CAPITOLO XIII.

Gli avversarî del Soderini prendono animo. - Il Cardinale de' Medici acquista favore. - Il Soderini rende conto della sua amministrazione. - Congiura di Prinzivalle della Stufa. - Presa della Mirandola. - Concilio di Pisa. - Commissione a Pisa. - Quarta legazione in Francia.

Ormai si vedeva chiaro che la tempesta s'addensava lentamente, ma inevitabilmente sulla repubblica fiorentina. Il Papa mirava, con un ardore e una tenacia irresistibile, ad isolare la Francia, unendosi, per combatterla, con la Spagna e con Venezia, possibilmente anche con l'Imperatore, il che non era facile. Gli eventi sembravano però secondarlo, e nulla di peggio poteva seguire alla Repubblica ed al gonfaloniere Soderini, la cui politica s'era fondata sempre sull'amicizia della Francia, dalla quale esso non voleva nè poteva più separarsi. Firenze correva quindi il pericolo di trovarsi da un momento all'altro circondata da nemici; ed un tale stato di cose faceva, com'era naturale, crescere rapidamente gli avversarî del Gonfaloniere. Tutti coloro che erano scontenti o invidiosi, uniti al numero non piccolo di quelli che corrono sempre dietro alla buona fortuna, s'alienavano ogni giorno più da lui. Non potevano biasimare nè la sua rettitudine politica, nè la sua severa amministrazione; ma ripetevano ora ad alta voce l'accusa tante volte già fatta, che il suo era un governo personale, il quale allontanava gli uomini di maggior credito ed autorità, sollevando quelli di basso stato, per far tutto ciò che egli ed il segretario Machiavelli volevano. E questo naturalmente indeboliva il governo per modo, che gli effetti se ne vedevano persino nella diminuita autorità dei magistrati, nella poca sicurezza delle vie la notte. Il cronista Giovanni Cambi osserva, che crebbe in quei giorni anche il mal costume, e le donne di mal affare erano venute in tanta insolenza che, contro le leggi, giravano e abitavano dove volevano nella Città, e per mezzo dei loro aderenti facevano minacciar di ferite gli stessi Otto della Balìa, che ne restavano atterriti.

Ma v'era assai di peggio. Il partito dei Medici, favorito dal Papa, guadagnava ogni giorno terreno. Fino a che era vissuto Piero, i suoi modi villani, la sua vita dissipata, l'indole vendicativa e dispotica, i tentativi più volte fatti di tornare in Firenze a mano armata, avevano alienato gli animi da lui e dalla sua famiglia. Ma quando, in sul finire del 1503, egli morì affogato nel Garigliano, le cose cominciarono subito a mutare aspetto, perchè restò capo della famiglia suo fratello il cardinal Giovanni, che aveva residenza in Roma, ed era d'indole assai diversa. Culto e gentile nei modi, amantissimo delle arti e delle lettere, viveva sempre circondato da letterati e da artisti; seguiva in tutto le vecchie tradizioni di Cosimo e di Lorenzo, dei quali era, così nel bene come nel male, degno discendente. Con grandissima cura serbava tutte le apparenze di modesto e privato cittadino, mostrandosi alieno da ogni ambizione di dominar Firenze, sicuro per l'esperienza dei proprî antenati, che anche a lui ed ai suoi il potere sarebbe venuto tanto più facilmente nelle mani, quanto più avessero saputo serbar le apparenze di fuggirlo, pur cospirando in segreto per averlo. Chiunque ricorreva a lui, trovava pronto e generoso aiuto, in modo che ben presto egli divenne come il naturale rappresentante e protettore dei Fiorentini a Roma, dove s'adoperava per tutti, valendosi dell'autorità che aveva nella Curia, e del favore che godeva presso il Papa, il quale volentieri vedeva salire in alto un avversario del Soderini. In questo modo il cardinale dei Medici, sebbene lontano, era in Firenze riconosciuto come il capo d'un partito, che ogni giorno s'ingrossava di tutti gli scontenti, di tutti i nemici del Gonfaloniere. E così quando egli si sentì forte abbastanza, cominciò lentamente ad uscire dalla sua apparente riserva.

Se ne era visto nel 1508 un primo segno, avendo egli fatto concludere il matrimonio tra Filippo Strozzi e Clarice figlia di Piero de' Medici; matrimonio che destò in Firenze grandissimo rumore, perchè si riteneva contrario alle leggi, trattandosi della figlia d'un ribelle, e perchè vivamente avversato dal Soderini e da' suoi amici. Pure, dopo tutto il gran rumore che se ne fece, Filippo Strozzi ne uscì con la condanna di 500 scudi d'oro, oltre ad essere confinato per tre anni nel regno di Napoli. Questa pena sembrò assai mite, trattandosi d'una violazione degli Statuti; ma par, nonostante, che fosse nella esecuzione attenuata di molto, giacchè prima che i tre anni fossero trascorsi, noi ritroviamo lo Strozzi a Firenze. Così il partito dei Medici s'agitava adesso, e diveniva sempre più audace.

Il Soderini s'impensierì di tutto ciò a segno, che il 22 dicembre 1510 volle in Consiglio render conto esatto e minuto della sua amministrazione negli otto anni che aveva tenuto il governo, durante i quali, come egli dimostrò, le uscite erano giunte alla somma totale di 908,300 scudi d'oro. Espose quali erano le economie fatte, quali le spese sostenute, mostrando i libri, che chiuse poi in una cassa di ferro. Apparve a tutti evidente, che la Repubblica non aveva mai avuto un'amministrazione più regolata ed economica. Eppure subito dopo si seppe d'una congiura tramata contro la vita del Gonfaloniere, e correva la voce che il Papa stesso vi avesse tenuto mano. Un tal Prinzivalle della Stufa, il 23 dicembre, cioè il giorno seguente a quello in cui il Soderini aveva fatto il pubblico rendimento di conti, andò da Filippo Strozzi proponendogli d'uccidere il Gonfaloniere, e mutare il governo della Città, aggiungendo d'essere in ciò d'accordo col Papa, che gli aveva promesso in aiuto alcuni uomini di Marcantonio Colonna. Sia che lo Strozzi fosse veramente alieno, come disse, dal mescolarsi allora nelle cose di Stato; sia che non avesse fede in chi gli parlava, o non volesse pigliar parte a un delitto, certo è che respinse sdegnoso la proposta di Prinzivalle, e dopo avergli dato tempo a fuggire, rivelò la cosa al Gonfaloniere. Non si potè quindi fare altro che chiamare ed esaminare il padre del fuggiasco, confinandolo, dopo il processo, per cinque anni.

L'animo del Soderini ne rimase però assai conturbato, e la sera del 29, dovendosi nominare i Gonfalonieri delle Compagnie, venne in Consiglio, e narrò come la congiura pareva che avesse molte radici nella Città, e potesse facilmente esser di nuovo tentata. Se avevano deliberato di uccider lui, egli disse, ciò era per poter subito dopo chiudere il Consiglio, e mutare il governo, convocando il popolo a Parlamento, contro le più esplicite prescrizioni di legge. Si estese poi molto in questo suo discorso, esponendo di nuovo e lungamente la sua condotta politica, i modi di governo che aveva tenuti, la sua imparzialità e giustizia. Più volte si commosse a segno che gli vennero le lacrime agli occhi, specialmente quando parlò delle ingiuste accuse che gli si facevano, e dei pericoli da cui era minacciata la libertà, la quale, egli concluse, sotto pretesto di odio a lui, i suoi nemici volevano in ogni modo distruggere. Il Consiglio si dimostrò deciso a sostenere il governo, e lo dimostrò non solo con l'accoglienza fatta alle parole del Gonfaloniere, ma ancora col votare una legge intesa a difendere la libertà, legge che già più volte da lui presentata e difesa in Consiglio, era stata fin allora sempre respinta. Con essa si provvedeva al caso che, per qualche congiura o per altra ragione qualsiasi, venisse improvvisamente a mancare il numero legale in uno o più dei maggiori ufficî (Signori, Gonfalonieri delle Compagnie e Buoni Uomini), e si fossero portate via le borse, per impedire una regolare estrazione di nomi, e così pigliarne pretesto a radunare il popolo a Parlamento, per poi mutare la forma del governo. La nuova legge voleva perciò che, se si potevano ritrovare le borse o almeno i registri dei nomi, coloro i quali restavano in ufficio facessero senz'altro procedere alla elezione, estraendo i nomi a sorte. Se invece le borse erano state distrutte o portate via insieme coi registri, allora si doveva adunare il Consiglio Grande, bastando nella seconda convocazione il numero dei presenti, qualunque esso fosse, per procedere all'immediata elezione. Quanto al Gonfaloniere, non si deliberò nulla di nuovo, ma si richiamarono in vigore le disposizioni già votate il 26 agosto dell'anno 1502, in cui l'ufficio era stato dichiarato perpetuo, e il modo dell'elezione minutamente determinato.

Ma per quanto fosse cresciuto il numero degli scontenti in Firenze, essi restavano sempre una minoranza, alla quale non sarebbe riuscito mutare la forma del governo, se avesse dovuto fidar solamente in sè stessa. Il vero pericolo della Repubblica veniva di fuori, e non c'era tempo da perdere. Il Machiavelli s'occupava perciò a metterla in condizioni tali da potersi difendere, fidando solo nelle proprie armi. Persuaso sempre più della utilità ed efficacia della sua Ordinanza a piedi, lavorava con grande energia a formare anche una a cavallo, armata di balestra, di lancia o scoppietto. Per ora l'ordinava in modo provvisorio, sotto forma quasi d'esperimento, per venir poi, quando le prime mostre fossero ben riuscite, alla legge che doveva costituirla definitivamente, come s'era già proceduto coll'Ordinanza a piedi.

Nel novembre e nel dicembre del 1510 egli girava pel dominio a scrivere cavalli leggieri; andò poi a Pisa ed Arezzo, per visitare le due fortezze, e riferire in quale stato si trovavano; nel febbraio del 1511 lo vediamo a Poggio Imperiale, dove esaminava in che condizioni era quel luogo. Nel marzo, invece, andava nel Valdarno di sopra e nella Valdichiana, girando con danari per arrolare cento cavalleggieri, che nell'aprile in fatti condusse a Firenze. Nell'agosto fece un'altra escursione, per arrolarne altri cento. In questo mezzo andò anche due volte a Siena a disdir prima la tregua che scadeva il 1511, e poi riconfermarla con un'altra di 25 anni, mediante però la resa di Montepulciano ai Fiorentini da una parte, e la promessa dall'altra di sostenere in Siena il governo del Petrucci. Questa lega, che fu solennemente bandita a Siena nell'agosto, venne conclusa con la mediazione del Papa, il quale voleva evitare che i Fiorentini chiamassero i Francesi in Toscana; ed il Petrucci stesso s'era rivolto a lui, perchè temeva il malcontento del popolo, cresciuto ora appunto, per la cessione che egli era costretto a fare di Montepulciano. Il 5 maggio il Machiavelli partiva di nuovo, per andare presso Luciano Grimaldi signore di Monaco, che aveva sequestrato una nave fiorentina, e di là tornava il dì 11 giugno, dopo averne felicemente ottenuta la liberazione.

Il Concilio radunato a Tours dava intanto a Luigi XII la risposta desiderata, che egli cioè sarebbe stato nel suo pieno diritto movendo guerra al Papa. Ma questi, senza aspettare nè risposta nè consiglio da alcuno, l'aveva già cominciata e la proseguiva con l'ardore d'un giovane conquistatore. Il 22 settembre 1510, con un esercito di Italiani e Spagnuoli, comandati dal duca d'Urbino, da Marcantonio e Fabrizio Colonna, era entrato in Bologna, prima che lo Chaumont fosse stato in tempo a fare resistenza. Nè potè fermarlo il sopravvenire del verno, che anzi, pieno di sdegno contro il duca di Ferrara, s'avanzò e prese Concordia; poi assalì la Mirandola, tenuta dalla vedova di Luigi Pico, stato sino all'ultimo fedele alla Francia, quale aveva ora mandato colà appena qualche debole rinforzo. Il vecchio Papa s'era fatto ai primi del 1511 portare in lettiga da Bologna, e se ne stava ora, durante l'assalto, sotto il tiro del cannone. La neve cadeva in gran copia, le acque erano gelate, una palla di cannone entrò nel suo stesso alloggiamento, senza che egli se ne curasse punto. Essendosi una volta allontanato alquanto dal campo, fu per cadere in un'imboscata francese; sarebbe anzi rimasto certamente prigioniero, se le nevi non gli avessero impedito di tornare indietro all'ora stabilita. La Mirandola, sebbene validamente difesa da Alessandro nipote di G. G. Trivulzio, pure, non essendo stata, per gelosia, soccorsa dallo Chaumont, dovette il 20 gennaio 1511, appena fu aperta la breccia, arrendersi, pagando anche 6000 ducati, per evitare il sacco già promesso ai soldati dal Santo Padre. Questi era dominato da tale e tanta impazienza, che per non aspettare, si fece tirar su in una cassa di legno, ed entrò per la breccia; dette poi il possesso della terra a Giovanni Pico, che, sebbene cugino del defunto signore, era rimasto sempre nemico dei Francesi.

Per essi venne opportuna la morte del loro generale Chaumont, seguita il dì 11 febbraio. Egli aveva infatti lasciato prender Modena dal nemico, non era arrivato in tempo a Bologna, non aveva soccorso la Mirandola, e così tutto era per sua colpa andato in rovina. Ora che gli mancava la validissima protezione dello zio, non poteva sperare la medesima indulgenza che in passato, e quindi s'accorò tanto della sua mala ventura, almeno così si disse, che ne morì. Il comando dell'esercito fu allora affidato di nuovo al vecchio G. G. Trivulzio, cui s'aggiunse il giovane Gastone di Foix, destinato, nei pochi mesi che ancora gli restavano di vita, a rendersi immortale. La fortuna della guerra infatti ben presto mutò. Nel maggio G. G. Trivulzio s'avvicinava coll'esercito a Bologna, ed il Papa, che prima aveva ricusato le offerte di pace, proposte da un congresso tenuto a Mantova, e raccomandate anche dall'Imperatore, se ne fuggì quasi spaventato a Ravenna, sperando che i Bolognesi difenderebbero essi la loro città. Colà egli aveva lasciato il cardinale Francesco Alidosi, già vescovo di Pavia, in qualità di legato della Romagna; e il duca d'Urbino era coll'esercito a poca distanza. Ma il Cardinale, gran protetto del Papa (su di che correvano allora strane dicerie, le quali non sarebbe possibile ripetere), era un uomo assai odiato, di cui nessuno si fidava. E quindi appena giunse la notizia che il Trivulzio s'avvicinava coi Bentivoglio, i Bolognesi si sollevarono il 21 maggio; tirarono giù la statua di Giulio II, opera del Buonarroti, e la ridussero in pezzi, che il duca di Ferrara poi fuse, facendone un cannone. Il Cardinale fuggì a Castel del Rio; i Bentivoglio ed i Francesi entrarono in città; il duca d'Urbino, sorpreso dall'improvviso tumulto, inseguito dai Francesi, si ritirò con tanta fretta, in tal disordine, che perdette le artiglierie e tutti i bagagli, che i nemici portaron via, caricandone molti asini; onde poi quella giornata fu detta degli asinai. La Mirandola andò di nuovo perduta, e il duca di Ferrara riprese tutte le terre che gli erano state tolte.

Il Papa ebbe a Ravenna la notizia di quanto era accaduto; e sebbene la voce pubblica accusasse di tradimento il Cardinale, che certo non aveva fatto la resistenza dovuta, nè aveva di nulla avvertito il duca d'Urbino, pure solamente contro di questo si manifestò allora il suo sdegno, esclamando: Se mi capita fra le mani, lo farò squartare. Preso animo da ciò, il Cardinale corse da lui in Ravenna, ed inginocchiatosi ai suoi piedi, non contento d'aver perdono, cercò di gettar tutta la colpa sul Duca. Questi che, sebbene avesse solo ventun'anno, pure s'era già insanguinate le mani nel delitto, fu adesso per lo sdegno del Papa, pel disonore della disfatta, sopra tutto per la condotta sleale del Cardinale, preso da tanta ira che, incontratolo per via in Ravenna, lo uccise colle proprie mani a colpi di stocco, sfondandogli il cranio, che così forato conservasi ancora nel museo di quella città. Paride de' Grassi, il quale continuò il Diario del Burcardo, e odiava il Cardinale, che credeva traditore, ne lodò l'uccisione esclamando: - O buon Dio, quanto sono giusti i tuoi giudizî! Noi ti dobbiam render grazie della morte del traditore; giacchè, sebbene sia stato ucciso dalla mano d'un uomo, pure è opera tua, o almeno consentita da te, senza di cui non si muove foglia. - Il Papa invece fu indicibilmente addolorato per questo nuovo delitto, commesso dal proprio nipote contro un cardinale di Santa Chiesa, da lui tanto amato e favorito. Minacciò di dare un esempio di grande severità; ed infatti ben presto privò d'ufficio il Duca, sottoponendolo poi al giudizio di quattro cardinali.

Ma v'erano altri eventi che lo angustiavano sempre più in questo anno per lui sfortunato. Lo tormentava la faccenda del Concilio, che sembravagli una continua minaccia alla sua autorità. E quantunque non vi fosse veramente da impensierirsene ancora, pure non era cosa che potesse disprezzarla affatto egli, che aveva tante volte minacciato di adoperar quell'arme contro Alessandro VI, e che, al pari de' suoi predecessori, da lui aspramente di ciò biasimati, aveva mancato alla solenne promessa, fatta nell'assumere la tiara, di radunare il Concilio fra due anni. Nel settembre del 1510 egli aveva dimostrato grandissimo sdegno per la notizia giuntagli inaspettatamente in Bologna, che cinque de' suoi cardinali, mutando strada a un tratto, s'erano diretti a Firenze, per andar poi a Pisa, dove il Conciliabolo, come lo chiamava, era stato convocato dopo la riunione tenuta a Tours. Questo Concilio o Conciliabolo che fosse, era favorito anche da Massimiliano, il quale proponeva di tenerlo a Firenze, e ne pigliava occasione a chieder nuovo danaro alla Città, per l'onore che, secondo lui, veniva così a renderle. Ma i Fiorentini erano invece tanto impensieriti di tutto ciò, che Luigi XII aveva direttamente dovuto chieder loro, che dessero almeno una prova di fedeltà alla Francia, consentendo la convocazione in Pisa. E la domanda del Re fu lungamente discussa nel Consiglio degli Ottanta, dove intervennero quel giorno più di cento persone. Non si voleva offendere il Papa, ma non si voleva neppure perdere l'alleanza francese, e questo secondo pensiero fu quello che prevalse, perchè favorito dal suffragio degli antichi seguaci del Savonarola, il quale era stato già primo a mettere innanzi, sostenendola con molto calore, l'idea di un Concilio da radunarsi d'accordo con la Francia contro papa Alessandro VI. Così fin dal maggio fu deliberato di consentire, ma fu del pari convenuto di tener segreta la deliberazione presa, il che valse a far sì che il Papa, in apparenza almeno, si dimostrasse, per qualche tempo ancora, temperato e mite verso la Repubblica, contro la quale era però sempre deciso di vendicarsi a suo tempo. Intanto l'invito di recarsi in Pisa, affisso alla porta di varie chiese in Italia e fuori, era stato già fatto dai cardinali di Santa Croce, San Malò e Cosenza, i quali affermavano d'avere la rappresentanza d'altri colleghi, ed invitavano a presentarsi il Papa stesso, che il 28 maggio, con maraviglia e sdegno grandissimo, vide coi propri occhi la lettera attaccata alla chiesa principale di Rimini.

La cosa procedeva lentamente, ma non si fermava; laonde egli si persuase che era pur necessario pigliare un qualche provvedimento. Nel marzo del 1511 nominò otto nuovi cardinali, due dei quali, Matteo Lang e il vescovo di Sitten, per ragioni politiche; ma gli altri, che pagarono in media da 10 a 12 mila ducati ognuno, li nominò in parte per trovare il danaro allora assai necessario alla guerra; ma in parte ancora, per colmare con gente a lui fedele il vuoto lasciato da quelli che lo avevano disertato, andando a Pisa. Si decise inoltre a radunare in Laterano un Concilio da opporre a quello di Pisa, ed il 18 luglio 1511 lo intimò pel 19 aprile 1512, minacciando di privare delle loro dignità i cardinali scismatici, se non si sottomettevano subito. Ciò non ostante la faccenda del Conciliabolo andava innanzi, perchè Luigi XII spingeva quanto più poteva alla riunione di esso, e nel settembre più che mai lo favoriva il sempre mutabile Massimiliano, il quale anzi, dopo averlo desiderato a Firenze, lo voleva ora anch'egli in Pisa: era tornato al suo fantastico sogno di farsi proclamare papa, ed invitava, in nome dell'Impero, i vari Stati a mandar loro oratori colà. Giulio II invece spediva a Firenze il vescovo di Cortona, fiorentino, per dissuaderla dall'accogliere il Conciliabolo nel suo territorio, facendo prevedere le gravi calamità che altrimenti ne sarebbero ad essa seguite. Ma la Repubblica, che si trovava fra due fuochi, avendo già promesso a Luigi XII, non osava ora nè consentire nè rifiutare, e sperava solo di potere, temporeggiando, mandare le cose in lungo.

Tutto questo aveva però in modo agitato ed irritato il vecchio Papa, che se n'era due volte ammalato, prima nel giugno e poi nell'agosto, quando fu addirittura creduto morto. Già, secondo il costume, si cominciava a saccheggiar la sua abitazione, ed il duca d'Urbino, che si trovava a Roma, aspettando la sentenza dei quattro cardinali che dovevano giudicarlo, corse in Vaticano, dove con sua maraviglia trovò che lo zio era sempre vivo. La città s'era tutta levata a tumulto, e Pompeo nipote di Prospero Colonna, che i suoi parenti avevano costretto alla vita religiosa, quando si sentiva invece chiamato alle armi, assunse per un momento le parti di nuovo Stefano Porcari. Ma cominciava appena ad ordinar la forma del governo repubblicano, quando seppe che il terribile Papa era tornato nel suo pieno vigore; e così tutto andò in fumo.

Giulio II tornava ora ad operare con più ardore che mai. Interdisse Pisa e Firenze, che avevano tollerato le prime formalità del Conciliabolo, iniziate il giorno 1° settembre. Assolvè il duca d'Urbino, per valersene nella guerra, e concluse una lega, che chiamò santa, con Venezia e la Spagna contro la Francia, lasciando libero all'Imperatore l'aderirvi. Egli assumeva con essa l'obbligo di mettere insieme 400 uomini d'arme, 500 cavalli leggieri, 6000 fanti; la Spagna doveva dare 1200 uomini d'arme, 1000 cavalli leggieri, 10,000 fanti; Venezia, 8000 uomini d'arme, 1000 cavalli leggieri, 800 fanti. Oltre di ciò il Papa s'obbligava a pagare 20,000 ducati il mese, ed altrettanti Venezia, la quale doveva anche dare 14 galee sottili, e altre 12 ne doveva dare la Spagna. Capitano generale fu nominato il vicerè di Napoli, Raimondo di Cardona. Scopo di questa lega era: unione della Chiesa cattolica; soppressione del Conciliabolo; ricupero di Bologna, di Ferrara e di tutte le altre terre, che erano o si presumeva fossero del Papa; ricupero delle terre dei Veneziani nell'alta Italia; guerra a chi a ciò s'opponeva, ossia alla Francia. Il 5 di ottobre questa nuova Lega Santa venne solennemente pubblicata in Santa Maria del Popolo a Roma. Il 24 furono privati di loro dignità e benefizi i cardinali scismatici di Santa Croce, Cosenza, San Malò e Bayeux. San Severino fu pel momento risparmiato; ma ben presto venne anch'egli colpito dall'ira del Papa, il quale, a sempre meglio far conoscere l'animo suo avverso alla Repubblica, nominò il cardinal dei Medici, legato prima a Perugia, poi a Bologna.

I Fiorentini sentivano la tempesta addensarsi sul loro capo, e cercavano perciò riparare come potevano. Erano riusciti a far partire da Pisa i tre procuratori, che avevano il 1° settembre eseguito gli atti iniziali del Concilio. Con commissione del 10 settembre 1511 mandavano in giro il Machiavelli, perchè cercasse d'incontrare i cardinali che erano in via per Pisa, e persuaderli d'attendere. Doveva poi correre a Milano, per parlare al luogotenente Gastone di Foix nel medesimo senso; recarsi finalmente in Francia, per esporre e far comprendere al Re lo stato vero delle cose. «Al Concilio,» diceva la istruzione, «nessuno mostra voglia d'andare, e serve perciò solamente ad irritare il Papa contro di noi: per queste ragioni chiediamo, che non si tenga in Pisa, o che si soprassegga per ora. Di Germania non si vede che venga nessun prelato, di Francia pochi e con gran lentezza. Ed è cosa di universale maraviglia il sentire un Concilio intimato da tre soli cardinali, quando i pochi altri, di cui essi dicono d'avere l'adesione, vanno dissimulando, e differiscono il venire. Ciò non ostante, si parla di volere in mano la fortezza, e riempiere la città d'uomini armati, per il che sono già seguiti disordini in Pisa, che è stata interdetta dal Papa, e i capi delle religioni si sono in essa dichiarati contro il Concilio. Se dunque non c'è modo di sperare accordo fra il Papa ed il Re, e se questi non s'induce a smettere, bisogna cercare d'indurlo almeno a soprassedere per due o tre mesi.»

Il 13 di settembre il Machiavelli scriveva da San Donnino, dove aveva trovato i cardinali San Malò, Santa Croce, Cosenza e San Severino, i quali gli dissero che andavano a Pisa per Pontremoli, senza toccar Firenze. Prima di muoversi aspettavano però ancora un dieci o dodici giorni l'arrivo dei prelati di Francia. Il 15 scriveva da Milano l'ambasciatore Francesco Pandolfini, che il Machiavelli, già arrivato colà, era stato presentato a Gastone di Foix, cui aveva esposto la sua commissione. Gli aveva dichiarato come i Fiorentini non negavano punto il salvocondotto ai cardinali, come questi avevano mandato a dire; ma solo pregavano si considerassero i pericoli cui andavano esposti, per gli apparecchi che faceva il Papa. E quel luogotenente, da soldato qual'era, aveva risposto che cinque o seicento lance sarebbero state il vero salvocondotto. Da Milano il Machiavelli si recava subito in Francia. Ed il 24 dello stesso mese Roberto Acciaiuoli scriveva da Blois, ch'era andato con lui dal Re a leggergli una memoria concertata fra di loro. «Il Re,» egli aggiungeva, «desidera molto la pace, sarebbe tenuto a chi gliela facesse concludere, ed ha intimato il Concilio per arrivare più presto a questo fine. Non è stato possibile persuadergli che la paura del Concilio spinge il Papa alle armi e non all'accordo. Vuole cominciarlo là dove è stato convocato, aggiungendo che non si adunerà fino a tutti i Santi, e che presto poi lo tramuterà in altro luogo.» Dopo di ciò il Machiavelli tornava subito a Firenze, dove era il 2 di novembre, e donde ripartiva per Pisa il giorno seguente.

I Fiorentini con la loro incerta condotta non soddisfacevano la Francia, e scontentavano il Papa. Colpiti dall'interdetto, s'erano appellati al Concilio generale, senza dichiarare se con ciò intendevano riferirsi a quello di Pisa o di Roma. Costringevano intanto i sacerdoti d'alcune chiese a celebrare i sacri riti, perchè potessero assistervi i fedeli. Nè si fermarono a ciò, che fu presentata e vinta una provvisione, validamente sostenuta in Consiglio dal Gonfaloniere, con la quale si dava facoltà d'imporre sui preti un prestito, che poteva in più volte arrivare fino a 120,000 fiorini, da riscuotersi però quando il Papa davvero movesse la guerra ai Fiorentini; da restituirsi dopo un anno, se guerra poi non vi fosse, ed in cinque, se vi fosse. Tutto questo dimostrava che in caso estremo si era deliberati a difendersi anche contro il Papa. Pandolfo Petrucci lo indusse perciò a muovere con l'esercito verso Bologna, la quale non era apparecchiata alla difesa, evitando ora di passar per la Toscana, dove avrebbe trovato un terreno montuoso, e sarebbe stato costretto ad affrontare nello stesso tempo i Fiorentini ed i Francesi. Egli insisteva assai vivamente in queste sue pratiche, non solo perchè una guerra in Toscana era, in ogni caso, dannosa a lui che in essa aveva il proprio Stato; ma anche perchè egli avrebbe allora dovuto, secondo la lega già fatta, prestare aiuto ai Fiorentini. Faceva quindi notare al Papa, come essi di gran mala voglia si lasciassero tirare al Concilio, e ciò solamente per paura della Francia, nelle cui braccia si sarebbero certo dovuti gettare, se venivano da lui assaliti. Ed era vero, com'era anche verissimo che il volere i Fiorentini sempre temporeggiare e destreggiarsi, in un momento nel quale un grande conflitto rapidamente s'avvicinava, poteva mettere a pericolo l'esistenza stessa della Repubblica. In questa via nondimeno li tenevano il sentimento della propria debolezza, le discordie interne, ed anche l'incertezza dei ragguagli che venivano dai vari ambasciatori. Il Pandolfini che si trovava presso Gastone di Foix, scriveva nell'ottobre da Brescia: «I disegni del re dei Romani pigliano tanto tempo a colorirsi, che spesso, quando sono appena finiti di colorire, bisogna mutarli, per essere mutate le condizioni e i presupposti che li fecero immaginare. Quanto a lui bisogna dunque rimettersene a quello che seguirà. Le cose dei Francesi poi sono qui governate per modo, che da un momento all'altro possono seguire sinistri effetti, perchè a lungo andare i cattivi governi degli uomini non partorirono mai nulla di buono. Il Re è assai caldo nel Concilio; ma se le SS. VV. potessero differirlo ancora un mese, saria facile fuggirlo, dovendo il fuoco inevitabilmente appiccarsi altrove. Anticipando, si tirerebbero forse il fuoco in casa, senza poternelo cavare, quando anche ne cavassero il Concilio.»

I Fiorentini lo accolsero ma ponendovi ostacoli d'ogni sorta, e permettendo che fosse dileggiato. Quando infatti i cardinali volevano andare a Pisa, accompagnati da 300 o 400 lance francesi, sotto il comando di Odetto di Foix signore di Lautrech, essi mandarono subito Francesco Vettori, il quale disse chiaro al cardinale di San Malò, che se si avanzavano con le genti d'arme, sarebbero stati trattati da nemici. Ed i cardinali allora andarono accompagnati solo da Odetto e dallo Châtillon con pochi arcieri. Furono presi tutti i provvedimenti necessarî a mantenere la sicurezza e l'ordine tanto in Pisa, quanto nelle vicine città, ed il Papa se ne dimostrò soddisfatto in modo che sospese l'interdetto fino alla metà di novembre.

Il giorno 3 di questo mese il Machiavelli era, come dicemmo, partito da Firenze per Pisa, dove si trovavano già altri inviati fiorentini, e dove egli condusse alcuni soldati a guardia del Concilio, che il giorno 1° aveva tenuto la sua riunione preparatoria, alla quale assistevano solo quattro cardinali ed una quindicina di prelati. Era stato dai preti della cattedrale negato loro l'uso dei paramenti, e la facoltà d'ufficiare nella chiesa, di cui erano state addirittura chiuse le porte. I Fiorentini ordinarono che fosse concesso l'uso della chiesa e dei paramenti, senza però fare obbligo alcuno ai preti della città d'assistere al Concilio, se non volevano. Così finalmente si potè tenere nella cattedrale la prima riunione il giorno 5 di novembre, e dopo la messa solenne, celebrata dal Santa Croce alla presenza degli altri tre cardinali, furono pubblicati quattro decreti. Con questi si dichiarava valido il Concilio di Pisa, nulle le censure del Papa contro di esso, nullo il Concilio lateranense, perchè non libero e non sicuro; e finalmente si decretava che sarebbero condannati e puniti tutti coloro che, essendo invitati a comparire, non si presentavano. Il giorno seguente il Machiavelli scriveva d'aver parlato col cardinale di Santa Croce, per indurlo, come di suo, a trasferire altrove il Concilio. «Portandolo in Francia o in Germania,» gli aveva detto, «farebbero il Papa più freddo a combatterlo, e troverebbero anche maggior seguito ed obbedienza, cosa da considerarla molto in una faccenda come questa, nella quale uno che andasse volontario varrebbe più che venti tirati per forza.» La seconda sessione fu tenuta il 7 di novembre, e la terza, fissata pel 14, venne anticipata il 12, dopo di che fu deliberato tenere la quarta il 13 dicembre a Milano. La indifferenza, anzi la palese malavoglia della Repubblica; l'ostilità della popolazione; ed un grave tumulto seguìto, in conseguenza di ciò, fra il popolo pisano ed i soldati fiorentini da una parte, i Francesi e i servi dei cardinali dall'altra, tumulto a fatica fermato da Odetto di Foix e dallo Châtillon, che rimasero feriti, furono le cagioni che indussero a trasferire così presto il Concilio a Milano.

Ivi i cardinali sparlavano dei Fiorentini per ogni verso, cercando irritare contro di essi l'animo degli uffiziali francesi. Ma anche a Milano trovarono la stessa universale indifferenza, la stessa avversione del clero, che al loro arrivo non voleva più celebrare le messe. A mala pena i preti minori si piegarono agli ordini del Senato; i canonici e gli altri resisterono fino a che non vennero minacciati d'esilio, o non furono loro mandati Francesi in casa. La verità era, osservò giustamente il Guicciardini, che tutti capivano come questi cardinali erano solo ambiziosi, mossi da interessi personali, e non avevano «minore bisogno d'essere riformati, che avessero coloro i quali si trattava di riformare.» Il Concilio si usava come un'arme di guerra nella grande contesa che doveva fra poco risolversi colle armi, e però solo a questa veniva adesso rivolta l'attenzione universale. Ma i Fiorentini, sebbene liberi adesso dalle noie del Concilio, non ne risentivano alcun sollievo, perchè ormai si trattava di vedere se, nella vicina catastrofe, poteva salvarsi l'esistenza stessa della Repubblica.

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