CAPITOLO XI.

Nuovo guasto alle campagne pisane. - Trattative con la Francia e con la Spagna. - Pisa è stretta da ogni lato. - Il Machiavelli va a Piombino per trattare della resa. - Pisa s'arrende ed è occupata dai Fiorentini.

Quando scoppiò la rivoluzione di Genova, Luigi XII aveva promesso all'ambasciatore fiorentino, Francesco Pandolfini, che, dovendo venire in Italia con un esercito e domare quella città, si sarebbe fermato anche in Toscana, per sottomettere finalmente Pisa ai Fiorentini. E questo lo disse e fece dire con tale asseveranza, che si trattò anche della somma da doverglisi dare a cose finite. Ma quando ebbe sottomesso Genova, se ne tornò invece in Francia, non mantenendo, secondo il solito, nessuna delle sue promesse ai Fiorentini. E però appena che essi furono liberi dalla paura di Massimiliano, il quale s'era ritirato dopo aver fatto tregua coi Veneziani, si credettero in grado e in diritto di pensare ai casi loro, facendo assegnamento solo sulle proprie forze. Deliberarono quindi di cominciar subito col dare il guasto alle campagne pisane, il che avevano tralasciato nello scorso anno. Non mancarono neppure ora vive opposizioni dei nemici del Gonfaloniere, ai quali si univano altri, che incominciavano a trovar questa guerra assai crudele, e sentivano rimordersi la coscienza, vedendo i contadini di Pisa ridotti ad una estrema miseria, e specialmente le donne rifinite per modo che molte ne morivano di stento o di fame. Tuttavia il partito fu vinto, perchè s'era ormai deliberato di farla una volta finita, ed il momento pareva opportuno.

I Pisani rimasero assai avviliti dal guasto subìto nel giugno. Ed a stringerli ancora più, i Fiorentini assoldarono, con 600 fiorini il mese, il Bardella corsaro genovese, acciò con tre navi tenesse chiusa la foce dell'Arno, impedendo che di là arrivassero vettovaglie all'assediata città. Il Machiavelli, dopo essere stato nel marzo e nell'aprile mandato in giro pel territorio a raccogliere fanti, fu dall'agosto al novembre rimandato al campo. Colà egli pagava le fanterie; spingeva innanzi le operazioni di guerra; ordinava la continuazione del guasto; girava a raccogliere altri fanti; proponeva la elezione dei caporali di compagnia, dei quali in poco tempo ne troviamo, a sua proposta, nominati dai Nove quattrocento circa. Pareva che i Dieci avessero a lui affidato la direzione di tutta l'impresa. In fatti, il 18 agosto gli scrivevano: «Tu se' prudente, e per avere el secreto di tutte le cose, non è necessario discorrerti altrimenti el desiderio nostro.» Ed egli non solo fece nell'ottobre ripetere il guasto già dato nell'agosto alle campagne pisane; ma lo dette ancora dalla parte di Viareggio, nelle terre dei Lucchesi, così che li obbligò ad un accordo per tre anni, con promessa solenne di non dare più alcun aiuto d'uomini, denari o vettovaglie ai Pisani.

Ma quando la Francia, s'avvide, che in questo modo i Fiorentini conducevano a fine la guerra di Pisa senza il suo aiuto, e senza che essa ne cavasse vantaggio di sorta, incominciò subito a protestare. Protestò pel guasto dato, senza prima chiederne il permesso a Sua Maestà, per le trattative d'accordo con l'Imperatore suo inimico; fece poi sapere di voler subito mandare nel Pisano il generale G. G. Trivulzio con 300 lance, e questo perchè la resa non avesse effetto senza il suo aiuto, ed essa potesse così prenderne occasione a nuove e sempre maggiori pretese. Ai Fiorentini sarebbe stato facile dimostrare, che la Francia non aveva diritto alcuno di muovere lamento; ma con ciò non si sarebbero liberati dalle domande insistenti del Re, che voleva danari in ogni modo. Sapevano però che Giulio II era finalmente riuscito nel disegno da lungo tempo meditato della lega di Cambray, con la quale, nel dicembre del 1508, egli, l'Imperatore, la Spagna e la Francia si univano a sterminio di Venezia. E così l'attenzione generale era deviata dalla Toscana, che trovandosi fuori di quella grossa guerra, poteva sentirsi più libera, ed osare di più. Ma da un altro lato l'obbligo che la Francia aveva assunto di scendere con un grosso esercito nell'Italia superiore, la rendeva maggiormente avida di danaro, più vicina e pericolosa.

Gli ambasciatori Alessandro Nasi e Giovanni Ridolfi si trovavano quindi già a Blois, con istruzione di venire ad un accordo, e pagare il meno possibile alla Francia ed alla Spagna, che subito aveva messo innanzi uguali pretese. Questa mercanteggiava con Firenze, adducendo l'antica amicizia, che affermava d'aver sempre avuta pei Pisani, e quella mercanteggiava, per concedere alla sua antica alleata il diritto che incontrastabilmente aveva di provvedere colle proprie forze ai proprî interessi. Pure bisognava piegarsi. Le trattative andavano in lungo, perchè si disputava non solo sulla somma da dare, ma anche sui modi di pagamento; ed intanto occorreva far donativi al Rubertet ed agli altri ministri di Francia e di Spagna, i quali, dopo aver graziosamente accettato, chiedevano sempre di più, e non dimostravano perciò nessuna fretta di concludere gli accordi. Finalmente il Nasi ed il Ridolfi scrivevano, che il 13 marzo 1509 era stato firmato il trattato, con cui Firenze s'obbligava a pagare in diverse rate 50,000 ducati al Re di Francia, ed altrettanti a quello di Spagna, al cui ambasciatore s'era dovuta promettere una mancia di 1500 ducati, non essendosi voluto contentare di mille. E non bastava. S'era dovuto firmare un secondo trattato con la Francia solamente, cui si promettevano altri 50,000 ducati con l'obbligo del più stretto segreto, che altrimenti la Spagna si sarebbe subito ingelosita, e avrebbe preteso altrettanto. In sostanza la Città doveva pagare 150,000 ducati ai suoi amici, perchè le lasciassero quelli che sono i diritti naturali d'ogni Stato.

Intanto però essa spingeva innanzi la guerra, ed al Machiavelli che era sempre in campo, i Dieci scrivevano il 15 febbraio, che desse pure tutti gli ordini che occorrevano, «perchè noi abbiamo posto in sulle spalle tue tutta cotesta cura.» Era una responsabilità immensa per chi, come lui, non era uomo di guerra; ma egli faceva miracoli, provvedendo a tutto con un ardore febbrile, e le cose procedevano assai bene. I Genovesi avevano ordinato al corsaro Bardella di ritirarsi, e subito i loro mercanti erano arrivati con navi cariche di grano, a portare per Arno soccorso ai Pisani. Il 18 febbraio furono però respinti, essendosi mandati in tempo alcuni uomini d'arme, 800 fanti dell'Ordinanza e qualche pezzo d'artiglieria a San Piero in Grado, per guardare la foce. Un altro uguale drappello di uomini fu mandato nella valle del Serchio, a guardare la foce del Fiume Morto, come chiamavasi un canale, pel quale le barche, passando nell'Osole o Oseri, soccorrevano Pisa. Ed arrivava poi il celebre architetto Antonio dan San Gallo, con maestri d'ascia e con sufficiente quantità di legname, per fare una palafitta la quale, traversando l'Arno, lo chiudesse del tutto ai nuovi soccorsi. Un simile lavoro ordinò subito il Machiavelli anche attraverso il Fiume Morto.

Per tutto ciò egli corrispondeva direttamente coi Dieci, lasciando un po' troppo da parte il commissario generale Niccolò Capponi, che se ne stava tranquillo, ma poco contento, a Cascina, tanto che il Soderini ne fece fare amichevole rimprovero al Machiavelli, affinchè cercasse di salvare almeno le apparenze. Ed egli scrisse subito al commissario, avvertendolo che trovavasi alle mulina di Quosi, «per vedere se nuovo barchereccio venissi per entrare, per impedirlo come si è fatto dell'altro.» Ma dopo ciò continuò come prima, mancandogli il tempo per pensare alle convenienze. Corse a Lucca per muovere lamento dei soccorsi che sempre partivano di là, e ne ebbe promessa di buona guardia. Il 7 marzo aveva finito la palafitta nel Fiume Morto, con tre ordini di pali fasciati di ferro, al di sotto dell'acqua, e trovavasi al campo di Quosi, dove faceva porre attraverso il fiume Oseri tre navicelli tolti ai Pisani, acciò i soldati fiorentini potessero passare. E lo stesso giorno scriveva ai Dieci, «che Iacopo Savelli era passato e ripassato due volte con otto cavalli; e quando dovessero passare le nostre genti e portassero seco 50 fascine, allora passerebbe anche l'esercito di Serse.» E dimostrandosi sempre più fiducioso, aggiungeva: Le compagnie dell'Ordinanza sono bellissime, e non danno una briga al mondo. Io credo ancora che i Lucchesi terranno questa volta la promessa di non mandare soccorso, e d'impedire che i privati li portino, o che i Pisani vengano a prenderli. Altrimenti, come io ho detto loro, sarebbe stato inutile fare il trattato coi Fiorentini, ai quali bastava in ogni caso una sola corazza all'una briga ed all'altra.» Cioè potevano con la stessa guardia impedire che i soccorsi fossero mandati da Lucca, o che i Pisani fossero venuti a prenderli.

Arrivate le cose a questo punto, essendo l'esercito diviso, e varie le operazioni da compiersi, pareva strano assai che tutto il peso della guerra dovesse continuare a ricadere sulle spalle del Machiavelli, il quale non era nè generale, nè commissario, ma solo un uomo di fiducia del Soderini. Il Consiglio degli Ottanta elesse perciò due nuovi commissari nelle persone di Antonio da Filicaia e Alamanno Salviati, essendosi, a quanto pare, ricusato il Giacomini, che era malato e disgustato. Essi s'adunarono il 10 marzo a Cascina col Machiavelli e col Capponi, per deliberare sui provvedimenti da prendere, acciò l'impresa fosse subito condotta a fine. Decisero di formare tre campi. Uno a San Piero in Grado, dove sarebbero restati il Machiavelli ed il Salviati, con Antonio Colonna, incaricati di guardare l'Arno ed il ponte, che era già quasi finito, attraverso il Fiume Morto, col bastione per difenderlo. Il secondo campo doveva formarsi a Sant'Iacopo, a fin d'impedire che da Lucca venissero aiuti per Val di Serchio a Pisa, ed ivi doveva stare il commissario Antonio da Filicaia. Rimaneva però sempre la via dei monti, per la quale i Pisani potevano da Lucca portare roba in sulle spalle, e quindi il terzo campo venne formato a Mezzana, chiudendo così tutte le altre strade ed ivi fu commissario il Capponi. In ciascuno di questi tre campi, coi quali era tolta a Pisa ogni speranza d'aiuto, dovevano stare mille uomini, due terzi dei quali dell'Ordinanza fiorentina.

Prima però che siffatte deliberazioni fossero tutte recate ad effetto, il Machiavelli riceveva, con lettera del 10 marzo, ordine di recarsi a Piombino, dove arrivava con salvocondotto un'ambasceria pisana assai numerosa, per proporre le condizioni della resa. Si temeva che volessero solamente pigliar tempo, e però i Dieci lo mandavano a scrutare le loro intenzioni, con incarico di chiedere resa incondizionata, e ritirarsi subito, quando fossero venuti senza facoltà di concluderla. La città di Pisa era veramente ridotta agli estremi. I Fiorentini le avevano, con la formazione dei tre campi, chiuso la via ad ogni speranza di soccorso esterno, così dalla parte di Lucca, come da quella del mare; e per le somme pagate alla Spagna ed alla Francia, avevano ora piena libertà di operare. La grossa guerra che si apparecchiava, in conseguenza della lega di Cambray, teneva l'attenzione e le armi dei grandi potentati, non escluso il Papa, occupate nell'Italia superiore: non restava quindi, neppure da questo lato, speranza d'aiuto ai Pisani. Essi avevano fatto sinora una lunga, eroica, fortunata difesa, e l'avrebbero di certo continuata, se a tutti i pericoli esterni non si fossero uniti ora gravi e non più evitabili disordini interni.

L'energia e l'ostinazione fortunata della loro difesa erano derivate principalmente dall'avere i Fiorentini finora combattuto quasi sempre con soldati mercenarî o ausiliarî, mentre essi avevano non solo armato tutti i proprî cittadini, ma anche gli abitanti stessi del contado, chiamandoli anche a parte del governo. Questa unione, della città e della campagna, nuova affatto nelle nostre repubbliche, aveva loro dato una forza grandissima, e fatto sorgere esempî di virtù, di abnegazione, d'eroismo, insoliti nella storia italiana di quel tempo, tali che gli avversarî stessi ne rimanevano ammirati, ed il Machiavelli ne traeva argomento a sperare sempre più nell'ordinamento delle milizie nazionali. Ma dalla lunga guerra erano in Pisa risultate ancora altre conseguenze. I contadini, primi ad essere ogni giorno assaliti, costretti perciò a fare i più duri sacrifizî di sangue e d'averi, finirono col prendere necessariamente una parte sempre maggiore nel governo della città, divenuto in sostanza un governo militare di pubblica difesa, nel quale era naturale che fossero più potenti coloro che più erano esposti a combattere il nemico. Ciò non ostante, i cittadini, per la maggior pratica che avevano degli affari, e per la maggiore accortezza politica, riuscivano sempre a condurre le cose dove essi volevano. E così poco a poco nasceva un conflitto d'interessi, cui era difficile trovare rimedio.

Il contado era tutto guasto ed esausto, ed i Fiorentini, come già notammo, non dimostravano più nessun desiderio di vendetta; volevano resa incondizionata, ma promettevano di trattar tutti umanamente, come loro proprî e antichi sudditi. Queste condizioni convenivano agli abitanti del contado, i quali sapevano che, finita una volta la guerra, sarebbero stati trattati come sottoposti anche dai Pisani, secondo l'uso generale di tutte le repubbliche italiane; non convenivano però punto agli abitanti della città, i quali avrebbero, con la resa incondizionata, perduto quella indipendenza che apprezzavano sopra ogni altra cosa al mondo. Così incominciò la discordia. I contadini dicevano, che le loro campagne erano ridotte a tale, che il prolungare la difesa era divenuto ormai impossibile, stretti com'erano dal nemico e dalla fame; volevano quindi arrendersi. I cittadini, invece, sempre ostinati, temporeggiavano in mille modi, pur di pigliare tempo a continuare la guerra. Ora proponevano di cedere il solo contado, ora cercavano invece di spaventare i contadini, dicendo che su di essi sarebbero cadute le vendette maggiori dei Fiorentini; ma questi in mille modi facevano capir chiaro di essere veramente decisi alla clemenza con tutti. L'idea di cedere il solo contado non era poi accettabile da nessuno, perchè la guerra sarebbe continuata contro la città, il che avrebbe reso inevitabile anche la devastazione delle campagne.

L'ambasceria, in queste condizioni, mandata da Pisa a Piombino, era composta di contadini e di cittadini, i quali non potevano essere dello stesso animo, come il Machiavelli già sapeva, e come ebbe subito a sperimentare. Il 15 marzo infatti egli scriveva, rendendo conto ai Dieci della sua commissione, che i Pisani, venuti in gran numero, s'erano doluti che, invece di due o tre autorevoli cittadini, si fosse mandato un semplice segretario, il quale neppur veniva direttamente da Firenze. In ogni modo chiedevano la pace, salve le vite, la roba e gli onori; non avevano però mandato di concludere. A questo il Machiavelli, assai poco contento, si era, dopo poche parole, rivolto al Signore di Piombino, dicendo, «che non rispondeva nulla, perchè non avevano detto nulla. Se volevano qualche risposta, dicessero qualche cosa. Vostre Signorie volevano obbedienza, e non si curavano di lor vita, nè di lor roba, nè di loro onore, e avrebbero lasciato libertà ragionevole.» I Pisani fecero allora la proposta di cedere il contado, e di essere lasciati chiusi nelle mura della loro città. «Non vedete,» rispose il Machiavelli, rivolgendosi di nuovo al signor di Piombino, «che si ridono di voi? Se non si vuole rimettere Pisa in mano dei Signori fiorentini, è inutile di trattare; e quanto alla sicurtà, se non si vuole stare alla loro fede, non c'è altro rimedio.» E ai contadini poi disse, «che gl'incresceva della loro semplicità, perchè giocavano un giuoco in cui dovevano perdere in ogni modo. Se Pisa doveva essere sottomessa colla forza, essi avrebbero perduto la roba, la vita ed ogni cosa. Quando invece avessero vinto i Pisani allora i cittadini non li avrebbero voluti per compagni, ma per servi, e li avrebbero fatti tornare ad arare.» A questo punto uno dei cittadini presenti cominciò a gridare, che quelli non erano termini convenienti, perchè si cercava dividerli; ma i contadini parevano invece consentire, e uno di essi, Giovanni da Vico, esclamò ad alta voce: «Noi vogliamo la pace, noi vogliamo la pace, imbasciatore.» Il Machiavelli non si occupò d'altro, ed il giorno seguente partì, sebbene due volte, anche quando era montato a cavallo, fossero tornati da lui per riannodare i discorsi.

Egli dovè subito recarsi a Firenze, dove i Dieci lo chiamavano allora in grandissima fretta, con tutti gli uomini che poteva menar seco. Pare che fossero in grave pensiero, perchè da ogni parte le genti del Papa e della Francia movevano già contro Venezia. Ben presto però lo troviamo di nuovo nel campo a Mezzana, donde, avendo da essi ricevuto invito d'andare a Cascina, per ivi fermarsi, rispondeva il 16 aprile. Dopo avere minutamente ragguagliato sullo stato dell'esercito, dicendo che le fanterie erano così buone come ogni altra che si potesse avere in Italia, concludeva raccomandandosi vivissimamente, che lo lasciassero dove si trovava, altrimenti non avrebbe potuto occuparsi nè dei fanti nè del campo, ed a Cascina bastava mandassero un uomo qualunque. Capiva bene che l'andare colà sarebbe stato per lui meno faticoso e meno pericoloso; «ma se io non volessi nè pericolo nè fatica, non sarei uscito da Firenze; sicchè mi lascino Vostre Signorie stare infra questi campi, e travagliare fra questi commissari delle cose che corrono, dove io potrò essere buono a qualche cosa, perchè io non sarei quivi buono a nulla, e morrei disperato; e però di nuovo le prego disegnino sopra qualche altro.» I Dieci gli risposero, che stesse pure là dove credeva più utile la sua presenza; ed egli fu quindi in giro pei tre campi, a sorvegliare l'andamento delle cose, trovandosi sempre ov'era necessaria l'opera sua, perchè nulla mancasse ai soldati. Ora distribuiva le paghe, ora mandava le vettovaglie, ora consigliava e dirigeva le operazioni necessarie ad impedire che entrassero aiuti nella città. Il 18 maggio era a Pistoia per sollecitare l'invio del pane che era stato ritardato, e dava ordini severi perchè non seguissero più simili inconvenienti. E queste cure indefesse ebbero finalmente il desiderato effetto, perchè i Pisani si trovarono così stretti e vigilati da ogni lato, che dovettero ormai decidersi a cedere.

Il 20 di maggio, infatti, i tre commissari scrivevano ai Dieci, annunziando che quattro Pisani erano venuti a chiedere salvocondotto, per mandare a Firenze ambasciatori che trattassero della resa. Ed il 24 questi ambasciatori, con cinque cittadini e quattro contadini si presentarono al campo e partirono subito con Alamanno Salviati e Niccolò Machiavelli, tanto che la sera stessa erano arrivati a San Miniato. Il giorno 31 il Machiavelli si trovava di ritorno a Cascina, e gli ambasciatori, avendo concordato a Firenze i termini della resa, che in sostanza era incondizionata, con promessa però d'essere trattati con clemenza, rientrarono subito in Pisa. Non v'era tempo da perdere. Il 2 giugno erano uscite dalla misera città trecento persone, correndo affamate al campo di Mezzana, per chiedere pane, che fu loro dato. Il giorno seguente uscivano a frotte da ogni porta, tanto che fu necessario rimandarne indietro parecchie, altrimenti avrebbero riempito e disordinato il campo intero. Il 6 tutto era concluso, perchè i Fiorentini entrassero il giorno seguente. I tre commissari s'adunarono a Mezzana col Machiavelli, che aveva ricevuto tremila ducati per le paghe. Venne anche l'ordine, che lasciassero scegliere a lui le genti che dovevano entrare in città, alle quali doveva dar prima un terzo delle paghe, acciò non vi fosse occasione o pretesto d'abbandonarsi al saccheggio o ad altri eccessi. Si tardò ancora un giorno, per entrare il dì 8; non sappiamo il perchè. È probabile che, per determinare non solo il giorno, ma anche l'ora, si consultassero, come allora usava, gli astrologi. Certo è che fra le molte lettere, mandate in quei giorni al Machiavelli, ne troviamo una dell'amico Lattanzio Tedaldi, il quale gli raccomandava vivamente di non cominciar l'entrata prima delle dodici e mezza, possibilmente qualche minuto poco dopo le tredici «che sarà hora felicissima per noi.»

Secondo il giudizio concorde degli storici contemporanei, tutto procedette da questo momento con una grandissima umanità e benevolenza verso la infelice città, che con tanta energia aveva combattuto e sofferto. I Fiorentini non solamente non usarono violenza; non solo portarono grande quantità di vettovaglie che distribuirono largamente tra la popolazione affamata; ma resero ai Pisani tutti i beni stabili, che avevano loro confiscati, computando scrupolosamente a vantaggio degli antichi possessori anche i frutti di quell'anno sino al giorno della pace. I conti vennero affidati a Iacopo Nardi, lo storico, il quale dice che furono fatti talmente a favore dei Pisani, che pareva quasi avessero essi dettato e non subìto le condizioni della pace. Vennero confermati gli antichi privilegi, le antiche magistrature amministrative della città; rese le franchigie commerciali già godute in antico; concesso nelle liti un appello ai medesimi giudici che giudicavano i Fiorentini. Ma se tutto ciò faceva onore ai vincitori, massime al Soderini ed al Machiavelli, che avevano avuto la parte principale nel dare ed eseguire questi ordini, non poteva certo bastare a soddisfare i vinti. La libertà, l'indipendenza, i diritti politici erano perduti per sempre! Nessun Pisano poteva più sperare di aver qualche parte nel decidere i destini della sua città, e però le principali famiglie esularono a Palermo, a Lucca, in Sardegna, altrove. Molti s'arrolarono nell'esercito francese, che combatteva allora in Lombardia contro Venezia, per cercare poi nella Francia meridionale un'immagine del bel clima toscano. In questa occasione esularono anche i Sismondi, da cui discese lo storico illustre delle repubbliche italiane.

Allora, osserva il Nardi, non pochi pensarono ad Antonio Giacomini, il primo che aveva dato alla guerra pisana un indirizzo tale da poterla condurre a buon fine, ed era stato poi, per invidia, lasciato da parte; sicchè trovavasi vecchio, inabile, cieco e abbandonato. Per singolare capriccio della fortuna trionfava invece il Machiavelli, che non era uomo di guerra. Ma egli poteva avere la coscienza tranquilla, perchè non era stato mai di quelli che avevano disprezzato il Giacomini, anzi ebbe sempre per lui un'ammirazione sincera, nè tralasciò occasione di manifestarla, biasimando coloro che lo avevano trascurato, riconoscendo d'essere stato dall'esempio e dai buoni successi militari di lui incoraggiato ad ordinare quella Milizia, cui ora si attribuiva la resa di Pisa.

Tutto gli era riuscito a buon fine; e la clemenza usata nel prender possesso della città crebbe la reputazione della sua prudenza e l'autorità del suo nome. Da ogni parte gli arrivavano lettere di congratulazione. Una di Agostino Vespucci, suo coadiutore nella cancelleria di Firenze, gli diceva, in data appunto dell'8 giugno, che i fuochi s'erano accesi nella Città sin dalle ore 21, nè era possibile descrivere la letizia universale: «ogni uomo quodammodo impazza di esultazione.... Prosit vobis lo esservi trovato presente ad una gloria di questa natura, et non minima portio rei.... Nisi crederem te nimis superbire, oserei dire che voi con li vostri battaglioni tam bonam navastis operam, ita ut, non cunctando sed accelerando, restitueritis rem florentinam. Non so quello mi dica. Giuro Dio, tanta è la esultazione aviamo, che ti farei una Tulliana, avendo tempo, sed deest penitus Ed il 17 giugno, il commissario Filippo da Casavecchia, suo amico, gli scriveva da Barga: «Mille buon pro' vi faccia del grandissimo acquisto di cotesta nobile città, che veramente si può dire ne sia suto cagione la persona vostra in grandissima parte.... Ognindì vi scopro el maggior profeta che avessino mai li Ebrei o altra generazione.»

Tutti questi trionfi non erano però senza qualche pericolo per l'avvenire del Machiavelli, ed anche della Repubblica. Da un lato era inevitabile che venisse fatto segno a nuove gelosie ed invidie un segretario, il quale aveva sorvegliato un assedio, con autorità quasi superiore a quella dei commissarî di guerra, e per giunta era stato fortunato in modo da ottenere il trionfo, ponendo fine ad una lotta ostinata, che per tanti anni aveva esaurito le forze delle due città. Da un altro lato questo fortunato successo fece a tutti concepire grandissima opinione della nuova Ordinanza. Infatti d'allora in poi il Machiavelli e gli altri riposero in essa una fiducia così illimitata, che poteva essere, e più tardi fu veramente, cagione di grandi e crudeli disinganni. Pareva che nessuno s'avvedesse, che in sostanza allora tutto s'era per essa ridotto a dare il guasto, senza incontrar mai nemici da combattere; a far buona guardia, perchè non arrivassero soccorsi di vettovaglie ad una città affamata ed esausta, che non era più in grado di difendersi. Non si pensava, che assai diverso sarebbe stato il caso, quando si fosse trattato d'affrontare nemici agguerriti ed in forze. In fatti questa esperienza si dovè fare più tardi, ed allora a proprie spese s'imparò quanto sia in guerra pericoloso il pascersi di vane illusioni.

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