furono in ciò quali possiamo aspettarci da un patriotta e da un uomo politico, che aveva amministrato le cose della guerra, e che, quando essa era molto più semplice che non è oggi, s'era trovato spesso in campo, ne aveva a lungo ragionato col Giacomini e con altri capitani del tempo; ma non aveva in nessun caso comandato mai una compagnia. Il suo medesimo libro dell'Arte della guerra, in cui sono tante osservazioni giuste, e tante idee originali, più di una volta ci obbliga a ricordarci, che egli non era un capitano, nè un soldato. Basterebbe la poca o nessuna fede che ebbe nei grandi effetti delle armi da fuoco, che pur distrussero l'antica e crearono la nuova tattica. Matteo Bandello, in uno dei proemî che pone alle sue Novelle, racconta d'essersi un giorno trovato sotto le mura di Milano con Giovanni dei Medici, il celebre capitano, più noto col nome di Giovanni delle Bande Nere, e col Machiavelli. Questi, volendo dar loro un'idea dell'ordinanza da lui tante volte così bene descritta, li tenne al sole per più di due ore, senza poter mai venire a capo di mettere in ordine 3000 uomini, tanto che, essendo già passata l'ora del desinare, Giovanni, perduta la pazienza, lo mise da parte, ed in un batter d'occhio, coll'aiuto dei tamburini, li ordinò mirabilmente in più modi. Dopo di che il Machiavelli, a sdebitarsi del tempo che aveva fatto loro perdere, raccontò a tavola una novella, che si legge appunto fra quelle del Bandello. L'aneddoto non si trova, è vero, ricordato nelle storie; ma pur non ha nulla d'improbabile, ed in ogni caso può valere a riconfermare, che ai suoi tempi l'autore dell'Arte della guerra, da tutti ammirato come scrittore di cose militari, non era del pari riconosciuto veramente pratico delle armi.

L'idea d'istituire una milizia propria c'era nella Repubblica da più tempo; mancava però la fede nella riuscita, e questa fede ebbe il Machiavelli. La pessima prova che facevano quasi sempre i comandati; la viltà delle fanterie fiorentine che, nell'ultimo assalto alle mura di Pisa, s'erano ricusate di presentarsi dinanzi alla breccia aperta, avevano persuaso i più che ormai si dovesse contar solo sui soldati di mestiere; ed era questa un'opinione che il Machiavelli combattè sempre, sforzandosi di mostrare che tutto il male veniva solo da mancanza di buoni ordini e di disciplina. Cercò innanzi tutto persuaderne il Gonfaloniere, «e veduto che gli era capace, cominciò a distinguergli particolarmente i modi.» Ma quando l'ebbe persuaso, si presentarono subito le mille difficoltà dell'attuazione, e prima la diffidenza di coloro i quali temevano che il Soderini potesse o volesse in questo modo farsi tiranno. Si ricorse quindi al prudente consiglio di cominciare qualche parziale esperimento della nuova ordinanza, sperando che i cittadini, vedendola alla prova, si convincerebbero della sua utilità, e voterebbero i provvedimenti legislativi, necessarî a renderla stabile e più generale, come di fatto avvenne più tardi.

Noi abbiamo uno scritto del Machiavelli, che ci espone per filo e per segno le norme seguite in questo primo tentativo, norme che furono poi approvate per legge. E da esse impariamo sempre più a conoscere quanto diverse dalle nostre fossero le idee di quel tempo, e contro quali enormi e spesso insuperabili difficoltà si dovesse combattere. Prima di tutto egli afferma, come cosa la quale non meriti d'essere discussa, che, volendo la Repubblica avere un esercito proprio (salvo il comandante in capo, che doveva essere straniero, come poteva essere ancora qualche altro ufficiale), era necessario che fosse comandato solo dai Fiorentini, i quali soli dovevano formarne la cavalleria. Non potendosi subito metter mano a questa, che era la parte più difficile della nuova ordinanza, bisognava cominciare intanto col far le leve di fanti fuori della Città. Ma il territorio si divideva in contado propriamente detto, ed in distretti, cioè quelle parti che contenevano grosse città, cui avevano obbedito prima che queste fossero, per la forza delle armi o per libera dedizione, divenute suddite della Repubblica. Sarebbe stato sommamente pericoloso dare le armi ai distretti, appunto perchè in essi erano le città; e «li umori di Toscana sono tali, che come uno conoscessi potere vivere sopra di sè, non vorrebbe più padrone.» Bisognava quindi contentarsi per ora di armare solo il contado. Nè ciò bastava. La generale diffidenza era tale e tanta, che ancora i conestabili eletti a comandare i drappelli formati sotto le bandiere, non dovevano mai, secondo il Machiavelli, essere dello stesso luogo dei fanti, e ogni anno bisognava mutarli, perchè si temeva che altrimenti, affezionandosi troppo ai loro uomini, avrebbero preso più autorità che non conveniva, e sarebbero divenuti pericolosi.

Or chi non s'avvede che dovevano mancare i primi e i più essenziali elementi della forza ad uno Stato, nel quale tutte le città tendevano a separarsi da quella che le comandava, e che, serbando per sè sola la libertà politica, era di necessità condannata ad una grandissima diffidenza verso quei medesimi sudditi, cui voleva poi affidare la propria difesa? Ma il Segretario fiorentino alcune di queste difficoltà non le valutava neppure, perchè secondo le idee del tempo non v'era in esse nulla di anormale o d'insolito; altre sperava che si sarebbero a poco a poco superate. Così, per esempio, egli scriveva che, dopo avere armato il contado, si poteva forse, con qualche cautela, armare una parte almeno del distretto. Nondimeno la sua fiducia in questi nuovi ordini militari era illimitata, ed egli concludeva dicendo ai suoi cittadini: «Vi avvedrete ancora a' vostri dì, che differenza è avere de' vostri cittadini soldati per elezione e non per corruzione, come avete al presente, perchè se alcuno non ha voluto ubbidire al padre, allevatosi su per li bordelli, diverrà soldato; ma uscendo dalle scuole oneste e dalle buone educazioni, potranno onorare sè e la patria loro.»

Animato da queste idee, egli non solo cercava infonderle direttamente nell'animo del Gonfaloniere; ma si valeva anche dell'opera di coloro che su di esso avevano autorità. Nel principio dell'anno 1506 scriveva al cardinal Soderini in Roma, perchè persuadesse il fratello che solo una severa giustizia nella Città e nel contado poteva essere la salda e sicura base della nuova Ordinanza. Ed il cardinale rispondevagli il 4 marzo: «Essere più che mai convinto che i fatti confermavano la speranza nostra, pro salute et dignitate patriae; non potersi dubitare che le altre nazioni siano divenute superiori a noi solamente perchè ritengono la disciplina, la quale già da gran tempo è sbandita d'Italia; nè debbe esser poca la contentezza vostra, che per vostra mano sia dato principio a sì degna cosa.» E, secondando la domanda del Machiavelli, il giorno stesso scriveva al Gonfaloniere, rallegrandosi per la fede universalmente riposta nella nuova milizia, da cui ognuno s'aspettava il rinnovamento delle antiche glorie, e ripetevagli appunto che tutto dipendeva dalla buona disciplina, quae plurimum consistit in obedientia, maximeque fundatur in iustitia. Concludeva poi, proponendo che, per mantenere questa giustizia, si nominasse «qualche ministro simile a Manlio Torquato, rigido e severo, el quale ne le cose liquide proceda alla esecuzione de fatto, nelle altre lassi la cura alli officiali.»

La nuova milizia, essendo appena in formazione, non richiedeva ancora un comando generale, e potevano gl'iscritti istruirsi sotto i loro conestabili, di cui si fece qualcuno venire anche di fuori; ma v'era pur bisogno di uno che comandasse con maggiore autorità, non foss'altro per mantener ferma la disciplina generale, ed, occorrendo, punir severamente i colpevoli. A questo fine si deliberò di eleggere, secondo il consiglio dato o meglio fatto dare dal cardinale al Gonfaloniere, un uomo pratico delle armi, e di reputazione. Ora chi crederebbe mai che appunto il Gonfaloniere ed il Machiavelli, animati allora da un così puro e nobile patriottismo, da tanta ammirazione per Manlio Torquato, gli Scipioni ed i Camilli dell'antica Roma, pensassero d'eleggere ad un tale ufficio lo spagnuolo don Micheletto, l'assassino, lo strangolatore, il confidente del Valentino, colui che poco prima la Repubblica aveva fatto prigioniero e mandato a Giulio II, come un mostro d'iniquità, nemico di Dio e degli uomini? Eppure così fu. Il fatto destò in sul principio qualche contrarietà nei magistrati e nei cittadini, non per alcuna repugnanza morale, ma pel titolo di bargello che si voleva dare ad un tale uomo, e per tema che il Soderini volesse farne un pericoloso strumento di tirannide. Il Machiavelli, che ebbe incarico di tentare destramente l'animo di Francesco Gualterotti, G. B. Ridolfi e Piero Guicciardini, che erano dei Dieci, per sentire se volevano consentire a nominare don Michele, con 100 provvigionati e 50 balestrieri a cavallo, li trovò infatti assai poco favorevoli; ma quando, mutato il titolo di bargello in quello di capitano, la proposta venne portata negli Ottanta, essa fu vinta dopo essere stata messa tre volte a partito.

In Romagna ed in Roma il Machiavelli aveva avuto occasione di conoscere molto bene chi era don Michele. Lo aveva visto sotto il Valentino comandare uomini raccolti dal contado, i quali non essendo soldati di ventura nè di mestiere, avevano pur fatto assai buona prova nelle fazioni; lo credeva perciò adatto a mantenere l'ordine e la disciplina nella nuova milizia fiorentina. Non gli erano ignoti i delitti e le iniquità da lui commessi, come non erano ignoti a nessuno; ma la reputazione di sanguinario e di crudele gli pareva che giovasse anzi che nuocere nel caso presente. Voleva che don Michele si facesse rispettare e temere dai soldati; che, occorrendo, li conducesse dinanzi al nemico, e col suo esempio, unito al nome della sua crudele severità, li rendesse arditi e temuti nelle fazioni. Infatti, quando nel giugno di quell'anno alcuni de' nuovi fanti, inviati al campo di Pisa, non pareva che facessero buona prova, egli scriveva al commissario generale Giovanni Ridolfi in Cascina, che «gli si mandava don Michele con la sua compagnia di 100 uomini, per servirsene contro i Pisani, i quali fanno poco conto di questi nostri fanti, di che vorremmo farli ridire.» «Ed essendo dall'altro canto uso, mentre fu con il Duca, a comandare e maneggiare simili uomini, pensiamo, quando si potessi, che sarebbe da alloggiarlo costì con loro, acciò prima lui li praticassi, e dipoi, bisognando correre in un subito in qualche luogo, fossi pur presto con li suoi fanti insieme con loro, i quali, per averli veduti e maneggiati in su le mostre, possono etiam meglio convenire costà nelle fazioni.» Questo era dunque il pensiero del Machiavelli; don Michele doveva infondere il nuovo spirito militare nel giovane esercito fiorentino! - Ma perchè, si può assai ragionevolmente qui domandare, non chiamarono invece il Giacomini sempre fedele alla patria e valoroso soldato? Come potevano mai credere un assassino capace d'infondere in altri la vera disciplina, cioè l'onor militare? - Quando anche il Giacomini non fosse allora caduto in disgrazia, assai difficilmente avrebbero i Fiorentini dato mai ad uno solo dei loro cittadini grande autorità sul nuovo esercito, e ciò sempre per la paura che non si facesse poi tiranno. Come in altri tempi il Podestà, così ora volevano che il capitano della guardia nel contado fosse uno straniero.

Questa milizia doveva dunque, secondo il Machiavelli, essere animata da un vero patriottismo, e perciò composta d'uomini onesti e bene educati; ma a chi era chiamato ad istruirla e comandarla bastava aver solo l'arte a ciò necessaria, la quale non aveva nulla che fare col carattere morale di lui. Spesso anzi la bontà dell'animo poteva riuscire d'ostacolo a quegli atti severi o crudeli, che il capitano come l'uomo di Stato sono pure costretti a compiere. Quella unità tanto desiderabile fra chi guida e chi è guidato, quasi siano un corpo solo con un'anima sola, la quale personifichi in colui che comanda la coscienza di tutti, e faccia della sua condotta come la manifestazione più intelligente ed elevata del pensiero comune, e della sua severità stessa un atto di giustizia, il Machiavelli non la vide negli eserciti, come non la vide nei governi. Anche il popolo della sua Repubblica deve essere buono; ma esso poi perde quasi la propria coscienza, per divenire nelle mani dell'uomo di Stato come una creta molle, cui questi può dare la forma che più gli piace, se sa quello che vuole, e conosce il modo di recarlo in atto, senza arrestarsi dinanzi ad alcuno scrupolo. Calunnia atrocemente il Machiavelli o non lo conosce punto chi dice che egli non ama, non ammira la virtù. Non bisognerebbe esser nato d'uomo, ripete egli più volte, per non amarla, non ammirarla; e le parole con cui la esalta hanno spesso tanta eloquenza, che nessuna retorica potrebbe mai suggerirle, se non venissero veramente da una profonda convinzione. Ma la morale era per lui, come per quel secolo in generale, un affare del tutto individuale e personale; l'arte di governare, di comandare, di dominare non era in opposizione, ma indipendente affatto da essa. L'idea d'una coscienza e moralità pubblica, intelligibile solo quando s'abbia già il concetto della unità e personalità sociale, che ci fanno comprendere chiaramente come non solo per gl'individui, ma anche per le nazioni, il vero governo sia il governo di sè stessi, e come esso porti inevitabilmente seco una propria responsabilità, questa idea mancava affatto al secolo XV, e non si presentò mai chiara neppure alla mente del Machiavelli. Pel Medio Evo gli eventi della storia, le trasformazioni della società erano effetto della volontà divina, e l'uomo non ci poteva nulla; pel Machiavelli invece il fatto sociale è divenuto un fatto umano, razionale, che egli studia per conoscerne le leggi; e per lui le vicende della storia son quasi sempre opera esclusiva dei principi o dei capitani. La forza perciò che egli attribuisce all'arte dell'uomo di Stato, alla volontà e prudenza di lui, alle istituzioni ed alle leggi che può escogitare, se ha l'ingegno e l'energia necessarie, si direbbe quasi che non abbia limiti.

E così potè facilmente persuadersi, che la nuova Ordinanza militare, immaginata da lui secondo l'esempio degli Svizzeri e dei Romani, dovesse produrre infallibili resultati, purchè ne fossero fedelmente e severamente seguite, rispettate le norme. Quando egli ebbe di ciò persuaso il Gonfaloniere, si pose, fin dal dicembre del 1505, in moto per la Toscana, con regolare patente, e cominciò ad iscrivere fanti sotto le bandiere. Nel gennaio e febbraio la sua attività si moltiplica, trovandolo noi ogni giorno in un luogo diverso anche alla metà di marzo, quando tornò a Firenze, donde, scrivendo infinite lettere, continuò la medesima opera. Come fu prima possibile, cioè nel febbraio di quell'anno stesso, si fece una mostra di 400 uomini, i quali condotti in piazza della Signoria, vestiti con colori diversi e bene armati, piacquero moltissimo alla cittadinanza; e ripetendosi l'esperimento di tanto in tanto, la nuova milizia divenne sempre più popolare. Alcuni di questi fanti furono, come dicemmo, mandati anche al campo di Pisa, dove in verità non fecero prodezze, e don Michele ebbe perciò ordine di raggiungerli con la sua compagnia. Sebbene neanche con ciò s'ottenessero grandi risultati, pure nell'agosto si riuscì a qualche scaramuccia con successo non del tutto infelice.

In ogni modo, essendo l'Ordinanza ormai istituita di fatto, e già venuta in favore del popolo, era necessario sanzionarla definitivamente con una legge. Per questa ragione il Machiavelli scrisse la relazione, cui abbiamo più sopra accennato. In essa espose come s'era nel contado messo una bandiera in ogni podesterìa, nominando un conestabile per ogni tre, quattro o cinque bandiere. V'erano in tutto già 30 bandiere ed 11 conestabili, con più di 5000 uomini iscritti, che potevano ridursi a minor numero, rinviando a casa i meno abili: di 1200 s'era già fatta mostra in Firenze. Dopo di ciò egli veniva col suo scritto a provare la necessità d'istituire un nuovo magistrato, cui fosse affidato l'ordinamento regolare della milizia. Il 6 dicembre 1506 fu nel Consiglio Maggiore approvata, con 841 fave nere contro 317 bianche, la Provvisione che creava i Nove ufficiali dell'Ordinanza e milizia fiorentina, chiamati più comunemente i Nove della milizia; e questa Provvisione non fece altro che sanzionare tutte quante le proposte presentate dal Machiavelli. Eletti dal Consiglio Maggiore, i Nove duravano in ufficio otto mesi, e dovevano iscrivere i fanti, armarli, ordinarli, educarli alla disciplina, punirli, nominare i conestabili, ecc.; appena però che fosse dichiarata la guerra, l'Ordinanza doveva venire sotto la dipendenza dei Dieci. La stessa Provvisione istituiva il Capitano di guardia del contado e distretto di Firenze, cui si davano ora solo 30 balestrieri a cavallo e 50 provvigionati. Esso doveva stare sotto il comando dei Nove, ed essere eletto come gli altri condottieri, con questo però, che la elezione non poteva cadere sopra «alcuno della Città, contado o distretto di Firenze, nè di terra propinqua al dominio fiorentino, a quaranta miglia.» I Nove vennero eletti il 10 gennaio 1507, prestarono giuramento il 12, ed il 13 presero possesso dell'ufficio. La Provvisione dava loro facoltà d'avere uno o più cancellieri, e come era naturale, essi pigliarono subito a loro servizio il Machiavelli. Con deliberazioni dei 9 e dei 27 febbraio rinominarono poi don Michele capitano di guardia del contado e distretto, con i 30 balestrieri a cavallo e i 50 fanti concessi dalla legge.

Ed ora incomincia nella vita del Machiavelli un nuovo periodo, nel quale egli entra sempre più convinto d'essere chiamato a restituire non solo a Firenze, ma a tutta Italia l'antica gloria delle armi e l'antica virtù. Una tale speranza egli era stato il primo, ma non era adesso più solo ad averla. Il cardinale Soderini esprimeva la opinione di molti, quando gli scriveva da Bologna il 15 dicembre 1506: «Parci veramente che cotesta Ordinanza sit a Deo, perchè ogni dì cresce, non ostante la malignità;» e continuando aggiungeva, che la Repubblica da lungo tempo non aveva fatto cosa tanto onorevole come questa, che si doveva tutta a lui. E se ormai tale era l'opinione dei più autorevoli suoi concittadini, non deve farci maraviglia il vedere che l'uomo, cui tutti riconoscevano il merito della grande riforma, guardasse l'avvenire pieno di speranza. Questa speranza di certo non si poteva in tutto avverare, in parte anzi doveva esser solo una nobile e grande illusione; nondimeno l'opera del Machiavelli riuscì più tardi di non dimenticabile gloria alla Repubblica. Quando infatti nel 1527 Firenze si trovò circondata ed assediata da innumerevoli nemici, allora il suo amore di libertà venne riacceso dai seguaci del Savonarola, e la Repubblica rinacque e fu eroicamente difesa da quella milizia, che era stata consigliata ed istituita da Niccolò Machiavelli.

Share on Twitter Share on Facebook