CAPITOLO XII.

La lega di Cambray e la battaglia d'Agnadello. - Umiliazione di Venezia. - Legazione a Mantova. - Decennale Secondo. - Piccole contrarietà del Machiavelli. - Il Papa alleato di Venezia, nemico della Francia. - Ricomincia la guerra - Terza legazione in Francia.

Il 10 dicembre 1508 s'era finalmente conclusa quella lega di Cambray, che Giulio II aveva con tante cure e tanto ardore promossa. L'Imperatore, la Spagna, la Francia ed il Papa s'univano, in apparenza a combattere il Turco, ma di fatto a vendetta, a sterminio di Venezia; ed erano già d'accordo sul come dividersene il territorio. Il Papa avrebbe avuto le agognate terre di Romagna; l'Imperatore, Padova, Vicenza, Verona, il Friuli; la Spagna, le terre napoletane sull'Adriatico; la Francia, cui toccava nella guerra la parte principale, Bergamo, Brescia, Crema, Cremona, la Ghiara d'Adda ed il Milanese. Le ostilità cominciarono subito, e sino dal principio pareva che gli uomini e la natura cospirassero a danno di Venezia. Il magazzino delle polveri saltò in aria; il fulmine colpì la fortezza di Brescia; una barca, che portava a Ravenna 10,000 ducati, naufragò; alcuni degli Orsini e dei Colonna, che erano stati assoldati, con obbligo di condurre buon numero di fanti e cavalieri, e avevano già ricevuto 15,000 ducati, ritennero il danaro e ruppero il contratto, per ordine del Papa. Ma la indomabile repubblica non si perdè d'animo, e mise sull'Oglio un poderoso esercito di nazionali e stranieri, e sotto il comando di Niccolò Orsini conte di Pitigliano e di Bartolommeo d'Alviano. Il Pitigliano però era tutto prudenza, l'Alviano tutto impeto, e non volendo nessuno dei due cedere all'altro il comando supremo, la direzione della guerra ne rimaneva incerta.

I nemici della repubblica andavano invece concordi e deliberati al loro scopo. Il 15 d'aprile Giulio II pubblicò la bolla di scomunica contro i Veneziani e contro chiunque gli aiutasse, dando libera facoltà ad ognuno di derubarli e venderli poi anche schiavi. Il 14 maggio l'avanguardia francese, comandata da G. G. Trivulzio, passato l'Adda, incontrò la retroguardia dei Veneziani alla cui testa era l'Alviano. Questi, essendosi fermato, si trovava sempre più lontano dal grosso dell'esercito, che proseguiva il suo cammino; il nemico era invece continuamente rinforzato dal sopraggiungere de' suoi. Avvistosi di ciò l'Alviano, fece avvertire il conte di Pitigliano, perchè gli venisse in aiuto; ma questi, con la solita prudenza, rispose che il Senato non voleva si desse allora battaglia, e però consigliava anche a lui di continuare il suo cammino. L'Alviano invece attaccò il nemico e si condusse con valore; ma fu, come quasi sempre nella sua vita, sfortunato. Le fanterie italiane, specie quelle dei Brisighella, si condussero eroicamente, restando uccisi seimila dei loro uomini. Venti pezzi d'artiglieria furono perduti; l'Alviano stesso rimase ferito e prigioniero. La rotta fu generale, ma una parte della cavalleria si salvò, ed il grosso dell'esercito veneziano, avendo continuato il suo cammino col Pitigliano, non prese parte alla mischia. Questa battaglia, nota col nome di Vailà o d'Agnadello, fu la prima delle grandi e sanguinose lotte, che d'allora in poi seguirono in Italia senza tregua, nelle quali i nostri soldati e capitani combatterono con valore nei due campi avversi, rendendo la loro patria sempre più serva dello straniero. I Francesi ebbero in loro potere Caravaggio, Bergamo, Brescia, Crema; presero anche Peschiera, e così in 15 giorni Luigi XII, venuto in Italia alla testa del suo esercito, era già padrone di tutte le terre che gli erano state promesse a Cambray; ed allora cominciò subito a raffreddarsi nella guerra. Il conte di Pitigliano si chiuse in Verona.

Ma intanto l'esercito pontificio, forte di 400 uomini d'armi, 400 cavalli leggieri ed 800 fanti, cui s'unirono più tardi 3000 Svizzeri, s'avanzava rapidamente in Romagna, senza più incontrare ostacoli di sorta, sotto il comando di Francesco Maria della Rovere, nipote del Papa, e ora duca d'Urbino per l'adozione che di lui aveva fatta Guidobaldo da Montefeltro, morto senza figli. Il duca Alfonso d'Este, che finora era sembrato neutrale, all'annunzio della battaglia di Vailà cacciò da Ferrara il Visdomino veneziano, mandò 32 de' suoi celebri cannoni all'esercito del Papa, e ripigliò alcune terre state già tolte agli Este dai Veneziani. Nemico si dichiarò anche il marchese di Mantova; ed alcuni vassalli dell'Impero, aspettando l'arrivo di Massimiliano, attaccavano intanto nel Friuli e nell'Istria la bersagliata repubblica di S. Marco, alla quale restava adesso solo la speranza che, col cedere a qualcuno dei nemici tutto quello che voleva, potesse farselo amico e separarlo dagli altri, che così avrebbe indeboliti.

Alla Francia ormai non v'era più nulla da cedere, perchè essa aveva già preso tutto quel che voleva. Alla Spagna i Veneziani resero le poche terre napoletane che avevano sull'Adriatico; ma ciò era, nel presente momento, ben poca cosa. Occorreva fare assai di più, per ottenere il desiderato intento. Gli storici dicono che la Repubblica veneta mandò allora Antonio Giustinian all'Imperatore col foglio bianco, con la commissione cioè di sottomettersi a lui, cedendo tutto quel che chiedeva. E si diffuse allora assai largamente una orazione latina. Ad divum Maximilianum Imperatorem, che il Giustinian avrebbe, dicevano, scritta e letta poi a quel sovrano. Essa è veramente una povera cosa, umile fino quasi all'abbiezione, indegna della Serenissima e del suo oratore, i cui dispacci eran sempre pieni di acume e di dignità. Pure fu dal Guicciardini tradotta nella sua Storia d'Italia; il Machiavelli ne conservò copia nelle sue carte, e v'alluse nei Discorsi; il Ricci la trascrisse nel suo Priorista, ed il 7 luglio 1509 l'ambasciatore fiorentino Piero de' Pazzi, ne mandava da Roma copia ai Dieci, scrivendo che era «cosa miserabile vedere gli oratori veneti andar per la terra, tanto la loro superbia s'era mutata in umiltà.»

Certo Venezia, dopo la disfatta subita, avendo contro di sè Papa, Impero e Francia, era assai sgomenta; ma non si abbandonò, non si avvilì mai quanto farebbe credere quella orazione. Oltre di ciò, noi abbiamo le istruzioni che la repubblica dette prima al Giustinian, poi ad altri suoi rappresentanti; sappiamo quindi con precisione quali proposte, nelle sue calamità, essa fece, e con quale scopo. Volendo far di tutto per indurre Massimiliano a venire in Italia a combattere la Francia e difendere Venezia, offriva di cedergli quelle terre che nello scorso anno essa aveva tolte all'Impero. E sebbene sembrasse assai più restia per alcune altre città, che l'Imperatore presumeva fossero sue, pure anche su queste sembrava disposta a riconoscerne l'autorità, pagandogli un censo. E quando fosse per loro venuto davvero in Italia, i Veneziani lo avrebbero con tutte le loro forze aiutato, dandogli in diverse rate 200,000 fiorini. Più tardi, facendo altre minori proposte, si dichiaravano pronti a pagargli addirittura 50,000 fiorini l'anno per tutta la sua vita. Ma l'Imperatore rispose di volere andare d'accordo con la Francia, di non voler trattare con chi era stato scomunicato dal Papa, e negò il salvocondotto al Giustinian, che non si potè quindi neppur presentare a lui. La sua pretesa orazione adunque, se non è un esercizio retorico di qualche nemico di Venezia, non fu di certo mai letta a Massimiliano, e quello che è più, non risponde alle istruzioni che l'oratore aveva ricevute dal Senato Veneto.

Se però l'Imperatore si dimostrava così restìo, pareva invece che fosse già disposto a mutare animo il Papa, che era stato il promotore della lega. Avute le sue terre di Romagna, egli si dimostrava sempre sdegnato contro i Veneziani, dai quali richiedeva le entrate che essi avevano colà riscosse in passato; nemico sempre degli stranieri in genere, era adesso anche più sdegnato contro i Francesi, che, dopo aver preso per sè tutto quello che volevano, non sembravano punto disposti a proseguire seriamente la guerra. Sembrava perciò assai inclinato ad unirsi contro di loro con l'Imperatore. Se non che questi, quantunque ora non gli mancassero i danari, quantunque parecchie terre del Veneto sembrassero pronte ad arrendersi a lui, non si moveva. I suoi rappresentanti però s'avanzarono per prenderne possesso, e Venezia, che voleva evitare ogni conflitto con lui, ordinò che si cedesse. Infatti il vescovo di Trento assai facilmente prese possesso di Verona e di Vicenza; anche Padova si arrese senza resistenza. A Treviso però le cose andarono assai diversamente. Colà, se i nobili, sempre avversi a Venezia in tutte le città da essa conquistate, si dimostravano pronti a sottomettersi senz'altro, il popolo invece, che dappertutto le era affezionatissimo, insorse al grido di Viva San Marco, saccheggiò le loro case, e cacciò i rappresentanti dell'Impero. E questa fu una scintilla, che s'andò facilmente propagando per tutto, tanto più che le forze di Massimiliano in Italia erano scarsissime. Si disse allora e si ripetè poi dagli storici, che Venezia, dando prova d'una grande sapienza politica e d'una grandissima fiducia nell'affezione dei propri sudditi, sciolse le città di terra ferma dal giuramento d'obbedienza, lasciandole libere d'arrendersi o difendersi, secondo che volevano, e che esse, per affezione a S. Marco, si difesero eroicamente. Tutto questo però è, in parte almeno, una leggenda, di cui facilmente si spiega l'origine, se si guarda alla realtà vera dei fatti. Venezia voleva separare l'Imperatore dalla Francia, per attirarlo a sè, a questo fine era disposta, come abbiam visto, ad ogni sacrifizio di uomini e di danaro, a cedere anche alcune delle sue città, e aveva dato perciò gli ordini opportuni. Ma quando vide che l'Imperatore non si moveva, e che il popolo insorgeva al grido di Viva San Marco, cominciò ben presto a mutare condotta.

Infatti, sebbene avesse in sul principio mostrato di rassegnarsi a cedere perfino Padova, il 17 luglio 1509 mutò improvvisamente, e rientrò per sorpresa nella città, che subito s'arrese insieme con la fortezza: il popolo intanto saccheggiava le case dei nobili. Tutto il territorio padovano seguì l'esempio della città, e Verona, dove l'arcivescovo di Trento si trovava con pochissime forze, era sul punto d'insorgere anch'essa, tanto più che, avendo gl'imperiali invocato l'aiuto del marchese di Mantova, e questi essendosi mosso, fu per via fatto prigioniero dagli Stradioti di Venezia. Luigi XII, invece di ricominciare la guerra per aiutare gli alleati, se ne tornava in Francia, lasciando ai confini veronesi il La Palisse con 500 lance e 200 gentiluomini. E ciò, dopo aver concluso col Papa un trattato a difesa comune dei propri Stati, abbandonando al loro destino i vassalli della Chiesa, fra i quali principalissimo il duca di Ferrara, suo alleato, che restava così esposto all'odio ed agli assalti di Giulio II.

Finalmente però Massimiliano si decise a muoversi, per venire all'assedio di Padova, dove i Veneziani fecero subito entrare tutte le forze che avevano disponibili. V'entrarono anche i due figli del doge Loredano con 100 fanti tenuti a loro proprie spese; li seguirono altri 176 gentiluomini veneziani, e poi vennero gli abitanti della campagna colle loro raccolte di viveri. L'Imperatore comandava il più poderoso esercito che da molti secoli si fosse visto in Italia. V'erano i Francesi del La Palisse, gli Spagnuoli educati alla guerra sotto Gonsalvo di Cordova, Italiani, Tedeschi, avventurieri d'ogni nazione, e 200 cannoni. In tutto da 80 a 100 mila uomini. Presto cominciarono le operazioni d'assedio, e la breccia fu aperta; ma quando si venne all'assalto, i Veneziani fecero scoppiare le mine già prima caricate, e la più parte degli assalitori, fra cui alcuni capitani di grido, saltarono in aria. Così l'assedio fu levato il 3 di ottobre, e ricominciarono le querele degli alleati, massime dell'Imperatore, che, trovandosi senza danari, ne cercava a tutti, e con più insistenza che mai ai Fiorentini, ai quali ricordava le somme già promesse per mezzo del Vettori, quando fosse venuto in Italia, dove ormai si trovava.

Essi dovettero quindi inviargli a Verona, dove sembrava che ora si recasse, sebbene tornasse poi indietro, due ambasciatori, Giovan Vittorio Soderini e Piero Guicciardini, il padre dello storico. Il Machiavelli, rimandandoli a ciò che esso aveva già scritto sulla Germania e sull'Imperatore, ricordava loro di essere accorti, perchè questi «assai spesso disfaceva la sera quello che concludeva la mattina.» E gli ambasciatori arrivati a Verona, firmarono subito un trattato (24 ottobre 1509), col quale i Fiorentini s'obbligavano a pagare 40,000 ducati a Massimiliano, che prometteva loro amicizia e protezione. Il pagamento doveva farsi in quattro rate: la prima subito, nel mese stesso d'ottobre, la seconda il 15 novembre, la terza nel gennaio, e la quarta nel febbraio seguenti.

A portare la seconda rata fu, con deliberazione del 10 novembre, mandato il Machiavelli con ordine di trovarsi il 15 a Mantova, e, fatto il pagamento, recarsi a Verona o dove credesse più opportuno, per raccogliere notizie. Ed il Machiavelli adempiè la commissione, cominciando subito a cercar notizie in Mantova stessa, non senza avvertire, che quello era un «luogo dove nascono, anzi piovono le bugìe, e la Corte ne è più piena che la piazza. Il 22 era a Verona, donde scriveva il 26, notando subito, secondo il suo solito, i fatti essenziali ad avere una giusta cognizione dello stato delle cose e degli animi colà. «I gentiluomini,» egli diceva, «non amano Venezia, inclinano agli alleati; ma il popolo, la plebe, i contadini sono tutti marcheschi. Il vescovo di Trento si trova a Verona con poche migliaia di fanti e cavalli, Vicenza s'è già ribellata e data ai Veneziani: l'Imperatore trovasi a Roveredo, e non vuol ricevere oratori; i nobili di Verona guardano alla Francia, che finalmente ha mandato solo 200 Guasconi e 200 uomini d'arme. Ma questi aiuti non giovano a niente, perchè sono pochi, e intanto gli alleati devastano e rubano il paese in modo indescrivibile.» «E così negli animi di questi contadini è entrato un desiderio di morire e vendicarsi, che sono divenuti più ostinati e arrabbiati contro a' nemici de' Veneziani, che non erano i Giudei contro a' Romani; e tuttodì occorre che uno di loro, preso, si lascia ammazzare per non negare il nome veneziano. Eppure iersera ne fu uno innanzi a questo vescovo, che disse che era marchesco e marchesco voleva morire, e non voleva vivere altrimenti; in modo che il vescovo lo fece appiccare, nè promesse di camparlo, nè d'altro bene, lo poterono trarre di questa opinione: di modo che, considerato tutto, è impossibile che questi re tenghino questi paesi con questi paesani vivi.» La resistenza energica e qualche volta eroica di quei contadini ricorda quella assai simile dei contadini pisani contro Firenze, e ci conferma nella opinione già espressa sul vigore e l'energia morale ancora esistente negli ordini inferiori della società italiana, dei quali allora si faceva troppo poco conto, e di cui generalmente non s'occuparono gli storici.

«Le cose,» continuava il Machiavelli, «non possono in questi termini durare a lungo. Più la guerra va lenta e più crescerà l'amore verso Venezia, perchè le popolazioni sono in casa e fuori consumate dagli alleati, che le rubano e le rovinano, mentre i Veneziani, pur facendo continue scorrerie e prede, le rispettano e fanno trattare con ogni riguardo. Intanto Luigi XII e Massimiliano non vanno punto d'accordo fra di loro, e si teme che alla fine questi si unirà coi Veneziani. Sono due re, che uno può fare la guerra ma non vuole, e quindi la va dondolando; l'altro vuole ma non può. Se però mantengono con questi modi a' paesani la disperazione, e a' Veneziani la vita, credesi, come ho detto altre volte, che in un'ora possa nascere cosa che farà pentire e re e papi e ciascuno di non aver fatto suo debito ne' debiti tempi. I Veneziani in tutti questi luoghi dei quali s'insignoriscono, fanno dipingere un S. Marco che, in cambio di libro, ha una spada in mano; donde pare che si sieno avveduti a loro spese, che a tenere gli Stati non bastano gli studî e i libri» Il 12 dicembre egli era a Mantova, di dove, essendo già vicina la guerra intorno a Verona, mandò una lunga ed esatta descrizione di questa città; e poco dopo, avutane licenza dai Dieci, se ne tornò a Firenze.

Nella sua breve gita, che pure durò poco meno di due mesi, il Machiavelli non ebbe molto da fare, e gli restò qualche tempo libero, che pare dedicasse a cominciare il secondo de' suoi Decennali, che poi restò interrotto. Il brano, infatti, che di esso abbiamo, narra gli avvenimenti seguiti dal 1504 al 1509 per l'appunto. Ed in una lettera, che in quei giorni medesimi scrisse a Luigi Guicciardini, e sulla quale torneremo fra poco, troviamo una poscritta che dice: «Aspecto la risposta di Gualtieri a la mia cantafavola.» Or questo era il nome che egli ed i suoi amici dettero più volte al Decennale.

Nel secondo il Machiavelli incomincia col dire, che oserà narrare i nuovi eventi, sebbene

Sia per dolor divenuto smarrito.

Invocata la Musa, egli accenna alla rotta di Bartolommeo d'Alviano in Toscana, per opera principalmente del prode Antonio Giacomini, del quale fa grandi elogi. Dopo accennati più brevemente ancora alcuni fatti generali d'Europa, rammenta come papa Giulio II, non potendo tenere «il feroce animo in freno,» cominciò la guerra contro i tiranni a Perugia, a Bologna. E così finalmente arriva con grande rapidità alla lega di Cambray. Questa egli sembra attribuire, più che altro, alle vittorie dei Veneziani contro l'Imperatore nel 1508, quando s'impadronirono d'alcune sue terre.

Le qual dipoi si furon quel pasto,

Quel rio boccon, quel venenoso cibo,

Che di San Marco ha lo stomaco guasto.

I Fiorentini allora, profittando dell'occasione, affamarono Pisa, circondandola in modo, che non vi poteva entrare «se non chi vola;» onde essa, che pur era stata assai ostinata nella difesa,

Tornò piangendo alla catena antica.

Ma non si potè nulla concludere, senza prima aver contentato le bramose voglie dei potentati, che cercavano sempre nuovi pretesti per aver danari:

Bisognò a ciascuno empier la gola

E quella bocca che teneva aperta.

Gli alleati fiaccarono poi la potenza dei Veneziani a Vailà, ed allora si vide chiaro quanto poco giovi la forza senza la prudenza, che a tempo prevede e ripara i mali.

Di quinci nasce che 'l voltar del cielo

Da quello a questo i vostri Stati volta

Più spesso che non muta il caldo e 'l gelo.

Che se vostra prudenzia fusse volta

A conoscere il male e rimediarvi,

Tanta potenzia al ciel sarebbe tolta.

E dopo questi versi, certo non eleganti nè armoniosi, ma nei quali si vede la fede illimitata che il Machiavelli ebbe sempre nell'accortezza politica e nell'arte di governo, che a tutto, secondo lui, poteva sempre riuscire. arriva al momento in cui Massimiliano, fallito nell'assalto di Padova,

Levò le genti, affaticato e stanco;

E dalla Lega sendo derelitto,

Di ritornarsi nella Magna vago,

Perdè Vicenza per maggior despitto.

E con questo fatto, seguìto nei giorni stessi, in cui il Machiavelli era a Verona ed a Mantova, rimane in tronco il secondo Decennale, che è solo un breve frammento, e letterariamente vale anche meno del primo.

La lettera cui più sopra abbiamo accennato, scritta dal Machiavelli in Verona, il dì 8 dicembre, a Luigi Guicciardini in Mantova, dimostra che se veramente, come noi supponiamo, egli scrisse allora il brano del secondo Decennale, le sue ore d'ozio pur troppo non furono occupate solamente nello scrivere quei versi abbastanza mediocri. Pare che Luigi Guicciardini, fratello dello storico, gli avesse narrato una sua oscena avventura. Rispondendo, egli ne racconta un'altra così ributtante, che noi vi alludiamo solo, perchè la lettera che ne parla fu data alle stampe, ond'è pur necessario dirne qualche cosa. Il Machiavelli adunque racconta d'essere a Verona entrato nello scuro tugurio d'una donna di mala vita, la quale era così sudicia, puzzolente e brutta, che quando, nell'accomiatarsi da lei, potè vederla al lume della lucerna, fu tanto disgustato d'esserle stato vicino, che dette di stomaco. La più fugace lettura di questo racconto, che del resto sarebbe preferibile ignorare affatto, dimostra chiaro che egli, per far ridere l'amico, esagerava anche più del solito, in modo da oltrepassare non poco i confini del verosimile. L'esagerazione stessa però è tale da far deplorare che un uomo grave, il quale pur era padre di famiglia, non più giovane, marito di moglie affezionata, potesse, quando anche non fosse che per celia, raccogliere così disgustoso fango. Nè qui basta a tutto giustificare la solita scusa dei tempi. Fortunatamente le molte faccende non gli lasciarono allora tempo da pensare e scrivere altre simili sconcezze.

I suoi amici, che spesso gareggiavano con lui nei più osceni discorsi, in questi giorni gli mandavano da Firenze lettere che discorrevano anche di private ed assai poco grate faccende. Francesco del Nero, suo parente, accennava, in data del 22 novembre 1509, ad una lite di famiglia, che non determinava, ma che doveva essere di qualche gravità, perchè egli diceva che molte persone autorevoli, tra cui lo stesso gonfaloniere Soderini e i fratelli di lui, erano stati consultati in proposito, e sembravano adoperarsi in favore del Machiavelli. Di che cosa si tratti noi non sappiamo; è certo però che, in conseguenza di un accordo fatto col fratello Totto, il quale s'era dato alla vita ecclesiastica, e dovette perciò avere i benefizî spettanti alla famiglia, Niccolò era venuto in possesso di tutta l'eredità paterna, coi debiti non piccoli e le tasse che la gravavano. Nel 1511, infatti, gli ufficiali del Monte portarono a suo carico le Decime dovute, e fu poi obbligato anche a pagar grosse somme ai creditori. Da tutto ciò è facile supporre che sorgessero liti, e che ad una di esse il Del Nero accennasse. Poco dopo, altra e più grave lettera, in data del 28 dicembre, gli veniva dal fido Biagio Buonaccorsi. «Sette giorni fa,» egli scriveva, «un tale s'è presentato turato, con due testimonî, al notaio dei Conservatori, con una protesta la quale diceva, che per essere voi nato di padre, ecc., non potete esercitare l'ufficio di segretario. E benchè la legge, già altre volte citata, sia quanto la può in vostro favore, pure c'è molti che strepitano, e se ne parla dovunque, perfino nei bordelli.» E dopo avergli consigliato, in nome degli amici, a non tornare ancora in Firenze, concludeva: «Io qui prego e ringrazio per voi, cose alle quali non siete punto adatto. Meglio adunque che lasciate passar questa tempesta, per la quale da più giorni non ho dormito, senza nulla tralasciare per voi, giacchè non so donde venga, ma ci avete ben pochi che vogliano aiutarvi.

A che cosa alluda questa seconda lettera, è anche meno facile indovinarlo. Si trattava certo di un divieto che i nemici del Machiavelli volevano dal padre far ricadere sul figlio. Il Passerini, che pubblicò la lettera del Buonaccorsi, dice che «Bernardo, padre del nostro Niccolò, era nato illegittimo.» Non dà però nessuna prova della sua asserzione. Invece il Tommasini (II, 958-9) cita un manoscritto del Cerretani da lui posseduto, nel quale l'accusa di bastardo è ricordata. Nei Ricordi della famiglia Machiavelli, da noi già citati, i figli naturali sono menzionati, ma tra di essi non c'è Bernardo, del quale si dice solo che ereditò il patrimonio della famiglia. Nè dagli Statuti risulta che al figlio legittimo di padre illegittimo fosse vietato il far parte della Cancelleria. Non è facile quindi dare una sicura interpetrazione della lettera del Buonaccorsi. Fu supposto da altri, che Bernardo Machiavelli fosse messo, come dicevano, a specchio, per non aver pagato le imposte dovute, e che da ciò risultasse il divieto anche al figlio. Infatti, secondo una deliberazione del 1402, quando il padre era a specchio, veniva ritenuto come tale anche il figlio. Ma nella Riforma della Cancelleria deliberata il 14 febbraio 1498, fu data facoltà al Consiglio dei Richiesti di nominare i cancellieri e coadiutori, senza tener conto alcuno dei divieti. E questo farebbe comprendere le parole del Buonaccorsi, là dove nella sua lettera dice: «Sebbene la legge sia in favore quanto la può.»

Comunque sia di tutto ciò, o che la lettera del Buonaccorsi trovasse il Machiavelli già partito, o che egli, sicuro della benevolenza del Gonfaloniere e del favore della legge, non facesse gran caso delle tante paure degli amici, che gli consigliavano di non venire per ora a Firenze, certo è che il 2 gennaio egli era già di ritorno, occupato nelle solite faccende d'ufficio. Il 13 marzo lo troviamo a San Savino, per una questione di confine tra Senesi e Fiorentini; nel maggio, in Val di Nievole, a far la mostra delle bandiere, e poi sempre più occupato nell'ordinamento della Milizia a Firenze.

Intanto i Veneziani, che erano rientrati in Vicenza, giunsero troppo tardi a Verona, dove gl'imperiali s'erano già fortificati. Presero varie terre nel Friuli e nel Polesine; ma le loro navi, che erano entrate nel Po per assalire Ferrara, vennero, per inesperienza e viltà di Angelo Trevisan, che le comandava, vinte e quasi distrutte. Poco dipoi, cioè al principio del 1510, moriva il conte di Pitigliano; ed essendo già prigioniero l'Alviano, essi restavano addirittura senza un capitano di grido, che potesse comandare l'esercito, nè riuscirono a trovare altri che Giovan Paolo Baglioni di Perugia. In questo momento però l'aiuto venne donde meno era aspettato.

Il Papa ogni giorno più geloso della Francia, dopo avere, trascinato dalla sua natura irrequieta, chiamato in Italia un diluvio di stranieri per combattere Venezia, ora che questa s'era umiliata ai suoi piedi, cedendo a lui in ogni cosa, non solo inclinava manifestamente verso di essa; ma già le aveva dato l'assoluzione, e secondo che scriveva da Roma l'ambasciatore veneto Trevisan, s'era lasciato dire, che «se quella terra non fosse, bisogneria farne un'altra.» Ed incominciò adesso a levare il suo ben noto grido di Fuori i barbari. L'oratore fiorentino in Francia, messer Alessandro Nasi, che da un pezzo aveva scritto, alludendo al Papa ed al Re: potersi credere, «che la sospizione fra loro non sia poca, e la fede non sia molta,» aggiungeva ora che lo sdegno dei Francesi era divenuto grandissimo. Ma anche per Luigi XII era un assai grosso affare trovarsi in guerra col Papa, ed un Papa della tempra di Giulio II, che voleva essere, come scriveva il Trevisan, «il signore e maestro del giuoco del mondo.» S'aggiungeva inoltre che gli Svizzeri, tenuti allora la prima fanteria in Europa, sapendo d'esser sempre più necessarî alla Francia, aumentarono tanto le loro domande di denaro, che il Re ne fu irritato per modo, che si contentò di far solo qualche accordo separato coi Vallesi e coi Grigioni. Invece trovava fra tutti loro gran favore il cardinale Mattia Schinner, vescovo di Sitten o, come dicevano gl'Italiani, Sion, il quale girava, promettendo danari, per assoldar gente a servizio del Papa.

Ben presto la guerra ricominciò, sebbene assai fiaccamente, tra i Francesi uniti all'Imperatore da un lato, i Veneziani uniti al Papa dall'altro. Nè i Veneziani sarebbero stati, con un debole esercito, comandato da un capitano come il Baglioni, in grado di resistere alle forze dei nemici; ma l'Imperatore era sempre incerto, ed in Francia moriva (25 maggio 1510) il cardinal d'Amboise, che aveva sinora guidato la politica di Luigi XII. E questi lasciava gli affari in mano del Rubertet, o, ciò che era anche peggio, faceva di suo capo: tutti perciò ne prevedevano guai. Lo Chaumont, che doveva il suo alto ufficio all'essere nipote e creatura del morto cardinale, ricevette ordine di retrocedere verso Milano, lasciando all'Imperatore 400 lance e 1500 fanti spagnuoli. In Francia, al clero ed a tutto il paese pareva gran cosa trovarsi in guerra col capo della religione, e questi non se ne stava con le mani alla cintola, ma già tentava di sollevare Genova, al qual fine Marcantonio Colonna, con finti pretesti, lasciava il servizio dei Fiorentini, partendo con 100 uomini d'arme e 700 fanti. Di questa inaspettata impresa si parlò molto, perchè nessuno capiva in sul principio, che scopo avesse la mossa del Colonna, nulla sapendosi de' suoi segreti accordi col Papa. Essa però non ebbe conseguenze di sorta, perchè rimase interrotta a mezzo. Ma l'esercito del Papa intanto s'avanzava, sotto il comando di Francesco Maria della Rovere, e già minacciava il duca di Ferrara, per modo che questi avrebbe dovuto cedere, se lo Chaumont non gli avesse mandato in tempo 200 uomini d'arme. Ad accrescere poi tutta questa confusione d'imprese iniziate e subito abbandonate, 6000 Svizzeri discesero allora le Alpi, per venire in aiuto del Papa; ma ad un tratto tornavano repentinamente ai loro monti, senza che se ne potesse indovinar la ragione. Chi disse che tornavano, perchè, non avendo nè cavalleria nè artiglieria, s'erano avvisti che non potevano sperarle dal Papa; chi disse invece che, avendo ricevuto da lui 70,000 scudi per questa spedizione, ne ebbero altrettanti dalla Francia per tornare indietro. La riputazione della loro lealtà era ormai da un pezzo divenuta assai dubbia, essendo noto a tutti che essi combattevano solo per danaro.

Le condizioni della repubblica fiorentina erano, fra queste nuove complicazioni, divenute difficilissime. Antica alleata dei Papi e della Francia, non poteva separarsi nè da Luigi XII, nè da Giulio II, che erano adesso fra di loro in guerra, e non volevano permetterle di restar neutrale. Dividersi dalla Francia, alla cui alleanza aveva fatto tanti e così continui sacrifizî, ed alla quale il Soderini era affezionatissimo, significava restare isolata, ed in balìa di chiunque vincesse nelle grosse guerre, che ormai erano inevitabili. Dividersi dal Papa già in armi, col cui Stato confinava per così lungo tratto, significava esporsi ad immediato assalto, senza forze per resistere. Intanto la Francia chiedeva con insistenza, che la Repubblica mandasse subito aiuti e pigliasse parte attiva nella guerra; il Papa era già pronto ed armato ai confini. Il Soderini allora, come era il suo solito, quando non sapeva a quale partito appigliarsi, pensò di mandare il Machiavelli in Francia, con lettere che lo incaricavano di raccogliere notizie, di far vaghe promesse al Re, assicurandolo che così il Gonfaloniere come il cardinale suo fratello gli erano sempre fedeli, e desideravano che fosse mantenuto il predominio francese in Italia. Doveva inoltre il Machiavelli persuadergli, che a questo fine era necessario o battere i Veneziani con una guerra pronta e risoluta, o consumarli, temporeggiando; tenersi inoltre amico l'Imperatore, acciò li assalisse di continuo, ed, occorrendo, dargli anche Verona; non inimicarsi però mai il Papa, che poteva riuscire assai pericoloso alla Francia.

Il Machiavelli andò lento nel suo viaggio, perchè capiva che questi consigli non richiesti erano inutili, e perchè come scriveva da Lione il 7 luglio ai Dieci, vedeva chiaro che la sua gita non poteva riuscire ad altro scopo che a «tenere bene avvisate le SS. VV. di quello che alla giornata si ritrarrà, e ad occuparsi dei donativi da farsi al Rubertet ed allo Chaumont, i quali già facevano capir chiaro di volere per sè anche i diecimila ducati promessi al cardinale di Rouen, che era morto. La prima notizia che egli mandò da Blois il 18 luglio, fu che il Re si dichiarava pronto a difendere Firenze; ma che essa doveva decidersi ad essere amica o nemica, e nel primo caso mandar subito le sue genti in campo. «Quanto al Papa,» aggiungeva il Machiavelli, «è facile immaginarsi quello che ne dicono, perchè torgli l'obbedienza e fargli un Concilio addosso, rovinarlo nello stato temporale e spirituale, è la minor rovina di cui lo minaccino. Qui dispiace assai questo suo moto, sembrando che S. S. minacci con esso l'Italia e la Cristianità; tuttavia sperano che, non essendogli riuscito di sollevare Genova, le cose si fermeranno. Ma siccome nessuna più onesta cagione si può avere contro un principe, che mostrare, attaccandolo, di voler difendere la Chiesa, così Sua Maestà potrebbe in questa guerra tirarsi addosso tutto il mondo. Il Re si tiene assai offeso dal Papa, e ne è sdegnatissimo. Le persone della Corte però, ed anche l'oratore di Roma cercano ogni modo d'evitar la guerra, promovendo invece un accordo, tanto che han finito quasi col piegare anco l'animo suo. Esso, infatti, all'oratore di Roma che gliene parlava, disse che non avrebbe mai mosso il primo passo, perchè era stato offeso: - ma, se il Papa farà verso me dimostrazione quanto è un nero d'ugna, io ne farò un braccio. - Da ciò animati, quelli della Corte e l'oratore di Roma s'adoperavano a tutt'uomo, e volevano che Firenze entrasse di mezzo nel promuovere l'accordo, anzi avevano a questo fine indotto a partire un Giovanni Girolamo fiorentino, che stava colà per affari. Il Machiavelli secondava con ardore queste pratiche; anzi prese allora un'iniziativa insolita, nelle sue legazioni. In parte ciò poteva essere conseguenza della maggiore esperienza, che ora aveva acquistata, e della gravità del pericolo che minacciava Firenze e l'Italia; in parte ancora dell'incoraggiamento che riceveva personalmente e privatamente dalle lettere del Soderini. Pure, scrivendo ai Dieci, egli quasi se ne scusava, dicendo che aveva operato nell'interesse «della Città nostra, alla quale non potrebbe seguire il più pauroso infortunio che l'inimicizia e la guerra di questi due principi. Ed il tentar di promuovere fra di essi un accordo, può giovarci se riesce, e se non riesce, nessuno potrà dolersi di noi. Nè v'è tempo da perdere, perchè qui gli apparecchi di guerra continuano senza interruzione. Il Re ha ordinato in Orléans un Concilio dei prelati del Regno; ha assoldato il duca di Vittemberga, per aver fanti tedeschi; raccoglie soldati nel regno; cerca d'unirsi all'Imperatore, che vuole accompagnare con 2500 lance e 3000 fanti; e ha giurato sopra la sua anima, che farà di due cose l'una, o perdere il regno, o coronare l'Imperatore e fare un Papa a suo modo.» Il Papa dal suo lato s'apparecchiava del pari alla guerra, sicchè in fondo tutti gli sforzi d'accordo erano vani.

Il giorno 9 di agosto il Machiavelli scriveva, che essendo andato col Rubertet a vedere il Re, e ragionando in genere delle cose d'Italia, s'era avvisto che i Francesi non si fidavano dei Fiorentini, se non li vedevano con le armi in mano, e tanto meno se ne fidavano, quanto più gli stimavano prudenti. E poi aggiungeva: «Credino le SS. VV. come le credono al Vangelo, che se fra il Papa e questa Maestà sarà guerra, quelle non potranno fare senza dichiararsi in favore d'una delle parti. E però si giudica da tutti coloro che vi amano, essere necessario che le SS. VV. considerino e decidano, senza aspettare che i tempi venghino loro addosso, e che la necessità gli stringa. Gl'Italiani che sono qui credono che bisogna cercare la pace; ma che, non potendola avere, sia necessario dimostrare al Re come, a volere tenere in freno un Papa, non occorrono tanti Imperatori, nè tanti romori. E discorrendo col Rubertet questa materia, io gli mostrai tutti i modelli che vi erano dentro, e come, se fanno la guerra soli, sanno quel che si tirano addosso; ma se la fanno accompagnati, debbono dividersi l'Italia, e quindi venire tra loro ad una guerra più grossa e pericolosa. Nè sarebbe da disperarsi di potere imprimer loro questi modelli nel capo, quando fosse qui più d'un Italiano di autorità, che ci si affaticasse.»

Il 13 dello stesso mese, essendo il Re venuto a Blois, il cancelliere, con altri della Corte, fece chiamare il Machiavelli, e «dopo un grande esordio de' meriti di Francia verso Firenze, cominciando insino da Carlo Magno, e venendo al re Luigi presente, mi disse come il Re intendeva che el Papa, mosso da uno diabolico spirito che li è entrato addosso, vuole di nuovo tentare l'impresa di Genova.» Volevano perciò che la Repubblica tenesse in ordine le sue genti, le quali potevano da un momento all'altro essere richieste; dal che il Machiavelli invano cercava schermirsi. Il 9 egli aggiungeva, che il Re aveva ordinato il Concilio in Orléans, per vedere se poteva levar l'obbedienza al Papa, e crearne un altro; il che, «se VV. SS. fussino poste altrove, sarebbe da desiderare, acciocchè ancora a codesti preti toccasse di questo mondo qualche boccone amaro.» Ma il Papa era troppo vicino, e i Francesi insistevano ogni giorno più nel volere che i Fiorentini pigliassero subito le armi senza esitare. Il Machiavelli tenne su di ciò lungo discorso col Rubertet, per fargli capire come, trovandosi la Repubblica esausta, e dappertutto circondata dagli Stati del Papa o de' suoi amici, poteva, pigliando parte alla guerra, essere da un momento all'altro assalita da più parti, nel qual caso il Re, invece di ricevere da essa aiuto, avrebbe dovuto mandar gente a difenderla, quando gli era necessario provvedere anche a Genova, a Ferrara, al Friuli, alla Savoia. E queste cose egli disse tante volte, ripetendole nel Consiglio stesso del Re, che finalmente lo Chaumont ebbe ordine di non più insistere, il che tuttavia non impedì che ben presto si tornasse da capo colla solita insolenza.

Il Re s'era adesso rivolto tutto al pensiero della sua venuta in Italia, e pensando al futuro trascurava il presente. A Ferrara ed a Modena le cose andavan male per lui e per gli amici suoi. L'esercito del Papa era entrato nel Ferrarese, e Modena aveva aperto le porte al cardinal di Pavia; Reggio avrebbe fatto lo stesso, e metà del Ducato di Ferrara sarebbe già stata invasa, se lo Chaumont non avesse mandato 200 lance, che bastarono a fermar tutto. E ciò, osservava giustamente il Machiavelli, dimostrava che, pensandoci a tempo, la Francia avrebbe potuto, senza nessuna difficoltà, tutelar l'interesse proprio anche colà. Ma questo generale abbandono degli affari era, come vedemmo, la conseguenza, da ognuno già preveduta, della morte del cardinale di Rouen, il quale s'era sempre occupato anche delle minori faccende, che ora restavano abbandonate al caso. «Così,» egli concludeva, «mentre che il Re non vi pensa, e i suoi le trascurano, il malato si muore. Nondimeno qui sono tutti d'accordo che, venendo esso in Italia, gli sarà necessario cercare di far potenti le SS. VV. E però se viene, ed esse si manterranno nel loro essere presente, quando pure abbiano da dubitare di stropiccio e spesa, potranno tuttavia sperare di molto bene.»

Sebbene in quei giorni il Machiavelli s'adoperasse a tutt'uomo, parlasse con tutti, di continuo scrivesse a Firenze, e ricevesse lettere dai Dieci, dagli amici, dal Soderini stesso, era pure urgente che la Repubblica mandasse in Francia un vero e proprio oratore, con proposte più definite, o almeno con danari da diffondere nella Corte, cosa allora in Francia assai necessaria. E quindi già era stato a questo fine eletto, e doveva fra poco arrivare Roberto Acciaiuoli. Il Machiavelli, che s'apparecchiava perciò a partire, trovavasi al solito senza danari, e ne chiedeva con insistenza, avendone bisogno non solamente pel viaggio, ma anche per curarsi del suo malessere, venuto in conseguenza d'una tosse nervosa, che allora aveva fatto strage in Francia. Il 10 di settembre trovavasi già in cammino a Tours, donde scriveva che i Francesi s'adoperavano molto per radunare il Concilio, ed avevano già fermi i capitoli, su cui volevano interrogarlo. Si voleva da esso sapere se il Papa aveva diritto di muover guerra al Cristianissimo, senza averlo neppure citato o interrogato; se questi aveva diritto di fargli guerra, per difendersi; se si doveva tener per vero Papa chi aveva comprato il papato, e commesso infiniti obbrobrî.

Nel suo ritorno il Machiavelli dovette più volte fermarsi per via, giacchè non lo troviamo a Firenze prima del 19 ottobre, e dagli stanziamenti coi quali gli vien pagato il salario, risulta che la sua assenza si prolungò per 118 giorni. Durante questo tempo, fra le molte lettere di amici che, secondo il solito, lo ragguagliavano delle cose d'Italia, ben poche ne troviamo del suo fido Buonaccorsi. Questi era allora desolato, per una lunga e grave malattia della moglie. Il 22 agosto, infatti, scusandosi del suo silenzio, concludeva: «E sono condocto ad tal termine, che io desideri più la morte che la vita, non vedendo spiraglio alcuno alla salute mia, mancandomi lei.»

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