CAPITOLO III.

Critica dei Discorsi.

Le Considerazioni del Guicciardini su di essi.

L'esposizione dei Discorsi da noi fatta nel capitolo precedente, avrà forse, senza ancora rispondervi, risollevata nell'animo del lettore l'eterna domanda: Il Machiavelli voleva dunque il bene o il male? Era onesto o disonesto? E abbiamo da capo innanzi a noi la sfinge, di cui non si può spiegare l'enigma. Ma il problema resterà sempre insolubile, fino a quando sarà posto in tal modo. La questione vera non è qui psicologica e personale, ma generale e di scienza politica. Non si tratta di sapere se il Machiavelli voleva il bene o voleva il male; ma piuttosto se riuscì a trovare ed esporre il vero. La narrazione della vita ci fa conoscere il suo carattere; ma questo può spiegarci più la forma che la sostanza delle sue dottrine, la cui sorgente bisogna cercarla non già nell'indole dell'uomo, ma nella mente del pensatore. È quindi necessario sopra tutto la critica delle opere. Che egli sia entrato per una via nuova è evidente. Che le sue considerazioni sulla storia, sul sorgere e decadere degli Stati, sulla connessione degli avvenimenti, sulla successione dei partiti in Roma ed in Firenze siano ammirabili, nessuno lo mette in dubbio. E così tutti riconoscono che il suo metodo è eccellente, la sua eloquenza grandissima, la sua psicologia politica superiore assai a quella de' suoi contemporanei, non escluso il Guicciardini; giacchè egli non si contenta, com'essi fanno, di considerare la società come un semplice aggregato d'individui, dei quali vogliono tenere in equilibrio le passioni. Il Machiavelli cerca l'unità dello Stato; studia le passioni del popolo, dell'aristocrazia, dei principi, riconoscendo che esse non sono passioni puramente individuali. Ma lo scopo ultimo delle sue indagini, il carattere fondamentale della sua scienza politica sta pur sempre nel dar precetti sulla condotta che debbono tenere gli uomini politici. Ed è appunto quando consiglia azioni che a noi paiono disoneste, qualche volta addirittura inique, che la nostra coscienza irresistibilmente reagisce, si ribella, ed allora noi mettiamo in dubbio la stessa ammirazione che abbiamo prima avuta pel suo genio. Dire che ha dato questi precetti, perchè era tristo e tristi erano i suoi tempi, che nei suoi libri egli ritrae, non spiega nulla. Perchè il Guicciardini, che non era migliore di lui, non arrivò mai fino alle stesse conseguenze? Perchè il Giannotti e tanti altri politici e storici, che vissero nello stesso tempo, non dettero mai consigli immorali? Il sollevare poi l'esempio di tempi corrotti a guida permanente dell'uomo di Stato, trasformando quasi la narrazione in precetto, non sarebbe forse un errore tale da togliere ogni solidità e fermezza alla base stessa su cui riposa un sistema generale di scienza politica? Il Machiavellismo non è un fatto capriccioso e accidentale nella storia del pensiero umano. Per comprenderlo e giudicarlo bisogna, senza dimenticare le cagioni personali e psicologiche che ne determinarono la fisonomia, ritrovare le cagioni logiche e storiche che ne resero necessaria l'apparizione.

A riordinare una città corrotta, a fondare una nazione, uno Stato, occorre, secondo il Machiavelli, come più volte abbiamo già visto, un legislatore quali furono Romolo, Solone, Licurgo. Compiuta che essi hanno l'opera loro, ne affidano lo svolgimento e la difesa al popolo, rendendola così davvero benefica e duratura. Ad iniziarla però sarà sempre necessaria l'opera di un solo, che con la sapienza e la grandezza d'animo, abbia anche l'assoluto potere, e quindi la forza necessaria ad infondere nell'opera propria l'unità organica del suo intelletto. Un tale concetto si era andato in lui lentamente, logicamente formando, e si ripresentava ogni volta che egli esaminava, ricercava nella storia l'unità sociale. Questa a lui inevitabilmente appariva assai diversa da quella che il Medio Evo aveva concepito, e non meno diversa da quella che concepiamo noi. Per noi la società è come un organismo vivente, che nasce, cresce, si svolge, quasi prodotto naturale, conseguenza necessaria dell'indole d'un popolo e della sua storia: conseguenza in gran parte d'un lavoro impersonale, che l'opera del legislatore viene solo a coordinare e determinare. Al Machiavelli invece appariva come l'opera e la creazione dell'uomo di Stato, del genio politico, il quale non personifica in sè stesso la coscienza popolare, ma dà piuttosto al popolo l'impronta, la forma, quasi la coscienza che vuole. Quello che noi chiamiamo lavoro impersonale, inconsapevole eppur razionale, è un'idea essenzialmente moderna, ignota affatto al Rinascimento ed al Machiavelli. Egli vide bensì che l'opera del popolo si univa a quella del legislatore, e perciò appunto affermò che l'uno continua, conserva e compie l'opera dell'altro; ma la potenza d'iniziare, di creare le istituzioni, resta per lui sempre al legislatore. Il potere che gli dà quindi nei Discorsi, nel Principe, nelle Storie, sembra quasi non avere confini. Ora gli fa trasmutare i popoli di luogo in luogo, «come si trasmutano le mandrie;» ora gli fa mutare una repubblica in una monarchia o viceversa. Altrove egli dice: «esser più vero che alcun'altra verità, che se un principe ha sudditi e non soldati, deve dolersi di sè e non della natura e viltà degli uomini. I principi son sempre la colpevole cagione dei peccati e della corruzione dei popoli. Ai nostri giorni s'è vista la Romagna tutta piena di sangue e di vendette, per opera di principi affamati, i quali facevano leggi e spingevano a violarle, per arricchirsi poi colle taglie che imponevano. E solo colla morte loro, per opera del Valentino, fu riordinato quel paese.»

Come abbiamo già osservato, il popolo, secondo il Machiavelli, è nelle mani del suo legislatore quasi come una creta molle nelle mani dello scultore. L'ordinarlo a repubblica o a monarchia, a democrazia o aristocrazia, non è, nei varî casi, una necessità storica, cui nessuno si può nè si deve opporre. Tutto dipende invece dalla forza, dal coraggio, dalla volontà dell'uomo di Stato, il quale riuscirà sempre a fare quello che vuole, se conosce l'arte e va diritto al suo scopo, senza mai perdersi nelle vie di mezzo. Qualche volta si direbbe che il Dio personale della scuola teologica del Medio Evo, sia disceso sulla terra a prendere figura umana in questo legislatore, che è poco meno onnipotente. Egli, è ben vero, non guida tutti i popoli della terra, al pari del Dio del Bossuet, che fu paragonato ad un cocchiere che guida focosi destrieri; egli forma, quasi crea il suo popolo, e lo conduce dove più gli piace. È posto in una condizione affatto eccezionale, quasi un Dio ad immagine del quale si direbbe formato, al di fuori, al di sopra della società, colla potenza di farne tutto ciò che vuole, e noi non abbiamo più un criterio morale per giudicare le sue azioni, che acquistano un valore indipendente, impersonale, obiettivo. Non sono più oneste o disoneste, nel vero senso della parola; ma utili o dannose, lodevoli o biasimevoli, secondo che ottengono o no il fine cui sono destinate, secondo che questo fine è o no a vantaggio non d'alcuni individui, ma della società intera. Se uno o più uomini riescono d'ostacolo all'onnipotenza del legislatore, e quindi al buono ordinamento dello Stato, egli deve, senza esitare, levarli di mezzo nel modo che sarà più adatto, anche colla violenza, coll'inganno o col tradimento, quando sia necessario. Se si spaventa di compiere queste azioni inumane e crudeli, meglio è che torni alla vita privata, nella quale solamente è possibile evitarle del tutto. La prima condizione, cui deve soddisfare il legislatore del Machiavelli, è appunto quella di spogliarsi affatto della sua privata persona, senza punto curarsi d'esser giudicato malvagio dagli uomini, purchè miri sempre alla grandezza dell'opera sua, al bene della patria, «dinanzi alla quale cade ogni altra considerazione, non solo di privata utilità, ma d'onesto o disonesto. E allora accusandolo il fatto, converrà bene che l'effetto lo scusi.» Domandare perciò se un atto politico sia morale o immorale, secondo il criterio con cui si giudicano le azioni private, non ha pel Machiavelli alcun significato, perchè siamo in un mondo sostanzialmente diverso. Sarebbe lo stesso che chiedere qual colore hanno i suoni.

Tuttavia è assai singolare l'effetto che producono sull'animo del lettore moderno queste considerazioni. Si passa continuamente dal più profondo disgusto, qualche volta anche orrore, alla più sincera ammirazione, senza potersi mai fermare, e senza potersi render chiaro conto di questa nostra continua alternativa, quasi patente contradizione. Si direbbe che a forza di contemplare la sfinge, invece di comprenderla, finiamo col divenire sfinge ed enigma a noi stessi. Ci ripugna la immoralità de' suoi precetti, ci affascina e ci lascia ammirati la verità delle sue osservazioni. Quel suo legislatore, quel suo Principe che così spesso detestiamo, sembra sorgere spontaneo, inevitabile, inesorabile dalla realtà stessa delle cose, che sono intorno al Machiavelli, dai tempi in mezzo ai quali egli visse, e nei quali anche noi ci sentiamo trasportati. Chiaro apparisce che se da un lato lo scrittore lo ritrae dall'antichità e lo ricostruisce colla sua immaginazione, da un altro lato sembra copiarlo fedelmente dal vero, vederlo come una realtà vivente dinanzi ai proprî occhi. Il suo maraviglioso realismo pare che getti una luce improvvisa sui fatti della storia, rivelandoci verità nuove ed inaspettate; ma esse a un tratto divengono tanto più oscure e misteriose, quanto più violentemente si pongono in contrasto con la nostra coscienza, e pretendono di trasformare i fatti in precetti, che vogliono imporre a noi in nome della ragione.

Il Machiavelli vedeva le repubbliche italiane, cadute nell'anarchia, mutarsi rapidamente, fatalmente in tirannidi, per opera dei capi di parte. Ma quando il più audace, più intelligente o più ambizioso di essi si faceva innanzi per prendere in mano le redini del governo, ecco subito i pugnali appuntarsi contro di lui. Egli quindi o doveva ritirarsi, o non poteva seguire altra norma di morale, che la sola possibile in uno stato d'anarchia e di guerra. Bisognava opporre pugnali a pugnali, veleni a veleni; ingannare; tradire; saper essere a un tempo volpe e leone; usare gli uomini come strumenti, che si gettano via appena son divenuti inutili. Una volta padrone dello Stato, ogni cosa dipendeva dal suo arbitrio, e a tutto doveva egli provvedere, se non voleva perdere tutto. Pretendere di poter essere in queste condizioni leale, onesto, umano, significava volere, sin dai primi passi, affogare nel sangue o nel ridicolo, procurando a sè stesso una certa rovina, senza giovare a nessuno. Ma se egli, adoperando pure la violenza e l'inganno, riusciva ad afferrare con mano ferma il potere, ordinare lo Stato, dar sicurtà e giustizia ai cittadini, allora tutti erano d'accordo nel lodarlo. E se il Machiavelli domandava a sè stesso: chi erano, dove erano coloro che riuscivano a governare con la umanità e la bontà cristiana? certo non era allora facile, non era possibile trovarli. La storia dei Visconti, di Ezelino da Romano, degli Sforza, di Ferdinando d'Aragona, del Valentino era nota a tutti. Volgendo lo sguardo ai capi stessi della religione cristiana, vedeva le arti inique di governo adoperate da uomini come Sisto IV, Innocenzo VIII, Alessandro VI. Si poteva, è vero, obbiettare che ciò risultava dalla decadenza e corruzione morale dell'Italia, la quale non bisognava quindi prendere a modello di buon governo. Ma guardando di là dalle Alpi, trovava egli forse uno spettacolo diverso? Non erano note le arti crudeli e i tradimenti di Luigi XI, che tuttavia riuscì con esse ad iniziare l'unità e la grandezza della Francia? Non era un maestro d'inganni Ferdinando il Cattolico, che con la regina Isabella aveva pure fondato la nuova monarchia di Spagna? Non era l'Inghilterra, non era l'Europa piena di tradimenti e di sangue? E se si tornava indietro nel Medio Evo, non crescevano le barbarie, la ferocia e le iniquità d'ogni sorta? Roma e la Grecia non presentavano forse nei loro più illustri fondatori di Stati, uomini crudelissimi e violenti, che pure la tradizione e la leggenda ponevano quasi in cielo, accanto agli Dei? Gli antichi scrittori non esaltavano fino alle stelle i più atroci delitti, se tornavano utili alla grandezza della patria? A che giova dunque, concludeva il Machiavelli, immaginare governi ideali che non sono mai esistiti e non esisteranno mai? A che giova raccomandare una politica, che nessuno segue ora, nè ha mai seguita in passato, e che sarebbe la rovina di chi la seguisse?

A tutto questo però si risponde oggi: ma non doveva una mente come la sua comprendere la diversità dei tempi e degli uomini? Era chiaro che la morale pagana non poteva esser quella dei Cristiani nella vita pubblica, come non era nella privata. Il Medio Evo era stato un'epoca di barbarie, ed il Rinascimento era un periodo di transizione, di trasformazione e di corruzione. Non vedeva egli dunque che tempi migliori e normali potevano, dovevano seguire, e che in questi sarebbe stato possibile, anzi necessaria una condotta politica più onesta e morale, a cui la scienza doveva mirare, e che sola doveva prendere per norma? Ma qui appunto il Machiavelli trovava un ostacolo insormontabile in un'altra delle sue teorie fondamentali, che noi abbiamo incontrata già nei Discorsi, e dalla quale non era possibile che, ai suoi tempi, egli si dipartisse. In tutte le sue opere, non solo nelle politiche e storiche, ma anche nelle letterarie, mille volte egli ripete, in prosa ed in verso, che gli uomini sono sempre gli stessi, che la natura non muta, e i medesimi accidenti si ripetono sempre nel mondo. Anzi, se così non fosse, non sarebbe, secondo lui, possibile una scienza dello Stato, giacchè non si potrebbe dal passato prender norma pel presente e per l'avvenire. Mutano le leggi, mutano le istituzioni ed i governi, la virtù ed i vizî sono diversamente distribuiti da una ad un'altra provincia, onde segue la continua varietà di casi; ma l'uomo riman sempre lo stesso. E perciò appunto, conoscendo quali sono le buone leggi e le buone istituzioni, specialmente quelle dei Romani, noi possiamo con certezza ricondurre gli Stati all'antica virtù.

A noi oggi è molto difficile farci un giusto concetto di questo modo di vedere, e misurarne tutte le conseguenze, essendo da un pezzo entrati in un ordine d'idee affatto diverso. Per noi l'uomo muta continuamente, e le leggi, le istituzioni, i governi, i costumi mutano con esso, perchè sono un resultato della sua attività, un prodotto del suo spirito, il quale se non mutasse, nulla muterebbe nella società. E com'esso è la sorgente principale di tutto ciò, così deve in parte almeno esserne responsabile; nè può nella vita pubblica e nella privata, che hanno nel suo spirito una comune origine, seguire due norme diverse di condotta: egli deve risponderne del pari alla sua coscienza, e mettersi d'accordo con essa. Così tutto per noi si coordina e si costituisce organicamente nella società, la quale è coll'uomo soggetta alla legge di evoluzione storica, ha una propria personalità e responsabilità, e diviene più morale, secondo che la morale individuale progredisce, non potendosi ammettere che l'una sia la negazione dell'altra, o che sia da essa affatto indipendente. Per quanto diverse siano le norme della vita privata e della pubblica, della morale e della politica, vi sarà pur sempre una politica onesta ed una politica disonesta. Tutto quello che abbiam detto qui sopra e più volte è stato già ripetuto da altri non deve, non può impedirci di credere ai principii, in ogni tempo, in ogni luogo o condizione, immutabili della morale, nè alle leggi ed alla unità costante dell'umana coscienza. Ma questa non è una unità immobile, è anzi, per usare l'espressione dell'Hegel, in un continuo divenire, è organica, vivente, e la sua vita è la storia. Anche a noi, anzi a noi assai più che agli antichi, lo studio del passato è necessario a conoscere il presente. E ciò non perchè siano fra loro identici, ma perchè nel presente sono gli elementi del passato, da cui esso deriva. Così la psicologia, la politica, la giurisprudenza, la scienza sociale trovarono la loro base sicura e necessaria nello studio dello spirito umano; non furono più scienze astratte, a priori, di fenomeni immutabili; ma sperimentali e concrete di fenomeni in continua mutazione, della quale mutazione si cercano le leggi nella storia.

Non ci sarà certo da maravigliarsi che il Machiavelli si trovasse assai lontano da queste nostre idee, se per poco si pensi che esse non erano ancora penetrate nella scienza neppure durante il secolo XVIII. Perchè infatti si spiegava allora l'origine della società col contratto sociale; l'origine dei linguaggi con una specie d'accordo stipulato fra gli uomini; l'origine delle mitologie con le invenzioni artificiose di filosofi, che, ad uso del popolo, rivestivano verità astratte sotto forme concrete? Solamente perchè quegli scrittori non riuscivano a comprendere la profonda differenza che passava fra gli uomini primitivi e quelli del loro tempo. Anche per essi la natura umana era immutabile, e della evoluzione storica non avevano ancora alcuna idea. Come altrimenti si spiegherebbe il loro preteso stato di natura? L'uomo, che uscito dalla società fosse tornato a vivere nelle foreste, si sarebbe, secondo le loro teorie, trovato in una specie di paradiso terrestre, in una innocenza e bontà primitiva, libero da ogni corruzione sociale, quasi che la società non fosse il solo stato naturale dell'uomo, e fuori di essa egli non tornasse un selvaggio abbrutito; quasi che la moralità e la civiltà non fossero conseguenza della società e della storia. Che cosa presumevano i filosofi della rivoluzione francese? Distruggere gli avanzi del passato, distruggere il presente, per ricostruire una società nuova, con nuovo governo, fondato sui principii immutabili della ragione. Non vedevano che la distruzione totale del passato e del presente avrebbe distrutto anche l'avvenire, che non può esistere senza il passato, e avrebbe perciò ricondotto alla barbarie. E si può aggiungere che in tutto ciò essi erano anche meno moderni del Machiavelli, il quale almeno a questi governi filosofici non credeva punto, e non si abbandonò mai alla oziosa contemplazione che cerca un uomo ideale fuori della società.

L'idea d'una storica evoluzione dell'uomo e della società, balenata la prima volta nella Scienza Nuova di G. B. Vico, e rimasta anche allora pensiero solitario di un filosofo, entrò nella scienza e nella coltura generale solamente dopo la rivoluzione filosofica iniziata dal Kant. E giustamente osservò a questo proposito il Bryce: «Non esservi nulla di più moderno di quello spirito critico, che si fonda sulla differenza che passa fra le menti degli uomini nelle diverse epoche della storia, e cerca di farsi il vero interpetre di tali epoche, giudicando con norme relative e proprie a ciascuna di esse, quello che ciascuna fece o produsse.»

Il concetto di un'assoluta, immutabile uguaglianza degli uomini è assai antico, e cominciò, insieme col concetto d'uno stato di natura, ad essere formulato nel jus gentium dei Romani, e nel loro diritto di natura, secondo cui omnes homines natura aequales sunt. A poco a poco questo concetto entrò anche nella scienza politica. Cominciato, collo studio del diritto romano, a diffondersi nel Medio Evo, progredì ancora più nel Rinascimento; trionfò poi nella filosofia del secolo XVIII e nella rivoluzione francese, che proclamò l'uguaglianza degli uomini come suo domma fondamentale. E la parentela che, sotto questo aspetto, corre fra la Rivoluzione ed i nostri Comuni, apparisce qualche volta in modo assai singolare in alcune leggi, che essi formularono con un linguaggio e con una dichiarazione di principii generali, che ricordano la Convenzione di Francia. Un esempio ne abbiamo nella legge con cui i Fiorentini abolirono la servitù nel 1289, ed in altre che poi, riunite insieme, formarono gli Ordinamenti di Giustizia del 1293. Molti se ne trovano anche negli storici, ed uno dei più evidenti lo abbiamo nelle parole che il Machiavelli pone in bocca d'un popolano, il quale nel tumulto dei Ciompi (1378) voleva sollevare la plebe contro i nobili: «Nè vi sbigottisca,» così gli fa dire, «quella nobiltà del sangue che ei ci rimproverano, perchè tutti gli uomini, avendo avuto un medesimo principio, sono ugualmente antichi, e dalla natura sono stati fatti a un modo. Spogliateci tutti ignudi, voi ci vedrete simili; rivestite noi delle vesti loro ed eglino delle nostre, noi senza dubbio nobili ed eglino ignobili parranno, perchè solo la povertà e la ricchezza ci disagguagliano.»

Qualunque però sia la storia di questo concetto della uguaglianza assoluta ed immutabile degli uomini, in esso certamente il Machiavelli aveva grandissima fede, e ne risultavano conseguenze notevoli nel suo modo di pensare. E prima di tutto ne risultava, che a lui era impossibile trovare un criterio relativo per giudicare diversamente le azioni e la condotta politica degli uomini di Stato, secondo i tempi, le società e la diversa moralità dei popoli. Ciò che era riuscito opportuno, necessario, utile in un tempo, diveniva per lui logicamente giustificato per sempre. Inoltre, se egli non trovava un criterio relativo di morale per giudicare le diverse epoche, non poteva trovarlo neppure quando, in una medesima società, vedeva gli stessi uomini costretti a seguire, nella vita pubblica e nella privata, norme diversissime di condotta. Non gli era però possibile nascondere questa differenza, questa apparente contradizione, o tacerne. Uno dei suoi meriti principali fu anzi quello d'averla veduta e studiata, senza rivolgere altrove lo sguardo inorridito, per scrupolo di coscienza o per prudenza. Ma non gli fu mai possibile di scoprire una vera relazione fra questi due ordini di fatti tanto diversi, e condurli a principii comuni, da essere solo diversamente applicati. E così, non potendo rinnegare la morale cristiana, che si presentava come assoluta, immutabile, eterna, e trovavasi in sostanza d'accordo anche coll'antica filosofia, non gli restava che o rinunziare addirittura allo studio dei fatti sociali e delle norme di condotta dell'uomo di Stato, o considerare la politica come un mondo del tutto separato e indipendente, regolato da principii sostanzialmente diversi.

A che cosa erano infatti riusciti gli scrittori politici del Medio Evo, che questa differenza non avevano riconosciuta, e dalla morale cristiana non s'erano mai voluti dipartire? Avevano composto lunghe dissertazioni sulla bontà, la virtù, la religione dei governanti, lette con avidità da uomini che continuavano poi a lacerarsi fra di loro, dominati dalle più feroci passioni. Era stata una scienza, che come non aveva tenuto conto alcuno della realtà, così su di essa non aveva esercitato mai la più lontana azione. E di certo se un qualche effetto essa poteva sperar d'ottenere, non sarebbe stato mai nel guidare la vita pubblica, ma piuttosto nel persuadere ad abbandonarla addirittura, per rinchiudersi in un convento. Tale non era evidentemente lo scopo del Machiavelli, che cercava invece nello studio della società l'arte di governare e di condurre gli uomini ad un fine pratico e determinato.

Questo non era però mai, secondo lui, un fine necessario e prestabilito, perchè la società non aveva ai suoi occhi uno scopo necessario, risultante dalle leggi dell'umana natura. Dipendeva invece, come abbiamo già visto, unicamente dall'arbitrio dell'uomo politico, del legislatore, le cui azioni divenivano così anch'esse arbitrarie. Infatti, dato il fine che egli si proponeva, qualunque esso fosse, la scienza doveva saper trovare i mezzi per raggiungerlo. Se era buono, se mirava alla grandezza della patria, il legislatore sarebbe stato glorioso; se invece mirava alla rovina di essa e della libertà, sarebbe stato infame, dell'un caso e nell'altro la scienza lo avrebbe del pari aiutato, senza perciò essere morale o immorale, ma solo vera o falsa, secondo che sapeva o no insegnare a riuscire nell'intento. In ogni modo, era sempre il fine che giustificava o condannava, non i mezzi necessarî a raggiungerlo. Condannare un'azione che sembrasse iniqua o crudele, ma che pur fosse provata necessaria a salvare la patria, ad assicurare lo Stato, era un voler giudicare la condotta politica con i criteri della vita privata, e rendere impossibile una scienza dello Stato, fondata sulla realtà e non sulla immaginazione. Poste le premesse, egli traeva, come portava la natura del suo ingegno, inesorabilmente le conseguenze, e persuaso di rivelare al mondo nuove ed utili verità, non si spaventava d'essere giudicato malvagio da chi non lo capiva.

Per riuscire a ciò era di certo necessario trovar nella storia e nella società un qualche elemento razionale, senza di che esse non potevano formare oggetto di scienza. E così fu condotto a cercare, spesso a scoprire la connessione logica dei fatti, senza però mai occuparsi d'alcuna teoria filosofica a priori sullo spirito umano, senza quasi conoscerne alcuna. Quando questa connessione gli apparve chiara, e nella storia, nella società vide come un disegno segreto e nascosto, non potendo spiegarlo nel modo che faceva la scuola teologica, dichiarandone cioè solo autore Iddio; non avendo alcun concetto della operosità impersonale, che pur si manifesta nella società umana, e delle leggi che regolano questa operosità non sapendo ricondurre la evoluzione storica allo spirito umano, come a sua prima sorgente, trasportò e personificò tutto nel legislatore. Così questo divenne per lui come il creatore, l'arbitro della società, non guidato dalla coscienza popolare, non costretto di obbedire ad essa, non parte di essa, nè ad essa legato in modo alcuno. L'azione politica gli apparve come un fatto indipendente dalla coscienza stessa di colui che la compieva, quasi un fenomeno della natura, del quale si studiano impassibilmente le cause, la forza e gli effetti. Non poteva infatti giudicarla nè secondo le norme della coscienza sociale che egli non vedeva, nè secondo le norme della privata coscienza, perchè egli aveva messo il legislatore al di fuori, al di sopra d'ogni legge della morale individuale. Poteva essere un uomo buono e nonostante, anzi appunto per la sua troppa bontà, tenere una condotta politica rovinosa alla società; poteva essere un tristo, e nondimeno riuscire a salvarla. Gli atti politici perdevano così il vero e proprio nome di azione, non pareva che avessero più nulla di umano e di personale. Il legislatore che li compie sembra ripetere con Amleto: - La coscienza ci rende codardi. - Egli cerca di soffocarne perciò la incomoda voce, abbandona le vie di mezzo, e, senza più esitare, cammina inesorabile al suo scopo.

Ma ciò appunto è quello che ci spaventa. Quando sentiamo freddamente enumerare i casi in cui il politico deve mentire, ingannare e tradire, un sentimento più forte di noi reagisce con violenza irresistibile, e ci obbliga ad esclamare, che col tradimento e la immoralità non si fanno, ma si disfanno gli Stati. A questa convinzione non possiamo in modo alcuno rinunziare; più facile ci sarebbe ammettere che il Machiavelli era un mostro. Se non che, per quanto un tale sentimento persista e sia giustificato, non basta di certo a farci giudicare le dottrine dello scrittore, e molto meno a ritrovare la sorgente de' suoi errori, per evitarli, dopo averne misurato l'estensione e le conseguenze. Questo sentimento poi, non solo non può divenire un criterio, ma ci fa troppo spesso uscire addirittura di strada, essendo noi indotti di continuo ad esagerarlo. E ciò perchè da una parte la moralità pubblica e privata dei nostri tempi è superiore assai a quella dei tempi del Machiavelli, e dall'altra perchè tra lui ed il lettore moderno nasce una serie di equivoci, che bisogna rimuovere, se vogliamo metterci in grado di giudicare imparzialmente. Questi equivoci, che il linguaggio assai spesso eccessivo dal Machiavelli adoperato, rende anche maggiori, derivano da ciò, che di fronte agli errori suoi e del suo tempo si pongono i nostri, i quali sono di natura affatto diversa. Persuasi una volta che leggi, istituzioni, società, governi scaturiscono dallo spirito umano, e progrediscono, decadono, si corrompono con esso, la immoralità individuale non può per noi divenire moralità sociale, nè può in una sfera d'azione divenir bene quello che in un'altra è male, essendo una sola la nostra coscienza. Noi ammettiamo che la morale dei Pagani era diversa dalla morale dei Cristiani, quella del Medio Evo dalla nostra, perchè infatti riconosciamo che l'uomo era allora diverso. Non possiamo però con uguale facilità ammettere che in uno stesso popolo, in un medesimo tempo, la morale condotta possa e debba, nelle diverse sfere dell'umana attività, essere guidata da norme diverse, e che le medesime azioni abbiano in esse un diverso valore. L'inganno, la menzogna sono sempre immorali, e dobbiamo, vogliamo sempre condannarli. Pure nel fatto siamo costretti poi a contraddirci.

Nella guerra si può anche oggi ingannare il nemico, per meglio distruggerlo; diamo premî al disertore che tradisce la sua patria, e una fortunata imboscata è anche da noi lodata. Questa in un duello sarebbe un assassinio; ma una finta, che metta l'avversario fuori di guardia, e lo scopra per più facilmente ucciderlo, è ammessa dalle leggi della cavalleria, mentre nel corso ordinario della vita, ogni finzione è rigorosamente bandita dalla condotta d'un uomo onesto. Ripetiamo tutti i giorni, che la vera diplomazia, la vera politica dicono sempre lealmente il vero, si conducono con le norme stesse della vita privata; anzi è perciò appunto che siamo tanto severi col Machiavelli. Ma bisogna osservare se quello che diciamo e scriviamo risponde veramente a quello che facciamo, perchè delle azioni e non delle idee o delle parole egli s'occupava. Quando il Machiavelli afferma che il Principe deve saper fare la volpe ed il leone, il nostro orrore non ha confini. Ma quando, sotto i nostri occhi, una potente nazione si costituisce, contribuendovi principalmente l'opera di chi sa essere appunto volpe e leone; schiacciare il nemico, ed occorrendo, anche ingannarlo; valersi di tutti gli uomini, e respingerli come inutili strumenti, appena che più non giovano al suo fine, che giudizio porta di lui allora la coscienza pubblica dell'Europa? Guarda ai mezzi o al fine? Lo chiama immorale, o lo chiama invece un grande politico, se tutto egli ha fatto a solo vantaggio della patria sua? Si narra che il nostro più grande uomo di Stato, in quei giorni medesimi nei quali più ardentemente ed efficacemente contribuiva alla redenzione della patria, fu sentito ansiosamente esclamare: - Io mi trovo qualche volta costretto di chiedere a me stesso: son sempre un galantuomo o sto divenendo un birbante? - E ciò nulla proverebbe contro la moralità del suo carattere, ma ben dimostrerebbe assai chiaro, che il conflitto da noi accennato esiste anche oggi, e sino al punto da assumere qualche volta tragiche proporzioni nella coscienza onesta del patriotta, che tutto sacrifica al bene del suo paese. «Vice n'est ce-pas,» osservò il Montaigne, accennando a questi casi appunto, in cui l'uomo di Stato spesso si ritrova, «car il a quitté sa raison à une plus universelle et puissante raison.»

E che cosa è veramente che allora lo scusa, se non il fine che ha avuto, l'effetto che ha ottenuto? Il disgusto che noi proviamo nel sentir ripetere la frase, - il fine giustifica i mezzi, - deriva in parte dall'esser questa la massima funesta dei Gesuiti. Ma non bisogna dimenticare, che essi ammettevano l'uso d'ogni mezzo, per conseguire il fine che avevano di sottomettere lo Stato alla Chiesa, la Chiesa alla Compagnia, e che questo fine appunto non era in nessun modo giustificato nè giustificabile. Si respinga pure, se si vuole, la massima, giacchè è certo che dal male non nasce il bene, e che il mezzo non è indipendente dal fine che deve produrre, anzi l'uno partecipa sempre della natura dell'altro. Si dovrà però ammettere del pari che il valore d'una stessa azione riesce assai diverso nei vari ordini dell'attività sociale, in conseguenza del diverso fine a cui questi mirano, e del diverso effetto che quella produce. Nella vita privata noi dobbiamo cercare col nostro bene quello ancora del vicino; nella pubblica ogni privato interesse deve sottostare ed, occorrendo, essere sacrificato al generale. L'individuo perde così nella seconda una parte del valore che ha nella prima.

Del resto, che una reale e sostanziale differenza esista, è in termini generali ammesso da tutti, e lo tocca con mano chiunque passa repentinamente dalla vita privata alla pubblica, nella quale ciò che prima e più di tutto lo colpisce si è l'esistenza d'una logica morale affatto nuova per lui, perchè diversa, e qualche volta, apparentemente almeno, in contradizione con quella che fino allora aveva conosciuta e seguita. L'errore del Machiavelli consisteva nel risguardare l'una come affatto indipendente dall'altra, e nel non vedere alcuna relazione fra di esse. Noi invece riconosciamo non solo che c'è una relazione, ma che ambedue dipendono dai medesimi principii; hanno un punto comune di partenza, un fine comune a cui tendono. Questa relazione però resta ancora assai confusa nella nostra mente; il determinarla scientificamente non è stato finora possibile, il che è anche oggi uno dei maggiori ostacoli alla fondazione d'una vera scienza della politica. La conoscenza così imperfetta, così mal sicura d'una relazione che in nessun modo vogliamo mettere in dubbio, ci spinge, per uscire d'ogni difficoltà, a supporre troppo facilmente di poter sopprimere ogni reale differenza tra la pubblica e la privata morale, proclamandone la identità. E questo è il nostro errore. Così non solo noi viviamo in un mondo morale assai diverso da quello del Machiavelli, ma ci troviamo anche in mezzo a pregiudizi ed errori che sono in opposizione con i suoi; e la scienza politica non essendo ancora sicuramente formata, non ha canoni incontrastabili, che ci possano condurre fuori di questo laberinto. Ognuno vede da ciò le enormi difficoltà che dobbiamo incontrare, quando vogliamo imparzialmente giudicare il Machiavelli nel tempo in cui egli gettava, per la prima volta, i fondamenti di quella scienza, che dopo di lui ha così poco progredito. Di qui la lunga schiera d'interpetri, ammiratori e detrattori, i quali non riescono mai a mettersi d'accordo, per sapere che cosa intendeva dire, che fini reconditi e misteriosi aveva uno scrittore, il quale disse sempre chiaramente tutto quello che pensava. Non vi fu infatti mai uomo meno machiavellico del Machiavelli; e più facilmente noi potremmo accusarlo di cinismo, che di reticenze premeditate o di secondi fini nascosti ne' suoi libri.

Quando lo poniamo davvero nel suo secolo, e lo seguiamo con attenzione, senza pregiudizî, allora ci avvediamo subito che egli, entrando in quella via che ci par così spesso pericolosa e precipitosa, fa uno sforzo audace e gigantesco, per arrivare all'esame della realtà vera delle cose, uscendo definitivamente dal Medio Evo. Questo aveva confuso il diritto con la morale, per mezzo della quale sottoponeva la politica alla religione, e finalmente lo Stato alla Chiesa; aveva confuso il diritto pubblico col privato, dando al supremo potere, ai pubblici uffici una forma feudale e quasi di privata proprietà, dal che era nato un caos inestricabile così nel fatto come nelle idee degli uomini. E però, quando vediamo il Machiavelli guardare per la prima volta i fatti della società e della storia come fenomeni della natura; cercarne le leggi, il legame reale; esaminare l'efficacia che può avere su di essi l'opera dell'uomo di Stato, senza occuparsi di giudizi o pregiudizi individuali, di condanne religiose o morali, allora, quasi dimenticando ad un tratto i nostri scrupoli, ci par di vedere la luce del genio, che illumina il mondo che stiamo esaminando; di assistere finalmente, come di fatti assistiamo, alla creazione della scienza politica. E dobbiamo riconoscere che la via per la quale egli audacemente si mise nel secolo XVI, rimane anche oggi, se ne correggiamo gli errori, la sola per cui si possa arrivare ad un resultato, che sia davvero pratico e scientifico nello stesso tempo. Ed in vero, fino a quando, pur ammettendo la costanza immutabile dei principii morali, non ammettiamo anche il valore obiettivo dell'azione politica, e la sua profonda differenza dalla privata, una vera scienza dello Stato sarà impossibile.

Ma non basta. Per quanto possa parere strano, un ritorno razionale alle dottrine e al metodo del Machiavelli, è necessario a trovare un fondamento e una guida sicura alla onestà politica. Se noi ci contentiamo di ripeter sempre, che una è la morale, e che gli affari pubblici si debbono condurre con le norme stesse dei privati, che la vera politica e la vera diplomazia stanno nella lealtà, quale sarà poi la conseguenza, quando nel fatto ci accorgeremo che, restando davvero fedeli a queste massime, restiamo isolati e condannati all'impotenza? O dobbiamo allora ritirarci o, dopo i primi scrupoli esagerati, che la forza reale delle cose contraddice e smentisce, incomincia quella serie di transazioni, di sottintesi e di ripieghi, i quali in sostanza sono maschere per nascondere la differenza reale sotto una uniformità puramente convenzionale ed ingannatrice. Ora è certo, che in mezzo a queste finzioni, i veri e sicuri criteri di ciò che in politica è onesto o disonesto, leale o sleale, si perdono. Non v'è più norma di sorta, tutto par che sia lecito, purchè si trovi la maschera e la forma conveniente; e spesso si vedono quelli che erano in principio i più scrupolosi, divenire a un tratto scettici, e confondere anch'essi la verità, la sostanza delle cose coi più volgari artifizî della politica, la quale sembra anzi ridursi tutta a tali artifizî. Ed in questo lavoro di sottili finzioni, i tristi riescono assai meglio dei buoni e leali cittadini, i quali, fidenti nella rettitudine delle loro intenzioni, sanno assai meno nasconderle o mascherarle, e non ne sentono il bisogno. Spesso segue anzi che passano essi per disonesti, ed onesti appaion quelli solamente che meglio san fingere, e che, sotto mentite apparenze, provvedono solo al privato loro interesse. Di qui la porta aperta alla corruzione politica, pericolo che ai giorni nostri è assai più minaccioso che nel passato, e diverrà sempre maggiore. Una volta, infatti, i governi erano in mano d'un numero ristretto di persone, le quali non solamente nei paesi aristocratici come l'Inghilterra, ma anche in quasi tutte le repubbliche antiche o del Medio Evo, costituivano un ordine privilegiato di cittadini. Il suo interesse s'immedesimava con quello dello Stato, ed a poco a poco si formavano tradizioni che tenevano luogo di principii. Ma oggi che la democrazia invade tutto, ognuno può prima o poi salire al governo. Gli uomini si trovano perciò balestrati a un tratto dalla vita privata alla pubblica; e mancando ad essi le tradizioni secolari di una educazione politica ereditaria, se principii sicuri non danno norme costanti, facendo nella continua mutabilità prevaler sempre l'interesse dello Stato, la corruzione politica sarà la malattia delle nostre società democratiche, e ne metterà a repentaglio l'esistenza. Che se v'è una reale differenza tra la morale politica e la privata, ciò non vuol dire di certo che non vi sia una politica morale ed una politica immorale, e che questa non sia rovinosa agli Stati ed alle nazioni, quanto l'immoralità privata all'individuo ed alla famiglia.

Tutto ciò non deve peraltro impedirci di riconoscere il cammino immenso che abbiamo fatto, e la distanza che ci separa dal Machiavelli. Per noi l'uomo di Stato deve essere immedesimato con la società che egli governa, la quale ha una sua personalità ed una coscienza, che è in relazione con la coscienza individuale da cui deriva, nè può quindi mettersi con essa in aperta contradizione. La società obbedisce ad alcune leggi sue proprie, ha fini e scopi determinati, il principale dei quali è il miglioramento morale dell'uomo. Se da questo fine il politico, il legislatore si allontanano, essi violano le leggi più sacre della natura e della storia. Guardare solo alla grandezza e potenza dello Stato, senza guardare all'uomo, quasi esso fosse creato per lo Stato, e non viceversa, fu un altro errore del Machiavelli. E l'azione politica, per quanto abbia un valore indipendente, è pure un atto compiuto da un uomo, nè può quindi da essa scomparire ogni elemento personale, umano. Se io soccorro i poveri, senza che la mano sinistra sappia quello che ha fatto la destra, la mia azione può certo essere buona, pur non avendo valore politico di sorta; se invece io, non per sentimento alcuno di cristiana carità, ma per compiere solo un atto di governo, dono ad essi in pubblico, e voglio che si sappia da tutti, la mia azione può essere politicamente buona, senza avere un alto valore morale. Ma dire che il primo sentimento, quando vi sia, nulla aggiunga all'azione politica, il cui valore anzi risulta solo dalla sua apparenza esteriore, senza relazione alcuna colla intrinseca sua realtà, è un uscire dai confini del vero. Ed il Machiavelli, nel distinguere i due ordini di fatti, trascinato dalla sua fantasia indomabile e dalla sua logica, esagera spesso oltre ogni giusta misura. Quando, per esempio, arriva a dire che in politica la sola apparenza del bene giova, e che la bontà della intenzione è inutile, anzi nuoce qualche volta all'uomo di Stato, allora il vero, a questo modo esagerato, divien falso. Se lo scopo della politica, com'egli stesso più volte afferma con eloquenza, deve esser la grandezza della patria, a cui ogni privato interesse va sacrificato, nessuno negherà che solo un animo generoso e buono può veramente amarla, e con maggiore efficacia riuscire ad aiutarla.

Pure il Machiavelli, a dimostrarci che la bontà personale e la capacità politica son cose diverse, si diletta sopra modo di farci vedere quanto utile potè politicamente riuscire qualche volta uno scellerato; e, non avendo nè potendo al suo tempo avere un'idea chiara del progresso morale e civile delle società umane, ciò che trova una volta giustificabile, gli appar tale per sempre. Non vede allora differenza sostanziale tra i mezzi, con i quali un capo di tribù selvagge riesce a costituire un qualche ordine sociale, e quelli che è lecito adoperare ad un principe di uno Stato già progredito. Se la storia anche oggi può lodare il carattere politico di Guglielmo il Conquistatore, che pur cavava gli occhi ai prigionieri, e tagliava loro mani e piedi, senza mai dar segno alcuno di pietà, al Machiavelli sarebbe stato difficile intendere che in altri tempi questi medesimi mezzi potrebbero essere adoperati solo da un mostro, e porterebbero la immediata rovina di chi li adoperasse, appunto perchè non vedeva, come noi vediamo, che la coscienza pubblica e la privata sono fra loro in relazione; che gli uomini non son sempre gli stessi, ma mutano di continuo. E perciò appunto, quando ammirava le azioni del Valentino quasi come un'opera d'arte, non s'avvedeva che questi aveva passato il segno, scandalizzando perfino quel secolo scandaloso, e che prima o poi la sua impresa doveva rovinare, perchè esso ed il padre, nonostante l'accortezza, l'ingegno e la fortuna, calpestando l'umana coscienza, avevano di necessità fabbricato sulla rena. Tutto ciò riesce a noi anche più intollerabile, per quel suo linguaggio singolare che tanto spesso egli adopera. Le parole con le quali si lodano le più nobili azioni nella vita privata, il Machiavelli le usa di continuo per lodarne altre, che sarebbero in essa giudicate inique, se crede che possano riescire utili o necessarie nella vita pubblica. Egli lo fa a sempre meglio mettere in luce la differenza che passa fra l'una e l'altra, e senza scrupolo, senza esitare, anzi con vero entusiasmo, quando si tratta d'azioni compiute a difesa della patria. Ma nessuna spiegazione al mondo farà mai, che il nostro orecchio possa assuefarsi a sentir parlare di frodi onorevoli, di crudeltà generose, di scelleratezze gloriose. Eppure egli, trascinato da una logica irresistibile, spronato dal bisogno di dare efficacia alle sue parole, di trovar leggi e regole generali; convinto d'aprire una via sconosciuta, di fondare sopra solide basi una scienza nuova e praticamente utile alla società; portato dalla propria indole, dalla propria fantasia alle conclusioni assolute, traeva, inesorabile, le conseguenze dalle sue premesse, senza mai di nulla spaventarsi, senza occuparsi di quello che si sarebbe detto o pensato di lui.

Noi possiamo e dobbiamo spesso biasimarlo; ma il giusto biasimo non ci deve far chiudere gli occhi alla realtà delle cose, ed alla difficoltà del problema, che egli per la prima volta osò affrontare, e che noi ancora non abbiamo risoluto. Quando, anche oggi, entrando nel tempio cristiano, vediamo sulla tela quasi santificata Giuditta che presenta al popolo esultante la testa d'Oloferne; quando nella scuola cerchiamo ispirare ai nostri giovanetti ammirazione per l'Orazio che uccide la propria sorella, pensiamo mai al nome che dovremmo dare a queste azioni, se le giudicassimo coi principii stessi con cui tante volte giudichiamo il Machiavelli? Esse sono fra quelle appunto che egli chiamava scelleratezze gloriose. Di certo, se i tempi fossero stati meno corrotti, il fenomeno del Machiavellismo avrebbe preso un'altra forma; e se il Machiavelli avesse avuto un animo più puro, più ideale, sdegnoso d'ogni cinismo, un amore della virtù più intenso, avrebbe anch'egli tenuto altro linguaggio, e anche senza vedere quello che allora nessuno poteva vedere, avrebbe qualche volta fatto almeno sentire la protesta, il dolore della propria coscienza. Ma nulla di meno razionale, che il non tener conto degli errori inevitabili d'un secolo, e delle loro necessarie conseguenze; nulla di più ingiusto, che il volere in lui solamente giudicare gli errori come colpe, e pretendere di tutto spiegare colla corruzione sua e del suo tempo. Aveva perciò ragione il Mohl, quando scrisse che, se il Machiavelli aveva peccato, molto più era stato contro di lui peccato. La posterità deve ancora rendere giustizia a colui che certo non fu senza colpa, ma che pure osò affrontare la soluzione d'uno dei più ardui problemi che s'incontrino nelle scienze morali, e non temè di condannare per secoli il suo nome all'odio dei posteri, perchè si sentiva nello scrivere animato dall'amore della verità, della libertà e della patria, da un grande desiderio del pubblico bene.

A sempre meglio intendere il valore intrinseco del Machiavelli, e le sue vere relazioni coi tempi in cui visse, nulla giova quanto il porlo accanto al Guicciardini, esaminando le Considerazioni, che questi scrisse sui Discorsi del primo. Il Guicciardini era senza dubbio più pratico, aveva maggiore attitudine a comandare, maggiore conoscenza degli uomini e degli affari, specialmente dei grandi affari, dei quali ebbe un'assai più larga esperienza. E, come abbiamo già visto, senza ferme convinzioni politiche, senza grandi ideali, occupato solo a farsi strada nel mondo, egli era un osservatore sempre esatto, sempre pratico, non mai fantastico. Messo accanto al Machiavelli, sembra il genio del buon senso, che, sicuro di sè, guarda sorridendo i voli troppo audaci, le creazioni troppo ardite d'un genio divinatore, di cui nota ogni inesattezza, biasima i passi precipitosi e pericolosi, con grande maestria e prudenza; ma del quale non comprende tutta la forza, nè l'altezza della mèta cui aspira. Il Machiavelli dal suo lato non ascolta i consigli della prudenza, perchè trova soddisfacimento solo quando s'avanza per sentieri sconosciuti, inesplorati, donde qualche volta precipita senza però mai perdere l'energia necessaria a salire nuovamente in alto.

Fin dalle prime parole, il Guicciardini fa presentire la disposizione del suo animo. Il Machiavelli discorrendo dell'origine delle città, fedele al suo principio, che gli uomini son cattivi per natura, e diventano buoni per forza, osserva che, quando le città si trovano in luoghi sterili, i cittadini riescono operosi ed energici; quando invece si trovano in luoghi fertili, si abbandonano all'ozio, se leggi e istituzioni severe non vi pongono efficace rimedio, stimolandoli al lavoro, educandoli alle armi. Ma la sterilità dei luoghi non offre agevole occasione alle conquiste; e però i Romani fondarono la loro città in un paese fertile, che apriva la via alle conquiste, e resero il popolo laborioso, armigero con leggi severissime, che il Machiavelli enumera. A questo punto il Guicciardini, che ammirava molto l'arte militare dei Romani, ma non del pari il loro governo e la loro politica, sembra che incominci subito a perdere la pazienza. Roma, egli dice, fu posta in un territorio fertile, ma senza contado, e circondata da popoli armigeri; onde fu costretta ad allargarsi con la virtù delle armi e della concordia. E questo è quello che segue, «non in una città che voglia vivere alla filosofica, ma in quelle che vogliono governarsi secondo il comune uso del mondo, come è necessario fare.»

Venendo poi ad esaminare ciò che i Discorsi dicono sulle varie forme di governo, approva la esposizione fatta in essi secondo le idee di Polibio. Arrivato però, nel capitolo nono, al punto decisivo, là dove si dice che a fondare una repubblica bisogna esser solo, e che perciò Romolo fece bene ad ammazzare il fratello, quale è la posizione che il Guicciardini prende di fronte al Machiavelli? «Non è dubbio,» egli dice, «che un solo può porre miglior ordine alle cose, che non fanno molti, e che uno in una città disordinata merita laude, se, non potendo riordinarla altrimenti, lo fa con la violenza e con la fraude e modi estraordinari.» «Ma si preghi Dio che non ci sia bisogno d'essere riordinati a questo modo, perchè gli uomini sono fallaci, e facilmente al riordinatore può venire la voglia di farsi tiranno. E quanto alla vita di Romolo bisogna considerarla bene, perchè pare che fosse ammazzato dal Senato appunto per volersi arrogare troppa autorità. Bisogna considerarla bene.» Dove poi il Machiavelli, proseguendo il suo discorso, s'esalta con tanta eloquenza a descrivere la grandezza d'animo del vero legislatore, che, compiuta la sua opera, prova il suo disinteresse e l'altezza del suo scopo, non lasciando lo Stato agli eredi, ma affidandone la cura alle mani del popolo, perchè lo mantenga a lungo libero e forte, il Guicciardini con freddezza osserva, che questi sono pensieri, «che si dipingono più facilmente in su i libri e nelle immaginazioni degli uomini, che non se ne eseguiscano in fatto.» Egli dunque ammette, senza neppur discuterlo, il punto di partenza del Machiavelli, ed arriva fino a riconoscere che la frode, la violenza, l'inganno possano, nel caso di cui si ragiona, essere lodevoli. Riconosciuto però il fatto, quale era allora, almeno in pratica, ammesso da tutti, non vuole su di esso fondare una teoria, non tirarne conseguenze; ma cerca piuttosto attenuarlo, temperarlo con un linguaggio moderato, e coi suggerimenti del senso comune. Non ammette invece che sia possibile quella grande generosità del vero legislatore, nella quale il Machiavelli aveva così esplicita fede, e nondimeno lo accusa nello stesso tempo di credere gli uomini troppo cattivi.

In vero il Machiavelli non solo afferma che gli uomini, tristissimi di loro natura, tali rimarrebbero se le leggi non li correggessero e costringessero ad essere buoni; ma aggiunge ancora che, se fossero veramente buoni, non sarebbero necessarie le leggi. Secondo noi invece, queste essendo fatte dagli uomini, essendo espressione del loro modo di sentire e di pensare, ne risulta chiaro che, se in essi non fosse germe veruno di bontà, non si potrebbero avere nè le buone leggi, nè le virtù che ne derivano. Ma il Guicciardini, che non aveva le nostre idee, e non accettava quelle del Machiavelli, si contenta di osservargli semplicemente, che tutto è da lui detto in modo troppo assoluto, perchè gli uomini sono di loro natura portati al bene, da cui deviano solo per interesse personale. Chi preferisse, egli dice, il male per sè stesso, sarebbe un mostro. Le leggi si debbono quindi fare in modo, che chi voglia non possa compiere il male, e debbono con premi incoraggiare il bene.

Ma il Machiavelli aveva anche con molta eloquenza scritto, che chi, messo da una parte il bene e dall'altra il male, preferisse questo a quello, dovrebbe non essere nato di uomo. Esaminando però la società, egli vedeva che l'interesse privato si metteva di continuo in conflitto col pubblico, il quale non avrebbe trionfato davvero senza le leggi e la forza; e siccome questo trionfo egli voleva sopra ogni altra cosa assicurare, ed in esso vedeva la sorgente di tutte le civili virtù, così le faceva derivare dalle leggi e dalla forza. Il Guicciardini, invece, che ai privati e personali interessi dava, in teoria ed in pratica, assai maggior forza, voleva rimediare a tutto ponendoli fra di loro in equilibrio, facendo sì che gli uni servissero di freno agli altri, ed in ciò riponeva l'essenza del governo, e vedeva la via a formare lo Stato, che il Machiavelli concepiva invece come una unità superiore, alla quale dava il diritto, imponeva il dovere di sottomettere i privati interessi, vincendo ogni loro resistenza. Considerando poi tutta l'attività politica come personificata nel legislatore, nel Principe, il quale a forza si sovrapponeva alla società, ne seguiva necessariamente, che ogni impulso, ogni tendenza sociale, il governo stesso prendevano sempre l'aspetto di qualche cosa che veniva di fuori, che non nasceva da essa, ma aveva la sua sorgente in una volontà affatto estranea. Ed il Guicciardini anche qui non fa altro che esaminare sentenze ed osservazioni staccate, contentandosi di biasimare le esagerazioni del Machiavelli, temperandone, moderandone la forma eccessiva di linguaggio, lasciando da parte le quistioni generali, che gli paiono sempre teoriche ed oziose.

Nei Discorsi si legge ripetutamente: «Non esservi più sano nè più utile mezzo ad assicurare la libertà, che ammazzare i figli di Bruto.» Ed il Guicciardini scrive: «Assai difficilmente si educa alla libertà un popolo che mai non la conobbe. Il meglio è in questi casi fondare un governo temperato, e punir subito i nemici di esso, lasciando vivere gli altri in pace. Sebbene però allora sia spesso inevitabile metter le mani nel sangue, non desideri il nuovo governo che Bruto abbia figli, per acquistare reputazione ammazzandoli: meglio sarebbe che non ne avesse. Se poi si tratta d'un principe odiato da un popolo che ami la libertà, non v'è davvero rimedio. Ed è puerile credere col Machiavelli, che Clearco ammazzasse gli Ottimati, per dar soddisfazione al popolo che gli era avverso; bisogna credere piuttosto che anch'essi gli erano nemici, e che però li spegnesse sotto finto colore. Il solo rimedio in simili casi sta nel farsi partigiani abbastanza potenti da opprimere il popolo, o batterlo ed annichilirlo in modo che non possa muoversi, introducendo nello Stato nuovi abitatori che non siano educati alla libertà.» E dopo tali parole, che sembrano, pur combattendolo, concedere già molto alle idee del Machiavelli, egli cerca subito di temperare la sentenza troppo assoluta. «Bisogna però che il Principe abbia animo ad usare questi modi straordinari, quando siano necessari; ma abbia tanta prudenza da non tralasciare alcuna occasione che si presenti, per stabilire le cose con la umanità e coi benefici, non pigliando così per regola assoluta quello che dice lo scrittore, al quale sempre piacquono sopra modo i rimedi straordinari o violenti.»

Lo stesso metodo di critica segue là dove il Machiavelli afferma che, quando si tratta di salire a grande fortuna, non basta la sola forza, ma occorre anche usare la frode. Il Guicciardini distingue: «Se si parla di simulazione e di astuzia, può esser vero che la sola forza, non dirò mai, che è vocabolo troppo risoluto, ma rarissime volte conduca gli uomini al potere. Se però s'intende addirittura inganno o mancamento di fede, vi furono molti, che senza la frode acquistarono regni, come Alessandro Magno e Cesare, che scoprì la sua ambizione. Può anche essere disputabile, se la frode sia sempre mezzo sicuro d'arrivare a grandezza, perchè con l'inganno si fanno di bei colpi, ma la reputazione d'ingannatore ti toglie poi modo di conseguire l'intento.» Se non che, la questione principale posta nei Discorsi era, che in politica l'inganno sia non di rado un mezzo necessario per riuscire ad un fine buono, e che perciò l'adoperarlo possa, in questi casi, essere un dovere. Il Guicciardini evidentemente è d'accordo col Machiavelli; ma non vuole ammetterlo senza riserve, nè vuole fermarsi a discutere una sentenza che gli par troppo ardita. E si contenta di esaminare, come cosa più pratica, quando la frode riesce e quando non riesce al fine proposto.

Abbiamo già visto, che il Machiavelli fa alcune giuste, profonde osservazioni sulla storia dei partiti in Roma ed in Firenze, concludendo che a questa le divisioni furono rovinose, perchè la vittoria del popolo portò alla distruzione dei grandi; a quella furono invece utili, perchè il popolo cominciò in essa a combattere pe' suoi giusti diritti, e, avuta la vittoria, si contentò di dividere il governo coi patrizi. Tali considerazioni furono poi il fondamento della sua Storia di Firenze, contribuendo non poco a determinarne la originalità ed il valore. Il Guicciardini, fermandosi al solito, unicamente sul modo troppo assoluto con cui sono esposte, dice: «Non fu certo la divisione che rese potente Roma, anzi assai meglio sarebbe stato se i patrizi avessero sin dal principio ammesso il popolo al governo. Lodare le disunioni è come lodare in un infermo la sua infermità, per la bontà del rimedio che gli fu poi apprestato. Appio Claudio non cadde perchè s'unì coi grandi a combattere il popolo, quando doveva fare il contrario, nè per altra ragione addotta dal Machiavelli; ma perchè voleva spegner la Repubblica, quando Roma aveva buone leggi, costumi santi, e ardente amore di libertà. Manlio Capitolino s'appoggiò al popolo per sforzare i grandi, e cadde del pari; Silla s'appoggiò ai grandi, e lo stesso fece in Firenze il Duca d'Atene, che per sua colpa perdette poi il loro favore. Le storie abbondano d'esempî diversi, e ciascuno ha le sue buone ragioni; sono partiti che non si possono pigliare con una regola ferma, perchè la conclusione si deve cavare dagli umori della città, dall'essere delle cose, che varia secondo la condizione dei tempi, e da altre occorrenze che girano.»

Il punto però nel quale il Guicciardini esce dalla sua solita temperanza, per usare un linguaggio eccessivo o almeno assai deciso, è quello in cui si parla del popolo, che egli disprezza, quasi odia, ed il Machiavelli invece ama, ammira, esalta. «Io non so bene,» egli dice, «che cosa significhi l'affermare che bisogna confidare al popolo la guardia della libertà. Se s'intende parlare di chi deve aver parte al governo, ciò spetta, massime nei governi misti come quello di Roma, così al popolo come ai nobili, che ivi più volte salvarono la patria e la libertà di tutti. Quando poi si dovesse fare una scelta tra un governo tutto di nobili o tutto di popolo, io non starò a discutere se veramente il primo sia più atto a conservare, il secondo a conquistare; ma non esiterei punto nella scelta, perchè la plebe è ignorante, e non buona nè all'uno nè all'altro ufficio.» «Dove è moltitudine quivi è confusione, e in tanta dissonanza di cervelli dove sono varî giudizî, varî pensieri, varî fini, non può esservi nè discorso ragionevole, nè risoluzione fondata, nè azione ferma...; però non senza ragione è assomigliata la moltitudine alle onde del mare, le quali, secondo i venti che tirano, vanno ora in qua, ora in là, senza alcuna regola.» Il Machiavelli diceva che, non senza ragione, s'era assomigliata la voce d'un popolo a quella d'un Dio. Pel Guicciardini un popolo è «un'arca d'ignoranza,» e quindi i governi popolari son sempre ignoranti. Che se la repubblica romana fu savia, ciò dipese dall'essere stata sempre governata dai pochi, non dai molti. Nè vale a nulla, egli dice, il ricordare i vizî personali e privati dei principi, perchè qui si tratta solo della loro prudenza politica, ed un uomo di molti vizî può anche essere prudentissimo nel governare. Questo era però quello appunto che diceva ancora il Machiavelli, che delle qualità private dei principi non s'occupava, o solo in quanto giovavano o nocevano allo Stato. I due grandi politici fiorentini erano, non ostante le loro somiglianze, così diversi, che spesso finivano col non intendersi fra loro.

Nel giudicare l'antica Roma, il Guicciardini stimava esagerata l'ammirazione del Machiavelli, e non voleva prendere a modello uno stato in cui trovava ammirabili solo gli ordini militari. Ma neppure nel discuter della guerra andavano d'accordo. Nessuno dei due era uomo del mestiere; il Guicciardini però aveva avuto una più larga esperienza, essendo stato commissario presso eserciti ben più numerosi e poderosi di quello di Firenze al campo di Pisa, e s'era trovato più volte presente ad imprese di ben altra gravità. Ma, sembrandogli sempre inutile il troppo speculare, non era riuscito mai a formarsi sull'arte della guerra in generale, nè sul modo di ordinare le milizie in particolare, nessuna delle idee originali cui arrivò il Machiavelli, che, nella sua più ristretta esperienza, aveva assai più da vicino esaminato le cose. E però anche qui il Guicciardini cerca solo di sorprenderlo in tutte le esagerazioni che gli sfuggono, e spesso lo trova veramente in fallo, come quando gli rimprovera il poco conto che fa delle armi da fuoco e delle fortezze, per volere al solito imitare e citar sempre l'esempio dei Romani. «Non bisogna poi tanto lodare l'antichità,» egli osserva giustamente, «da biasimare tutti gli ordini moderni, che non erano appresso i Romani, perchè la esperienza ha scoperto molte cose, le quali non furono considerate dagli antichi e per essere i fondamenti diversi, sono ora necessarie. Ed è troppo manifesto che le fortezze sono alcuna volta necessarie. La ragione addotta, che esse danno animo ai cattivi principi di perseverare nel male, è molto frivola, perchè allora non bisognerebbe avere guardia nè armi nè esercito. Non si debbono fuggire le cose utili per tema che la sicurtà ti dia animo a far male. Si deve forse biasimare la medicina, perchè la fiducia in essa ti può rendere meno cauto a riguardarti?» Ed aveva ragione, perchè davvero, a questo proposito, il Machiavelli esagerava molto nei Discorsi, tanto che altrove egli stesso cercò, in parte almeno, di correggersi, e più tardi fu tra coloro che s'adoperarono a fortificare Firenze, per difenderla. Ma il Guicciardini non lo intese neppure quando sosteneva con molta ragione che i nuovi Stati dovevano fondarsi sull'amore del popolo e sui cittadini armati, non sulle fortezze, come avevano fatto e facevano i piccoli tiranni italiani, quasi sempre con loro rovina. Nè poteva intenderlo, perchè del popolo non voleva mai sentire dir bene, ed insisteva sempre che, «considerando come molte volte e' popoli eziandio bene trattati, sono poco ragionevoli, e spesso desiderosi di cose nuove, è pur necessario fare qualche fondamento in sulla forza, in sul tenerli in qualche terrore.»

Citiamo un ultimo esempio. Vedemmo già con quanta eloquenza il Machiavelli aveva notato, che la corruzione della Corte di Roma, ed il potere temporale dei Papi erano stati causa della divisione e rovina d'Italia. Il Guicciardini osserva a questo proposito: «Della Corte di Roma non si può dir tanto male che non meriti più, perchè è una infamia, un esempio di tutti i vituperî e obbrobrî del mondo. Ed è anche vero che la Chiesa abbia impedito l'unione d'Italia in un solo Stato; ma non so se ciò fu bene o male. Una sola repubblica poteva certo essere gloriosa al nome d'Italia, e di grande utilità per la città dominante; ma sarebbe stata la rovina delle altre. È vero che la divisione nostra ha portato molte calamità, sebbene sia da ricordare che le invasioni dei barbari cominciarono al tempo dei Romani, per l'appunto quando l'Italia era unita. Ma l'Italia divisa ha potuto avere tante città libere, che io reputo una repubblica sola le sarebbe riuscita più infelice che felice. Questo veramente non sarebbe seguìto sotto un regno, che è più comune verso tutti i sudditi; onde vediamo la Francia ed altri paesi vivere felici sotto un re. Pure, o sia fato o sia complessione degli uomini, questa provincia ha sempre voluto libertà, e però non s'è mai potuta unire sotto un imperio. I Romani vi riuscirono solo con grande virtù e violenza; ma appena si spense la Repubblica e mancò la virtù degl'imperatori, perderono facilmente il dominio. Laonde io credo che se la Chiesa ha impedito l'unione d'Italia, ciò non sia stato ad infelicità di questa, che ha potuto così vivere secondo la sua propria natura.»

Chi non vede la verità di tali osservazioni, in ciò almeno che si riferisce alla storia vera, all'Italia reale del Medio Evo, ed in parte anche del Rinascimento? Ma il Machiavelli, guardando più oltre, vedeva pure che l'Europa e la società necessariamente mutavano, che si andavano formando le grandi nazioni e gli Stati moderni, i quali avevano bisogno di assai maggior forza, e di più vasto territorio. L'Italia sarebbe stata inevitabilmente oppressa dai vicini, se non si univa anch'essa. Questo era ciò che la Chiesa, come le aveva nel passato impedito di fare, così lo impediva al presente. È vero che nel Medio Evo una sola repubblica o una monarchia avrebbero reso impossibile la libertà di tanti Comuni, che pur fiorirono tra noi, e quindi la grande e varia cultura italiana. Ma il Machiavelli aveva pur fatto notare che v'erano le libere confederazioni di repubbliche, v'erano i grandi Stati repubblicani o monarchici, i quali sapevano estendersi, ingrandirsi, seguendo l'uso romano, che era d'avere «compagni, non sudditi;» e ricordava spesso anche i Parlamenti di Francia, che davano, egli diceva, prosperità a quella monarchia. Tutto ciò sfuggiva all'attenzione del Guicciardini, perchè fuori della realtà presente e circoscritta, in mezzo alla quale si trovava; ed egli non vedeva nè voleva veder altro.

Così da qualunque lato si esaminino questi due grandi scrittori, risulta sempre chiaro che, nelle questioni veramente pratiche, il buon senso, la natura dell'ingegno e l'esperienza del Guicciardini gli davano una vera superiorità sul Machiavelli. Le sue osservazioni, i suoi precetti possono più facilmente ed anche più utilmente servire di guida nella condotta giornaliera della vita e degli affari. Le considerazioni del Machiavelli aprono invece nuovi orizzonti allo studio della connessione logica tra i fatti della storia, allo studio della società umana e dell'azione che su di essa può esercitare l'uomo di Stato, cui danno norme più generali, ma non meno pratiche per l'indirizzo da seguire nei grandi avvenimenti politici, nei quali non bastano più i consigli della esperienza personale, fatta giorno per giorno. E quanto al conflitto, che allora sorgeva più visibile che mai fra le necessità inevitabili della vita politica, ed i principii sacrosanti della morale privata, se il Guicciardini ne parlava a bassa voce, senza volercisi fermare, il Machiavelli invece su di esso principalmente fissava il suo sguardo, e rivolgeva tutta la sua attenzione, tirandone, senza paura, quelle che gli sembravano conseguenze inesorabili. Fu primo a veder la grande importanza pratica e scientifica del problema, che anche oggi affatica la mente dei filosofi e di tutti coloro che meditano sul destino dell'uomo, primo perciò a fondare la nuova scienza dello Stato.

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