CAPITOLO XIV.

La battaglia di Ravenna. - I Francesi si ritirano. - Pericoli della Repubblica. - Il Machiavelli provvede alla difesa. - Ordinanza a cavallo. - Gli Spagnuoli prendono e saccheggiano Prato. - Tumulto in Firenze a favore dei Medici. - Il gonfaloniere Soderini è deposto, e lascia la Città.

I Francesi ingrossavano in Italia, e li comandava G. G. Trivulzio che, sebbene vecchio, era sempre capitano assai reputato, e Gastone di Foix. Questi, che aveva appena 23 anni, era figlio d'una sorella del Re, e fratello della moglie di Ferdinando il Cattolico, trovavasi a Milano come governatore, e doveva ora far maravigliare il mondo pel suo coraggio, pel suo genio militare. Il Trivulzio aveva cacciato i papalini dal Ferrarese, e rimesso i Bentivoglio in Bologna; ma l'esercito non era ancora in grado d'uscire in campagna, e però egli aspettava rinforzi dalla Francia, dove gli apparecchi di guerra andavano lenti. Il Re, sempre stretto nello spendere, ricusava d'aumentare la paga agli Svizzeri, che ora gli domandavano 40 invece di 30 mila ducati l'anno, e non avendoli avuti, si disponevano a scendere in Italia per aiutare invece il Papa. Questi infatti da un pezzo lavorava a tale scopo, per mezzo de' suoi agenti, e fin dall'ottobre del 1511, sentendo che il Re vantavasi ancora d'aver seco gli Svizzeri, aveva risposto che «mentiva per la gola, che non li arìa mai.» Luigi XII s'era illuso, perchè, sapendo che gli Svizzeri non avevano nè cavalleria, nè artiglieria, supponeva che non avrebbero osato separarsi da lui, ed operare per proprio conto. Ma essi, che si tenevano la prima fanteria del mondo, s'erano invece persuasi che la Francia, debole appunto nelle sue fanterie, non avrebbe potuto far nulla senza di loro, molto meno poi affrontarli in campo aperto.

Scesero adunque in numero di 10,000, ed aspettavano l'arrivo d'altri compagni per andar contro ai Francesi. La cosa fece grandissimo senso in Italia, tanto che il cardinal Soderini, il quale s'era finto ammalato per non obbedire al Papa, che lo chiamava in Roma, corse ora subito a lui, che esclamò: «Svizzeri essere buoni medici del mal francese, perchè hanno sì bene guarito monsignor di Volterra.» Ma Gastone di Foix seppe tenerli a bada, temporeggiando; ed essi, quando erano già arrivati al numero di 16,000, si ritirarono senza aver fatto nulla, e senza che nessuno ne capisse il perchè. Forse erano stati anche ora riguadagnati dal danaro francese. I Fiorentini, in questo mezzo, s'adoperavano a tutt'uomo per mantenersi neutrali. Alla Francia che li richiedeva d'aiuto, rispondevano d'avere già mandato i 300 uomini d'arme cui erano tenuti, e non potere altro. E nella Spagna mandavano ambasciatore messer Francesco Guicciardini, che, sebbene non avesse ancora l'età legale di 30 anni, era già noto pel suo ingegno. Non gli dettero però nessuna commissione determinata, che potesse in qualche modo valere a calmare i confederati. E così correvano sempre il grave pericolo di rimanere ugualmente invisi a tutti.

Restavano adunque da una parte i Francesi, che erano assai aumentati di numero, ed avevano molti fanti tedeschi; dall'altra la Spagna, Venezia, il Papa, il quale scriveva lettere di fuoco al cardinal de' Medici, dicendo di non capire perchè non venissero alle mani, e non avessero già assalito Bologna. I confederati erano presso Imola con un esercito, tra Spagnuoli e papalini, di 16,000 fanti e 2400 cavalli, comandati dal vicerè Raimondo di Cardona, da Pietro Navarro, da Prospero e Marcantonio Colonna, ed altri. I Francesi avevano in Bologna 2000 fanti tedeschi e 200 lance solamente; sicchè i nemici cominciarono ad assalirla, e colle mine dirette dal Navarro, che era famosissimo ingegnere, mandarono in aria un pezzo di muro. Questo però, ricadendo, chiuse di nuovo la breccia, che parve un miracolo. E quasi nello stesso tempo Gastone di Foix, che aveva già introdotto nella città altri 1000 fanti e 180 lance, vi entrò il 4 febbraio con tutto l'esercito, che il Guicciardini fa ascendere a 1300 lance e 14,000 fanti, fra Italiani, Francesi e Tedeschi. A questa notizia i confederati levarono l'assedio e s'allontanarono; ma non furono inseguiti, perchè Gastone, saputo che i Veneziani s'erano impadroniti di Brescia, partì immediatamente a quella volta il 9 di febbraio, lasciando in Bologna solo 300 lance e 4000 fanti.

Per via incontrò un distaccamento dell'esercito veneziano e lo ruppe; assalì poi Brescia, dove il castello si teneva sempre per lui. Il 19 egli era padrone della città, dopo un feroce assalto ed una difesa ostinatissima fatta dall'esercito veneziano, forte di 8000 fanti, 500 uomini d'arme e 800 cavalli leggieri, che perirono quasi tutti, parlandosi da alcuni di 8000, da altri perfino di 14,000 morti, fra soldati e cittadini. La povera Brescia ebbe a sopportare un saccheggio di circa sette giorni continui, avendo Gastone, che era tanto crudele quanto valoroso, lasciato libero ogni freno ai suoi. Dopo di ciò egli richiamò sotto le armi l'esercito, che aveva sofferto assai poco, era ricco di preda, pieno di baldanza, e s'avviarono di nuovo in Romagna. In un tempo nel quale le mosse degli eserciti erano lentissime, egli riuscì veramente a fare prodigi. Aveva in quindici giorni liberato Bologna dall'assedio, respinto per via un distaccamento nemico, assalito e preso Brescia; era pronto adesso a maggiori imprese. Arrivato al Finale, trovò nuovi rinforzi, coi quali portò l'esercito a 1500 lance, 1000 arcieri, 19,000 fanti tra Francesi, Italiani e Tedeschi, senza contar le artiglierie, che erano principalmente quelle del duca di Ferrara. Gli Spagnuoli avevano 1400 tra lance ed uomini d'arme, 1500 giannettieri, 13,500 fanti, oltre le artiglierie, e 50 carri falcati di nuova invenzione.

I due eserciti campeggiarono un pezzo, non volendo i confederati venire alle mani con un nemico superiore di numero. Ma Gastone di Foix non aveva tempo da perdere, perchè gl'inglesi minacciavano d'assalire la Francia, e l'Imperatore, poco sicuro alleato di Luigi XII, minacciava di richiamare i suoi 6000 Tedeschi. Per costringere adunque a battaglia il nemico che si ritirava, egli, dopo aver preso alcuni castelli, assalì Ravenna, città troppo importante perchè gliela lasciassero prendere senza opporsi con tutte le forze. Ivi infatti era entrato a difenderla Marcantonio Colonna, avendo avuto promessa solenne, che l'intero esercito dei confederati sarebbe venuto in suo aiuto, quando egli si fosse trovato in pericolo. Gastone di Foix venne a mettersi tra i due fiumi, Ronco e Montone, che si avvicinano sempre più fra di loro presso le mura della città. Piantate le artiglierie, aprì la breccia e diede l'assalto; ma la difesa fu così gagliarda che, dopo aver perduto 300 fanti ed alcuni uomini d'arme, con altrettanti feriti, dovè tornare agli alloggiamenti. Il giorno dipoi i cittadini mandarono al campo francese per trattare la resa, all'insaputa di Marcantonio Colonna, che, sicuro degli aiuti, s'apparecchiava a difendersi. Ben presto infatti l'esercito dei confederati fu in vista, il duca di Nemours e Gastone diedero subito gli ordini per la battaglia, tanto più ardentemente da essi desiderata ora che giungeva una lettera, con la quale l'Imperatore richiamava le sue genti, e si fu appena in tempo a tenerla in quel momento celata.

L'esercito dei confederati entrò anch'esso fra i due fiumi, presso Forlì: ma poi, traversato il Ronco, si fermò a tre miglia da Ravenna. Ivi, avendo a sinistra il fiume, lavorarono il giorno e la notte per cavare, secondo il disegno di Pietro Navarro, un fosso che li circondasse dall'altro lato e di fronte, lasciando però libero uno spazio di venti braccia, percui potesse uscir prima la cavalleria, e poi, occorrendo, tutto l'esercito, alla testa del quale posero le artiglierie e i 50 carri falcati cui accennammo. Erano questi un'imitazione dell'antico, immaginata dal Navarro: piccoli e bassi, con uno spiede che «co' rampi suoi apriva circa tre braccia, ed in ciascun carro era un lancione, messo nella stessa direzione, il quale feriva prima dello spiede:» nè mancava su di essi qualche piccola artiglieria. Si movevano facilmente, e parvero una grande invenzione; ma riuscirono poi nel fatto assai poco utili, perchè subito messi fuori d'uso dai cannoni nemici. I Francesi lasciarono Yves d'Alègre con 400 lance presso Ravenna, e gettato un ponte sul Ronco, lo passarono anch'essi. Questo seguì l'11 di aprile 1512, giorno della Pasqua di Resurrezione e della grande battaglia. Si schierarono in forma di mezza luna, con le artiglierie comandate dal duca di Ferrara all'ala destra, in modo che ferivano la cavalleria spagnuola, la quale, sotto il comando di Fabrizio Colonna, era posta verso il fiume, a sinistra del proprio esercito.

Cominciato il fuoco, quando il Colonna s'avvide che le sue genti d'arme erano condannate all'immobilità, mentre venivano decimate dall'artiglieria nemica, andò in furore contro il Navarro, che gli aveva così rinchiusi nel campo, e lo accusò di tradimento per gelosia contro di lui. Finalmente, non potendo più stare alle mosse, dette ordine ai suoi, ed uscì fuori del campo. E così, seguendolo tutto l'esercito, cominciò una battaglia, che fu la più sanguinosa di quante allora s'avesse memoria, la prima grande battaglia moderna. La cavalleria dei confederati, già prima di muoversi fieramente battuta dalle artiglierie, male potette resistere all'impeto ed al notissimo valore degli uomini d'arme francesi, dai quali fu ben presto messa in fuga, restando prigionieri lo stesso Fabrizio Colonna ed il Marchese di Pescara. La fanteria spagnuola si mostrò degna del suo gran nome, e con un'energia indomabile resistette agli assalti nemici; ma finalmente anch'essa dovè cedere agli uomini d'arme dei Francesi, al genio militare del loro capitano, ed in parte ancora al numero preponderante. Poco dopo, tutto l'esercito spagnuolo batteva in ritirata; ma con tale ordine, con tanta fermezza, che Gastone, mosso a grandissimo sdegno nel vedere il vinto nemico ritirarsi quasi come un vincitore, volle in persona dare un ultimo e più fiero assalto con la sua cavalleria. Sfortunatamente però gli cadde sotto ferito il cavallo, ed egli stesso morì con 14 o 15 ferite tutte nel viso e nel petto, essendosi, in tre mesi e così giovane, reso immortale, prima quasi generale che soldato. Ma perciò appunto la sua morte, seguìta nel momento stesso della vittoria, fu alla Francia una calamità irreparabile. I confederati si ritirarono allora con vera baldanza, quantunque la disfatta subìta fosse stata davvero generale e grandissima. Lasciarono infatti nelle mani del nemico carri, bandiere, artiglierie e moltissimi prigionieri, fra i quali Fabrizio Colonna, Pietro Navarro, i marchesi della Palude, di Bitonto, di Pescara, ed il cardinal de' Medici, che era legato del Papa. Il numero dei morti fu, come suole, assai diversamente valutato, portandolo alcuni a 10,000, altri fino a 20,000. Tutto computato, par che morissero 12,000 dei confederati, e solo 4000 dei Francesi, i quali però, oltre la perdita d'alcuni capitani, come Yves d'Alègre ed il figlio, ebbero quella di Gastone, che fu per essi più che una disfatta, come ben presto dovettero avvedersene. Per qualche giorno ancora continuarono però le conseguenze della loro vittoria. Ravenna fu presa e saccheggiata da essi, e subito s'arresero anche Imola, Forlì e Cesena.

All'annunzio della vittoria francese e delle città che si arrendevano, il Papa cadde in una grandissima costernazione, e voleva a qualunque costo fare la pace. Ma, fermato a tempo dagli Spagnuoli, ed avvistosi della piega assai diversa che stavano allora per pigliare le cose, finse di continuare a voler la pace, per meglio ingannare i nemici, che presto si trovarono a pessimo partito. L'Imperatore rinnovò ai suoi soldati l'ordine di ritirarsi; gli Svizzeri si mossero per venir davvero in aiuto dei confederati, e subito furono in Italia in numero di 20,000; l'Inghilterra mandava nella Spagna, soldati per assalire la Francia. In breve la pubblica opinione s'era mutata in modo che il nome dell'Impero veniva da tutti esaltato, ed il cardinal de' Medici, menato dai soldati francesi prigione in Lombardia, si trovava ogni giorno circondato da molti di essi, che gli chiedevano l'assoluzione. Poco dipoi venne per sorpresa liberato. I confederati, uniti agli Svizzeri, inseguivano i Francesi che fuggivano, secondo l'espressione d'un contemporaneo, «come fugge la nebbia dal vento.» Ed in poco tempo questi non avevano in Italia altro che Brescia, Crema, Legnago, il castello e la Lanterna di Genova, il castello di Milano. Contemporaneamente Parma, Piacenza, Bologna ed altre terre in Romagna s'arrendevano al Papa, che ne pigliava possesso, pieno ormai d'orgoglio e di grandi speranze. Pareva un sogno.

Male assai si trovavano i Fiorentini. Fedeli sino all'ultimo all'amicizia francese, quando fu scaduto il trattato che gli obbligava a dare 300 lance, lo rinnovarono per altri cinque anni, con l'obbligo di darne 400. Ma intanto le 300 che già erano coi Francesi, venivano svaligiate. La loro condotta non aveva punto contentato Luigi XII, il quale dicevasi tradito da essi, dichiarati invece suoi fidatissimi amici dai confederati, che discordi fra di loro in molte cose, si trovavano unanimi solamente nel non volere più tollerare il governo del Soderini a Firenze. E così la Repubblica, venendo da ogni parte tirata in opposte direzioni, non sapeva più a qual partito appigliarsi. Il Papa inviava ad essa il datario Lorenzo Pucci, perchè la invitasse ad entrare nella Lega, con obbligo di dar genti per aiutare la cacciata dei Francesi dall'Italia. Il rappresentante dell'Imperatore, cardinal Gurgense, presso cui era stato nel luglio 1502 inviato Giovan Vittorio Soderini, invitavali invece a mandar danari al suo signore, per averne amicizia e protezione. Ma da lui e dagli Spagnuoli in Mantova, dove l'ambasciatore si recò poco dopo, capì chiaramente che i collegati volevano ad ogni costo rimettere i Medici, e volevano danari. Il Papa era più di tutti avverso al governo del gonfaloniere Soderini. Sarebbe quindi stato necessario da parte dei Fiorentini che, senza lesinare sulle somme da pagare, fossero nello stesso tempo corsi risolutamente alle armi, dimostrandosi pronti ad una disperata difesa; ma di ciò appunto essi parevano allora del tutto incapaci. Nelle Consulte e Pratiche tenute nel luglio ed agosto, non si proponeva infatti altro che andare temporeggiando. Uno diceva: «Non far nulla, ma intractenere.» Un altro ripeteva che «anderebbe differendo, mostrando la impossibilità di dar denari, tenendo el filo appiccato fino a tanto si vedesse le cose dei confederati ferme...; e così acquistare tempo.» Tutti ripetevano più o meno i medesimi discorsi, senza quasi accorgersi che erano già coll'acqua alla gola.

Nella Dieta di Mantova intanto fu ben presto deliberato che Massimiliano Sforza, figlio di Lodovico il Moro, dovesse andare a governare Milano; che a Firenze si dovesse deporre il Soderini, e rimettere i Medici, i quali, senza punto farsi pregare, dettero subito 10,000 ducati, promettendo dar somme molto maggiori all'esercito che li avesse ricondotti nella loro nativa città. Giuliano de' Medici che trattava in nome suo e del cardinal Giovanni, era da tutti ascoltato, come se già fosse il rappresentante di una potenza; all'oratore della repubblica fiorentina nessuno invece dava ascolto, e cercavano solo pascerlo di parole, quasi deridendolo. Il vicerè spagnuolo era già andato a raggiungere il suo esercito in Bologna; ed a Firenze si discorreva ancora senza concludere nulla.

Il Soderini sentiva però che il terreno gli mancava sotto i piedi. E questo lo indusse allora a fare il suo testamento, nel quale si ricordava degli amici più cari, lasciando fra gli altri a ciascuno dei due cancellieri, l'Adriani ed il Machiavelli, quindici fiorini d'oro in oro. Egli si vedeva ora abbandonato dagli uomini più autorevoli, che già manifestamente trattavano coi Medici, i quali ripetevano a tutti, che volevano solo cacciare il Gonfaloniere, e vivere poi come privati cittadini, rispettando la libertà. Contro di lui si scatenavano adesso tutti gli odii, tutte le gelosie di coloro che credevano d'essere stati a torto lasciati in disparte. Questi speravano ora di poter pigliare una rivincita, assumendo di fatto nelle proprie mani il governo, quasi pigliando sotto tutela i Medici, tenendoli a freno coll'aiuto del popolo, che era sempre fautore del libero reggimento. Se però il Soderini non aveva la forza di fare una energica e disperata difesa, neppure si sgomentava del tutto. In parte s'illudeva nella fiducia che l'Ordinanza sarebbe stata capace di resistere con energia, in parte dava ascolto alle voci di coloro che volevano addormentarlo. Gli Spagnuoli gli facevano dire che il loro re non avrebbe mai voluto dar troppa forza al Papa, e molto meno lasciare il governo di Firenze in mano di un cardinale come Giovanni de' Medici, che era allora il capo della famiglia. Il Papa gli dava ad intendere che odiava gli Spagnuoli, e che neppur egli voleva render potente il Cardinale, il quale dipendeva da loro. Così veniva da ogni parte aggirato, e restava in sospeso.

Solo il Machiavelli già da un pezzo non si faceva più nessuna illusione, anzi la sua attività cresceva a misura che il pericolo s'avvicinava. Il 22 di novembre 1511, egli aveva fatto il suo primo testamento, il che fa credere, che vedesse davvero assai buio l'avvenire. Nel maggio dello stesso anno aveva scritto un Consulto per l'elezione del Comandante delle fanterie, nel quale raccomandava di fare eleggere dagli Ottanta un buon capitano, senza di che l'Ordinanza non avrebbe retto alla prova, e suggeriva Iacopo Savelli come uomo assai stimato da A. Giacomini, da Niccolò Capponi, e superiore a tutte le gelosie. Ma pur troppo non pare che i suoi consigli fossero ascoltati, e quindi l'Ordinanza restò, nel momento decisivo, senza un capo di reputazione. Nel dicembre del 1511 egli era stato in giro nella Romagna toscana a far leve di uomini per la cavalleria, che si doveva allora istituire; poi tornò a Firenze, ed andò altrove, lavorando sempre allo stesso scopo. Finalmente, nel marzo del 1512, venne prima negli Ottanta e poi nel Consiglio Maggiore deliberata l'Ordinanza a cavallo, con una provvisione da lui medesimo scritta. «Visto,» così presso a poco essa diceva, «come sia riuscita utile l'Ordinanza delle fanterie, volendo rendere sempre più sicuro il nostro dominio e la presente libertà nei pericoli che corrono, si concede ai Nove facoltà di scrivere sotto le bandiere, per tutto il 1512, non meno di 500 cavalli leggieri, con balestra o scoppietto, a volontà dei descritti: il dieci per cento di essi potranno portare la lancia.» A questi uomini era data, per mantenere il cavallo in tempo di pace, una paga, la quale doveva poi essere scontata su quella assai maggiore che in tempo di guerra avrebbero avuta, come s'usava cogli altri cavalli leggieri che erano stipendiati. Anche la nuova Ordinanza doveva essere formata di uomini scelti nel territorio della Repubblica, senza che neppure adesso che la patria era in pericolo, si osasse chiamare a farne parte gli abitanti delle grandi città, molto meno poi quelli di Firenze. Ed in verità chi avrebbe potuto consigliarlo quando si vedeva che tanti autorevoli cittadini cospiravano ora apertamente pel ritorno dei Medici?

Vinta la provvisione, il Machiavelli scrisse subito nell'aprile le lettere e gli ordini necessari a costituire la cavalleria. Nel maggio andò a Pisa per fornire di uomini quella cittadella, poi a Fucecchio ed altrove per far nuove leve. Nei primi di giugno fu a Siena, dove era morto Pandolfo Petrucci, e la trovò sempre ben disposta verso Firenze; poi di nuovo a Pisa, ed il 20 giugno era a Firenze, donde spingeva innanzi i provvedimenti per la difesa. E di nuovo correva in giro pel territorio ad infondere animo, a sorvegliare l'esecuzione degli ordini dati. Il 27 dello stesso mese Giovan Battista Ridolfi potestà e capitano di Montepulciano scriveva, che il Machiavelli era giunto colà molto a proposito, perchè, introdotto nel Consiglio radunato da quei Priori, era riuscito a mettere coraggio nei cittadini, i quali aveva trovati pieni di spavento, e lasciava invece fiduciosi nella protezione di Firenze. La lettera continuava dicendo, che da più parti si vedevano correre alcune centinaia di cavalli pontifici, i quali poi scomparivano a un tratto, senza che si potesse capire che intenzione avevano. E diceva pure che il Machiavelli «era andato a Valiano, per vedere quel riparo; dipoi al Monte San Savino, perchè si potesse far testa fra lì e Foiano.» Nel luglio tornava a Firenze; ma nell'agosto, avvicinandosi il nemico, andava a Scarperia, poi a Firenzuola, ove dava un terzo di paga ai fanti, per tenerli ben disposti alla difesa. Di là Baldassare Carducci, che era in cerca del Vicerè, presso cui l'avevano inviato, scriveva che il nemico si avvicinava rapidamente, ma che si era pronti a resistere, avendo il Machiavelli ivi raccolto altri 2000 uomini, e si adoperava intanto per le artiglierie. Se non che a Barberino, altra via per la quale il nemico poteva venire, tutto era invece abbandonato, ed il commissario Tosinghi scriveva di non avere uomo da mandare da luogo a luogo; sperava che il Machiavelli avesse fornito bene Firenzuola, perchè almeno da quel lato i nemici venissero più lenti. E da Appiano, il 23 e 24 agosto 1512, dopo aver parlato col Vicerè e col De Luca, scriveva che ormai non c'era più nulla da sperare; che il nemico s'avanzava; che tutta la lega era d'accordo, e più di tutti il Papa, a voler mutare il Governo in Firenze, rimettendovi i Medici.

Mentre infatti si raccoglievano forze a Firenzuola, il vicerè Raimondo di Cardona s'era da Bologna avviato per la via dello Stale a Barberino, insieme col cardinal de' Medici, che aveva portato due cannoni, altri non avendone l'esercito. Arrivati al confine, i rappresentanti della Repubblica chiesero loro, che cosa venissero a fare. Risposero che venivano ad eseguire le deliberazioni dei confederati, le quali erano: che fosse deposto il Soderini, stato sempre amico della Francia, istituito un nuovo governo a loro non sospetto, rimessi i Medici come privati cittadini. Il Vicerè chiedeva inoltre danari: 100,000 ducati, secondo il Buonaccorsi. Le stesse domande e risposte erano ripetute a Barberino. Certo, dando danari ed accogliendo i Medici, c'era anche in quel momento da venire ad un qualche accordo circa la forma del governo. Ma il Gonfaloniere capiva bene, che ritornando i Medici, egli sarebbe stato inevitabilmente cacciato, e più tardi sarebbe stata di certo distrutta la Repubblica. E però, non ostante la sua indole irresoluta, non voleva in nessun modo sottomettersi o venire a patti, tanto più che non gli pareva difficile resistere ad un esercito così poco numeroso com'era quello del Vicerè. E questa sua illusione era tenuta viva dal Machiavelli, il quale, sempre pieno di fiducia nell'Ordinanza, continuava ad apparecchiar la difesa, nè si sgomentava vedendo che, mentre egli fortificava un punto, i nemici passavano tranquillamente da un altro. S'era intanto deliberato di tener loro testa a Prato; ma giustamente osservava il Guicciardini a questo proposito, che i Fiorentini «avevano poche genti d'arme; non fanterie, se non o fatte tumultuosamente, o raccolte dalle loro Ordinanze, la maggior parte delle quali non era esperimentata alla guerra: non alcun capitano eccellente, nella virtù o autorità del quale potessero riposarsi; gli altri condottieri tali che mai alla memoria degli uomini erano stati di minore espettazione agli stipendî loro.»

Il Gonfaloniere sembrava però che si fosse ora finalmente deciso davvero a far prova di qualche energia. Infatti egli mise in prigione venticinque dei più sospetti cittadini; e poi, raccolto il Consiglio Maggiore, espose in un lungo discorso lo stato vero delle cose, dichiarandosi pronto a deporre il suo ufficio, se i cittadini lo credevano opportuno. Faceva però loro considerare che ai nemici non sarebbe bastato il cacciar lui, perchè volevano distruggere la libertà, ed i Medici avrebbero ben presto mutato il governo e fatto le loro vendette. Che se la Città voleva essere unita con lui e sostenerlo, egli si sarebbe apparecchiato a difenderla energicamente, purchè si fosse disposti a fare i necessari sacrifizî. Il suo discorso riuscì assai efficace, e riunitisi secondo il costume, i cittadini, nelle pancate, si dichiararono concordi a voler mantenuto il governo popolare e difesa la libertà. Questa era infatti l'opinione di gran lunga prevalente; giacchè solo i più ambiziosi combattevano per gelosia il Soderini, e neppure essi osavano ancora farlo apertamente in pubblico. Furono quindi votate senza indugio le somme domandate per la difesa, circa 50,000 ducati, e tutti parvero in quel momento d'un animo solo. Ben presto si vide però, che questa concordia era solo apparente.

Tenuto un Consiglio di condottieri, si raccolsero in sei giorni 9000 fanti e 300 uomini d'arme, fra i quali erano compresi anche i pochi cavalli leggieri dell'Ordinanza; e fu deliberato di accamparli tutti fuori delle mura. A Prato, dove s'aspettava il primo assalto, erano già 3000 fanti, in massima parte dell'Ordinanza, gli altri, raccolti in fretta dalla più bassa plebe. V'erano anche alcuni uomini d'arme, ma di quelli stati poco prima svaligiati in Lombardia dai nemici, e li comandava Luca Savelli, vecchio e non esperto capitano. Poche erano le artiglierie, poche le munizioni e le vettovaglie; ma, quello che è peggio, già per tutto serpeggiava il tradimento, tanto che alcuni facevano a studio cadere per terra la polvere da sparo, che avrebbero dovuto portare a Prato, dove gli scoppiettieri ne mancavano, ed erano costretti a portar via lamine di piombo dal tetto d'una chiesa, per farne palle. Eppure il Soderini pareva pieno di speranza, affermando che, quando i nemici avessero tutti oltrepassato Barberino, egli avrebbe potuto mandare a Prato 18,000 uomini con le artiglierie. Ma intanto v'arrivava il Vicerè con 5000 fanti Spagnuoli e 200 uomini d'arme. E sebbene non avesse altri cannoni che i due del cardinal de' Medici, il quale seguiva il campo; e sebbene l'esercito fosse affamato, senza paghe, sprovvisto di tutto, pure erano uomini stati alla battaglia di Ravenna, e si trovavano di fronte l'Ordinanza del Machiavelli, la quale ancora non aveva visto il fuoco. Il momento della prova era quindi per essa venuto.

Il primo assalto degli Spagnuoli fallì per mancanza di artiglierie, ed il Vicerè, che mancava anche di vettovaglie, si dichiarò allora pronto agli accordi, purchè s'accogliessero i Medici in Firenze, ed a lui si mandassero subito 3000 ducati, e 100 some di pane, per sfamare i suoi soldati. Sincere o no che fossero queste proposte, molti volevano accettarle; ma il Soderini le respinse sdegnosamente, ed il Vicerè allora, entrato per tradimento in Campi, dove trovò le necessarie vettovaglie, tornò a battere le mura di Prato da un altro lato. Dei due cannoni che aveva, il primo scoppiò, ed anche il secondo valeva poco, ma pur finalmente si riuscì con esso ad aprire una breccia, ed allora si dette l'assalto. Da due porte si fece una qualche resistenza; ma l'Ordinanza che avrebbe dovuto difendere la breccia, abbandonò invece assai vilmente il suo posto. Così il 29 di agosto 1512 ad ore 16 gli Spagnuoli poterono facilmente entrare in Prato, e senza trovare altra resistenza cominciarono il sacco.

Il numero dei morti nel saccheggio è diversamente valutato. Iacopo Guicciardini li porta a 4000, in gran parte soldati dell'Ordinanza, i quali, egli dice, vennero quasi tutti uccisi; furono inoltre «vituperate le donne e taglieggiate, mandando a bordello tutti i munisteri.» Altri scrittori, come il Modesti ed il Cambi, fanno salire i morti a 5000, ma Francesco Guicciardini li fa discendere a 2000. Questi però evidentemente attenua ogni cosa a vantaggio dei Medici, modificando le notizie che trae dal Buonaccorsi e dalle lettere ricevute da Firenze, le quali noi oggi possiamo leggere, perchè pubblicate nelle sue Opere inedite. Egli pretende, fra le altre cose, che il Cardinal Giovanni facesse fermare la strage, e salvare le donne, il che non è detto neppure dallo stesso Cardinale nella lettera da lui scritta allora al Papa. Secondo il Modesti, sembra invece che solo alcuni giorni dopo cominciato il sacco, egli facesse salvare quelle donne che si ridussero nel suo palazzo, «tali quali si possono immaginare.» La strage fu in ogni modo grandissima, come affermano tutti gli scrittori contemporanei, come conferma nella sua lettera il Cardinale, ed alla strage s'unirono anche molte violenze all'onor delle donne.

Qui ogni monasterio è saccheggiato,

Qui ogni chiesa s'usa per bordello

Di meretrice che loro han menato.

Qui non giova a sirocchie aver fratello.

Così dice ne' suoi cattivi versi un narratore contemporaneo, e così ripetono tutti. Il Nardi parla d'una giovinetta che si gettò dalla finestra per salvare il proprio onore, e d'una donna portata via da uno Spagnuolo, che la tenne seco alcuni anni, fino a che ella non riuscì a segargli la gola ed a fuggirsene, tornando al suo marito in Prato, dove venne accolta trionfalmente, paragonata alle più illustri matrone di Roma, ed a Giuditta. Si disse che fra i pochi cadaveri dei soldati nemici ne furono trovati alcuni circoncisi, il che fece affermare che nell'esercito spagnuolo vi fossero anche dei Musulmani, volendosi con ciò spiegare non solo le immani crudeltà, ma anche il grande disprezzo e le ingiurie alle chiese ed ai monasteri cristiani.

Non v'è certo da maravigliarsi che il Vicerè crescesse ora le sue pretese. Se prima s'era indotto a far vaghe promesse di rispettare la libertà, e di far entrare i Medici come privati cittadini; ora dichiarava aperto non solo di volerli senz'altro rimettere, ma di volere anche mutare il governo, chiedendo inoltre che gli venissero subito pagati 150,000 ducati. La Città da un altro lato non poteva più nulla negare, ed era perciò disposta a tutto; ma il disordine e la confusione eran tali, che essa non sapeva ormai venire a nessuna deliberazione. Temeva perfino degli stessi suoi soldati, i quali si dimostravano così avidi di preda e di saccheggio, che, sebbene alloggiassero fuori delle mura, le donne avevano subito cominciato a ricoverarsi nei monasteri.

Il governo della Repubblica intanto pareva che già fosse venuto in mano dei Medici. Il cardinal Giovanni era dal campo in continua corrispondenza coi principali cittadini; Giulio suo cugino, bastardo, era andato a tener segreto colloquio con Anton Francesco degli Albizzi in una costui villa, per concertare il modo di mutar subito il governo. Ed il giorno ultimo d'agosto l'Albizzi, Paolo Vettori, Gino Capponi, i figli di Bernardo Rucellai e Bartolommeo Valori, parente del Soderini, tutti giovani e audaci, irruppero nel Palazzo, dove insieme con la vecchia Signoria sedeva la nuova, che doveva entrare in ufficio il primo di luglio; penetrarono nelle stanze del Gonfaloniere, e subito gli chiesero con violenza che liberasse i venticinque amici de' Medici, da lui fatti imprigionare nei decorsi giorni; poi lo minacciarono nella vita, se non abbandonava il suo ufficio, promettendo invece di salvarlo, se tranquillamente se ne andava. Il Soderini, convinto ormai che ogni resistenza sarebbe stata inutile, si dichiarò pronto a partire, e chiamato a sè il Machiavelli, di cui solo poteva in quell'ora di grave pericolo fidarsi, lo mandò a casa di Francesco Vettori, fratello di Paolo, per essere, sulla sua fede, accolto nelle loro case, dove egli credeva d'essere più sicuro che nella propria. Francesco consentì, dopo essersi prima dai suoi assicurato, che non avrebbero usato violenza. Ed intanto anch'egli, sebbene amico del Soderini e del Machiavelli, lavorava insieme cogli altri al trionfo dei Medici. Andò alla nuova Signoria, per indurla a radunare i magistrati, ed a dare una qualche ipocrita apparenza di legalità al mutamento di governo, che già s'andava di fatto compiendo. Raccolto che fu alla meglio il numero legale dei magistrati e dei consiglieri, essi non volevano consentire alla deposizione del Gonfaloniere; ma il Vettori, che faceva allora una doppia parte in commedia, supplicò con le braccia in croce, che si risolvessero subito, altrimenti quei giovani che già lo avevano deposto, sarebbero corsi ad ammazzarlo. E così fu ottenuto l'intento. Dopo di che egli e Bartolommeo Valori con quaranta cavalli accompagnarono il Soderini fino a Siena. Questi disse d'andare a Loreto; ma, saputo dal fratello cardinale, che avrebbe corso pericolo per via, se ne andò invece a Ragusa; e neppure colà sentendosi sicuro, riparò a Castelnuovo, terra sottoposta al Turco.

Così caddero la potenza ed il governo di Piero Soderini da tutti gl'imparziali giudicato uomo politicamente onesto, ma assai debole. Lo stesso Francesco Vettori che, come abbiam visto, contribuì col proprio fratello a farlo cadere, dice che fu «certo buono e prudente ed utile; nè si lasciò mai trasportare fuora del giusto, nè da ambizione, nè da avarizia; ma la mala fortuna (non voglio dir sua, ma della misera Città) non permesse che egli o che altri vedesse il modo di ovviare alli insulti de' collegati.» Questo è un linguaggio veramente singolare nella bocca di chi s'era adoperato al ritorno dei Medici; ma appunto perciò è assai credibile. Più sincero nell'esprimere il suo avviso è però lo storico Filippo dei Nerli, partigiano anch'egli zelantissimo dei Medici. Dopo d'aver biasimato il Soderini, perchè non tenne abbastanza conto dei potenti che lo avevano aiutato a salire, conchiude che, «non seppe mai esser principe nè cattivo nè buono, e credette troppo colla pazienza, godendo, come si dice, il benefizio del tempo, superare tutte le difficoltà.» In sostanza è questo un giudizio non molto diverso da quello che ne fece il Machiavelli stesso, quando osservò nei Discorsi, che il Soderini sperava «con la pazienza e con la bontà sua estinguere i mali umori; nè mai osò spegnerli colla forza, come i nemici gliene diedero occasione. Di ciò scusavasi col dire, che sarebbe stato necessario violare le leggi, il che avrebbe seminato odî, e dopo la sua morte messo a pericolo il governo d'un Gonfaloniere a vita, il quale egli credeva utile alla Città. Nondimeno e' non si debbe mai lasciar scorrere un male rispetto ad un bene, quando quel bene facilmente possa essere da quel male oppressato.»

Intanto quei giovani che avevano cacciato il Soderini, insieme con altri «tutti di mal affare,» si posero a guardia del Palazzo, e furono subito eletti venti cittadini, per deliberare quello che s'avesse a fare. Alcuni speravano ancora trovar modo di salvare la libertà; ma ormai gli avvenimenti seguivano il loro corso inevitabile. Gli oratori inviati al Vicerè ed al Cardinale furono da questo ricevuti cortesemente e modestamente. A lui bastava, egli disse, d'essere, insieme coi suoi, accolti in Firenze come privati cittadini, con facoltà di ricuperare i loro averi, pagandoli. E veramente nessuna più onesta domanda poteva immaginarsi da parte di chi aveva appunto allora trionfato colle armi. Ma il Cardinale, a guarentigia delle modeste domande, della persona sua e de' suoi, chiedeva anche assicurazioni, le quali giustamente facevano osservare allo storico Nardi, che «chi domanda sicurtà di non essere offeso (volendo vivere civilmente nella Repubblica), e se ne vuole assicurare, chiede in patto e vuole infatti la libertà di offendere altrui.» Intanto i Fiorentini furono costretti ad entrare nella lega, obbligandosi a pagare 40,000 ducati all'Imperatore, 80,000 all'esercito che gli aveva vinti, e 20,000 al Vicerè in proprio, somme che coi donativi da fare, ascesero a 150,000 ducati. Si dovettero anche obbligare a prendere dalla Spagna 200 uomini d'arme.

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