CAPITOLO IV.

Il Principe.

Nel 1513, come abbiamo già visto, il Machiavelli, ritiratosi nella sua piccola villa presso San Casciano, a sette miglia circa da Firenze, aveva già cominciato a scrivere i Discorsi, ai quali interrottamente lavorò per lungo tempo. In essi il concetto fondamentale del Principe trovasi più volte accennato in germe, ed è parte d'un lavoro speciale che doveva contenere tutte le idee della politica pratica dell'autore. I Discorsi erano un'opera teorica, generale, scritta meditando sulla storia, specialmente sulla storia di Roma; e però il concetto assai più pratico del Principe, a misura che s'andava formando, doveva cominciare a staccarsi da essi, e finire di necessità col dare origine ad un altro lavoro.

In tutta l'Europa, per opera dei sovrani, s'andavano allora, sulle rovine del Medio Evo, rapidamente costituendo gli Stati nazionali e moderni. I mezzi poco scrupolosi, spesso immorali, coi quali questa trasformazione seguiva, coi quali solamente poteva allora seguire, sono quelli appunto che il Principe, secondo il Machiavelli, deve adoperare. Questo Principe infatti noi lo vediamo sorgere, formarsi nella mente dello scrittore, per le stesse ragioni, seguendo il medesimo processo, con cui si era andato formando, e sorse dalla realtà delle cose, in mezzo al vario, portentoso disordine politico del Rinascimento, dinanzi al caos medievale, che costituisce come il fondo del quadro, e si va lentamente sempre più allontanando. L'uno è come l'immagine, lo specchio fedele dell'altro. E della grande somiglianza che passa fra la creazione del pensatore, e la realtà dei fatti che seguono intorno a lui, l'una e l'altra quasi prodotto necessario, fatale d'una legge inesorabile, il personaggio che egli ci descrive, per quanto possa ai nostri giorni sembrar detestabile, acquista una tragica verità, che ci riempie, nello stesso tempo, di stupore, di terrore e di ammirazione. Il libro assume perciò tutta quanta l'importanza, di un grande avvenimento storico; il pensiero del Machiavelli e la nuova società che si va contemporaneamente costituendo, appariscono come due facce d'una sola e medesima rivoluzione, che, leggendo il Principe, par che segua sotto i nostri occhi.

La politica che noi vediamo qui descritta, anzi drammaticamente individuata in un personaggio ideale, era prima che altrove cominciata in Italia, per opera dei nostri Signori e tiranni, i quali l'avevano insegnata ai sovrani dei grandi Stati, che per mezzo di essa s'andavano ora formando in Europa. Ma fra i tiranni italiani, i quali erano pur quelli che costantemente si trovavano sotto gli occhi dei Machiavelli, ed i sovrani come Luigi XI e XII, Ferdinando il Cattolico, Enrico VIII, Francesco I, correvano differenze non poche. Il tiranno italiano era un uomo assai spesso sorto dal nulla, un privato cittadino salito al potere, non per legame o tradizione di famiglia, ma per opera sua propria, del suo ingegno, della sua accortezza ed audacia. Egli perciò era essenzialmente quello che il Machiavelli chiamava Principe nuovo. Il suo Stato si poteva dir veramente sua creazione; di esso s'era in mezzo a mille pericoli impadronito; in mezzo a mille pericoli doveva mantenerlo, quasi ogni giorno riconquistandolo. E fra questi principi nuovi, che d'ogni dove circondavano il Machiavelli, quello che a lui appariva come il tipo più definito, quello che egli aveva potuto meglio, più da vicino conoscere ed osservare, era il Duca Valentino, che nella sua mente, a poco a poco, s'era andato, come noi vedemmo, idealizzando.

Questa si può dir la materia prima del Principe. In esso domina sempre una tendenza pratica, in relazione costante colla storia contemporanea, specialmente italiana, e ciò determina la vera e propria fisonomia del libro. Qui infatti, contro l'uso che serba nelle altre sue opere, il Machiavelli cerca di trarre quasi tutti gli esempî dagli avvenimenti seguìti al suo tempo. Ferdinando il Cattolico, Luigi XI, Francesco Sforza, Alessandro VI, Cesare Borgia ed altri simili sono di continuo citati e come interrogati. Qualche volta nel ricorrere all'antichità, par che senta quasi l'obbligo di scusarsene. «Io non mi volevo partire dagli esempî italiani e freschi; pure non voglio lasciare indietro Ierone Siracusano.» Più il libro s'avvicina alla situazione politica in cui era allora l'Italia, più il calore, l'eloquenza, l'entusiasmo dello scrittore vanno crescendo. Il soggetto essendo inoltre assai più circoscritto e determinato che nei Discorsi, scompariscono affatto le digressioni e ripetizioni che in questi si trovano assai spesso. Si procede di capitolo in capitolo con più stretto legame logico, con uno stile rapido vigoroso, chiarissimo. Ogni pagina risplende per nuove bellezze di forma; il libro par quasi un'opera d'arte, ha una potenza drammatica che affascina, che trascina il lettore fino all'ultimo capitolo, in cui il Principe nuovo, divenuto finalmente, attraverso i pericoli ed il sangue, sicuro padrone dello Stato che è opera sua, può renderlo libero, affidandone la difesa, come fecero sempre i più grandi e gloriosi legislatori, alla guardia del popolo. Ed abbiamo allora l'apoteosi dell'Italia indipendente, unita e libera in quella celebre esortazione finale al tiranno, che si trasforma in redentore della patria, esortazione la quale è forse ciò che di più eloquente abbia la letteratura italiana.

Ma come mai, partendo da un concetto che, sia pure pratico e di politica contemporanea, è certo anche scientifico e generale, si finisce d'un tratto colla sola Italia, la quale sembra inaspettatamente divenire così lo scopo esclusivo di tutto il libro? Questo è ciò che ha messo a tortura il cervello di molti, ed alcuni han finito col vedere in quella che è la conclusione logica di tutta l'opera, un capitolo senza nessuna connessione col resto, artificialmente, forzatamente appiccicato. Per rispondere a una tale domanda, bisogna innanzi tutto notare quale fu veramente l'occasione prossima, che indusse il Machiavelli a scrivere il Principe. Noi abbiamo già detto che uno dei pensieri i quali dominaron sempre la mente di Leone X, fin dai primi anni del suo pontificato, fu quello di creare uno Stato così al fratello Giuliano come al nipote Lorenzo. Di ciò si parlava spessissimo a Firenze ed a Roma, come vediamo in tutti gli storici, in molte e molte lettere dei contemporanei. Da essi sappiamo, che s'era perfino pensato di poter dare un giorno a Giuliano il regno di Napoli, che il ducato d'Urbino gli era stato veramente proposto, ma che egli lo ricusò. Continuamente si discorreva poi di dargli Parma, Piacenza, Modena e Reggio. Un tale disegno non era molto diverso da quello concepito già da Alessandro VI per suo figlio il Duca Valentino, il quale, secondo il Machiavelli aveva saputo mirabilmente attuarlo, e se i tempi non gli fossero a un tratto, senza sua colpa, divenuti avversissimi, si sarebbe forse allargato in Toscana e più oltre ancora. Le provincie di Parma e di Modena erano allora lacerate dalle fazioni poco meno della Romagna; a riunirle e governarle occorrevano quindi provvedimenti non molto diversi. Si trattava d'un principe nuovo in uno Stato nuovo. Tutte le osservazioni già fatte dal Machiavelli nella sua legazione al Valentino; tutte le teorie da lui meditate leggendo Livio, e già cominciate ad esporre nei Discorsi; tutto il concetto del Principe, che da un pezzo s'era venuto formando nella sua mente, suggerito dalla realtà storica che lo circondava, e che ad esso dava, da esso riceveva luce; tutto ciò acquistava ora un valore pratico e immediato. Così le sparse idee, lungamente meditate, si riunivano, si coordinavano, come per forza intrinseca, e divenivano una persona vivente dinanzi ai suoi occhi attoniti: egli stesso si sentiva esaltato e maravigliato da questa sua improvvisa ispirazione. Se di Parma, di Modena e delle altre città un nuovo principe fosse riuscito, anche colla forza, colla violenza e con l'inganno, senza scrupoli di sorta, a formare un corpo solo, uno Stato armato, come aveva saputo fare il Valentino, allora gli sarebbe riuscito facile estendersi, allargarsi fino a Ferrara, a Bologna, forse a tutta Italia, e facendosi un nome immortale, essere annoverato tra i più grandi fondatori di Stati, come Romolo, come Licurgo. Che tutto ciò fosse nell'Italia corrotta di quel tempo un sogno, non v'ha dubbio di sorta, ed il Machiavelli stesso lo aveva più d'una volta detto; ma fu pure il sogno di tutta la sua vita, e noi lo vedremo più tardi tentare di farne invaghire anche Leone X. I Medici erano allora potentissimi, la loro fortuna ogni giorno cresceva, ed a lui, trascinato dalla sua fantasia, tutto pareva oramai possibile. Non sapeva, non poteva egli stesso dominarsi. A riuscire bisognava di certo conoscer bene l'arte dello Stato; ed egli la conosceva a fondo quest'arte, perchè ad essa aveva dedicato l'esperienza e la meditazione di tutta la sua vita. Possibile mai che giovani come Giuliano, come Lorenzo, che il Papa stesso, una volta che egli avesse loro esposto un tale disegno, non ne vedrebbero la grandezza e la gloria, non capirebbero quanto utile egli poteva riuscir loro nell'attuarlo? Possibile mai che non capissero quale onore immortale ne sarebbe venuto alla famiglia, all'Italia, e personalmente ad essi medesimi, che erano pur figli di questa patria, e non potevano non amarla, non desiderare di vederla, con loro vantaggio grandissimo, libera dagli stranieri, che così crudelmente la calpestavano? Non aveva egli col Soderini dimostrato quanto utilmente e fedelmente sapeva nelle cose di Stato servire? Se una volta sola i Medici lo avessero adoperato, anche nel più modesto ufficio, fosse pure, come scriveva poco dopo al Vettori, «a voltolare un sasso,» si sarebbe doluto di sè e non della fortuna, quando non fosse riuscito a guadagnarsi l'animo loro. Così l'interesse privato ed il bisogno che aveva di operare, s'univano in lui all'entusiasmo del pensatore, del patriotta, e sempre più lo stimolavano, lo accendevano. Ma questo doppio, anzi triplice carattere, teorico, pratico e personale del Principe, se da una parte è quello che ne determina la fisonomia e ne costituisce il valore, da un'altra è quello che ha dato origine ai più disparati, opposti, contradditorî giudizî. A guardarlo, come molti han fatto, sotto l'uno o l'altro solamente de' suoi molteplici aspetti, si finisce col non comprenderne più nulla. Pure le lettere del Machiavelli più d'una volta dimostrano, con la maggiore possibile evidenza, in che modo, con quale scopo egli meditò il libro, e donde ricevette la sua immediata ispirazione a scriverlo. Nei primi del 1515, quando cioè il Principe era già compiuto, affermavasi di nuovo e con assai maggiore insistenza, che Giuliano de' Medici sarebbe stato fatto signore di Parma, Piacenza, Modena, Reggio, e dicevasi ancora che nel nuovo Stato verrebbe inviato, come governatore, Paolo Vettori, fratello di Francesco. A quest'ultimo perciò il Machiavelli scriveva, il 15 gennaio di quell'anno stesso, una lettera in cui ragionava delle difficoltà che vi sono a governare un nuovo principato, massime se formato di parti diverse, appartenute a diversi Stati. «Bisogna,» egli diceva, «di queste varie parti formar membra d'un corpo solo, e dargli unità. A ciò si riesce o coll'andarvi ad abitare in persona, o col mandarvi un governatore solo, che si faccia obbedire da tutti i sudditi. Se Giuliano se ne starà a Roma, come par che voglia fare, e manderà in ogni terra il suo governatore, tutto resterà disunito e in aria.» «Il Duca Valentino, l'opere del quale io imiterei sempre, quando fossi principe nuovo, conosciuta questa necessità, fece messer Rimino Presidente in Romagna, la qual deliberazione fece quei popoli uniti, timorosi dell'autorità sua, affezionati alla sua potenza, confidenti di quella; e tutto l'amore gli portavano, che era grande, considerata la novità sua, nacque da questa deliberazione. Io credo che questa cosa si potrebbe facilmente persuadere, perchè è vera; e quando toccassi a Paolo vostro, sarebbe questo un grado da farsi conoscere non solo al signore Magnifico, ma a tutta Italia.... Mi è parso scriverne a voi, acciò sappiate i ragionamenti nostri, e possiate, dove bisognasse, lastricare la via a questa cosa.

«E nel cadere il superbo ghiottone

E' non dimenticò però Macone.»

Da questa lettera, la quale dimostra la diretta applicazione delle teorie del Principe alla formazione del nuovo Stato, che si voleva creare per Giuliano, apparisce assai chiaro come un tale disegno fosse veramente quello che il Machiavelli aveva avuto di mira nello scrivere il suo libro, che da esso anzi era stato suggerito, ispirato, senza perciò perdere il suo primo carattere generale e scientifico. I due versi citati in fine, alludono di nuovo alla speranza ch'egli aveva d'essere in qualche modo adoperato dai Medici. E che facesse allora di tutto per riuscirvi, nè senza qualche buona speranza, ne abbiamo una prova manifesta in ciò che pochi giorni dopo (14 febbraio) Piero Ardinghelli, segretario di papa Leone X, scriveva a Giuliano dei Medici. «Il Cardinal de' Medici,» egli diceva, «mi domandò ieri con premura, se io sapevo che V. E. aveva preso ai suoi servizi Niccolò Machiavelli. E rispondendogli io che non lo sapevo, nè lo credevo, mi disse queste formali parole: «Ancora io non lo credo, tamen, perchè da Firenze ce ne è adviso, io li ricordo che non è il bisogno suo, nè il nostro. Questa deve essere invenzione di Paolo Vectori.... Scriveteli per mia parte, che io lo conforto a non si impacciare con Niccolò.»

Un'altra lettera, la più bella ed eloquente forse che uscisse mai dalla penna del Machiavelli, era stata da lui, fin dal 10 dicembre 1513, indirizzata a Francesco Vettori. Descrive in essa la vita che menava allora nella solitudine della sua villetta, esponendo con una precisione e semplicità grandissima in che modo, con quale scopo era andato colà componendo il suo opuscolo, come lo chiama. «Dopo i miei ultimi casi, io me ne vivo ritirato in villa, e non sono stato, ad accozzarli tutti, venti dì a Firenze. Ho passato il settembre uccellando ai tordi; ma, finito il mese, questo badalucco, ancorchè dispettoso, è mancato. Mi levo la mattina col sole, e me ne vo in un bosco, dove resto due ore a rivedere l'opere del giorno innanzi, ed a passar tempo con quei tagliatori, che hanno sempre qualche sciagura alle mani o tra loro o coi vicini. Uscito dal bosco, vo ad una fonte, e di lì ad un mio uccellare, con un libro sotto, o Dante o Petrarca o uno di questi poeti minori, come dire Tibullo, Ovidio e simili.» «Leggo quelle loro amorose passioni e quelli loro amori, ricordomi de' mia, e godomi un pezzo in questo pensiero. Trasferiscomi poi in sulla strada, nell'osteria, parlo con quelli che passano, domando delle nuove de' paesi loro, intendo varie cose, e noto vari gusti e diverse fantasie di uomini. Viene in questo mentre l'ora del desinare, dove con la mia brigata mi mangio quelli cibi, che questa mia povera villa e paululo patrimonio comporta. Mangiato che ho, ritorno nell'osteria. Qui è l'oste per l'ordinario, un beccaio, un mugnaio, due fornaciai. Con questi io m'ingaglioffo per tutto dì, giuocando a cricca, a tric trac, e dove nascono mille contese e mille dispetti di parole ingiuriose, ed il più delle volte si combatte un quattrino, e siamo sentiti nondimanco gridare da San Casciano. Così rinvolto in questa viltà traggo il cervello di muffa, e sfogo la malignità di questa mia sorte, sendo contento mi calpesti per quella via, per vedere se la se ne vergognasse.»

E fin qui abbiam sola dinanzi a noi, viva e parlante, l'immagine del Machiavelli, che in tutta la vita s'educò leggendo gli antichi, studiando gli uomini e meditando su di essi, non senza bisogno di dar qualche pascolo alla propria immaginazione colla poesia. Ma ora, mutando stile, egli entra in argomento più grave, e ci dice finalmente come compose il suo libro. «Venuta la sera, mi ritiro a casa ed entro nel mio scrittoio, ed in sull'uscio mi spoglio quella veste contadina, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali, e rivestito condecentemente, entro nelle antiche corti degli antichi uomini, dove da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio, e che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandare della ragione delle loro azioni, e quelli per loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte, tutto mi trasferisco in loro. E perchè Dante dice, - Che non fu scienza senza ritener lo inteso, - io ho notato quello di che per la loro conversazione ho fatto capitale, e composto un opuscolo de Principatibus, dove io mi profondo quanto io posso nelle cogitazioni di questo subietto, disputando che cosa è principato, di quali spezie sono, come e' si acquistano, come e' si mantengono, perchè e' si perdono. E se vi piacque mai alcun mio ghiribizzo, questo non vi dovrebbe dispiacere, e ad un principe, e massime ad un principe nuovo dovrebbe essere accetto; però io lo indirizzo alla Magnificenza di Giuliano. Filippo Casavecchia l'ha visto; vi potrà ragguagliare della cosa in sè, e de' ragionamenti ho avuti seco, ancorchè tuttavolta lo ingrasso e ripulisco.»

L'evidenza di queste parole è tale che, dopo averle lette, non si capisce davvero come mai si sia potuto disputare intorno ai pretesi fini reconditi del Principe. Da esse risulta ben chiaro, che il Machiavelli non lo scrisse già come un opuscolo d'occasione, destinato ai Medici per guadagnarsi il loro favore, quasi una domanda per mendicare un ufficio. Nessuna supplica, in nessuna letteratura, riuscì mai un'opera d'arte o una creazione scientifica. Egli lo concepì meditando sulla storia antica e contemporanea, sulla natura del soggetto che trattava, raccogliendo i resultati della sua lunga esperienza. E quando poi l'ebbe nella sua mente concepito e determinato, pensò che poteva cavarne partito scrivendolo e dedicandolo a Giuliano. La lettera continua dicendo, che egli non sapeva indursi ad accettare l'invito del Vettori, il quale gli aveva allora offerto la propria casa, perchè ne era impedito da alcune sue faccende, ed a Roma si trovavano i Soderini, che avrebbe dovuto visitare, nel qual caso temeva che, tornato a Firenze, invece di scavalcare a casa, sarebbe scavalcato al Bargello, giacchè il governo era nuovo e perciò sospettoso. Senza una tale paura sarebbe andato di certo. E qui torna da capo all'argomento della dedica. «Ho ragionato col Casavecchia, se era bene o pur no dare questo mio opuscolo a Messer Giuliano. E dandolo, se era meglio mandarlo o portarlo. Dubito da una parte che il Magnifico neppure lo legga, e che l'Ardinghelli finisca col farsi onore di questa mia fatica. Da un altro lato mi spinge a darlo la necessità che mi caccia,» «perchè io mi logoro e lungo tempo non posso stare così, che io non diventi per povertà contennendo. Appresso il desiderio avrei che questi signori Medici mi cominciassino adoperare, se dovessino cominciare a farmi voltolare un sasso; perchè se io poi non me li guadagnassi, io mi dorrei di me. E per questa cosa, quando la fossi letta, si vedrebbe che quindici anni che io sono stato a studio dell'arte dello Stato, non gli ho nè dormiti nè giuocati, e dovrebbe ciascuno aver caro servirsi di uno che alle spese d'altri fosse pieno di esperienza. E della fede mia non si dovrebbe dubitare, perchè, avendo sempre osservato la fede, io non debbo imparare ora a romperla; e chi è stato fedele e buono quarantatrè anni, che io ho, non debbe poter mutare natura: e della fede e bontà mia ne è testimonio la povertà mia.»

Qui si vede che, solo dopo aver finito il libro, egli pensò veramente di dedicarlo a Giuliano, ma era incerto ancora sulla opportunità e convenienza di farlo, dubitando che questi forse neppur lo avrebbe letto, e quindi chiedeva su di ciò consiglio al Vettori. Infatti esitò tanto, che Giuliano morì (1516) prima che la dedica gli fosse offerta, e quindi la lettera, che era stata scritta per lui, fu invece indirizzata a Lorenzo, nè sappiamo se anche questi la vedesse mai e l'accettasse. Quanto all'opinione del Vettori, dalle sue lettere inedite apparisce solo, che egli allora non lesse che alcuni capitoli del libro, i quali gli piacquero «oltre a modo.» Aspettava di poter leggere il resto, per dare poi un giudizio definitivo ed un consiglio sulla opportunità della dedica. Questo giudizio e questo consiglio non vennero però mai, sebbene il Vettori fosse stato anche degli altri capitoli ragguagliato dal Casavecchia, in quei giorni appunto arrivato a Roma, dopo aver letto il Principe in Firenze. Alle parole così nobili, così elevate ed eloquenti del Machiavelli, l'ambasciatore rispondeva tornando a ragionare de' suoi osceni amori, senza una sola frase d'incoraggiamento. Dal suo silenzio, dal suo contegno riservato, chiaramente apparisce, che egli non era punto favorevole alla proposta dedica, e molto meno era persuaso della utilità pratica che ne potesse venire al Machiavelli. Di certo ai Medici non sarebbe stato conveniente l'accettarla, massime se avessero davvero voluto mettere in pratica i consigli dati nel libro. Il Vettori perciò girava largo, dicendo all'amico, che poteva venire a Roma a divertirsi, e che non doveva astenersene per riguardo ai Soderini. Nessuno gli avrebbe fatto carico di una visita, alla quale del resto non era tenuto, perchè l'ufficio di segretario l'aveva avuto tre anni prima della elezione di Piero a gonfaloniere perpetuo, e aveva servito con fede, senza altro premio che il salario ordinario. «Avendo discorso col Casavecchia, non abbiamo trovato che in Roma ci sia cosa alcuna per voi. Si dice che il cardinale dei Medici vada in Francia, nel qual caso gli parlerò di voi, che conoscete il paese per esserci stato.» E così continuava con altri simili discorsi a dar speranze vaghe, senza nulla determinare, senza mai mostrar di credere che si potesse far per lui il più lontano assegnamento sul Principe, che infatti non riuscì di alcun vantaggio al Machiavelli, il quale anzi fu per esso fatto bersaglio a calunnie infinite.

Nella lettera dedicatoria indirizzata a Lorenzo, egli dice che, desiderando acquistar favore appresso di lui, gli offriva quello che aveva di più prezioso, cioè la conoscenza delle azioni degli uomini grandi, appresa con una lunga esperienza delle cose moderne, e una continua lezione delle antiche. Così in poco tempo farebbe a lui comprendere ciò che egli aveva imparato con infinite fatiche e disagio. Nè doveva parer presunzione la sua, perchè come dalle pianure si vedono e disegnano meglio i monti, e da questi le pianure, così a conoscere bene i popoli bisogna esser principe, ed a conoscere bene i principi bisogna esser popolare.

È certo assai singolare il vedere, come anche in uno scritto così semplice e personale, quale è questa dedica, il Machiavelli tenga dinanzi a sè gli scrittori antichi. Il principio della lettera infatti, come dimostrò la prima volta il prof. Triantafillis, è certo imitato, se non vogliam dire copiato, dal principio del discorso d'Isocrate a Nicocle. È ben vero che, dopo aver riprodotto un paragone ed alcune frasi generiche, il Machiavelli, non appena s'avvicina di più al suo soggetto, riacquista l'originalità del proprio stile, la indipendenza del proprio pensiero. Tuttavia noi abbiamo qui un'altra prova, che egli non solamente prese dagli scrittori greci e romani qualche concetto ed i moltissimi fatti della storia antica, che adduceva in esempio; ma cercava, specialmente nelle opere politiche, di dare maggiore autorità anche alle idee che erano sue proprie, appoggiandole di continuo alle parole di qualcuno di essi. Infatti, tra quelli che nel Principe e nei Discorsi egli cita, e quelli di cui si vale senza citarli, il numero è veramente grande. Così grande, che non si può, io credo, respingere del tutto l'ipotesi di coloro, i quali dissero che fra i suoi libri dovette avere una qualche compilazione erudita, a noi finora ignota, in cui più facilmente trovava quello che poteva servire al suo scopo.

Il Principe è diviso in ventisei brevi capitoli. Il Machiavelli comincia col dichiarare che, avendo altrove parlato delle repubbliche, intende ora occuparsi solo dei principati, i quali distingue in ereditarî e nuovi. Suddivide poi questi in principati che sono nuovi in tutto o in parte. Nei primi il Principe fonda addirittura uno Stato nuovo, o nuovamente se ne impadronisce; nei secondi, invece, che l'autore chiama anche misti, ad uno Stato vecchio s'aggiunge una provincia nuova. Questi erano allora assai numerosi, perchè i grandi regni si andavano nel Rinascimento formando colle conquiste. Gli Stati nuovi, che sono in genere il soggetto principale del libro, e ne avevano suggerito la prima idea, presentano, ad essere ben governati, difficoltà assai maggiori degli ereditarî, e richiedono quindi più lungo studio a poterli conoscere davvero. «La conquista offende necessariamente molti, e quelli che aiuta, aspettano dal mutamento più che esso non può dare.»

«Quando, negli Stati misti, la provincia conquistata è simile a quella che si annette, le difficoltà sono minori, perchè basta, per esserne sicuri, serbarvi gli antichi usi, e spegnere il sangue dell'antico principe. Ma quando tutto è in essa diverso, le difficoltà sono invece grandissime. Bisogna allora o andarvi ad abitare in persona, o mandare nei luoghi principali colonie di nuovi abitatori, il che, se danneggia quelli a cui si levano le case ed i campi, li rende impotenti ad offendere, e tiene gli altri tranquilli per paura della medesima sorte. Ed è una regola generale, che gli uomini bisogna o spegnerli o vezzeggiarli, perchè essi delle offese leggiere si vendicano, e delle gravi non possono; onde l'offesa deve esser tale che non tema la vendetta. È necessario inoltre aiutare e farsi amici i vicini deboli, perchè questi subito aderiscono al nuovo Stato, se è forte; ma occorre tener bassi i vicini potenti, e non aiutare nè introdurre mai in casa stranieri che sieno potenti; prevedere le cose da lontano e riparar subito. Ai Romani non piacque mai la massima dei nostri principi, cioè: godere i benefizî del tempo; ma vollero invece i benefizî della virtù e prudenza loro, perchè il tempo si caccia innanzi ogni cosa, e si porta il bene come il male. Il re Luigi XII, quando venne in Italia, andò contro a tutte queste regole, e commise cinque errori: spense i minori potenti; accrebbe forza ad un potente maggiore degli altri, cioè al Papa ed al Valentino; introdusse in Italia un potente straniero, cioè la Spagna; non venne ad abitarvi; non vi portò colonie. E però quando il cardinale di Roano mi disse, che gl'Italiani non s'intendevano della guerra, io gli risposi, che i Francesi non s'intendevano dello Stato, altrimenti non avrebbero mai lasciato venire la Chiesa in tanta potenza. Quando però si conquista una città libera, allora non vi sono che tre modi soli di tenerla, nè sempre bastano: o rovinarla, o abitarla, o farvi un governo libero, ma di pochi, che te la conservino. Ed in generale chi conquista una città libera, aspetti, se non riesce a disfarla, di essere disfatto da quella, perchè sempre si ribellerà, mossa dal grande amore alla libertà, che è inestinguibile negli animi, quando invece chi è servo cambia facilmente padrone.»

Col capitolo sesto si entra in quello che è propriamente il soggetto principale del libro, incominciandosi a parlare del Principe nuovo in uno Stato nuovo. «Questi Stati,» dice il Machiavelli, «si reggono sopra tutto sulla virtù del Principe; e però colui è più sicuro, che si fonda più sulle proprie virtù che sulla fortuna, sebbene si richiedano l'una cosa e l'altra. Mosè, Romolo, Ciro, Teseo ebbero dalla fortuna l'occasione di adoperare la virtù che avevano; ma l'una senza l'altra sarebbe stata inutile. In ogni modo, non vi è impresa più difficile a trattare, nè più dubbia a riuscire, che quella di farsi capo per introdurre ordini nuovi. Bisogna innanzi tutto esaminare, se questi novatori dipendono dalle forze altrui, o si reggono sopra sè stessi, cioè se debbono rivolgersi per aiuto ad altri, o possono adoperare le proprie forze. Nel primo caso capitano sempre male, nel secondo quasi sempre riescono; e questa è anche la ragione perchè i profeti armati vinsero sempre, e i disarmati, come il Savonarola, rovinarono. Quelli poi che ottengono il principato per fortuna, con poca difficoltà vi arrivano, quasi volando; ma con grandissima vi si mantengono, perchè restano a discrezione di chi gli aiutò a salire. Possono però, ottenuto lo Stato per fortuna, porvi per virtù propria il fondamento sicuro che mancava prima, il che riesce qualche volta, ma sempre con disagio dell'architetto e pericolo dell'edificio.»

E qui si ripresenta naturalmente la tragica figura del Valentino, il quale acquistò lo Stato per opera del padre, e con esso lo perdette. «Egli però, non appena lo ebbe, fece, per gettare saldi fondamenti, tutte quelle cose che da un prudente e virtuoso uomo si dovevano fare; onde non si potrebbero ad un principe nuovo dare precetti migliori di quelli che suggerisce l'esempio delle azioni di lui. Che se tuttavia non bastarono, non fu sua colpa, ma nacque da una estraordinaria ed estrema malignità di fortuna. Alessandro VI poteva con sicurezza formare uno Stato pel figlio solamente nella Romagna, dove tuttavia Faenza e Rimini erano sotto la protezione dei Veneziani, che perciò gli si opponevano. Dovette quindi profittare della venuta dei Francesi, che egli aveva già favorita. Ma il Valentino, appena che ebbe così acquistato la Romagna, s'avvide come, volendo procedere oltre, le forze che allora aveva in suo aiuto, potevano da un momento all'altro mancargli sotto. Quando infatti voleva assaltare Bologna, trovò il Re contrario, e gli Orsini, che pur erano suoi alleati, freddissimi; e quando, preso il ducato di Urbino, voleva entrare in Toscana, il Re lo fermò addirittura. Deliberò quindi di cominciare ad armarsi di armi proprie, e di levar seguaci agli Orsini, aspettando occasione di spegnerli, la quale gli venne bene, ed egli l'usò meglio. Essi infatti, congiurando alla Magione, gli ribellarono Urbino e la Romagna; ed egli sottomise prima lo Stato suo con l'aiuto dei Francesi, e poi, senza fidarsi più d'alcuno, si volse agl'inganni. E seppe così bene dissimulare l'animo suo, che gli Orsini si conciliarono con lui, tanto che la loro semplicità li condusse nelle sue mani a Sinigaglia, dove li spense. Così finalmente, sicuro dei capitani che gli restavano, e delle armi proprie da lui ordinate, aveva gettato assai buoni fondamenti alla potenza sua. Era infatti padrone di tutta la Romagna e del ducato d'Urbino; s'era guadagnata l'affezione di quei popoli, che avevano cominciato a gustare il benessere loro.»

«E perchè questa parte è degna di notizia, e da essere imitata da altri, non la voglio,» dice il Machiavelli, «lasciare indietro. La Romagna era piena di latrocinî e delitti d'ogni specie, per colpa specialmente dei principi che la dominavano, i quali, essendo poveri e volendo vivere da ricchi, ricorrevano ad ogni sorta di rapine e di modi disonesti. E quelli che da tali violenze restavano impoveriti, si rifacevano con altre simili sui meno potenti di loro. Di qui il sangue e le vendette continue. Bisognava perciò riordinarla e pacificarla. Il Duca vi mandò allora, con assoluto potere, messer Ramiro d'Orco, uomo crudelissimo e pronto, il quale in brevissimo tempo la ridusse pacifica ed unita. Dopo di che, questa sua autorità eccezionale ed eccessiva non pareva più a proposito, e le crudeltà con cui messer Ramiro ne aveva abusato e continuava sempre più ad abusarne, la resero pericolosa. Laonde il Duca, soppresse quell'ufficio, ed istituì invece un tribunale ordinario, nel quale ogni città di Romagna aveva un suo giudice sotto la presidenza d'un uomo eccellentissimo, savio e prudente. Ed a persuadere poi che le crudeltà non erano dipese da lui in modo alcuno, ma solo dalla trista natura del suo ministro, lo fe' trovare una mattina in due pezzi, sulla pubblica piazza di Cesena, con un coltello sanguinoso a lato. La ferocia del quale spettacolo fece quelli popoli in un tempo rimanere soddisfatti e stupidi. Ma torniamo donde noi partimmo.» E così freddamente ripiglia il filo del suo discorso.

A migliore intelligenza però di questi fatti tante volte ricordati e lodati dal Machiavelli, dobbiamo notare che nuovi documenti, negli ultimi anni venuti alla luce, resero assai più chiara la ragione della costante sua ammirazione pel Valentino, e pel governo da lui fondato in Romagna. È ora provato ad evidenza, che questo governo del Duca fu davvero migliore che non s'era creduto. Egli prese molti utili provvedimenti a vantaggio dei sudditi più poveri nelle città e nel contado. E quanto alla uccisione di messer Ramiro, questi fu prima ripetutamente avvertito, che non opprimesse le popolazioni; che smettesse l'illecito commercio di derrate, da lui fatto a proprio vantaggio, con grave danno dei miseri. E solo quando le reiterate avvertenze furono riuscite vane del tutto, il Duca, mediante un giudizio sommario, lo condannò a morte annunziando con una lettera, anch'essa recentemente pubblicata, il fatto alle popolazioni, come una buona novella ed un esempio di giustizia riparatrice, da lungo tempo universalmente desiderato.

«Il Duca,» continua il Machiavelli, «doveva ora pensare a liberarsi dalla supremazia di Francia; cercava perciò nuove aderenze, e quando vennero gli Spagnuoli cominciò subito a raffreddarsi con essa, ed a vacillare. Egli sarebbe in tutto riuscito, se la morte d'Alessandro VI non avesse improvvisamente interrotto ogni cosa. Aveva infatti non solo preveduto la morte del Papa, ma anche la possibilità d'un successore nemico, e si era apparecchiato a potersi difendere contro di esso, avendo cercato di spegnere il sangue dei signori da lui spogliati, dei quali ammazzò quanti potè, e provveduto in modo che il Collegio dei Cardinali, già stremato di numero, era in gran parte suo, e lo Stato di Romagna si poteva dire formato e sicuro. Possedeva anche Perugia e Piombino, proteggeva Pisa, e non dovendo più avere rispetto ai Francesi, gli era facile saltare in questa città, pigliare Lucca e Siena, senza che i Fiorentini potessero impedirlo. Questo gli avrebbe dato di certo fermo e sicuro fondamento; ed era infatti per riuscire, quell'anno stesso, nell'intento d'assicurare l'opera sua, quando il Papa morì, lasciandolo colla Romagna solamente consolidata; tutto il resto in aria, fra due potentissimi eserciti nemici, ed egli malato a morte. Ma era tanta la ferocia, la virtù e l'accortezza sua, che se non avesse avuto quegli eserciti addosso, e fosse stato sano, avrebbe retto ad ogni difficoltà. Egli stesso mi disse, che aveva ogni cosa previsto, ad ogni cosa pensato, salvo che al trovarsi per morire appunto in sulla morte del Papa.» «Raccolte adunque tutte queste azioni del Duca, non saprei riprenderlo, anzi mi pare, come ho detto, di proporlo ad imitare a tutti coloro che, per fortuna e con l'armi d'altri, sono saliti all'imperio, perchè egli avendo l'animo grande e la sua intenzione alta, non si poteva governare altrimenti.»

E dopo di ciò, come se il Valentino non fosse stato abbastanza tristo, viene il Machiavelli a parlare di coloro che salgono al principato non per fortuna, ma solo per vie scellerate, e dice di volerlo fare con due esempi, bastando a chi trovisi necessitato, imitare quelli. Primo esempio è quello già tante volte da lui ricordato d'Agatocle siciliano, che «divenuto, per la sua virtù militare, pretore di Siracusa, e cercata subito l'amicizia dei Cartaginesi, raccolse poi il popolo ed il Senato, facendo dai suoi soldati ammazzare tutti i Senatori ed i capi del popolo. Così fu sicuro, ed in tutto riuscì per opera sua propria. Non si può di certo,» egli prosegue, «dire che sia virtù ammazzare i cittadini, tradire gli amici, essere senza fede; ma se poi si considera l'animo di Agatocle nell'entrare e nell'uscire dai pericoli, nel sopportare e superare le cose avverse, non si vede perchè abbia ad essere giudicato inferiore a qualunque eccellentissimo capitano. Nondimeno la sua efferata crudeltà ed inumanità, con infinite scelleratezze, non consentono che sia intra gli eccellentissimi uomini celebrato; nè si può attribuire alla fortuna o alla virtù quello che, senza l'una e senza l'altra, fu da lui conseguito.» Il secondo esempio è quello d'Oliverotto da Fermo, allevato da suo zio Giovanni Fogliani. «Si dette costui alla milizia e, riuscito valentissimo, pensò di occupare Fermo. Scrisse perciò allo zio, che voleva entrare in città con cento cavalieri, per dimostrare il suo splendore, e questi lo fece ricevere onorevolmente, alloggiandolo in casa propria. Oliverotto, ordinata la congiura co' suoi fedeli, invitò ad un pranzo lo zio con i primi uomini di Fermo, e quivi fece l'uno e gli altri tutti in una volta ammazzare. Dopo di che corse a cavallo la terra che fu sua, e sarebbe stato un uomo assai formidabile, se il Duca Valentino non lo avesse poi fatto strangolare. Si può qui domandare,» osserva il Machiavelli, «come è che Agatocle restò dopo le sue scelleratezze sicuro, mentre altri capitarono male. Ciò dipende,» egli risponde, «dalle crudeltà male o bene usate. Bene usate si possono chiamare quelle, se del male è lecito dir bene, che si fanno ad un tratto per necessità dello assicurarsi, e di poi non vi s'insiste dentro. Male usate son quelle invece, che si continuano anche dopo. Bisogna sin dal principio calcolare tutto ciò che è necessario, e farlo senza indugio, per quindi assicurare gli uomini; altrimenti si è costretti a star sempre col coltello in mano. Le ingiurie fatte ad un tratto, assaporandosi meno, offendono meno, e portano, nonostante, l'effetto che tu vuoi; i benefici bisogna farli invece a poco a poco, perchè si assaporino meglio.»

Venendo ora a discorrere del principato civile, il Machiavelli ripete di nuovo, che esso deve reggersi sul popolo, senza il quale nessun governo può avere fondamento sicuro, essendo pericolosissimo affidarsi ai nobili, i quali vogliono sempre signoreggiare. In ogni caso però la forza principale degli Stati riposa sugli eserciti proprî, giacchè bisogna sopra tutto aver modo di respingere i nemici e tener sotto i sudditi. Questo è l'ufficio principale d'ogni governo, secondo il Machiavelli, il quale trascura, anzi neppure esamina tutti i vari elementi che costituiscono lo Stato e la Società, come ad esempio la religione, la cultura, il commercio, l'industria. Qualche volta si direbbe, che per occuparsi esclusivamente dello Stato e della sua forza, voglia considerarlo come separato, isolato affatto dalla società e dall'individuo, che volentieri sacrifica alla prosperità di quello, senza accorgersi che così anderebbe ogni cosa a rovina. Armi e politica sono il suo unico, il suo costante pensiero. Senza di esse nessuno Stato può reggersi a lungo, ed esse bastano a tutto. «Nel mondo non vi sono che i principati ecclesiastici, i quali si acquistano per virtù o per fortuna, e si conservano senza l'una e senza l'altra, perchè retti e mantenuti dalla reverenza degli ordini antiquati della religione. Costoro soli hanno Stati e non li difendono, hanno sudditi e non li governano, e gli Stati non sono loro tolti, nè i sudditi si ribellano. Anche quando gli Orsini ed i Colonna furono disfatti da Alessandro VI, sebbene questi non mirasse che a fondare nel territorio della Chiesa un principato al Valentino, pure ne seguì da ultimo che essa divenne più forte che mai nel suo temporale dominio.» Ma gli altri Stati non possono sperare tale fortuna, e però debbono pensare a reggersi colla prudenza, a difendersi colla forza.

E qui si viene, nei tre capitoli seguenti, a parlare delle armi che deve avere il Principe, soggetto questo di somma importanza pel Machiavelli, il quale affermava che esse non solamente difendono lo Stato, ma rendono possibili anche le buone leggi, le quali sarebbe vano sperare senza le armi. «Queste sono mercenarie, ausiliarie e proprie. Le prime riescono sempre pericolosissime, perchè durano fino a che non si viene alla prova, come se ne è avuto chiara esperienza in Italia, non appena vennero tra noi i forestieri coi loro soldati. Solo le repubbliche e i principi che hanno eserciti proprî sono sicuri. Ed in vero con grande difficoltà una repubblica armata cade sotto l'obbedienza d'un suo cittadino, come se ne ha esempio negli Svizzeri armatissimi e liberissimi. Roma e Sparta stettero molti secoli armate e libere; Venezia e Firenze non hanno avuto che danni e pericoli continui dalle milizie mercenarie. I nostri principi ed i preti, ignari della guerra, ricorsero ad esse, che parvero dapprima gran cosa; ma il fine della loro virtù è stato poi che l'Italia venne corsa da Carlo, predata da Luigi, forzata da Ferrando, vituperata dagli Svizzeri. Le milizie mercenarie hanno fra noi distrutto le fanterie, che sono il nerbo degli eserciti. E ciò avvenne, perchè pochi fanti non bastano, e molti costano troppo, quando invece con un discreto numero d'uomini d'arme si forma subito una compagnia di ventura. Anche le armi ausiliarie sono assai pericolose, perchè ti lasciano in balìa di chi ti aiuta, e sempre o le ti cascano di dosso e le ti pesano o le ti stringono.» E qui, tornando di nuovo al suo esempio prediletto, prosegue: «Io non dubiterò mai d'allegare Cesare Borgia e le sue azioni. Egli incominciò colle armi ausiliarie dei Francesi; ma, visto il pericolo, ricorse alle mercenarie, che almeno erano da lui pagate e dipendenti, e conosciuta la poca sicurezza anche di esse, si volse alle proprie. La differenza di queste dalle altre si vide subito nella reputazione che acquistò non appena rimase coi suoi soldati, e sopra sè stesso. Egli difatti non fu mai stimato assai, se non quando ciascuno lo vide intero possessore delle proprie armi. La milizia adunque vuole essere l'occupazione continua del Principe, il quale deve sempre pensarvi, ed anche nelle storie meditar sulle azioni dei grandi capitani, per imitarle.

Ed ora il Machiavelli affronta una questione anche più grave. Volendo ragionare in generale di quel che può dar lode o biasimo al Principe, egli dice che deve parlare di ciò, sebbene molti altri già prima di lui lo abbiano fatto. E qui allude non tanto agli antichi, quanto agli scrittori del Medio Evo, come Egidio Colonna e Dante Alighieri; agli eruditi del secolo XV, come il Panormita, il Poggio, il Pontano ed altri molti, i quali avevano sostenuto che il sovrano deve aver tutte le virtù, e ne avevano fatto un ritratto ideale di religione, di modestia, di giustizia e di generosità. Ma egli osserva giustamente che, volendo far cosa utile a chi l'intende, è assai più conveniente «andare dietro alla verità effettuale della cosa, che all'immaginazione di essa. E molti si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti, nè conosciuti essere in vero, perchè egli è tanto discosto da come si vive a come si dovrebbe vivere, che colui che lascia quel che si fa per quello che si dovrebbe fare, impara piuttosto la rovina che la preservazione sua; perchè un uomo che voglia fare in tutte le parti professione di buono, conviene che rovini infra tanti che non sono buoni. Onde è necessario ad un principe, volendosi mantenere, imparare a potere essere non buono, ed usarlo e non usarlo secondo la necessità.» «Sarebbe certo lodevolissimo che un principe avesse tutte le qualità buone e nessuna delle cattive; ma perchè le condizioni umane non lo consentono, è necessario che egli sia tanto prudente da fuggire quei vizi che gli torrebbero lo Stato, e da quelli che non glielo torrebbero, guardarsi se è possibile; ma non potendo, vi si può con minor rispetto lasciare andare.» Ed insiste e ripete: «Non si curi d'incorrere nell'infamia di quelli vizi, senza i quali possa difficilmente salvare lo Stato, perchè se si considererà bene tutto, si troverà qualche cosa che parrà virtù, e seguendola, sarebbe la rovina sua, e qualcun'altra che parrà vizio, e seguendola, ne riesce la sicurtà ed il benessere suo.

Qui il lettore può cader facilmente in errore, come a molti è seguìto, se non ricorda che in questo scritto il carattere personale e privato del Principe scomparisce del tutto, perchè di lui il Machiavelli si occupa solo in quanto è il rappresentante, la personificazione dello Stato. Infatti egli dice indistintamente la rovina sua e la rovina dello Stato, per esprimere una sola e medesima idea. Il suo errore anzi sta in ciò, che troppo spesso egli dimentica come questo Principe dovendo pur essere un uomo, non si può ammettere che ogni carattere personale e privato possa mai scomparire del tutto dalle sue azioni. Qui, come nei Discorsi, l'autore, a sempre meglio manifestare il proprio pensiero, fa la più assoluta separazione della politica da ogni privata morale; ma nello stesso tempo, concretando, personificando l'idea dello Stato in un individuo, vede inevitabilmente ricomparire quel carattere privato, che egli cerca sopprimere del tutto, perchè farebbe risorgere la questione morale, di cui non vuole occuparsi. E così ne segue che in questa, direi quasi, persona impersonale, l'uomo pubblico finisce assai spesso coll'uccidere il privato. Quello poi che il Machiavelli dice dell'uno, facilmente s'attribuisce dal lettore anche all'altro, ed i precetti, i consigli che sono dati solo a colui che personifica lo Stato, par che siano dati anche all'uomo privato. Di qui la confusione ed una serie di malintesi continui.

In ogni modo, quali sono le qualità che deve avere il Principe? La liberalità, che tanto gli eruditi raccomandavano allora, massime verso i letterati, non è, secondo il Machiavelli, lodevole in lui, perchè egli non spende il suo, ma quello d'altri; è quindi preferibile la parsimonia: solo di ciò che piglia nella guerra può essere larghissimo. È meglio per lui essere crudele o clemente, amato o temuto? «Certo, in termini generali, è assai meglio essere stimato pietoso; ma non bisogna poi usar male la pietà. Cesare Borgia era tenuto crudele; nondimeno quella sua crudeltà aveva racconcio la Romagna, unitala e ridottala in pace ed in fede. Egli fu nel fatto più pietoso dei Fiorentini, i quali, per evitar l'accusa di crudeli, lasciarono distruggere Pistoia dalle fazioni. Sarebbe certo desiderabile poter essere in un medesimo tempo amato e temuto; ma questo non è possibile, e però sarà meglio, quando s'abbia a scegliere, essere temuto. L'amore infatti è formato da un vincolo d'obbligo, il quale, perchè gli uomini sono tristi, da ogni occasione di propria utilità vien rotto; il timore nasce invece da una paura di pena, che non ti abbandona mai. Gli uomini amano a loro arbitrio, e temono ad arbitrio del Principe, che deve fondarsi su quello che è suo, non su quello che è d'altri. Pure egli può essere temuto e non odiato, quando s'astenga dalla roba e dalle donne dei sudditi, nè venga mai al sangue, se non quando vi sia causa e giustificazione manifesta, perchè gli uomini dimenticano più facilmente la perdita del padre che della roba. Oltre di che, cominciando una volta a vivere della roba d'altri, non si finisce mai, quando invece le occasioni al sangue sono più rare assai.»

Ed ora segue quel celebre e tanto bersagliato capitolo, che parla del mantenere o non mantenere la fede. Che sia bene, dice il Machiavelli, mantenere la fede, ognuno lo intende; «nondimanco si vede per esperienza nei nostri tempi, quelli principi aver fatto gran cose, che della fede hanno tenuto poco conto, e che hanno saputo con l'astuzia aggirare i cervelli degli uomini, ed alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in su la lealtà.» «Vi sono due modi di combattere, uno con le leggi, l'altro con la forza: il primo è proprio dell'uomo, il secondo della bestia, e come il primo non basta, così bisogna spesso ricorrere al secondo. Pertanto ad un Principe è necessario saper bene usare la bestia e l'uomo, il che vollero significare gli antichi con la favola di Achille educato da Chirone centauro. Un Principe deve però della bestia saper «pigliar la volpe ed il lione, perchè il lione non si difende da' lacci, la volpe non si difende da' lupi.... Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendono. Non può pertanto un signore prudente, nè debbe osservare la fede, quando tale osservanzia gli torni contro, e che sono spente le cagioni che la fecero promettere. E se gli uomini fossero tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma perchè sono tristi e non l'osserverebbero a te, tu ancora non l'hai da osservare a loro.» «È necessario tutto questo saperlo bene colorire, ed essere gran simulatore e dissimulatore, perchè gli uomini si lasciano facilmente ingannare. Alessandro VI non fece mai altro, non pensò tutta la sua vita ad altro, nè vi fu mai uomo che con maggiori giuramenti affermasse quello che poi non osservava; nondimeno tutto gli riusciva, perchè conosceva bene questa parte del mondo.»

Ad un Principe non è necessario avere le buone qualità, di cui più sopra si è discorso; ma è bene necessario parere d'averle. «Anzi ardirò di dire questo, che, avendole ed osservandole sempre, sono dannose, e parendo d'averle sono utili; come parere pietoso, fedele, umano, religioso, intiero, ed essere; ma stare in modo edificato con l'anima, che, bisognando non essere, tu possa e sappia mutare il contrario.» E si deve pure intendere che un Principe, massime un Principe nuovo, non può osservare tutte quelle cose per le quali gli uomini sono tenuti buoni, essendo spesso «necessitato, per mantenere lo Stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione. E però bisogna che egli abbia un animo disposto a volgersi. secondo che i venti e le variazioni della fortuna gli comandano; e come di sopra dissi, non partirsi dal bene, potendo, ma sapere entrare nel male, necessitato. Deve adunque avere un Principe gran cura, che non gli esca mai di bocca una cosa, che non sia piena delle soprascritte cinque qualità, e paia a vederlo e udirlo tutto pietà, tutto fede, tutto umanità, tutto integrità, tutto religione. E non è cosa più necessaria a parere d'avere che quest'ultima qualità, perchè gli uomini in universale giudicano più agli occhi che alle mani, perchè tocca a vedere a ciascuno, a sentire a pochi. Ognuno vede quel che tu pari, pochi sentono quel che tu sei, e quelli pochi non ardiscono opporsi alla opinione de' molti, che abbiano la maestà dello Stato che li difenda.... Faccia adunque un Principe conto di vincere e mantenere lo Stato; i mezzi saranno sempre giudicati onorevoli e da ciascuno lodati, perchè il vulgo ne va sempre preso con quello che pare, e con lo evento della cosa.... Alcuno principe dei presenti tempi, quale non è bene nominare, non predica mai altro che pace e fede, e dell'una e dell'altra è inimicissimo, e l'una e l'altra, quando e' l'avesse osservata, gli arebbe più volte tolto o la reputazione o lo Stato.»

Fu già osservato dal Ranke, che in questo capitolo si trovano reminiscenze della Politica d'Aristotele, ed il Burd nel suo diligentissimo lavoro aggiunge, che ve ne sono anche maggiori del comento fatto ad essa da S. Tommaso. Se non che è ben da notare, che così l'uno come l'altro di questi scrittori parlano del tiranno, che mettono in opposizione al monarca, al re. Nel Principe invece una tale distinzione, sostanziale in Aristotele ed in S. Tommaso, è scomparsa del tutto. E quindi le parole del Machiavelli, sian pure imitate, hanno un significato essenzialmente diverso, se non vogliam dire opposto. Si avvera anche qui quello che abbiamo più volte notato, che cioè il momento della più fedele riproduzione è spesso ancora quello della più sostanziale divergenza. Il Machiavelli non discorre di ciò che fa il tiranno come tale, ma di ciò che il Principe, l'uomo di Stato, il legislatore deve fare. Anzi questo appunto è ciò che dà alle sue parole quel colorito loro proprio, che le rende ai nostri occhi funeste, detestabili. Eppure esse non sono altro che l'affermazione d'una verità profondamente osservata; ma che, per renderla più efficace e chiara, egli espone in una forma paradossale, che la fa parer colpevole errore. In sostanza il Machiavelli qui ripete che l'uomo politico, il diplomatico non possono sempre dire la verità; che, in alcuni casi anzi debbono nasconderla con arte, inducendo in errore quelli con cui trattano, se non vogliono mettere a pericolo sè stessi, il proprio partito, lo Stato stesso. Or si può discutere quanto si vuole; ma finchè la società e la politica restano quali erano allora, e quali sono in gran parte anche adesso, si dovrà riconoscere che così pur troppo stanno le cose. L'uomo politico non è un individuo che parla ad un altro individuo, è il rappresentante di un partito, di un governo, quasi un essere collettivo, le cui parole, dette in pubblico, hanno un valore, un significato, un effetto diversissimi da quel che hanno le parole dei privati fra di loro. Qualche volta, anche volendo dire il vero, egli può trovarsi nella impossibilità di farlo. E ciò non solamente perchè il dirlo può avere conseguenze disastrose; ma perchè, quando pure lo dicesse al pubblico, senza riserve e senza artifizi, sarebbe inteso in un senso affatto diverso da quel che le parole veramente esprimono. Il pubblico è anch'esso un essere collettivo, che sente e intende ogni cosa assai diversamente che non faccia un privato; vuole in altro modo essere guidato, e in altro modo bisogna parlargli. V'ha di certo una politica leale ed una politica sleale, una politica onesta ed una politica disonesta; ma di siffatta questione il Machiavelli, specialmente nel Principe, non si occupava e non poteva, perchè egli voleva prima di tutto determinare quel che la politica è veramente: questo è il suo fine costante. Continuando perciò la sua via, torna a ripetere, che supremo dovere del Principe è il mantenere lo Stato; tutti i mezzi a ciò veramente necessarî, saranno sempre giustificati. Ed aggiunge inoltre, che l'azione dell'uomo di Stato diviene efficace, utile, non secondo la intenzione da cui muove, ma secondo la sua apparenza, la quale in politica ha un grandissimo valore, è spesso anzi quella che sola ha valore, sola produce un effetto reale. Essere buono, sincero, e non sapersi far riconoscer tale, non significa nulla; ma farsi creder sincero e buono, anche senza esserlo, può portar conseguenze efficaci, utili allo Stato ed a chi lo governa. Questo discorso provoca naturalmente indegnazione, perchè sembra che con inaudito cinismo inculchi l'ipocrisia. Quando infatti segue una grande, pubblica calamità, se un privato cittadino profonde la sua fortuna in aiuto dei miseri, e non vuole che si sappia, nasconde agli altri la sua generosità, noi siamo presi da entusiasmo, ammiriamo la sua virtù, che vuole essere e non parere. Questo è il criterio morale col quale giudichiamo. Come potremmo mai adottare il criterio opposto? Eppure se un Principe, in presenza della pubblica sventura, mosso da pietà, profondesse tesori, senza volere che si sapesse, che apparisse, noi invece di ammirarlo lo biasimeremmo. Non è la sua intenzione, ma la sua azione quella che dobbiamo giudicare, quella che ha valore. E questo valore essa lo avrà solo se è visibile, se apparisce. Meglio assai sarebbe se, senza esser mosso da alcuna pietà, soccorresse i miseri per semplice dovere di Stato, e sentisse l'obbligo di farlo vedere, di farlo sapere. Questo è ciò che il Machiavelli volle dire quando affermò che in politica il parere vale più che l'essere. Ed è ciò per cui fu tanto aspramente biasimato. Pure se un Principe, il quale non creda alla religione del suo popolo, ciò non ostante la rispetti, e lasci anche supporre al volgo di avere la stessa sua fede religiosa, sarà certo ritenuto più savio di colui che sembri non curarla, quando anche in realtà vi creda. Nessuno condannò Napoleone I pel rispetto mostrato in Egitto a Maometto ed al Corano; nessuno condannò gl'Inglesi, quando fecero in India dimostrazioni di ossequio devoto a Brama ed a Budda. Il Principe rappresenta lo Stato, e come tale deve professarsi credente al pari del suo popolo. Tutto ciò non vuol dire di certo che la religione sia da ritenersi come un puro strumento di governo, opinione tante volte attribuita al Machiavelli. Egli, è ben vero, la studiò come un mezzo di governo, perchè la riconobbe una delle grandi forze sociali, di cui bisogna valersi; ma ciò dicendo, non espresse alcuna opinione sul valore intrinseco della religione stessa. Che l'uomo di Stato ci creda o non ci creda, è questione che riguarda la sua privata coscienza, e sulla quale perciò il Machiavelli non pensò di doversi come scrittore politico fermare. Ben si può asserire che egli non manifestò mai disprezzo verso la religione in generale; ma più volte disse che a fondare sicuramente la libertà, era necessario avere un popolo credente, aggiungendo che la mancanza di religione aveva corrotto l'Italia.

Al Machiavelli nocque sempre la forma troppo assoluta, con cui si esprimeva. Questa dette facile pretesto a giudicare come massime di morale assoluta, quelle che erano invece di convenienza e di opportunità politica. Di certo quando egli, avendo presente il Valentino, circondato dai suoi alleati, che lo tradivano, afferma che non vi è obbligo di mantenere la fede a coloro che sono già pronti a violarla, non si può dire che abbia torto. Ma quando invece scrive in termini generali: «Non può, nè debbe un Signore prudente mantenere la fede, spente che siano quelle ragioni che la fecero promettere,» chi non vede come egli esponga il fianco ai colpi de' suoi avversarî? Questi infatti ne profittarono non solo di buona, ma anche di mala fede. Il Machiavelli aveva esposto il concetto politico, facendo astrazione dal morale; ed essi pretesero di giudicarlo, esaminando il concetto morale, astrazion fatta dal politico: modo sicuro per non comprenderlo punto.

Nel capitolo XIX si riepiloga quanto l'autore ha detto sull'obbligo che ha il Principe di non rendersi odioso, ritornando sulle altre qualità che gli occorrono. Egli non deve levare ai cittadini la roba, nè offendere le loro donne; deve farsi tener sempre animoso e grave. Ma due cose sono a lui sopra tutte le altre pericolose: essere assalito fuori dai nemici esterni, e dentro dalle congiure. Su queste il Machiavelli espone in brevi parole quello che assai ampiamente scrisse più tardi nei Discorsi, che noi abbiamo già esaminati. Sono sempre le stesse idee, e le imitazioni da Aristotele vi appariscono visibilissime, oltre di che nei Discorsi molti esempî di cospirazioni sono cavati da storici greci e romani. Ma anche qui le imitazioni provano tutt'altro che somiglianza d'idee. Infatti il capitolo che tratta delle congiure, si trova nella Politica d'Aristotele connesso al concetto assai più vasto di tutto il libro V, il quale ragiona delle rivoluzioni che mutano la forma dei governi. E dopo averne distinto le varie specie, le loro cause ed effetti, distingue del pari le congiure. A queste distinzioni il Machiavelli senza dubbio si attiene; ma se ne vale per fare un'altra ricerca, con uno scopo sostanzialmente diverso. Egli esamina con quali mezzi, per quali cause le congiure contro i re, contro i tiranni, contro la libertà della patria, riescono o falliscono; in che modo bisogna condurle per ottenere l'intento, quali pericoli si corrono e come si possono evitare; come il Principe può prevenirle, scoprirle, spegnerle in tempo. Il concetto d'Aristotele è teorico e scientifico, quello del Machiavelli pratico e di condotta politica. La differenza è, come si vede, grandissima.

Un Principe, continua il Machiavelli, ripetendo una sua costante opinione, non deve far disperare i grandi; gli è però necessario favorire il popolo, se non vuole capitar male. Ma perchè la storia degl'imperatori romani, molti de' quali si fondarono in tutto sui loro eserciti, può sembrare ad alcuno che contraddica a questa sentenza, egli fa osservare che la loro condizione era diversa assai da quella dei principi del suo tempo. «Se quegl'imperatori dipendevano dai loro soldati, i nostri principi, ad eccezione del Sultano, dipendono dal popolo; e però, quanto ai grandi, basta non disperarli, ma il popolo debbono soddisfarlo. Così fanno i regni bene ordinati, come è di certo quello di Francia. In esso si trovano infinite costituzioni buone, donde dipende la libertà e sicurtà del re, delle quali la prima è il Parlamento, perchè colui che ordinò quel regno, conoscendo l'ambizione e la insolenza de' potenti, giudicò necessario metter loro un freno in bocca, che li correggesse. Ma conoscendo anche l'opposizione del popolo contro i grandi, e volendo soddisfarla, senza dare questo ufficio al re, che voleva liberare dal carico che e' potesse avere con i grandi, favorendo i popolari, e con i popolari, favorendo i grandi, costituì un giudice terzo, che battesse questi e favorisse quelli.» «Nè puote essere questo ordine migliore, nè più prudente, nè che sia maggior cagione della sicurtà del re e del regno.... Di nuovo concludo che un Principe debbe stimare i grandi, ma non si far odiare dal popolo.» E qui si può intendere anche la ragione per la quale, secondo il Machiavelli, s'ingannano assai coloro che, non considerando come il principato moderno si fondi sul popolo, non vogliono armare i propri sudditi, per paura d'averli nemici, e non comprendono che le milizie nazionali sono la sola difesa su cui si possa fare sicuro assegnamento.

«Quando s'acquista una provincia nuova, che sia come appendice dello Stato vecchio, bisogna governarla coi sudditi di questo, cercando, ove occorra, indebolire i nuovi. Ed in simili casi giova molto al Principe compiere qualche impresa, che gli dia modo di dimostrare la propria forza, e non avendo un'occasione pronta, suscitare qualche nemico che la faccia nascere. Falso è però l'antico sistema dei Fiorentini, i quali volevano tener Pisa con le fortezze e Pistoia con le parti.» Quest'ultimo modo riuscì funesto anche ai Veneziani. E quanto alle fortezze, sebbene l'autore non sembri qui così assoluto come altrove nel condannarle, pure dimostra sempre poca fede in esse, sia che si tratti di valersene a tenere sottomessi gli antichi sudditi, sia i nuovi, e ripete sempre, che nel primo caso occorre fare assegnamento sull'affetto del popolo, nel secondo, sulle proprie forze, cercando continua occasione a darne prova in nuove ed ardite imprese. «Così fece Ferdinando il Cattolico, il quale agguerrì prima l'esercito; assaltò poi Granata e ne cacciò i Mori; assaltò ancora l'Africa, la Francia, l'Italia. E si tenga bene a mente, che in tutti questi casi bisogna dichiararsi subito amico o nemico aperto, nè pretendere di voler pigliare partiti sicuri, perchè non ve ne sono, consistendo sempre la vera prudenza nel prendere il manco tristo per buono.»

E qui il Machiavelli, per la prima ed unica volta, accenna, sebbene brevissimamente e come di passaggio, a qualche cosa che nella società umana non sia guerra o politica. Il Principe, egli dice, deve incoraggiare i suoi cittadini ad attendere tranquilli alle loro faccende ed occupazioni, alla mercanzia, all'agricoltura, ad ogni altro esercizio, «acciocchè quello non si astenga di ornare le sue possessioni per timore che le non gli siano tolte, e quell'altro di aprire un traffico per paura delle taglie; ma deve preparare premi a chi vuole fare queste cose, ed a qualunque pensa in qualunque modo di ampliare la sua città o il suo Stato.... Debbe, oltre a questo, ne' tempi convenienti dell'anno, tenere occupati i popoli con feste e spettacoli.» E dopo aver messo insieme industria, commercio e feste, risguardando tutto ciò come un mezzo di governo, altro non dice intorno al progresso sociale ed alla necessità di promuoverlo. Così queste poche e fuggevoli parole valgono solo a mettere in sempre maggiore evidenza il fatto da noi già più volte notato, che egli s'occupa solo di politica, e non vede che lo Stato, le arti con cui esso si mantiene, le armi con cui si difende, e ad un tal fine sacrifica ogni cosa.

Nel capitolo seguente si discorre della scelta del segretario, dalla quale, dice il Machiavelli, si può riconoscere l'accortezza del Principe. Vi sono è vero uomini che intendendo bene le cose, riescono eccellenti, senza bisogno che qualcuno li aiuti; ma altri non le intendono da sè, nè per dimostrazioni o consiglio altrui, e questi riescono affatto incapaci. Vi sono però molti, che senza intenderle da sè, sanno profittare dei consigli altrui, ed a questi il segretario riesce utilissimo, come fu Antonio da Venafro a Pandolfo Petrucci, il quale per la buona scelta che fece, e pel vantaggio che seppe cavarne, fu giudicato uomo eccellente. La bontà del segretario si riconosce dal vederlo pensare all'utile del Principe, non al suo proprio, perchè quegli che ne ha in mano lo Stato, non debbe occuparsi mai di sè stesso, ma sempre del Principe, il quale ha dal suo lato l'obbligo di pensare al segretario, dandogli ricchezze ed onori, sì che non possa desiderare altro. Bisogna però fuggire gli adulatori, che sono la peste delle Corti. Lasciar dir tutto a tutti non deve il Principe permetterlo, ma neppure lasciarsi adulare. Elegga uomini savi e prudenti, che liberamente gli dicano il vero su tutto quello che domanderà loro; deliberi poi da sè, e stia fermo alla deliberazione presa. Nè si dica, che con ciò egli mostrerà di non aver prudenza propria, e volerla accattare dagli altri, perchè è una regola generale che non falla mai, che un Principe il quale non sia savio per sè, non sarà mai consigliato bene da nessuno. E se anche il caso lo spingesse a rimettersi in uno, che al tutto lo governasse, e fosse prudentissimo, potrebbe di certo essere guidato bene, ma resterebbe interamente a discrezione di altri, e presto capiterebbe male. Se si consiglierà con più d'uno, potrà scegliere e coordinare i vari consigli; ma dovrà allora esser savio, altrimenti non avrà consigli uniti, nè saprà unirli. - In questo capitolo il Machiavelli evidentemente ragionava alquanto pro domo sua.

«Quando le cose dette fin qui siano osservate,» così egli conclude, «faranno in breve parere antico un Principe nuovo, perchè le sue azioni, essendo molto più di quelle degli altri uomini guardate, una volta che sian riconosciute virtuose, guadagnano molto più l'animo dei sudditi, e molto più gli obbligano, che il sangue antico.» «E così arà duplicata gloria di aver dato principio a un principato nuovo, ed ornatolo e corroboratolo di buone leggi, di buone armi, di amici e di buoni esempi, come quello arà duplicata vergogna che, nato principe, lo ha per la sua poca prudenza perduto.» «E se ora si considerano i principi italiani che hanno perduto lo Stato ai nostri tempi, si troverà in tutti deficienza d'armi proprie; e si troverà oltre di ciò, che alcuni di essi non seppero tenersi amico il popolo, altri non seppero tenersi amici i grandi, perchè senza questi difetti non si perdono gli Stati. Si debbono quindi essi dolere di sè medesimi e non degli altri. È vero che molti credono che le cose di questo mondo siano in modo governate dalla fortuna e da Dio, che gli uomini non vi possano nulla, e che perciò non parrebbe utile pensarvi troppo, ma occorrerebbe lasciarsi piuttosto governare dalla sorte. Questa opinione s'è molto diffusa ai nostri tempi, per le grandi variazioni che sono seguite in Italia, fuori d'ogni umana congettura.» «Nondimanco, perchè il nostro libero arbitrio non sia spento, giudico potere esser vero, che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che ancora ella ne lasci governare l'altra metà o poco meno a noi. Ed assomiglio quella ad uno di questi fiumi rovinosi, che quando si adirano, allagano i piani, rovinano gli arbori e gli edifici, lievano da questa parte terreno, lo pongono da quell'altra; ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede all'impeto loro senza potervi in alcuna parte ostare; e benchè siano così fatti, non resta però che gli uomini, quando sono tempi quieti, non vi potessero fare provvedimenti, e con ripari ed argini, in modo che crescendo poi, o anderebbero per un canale, o l'impeto loro non sarebbe nè sì licenzioso nè sì dannoso. Similmente interviene della fortuna, la quale dimostra la sua potenza dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi volta i suoi impeti, dove la sa che non sono fatti gli argini e ripari a tenerla. E se voi considererete l'Italia, che è la sede di queste variazioni, e quella che ha dato loro il moto, vedrete essere una campagna senza argini e senza alcun riparo. Che se la fusse riparata da conveniente virtù, come è la Magna, la Spagna e la Francia, o questa piena non avrebbe fatto le variazioni grandi che l'ha, o la non ci sarebbe venuta.»

Le grandi e repentine mutazioni nel destino dei principi, dei generali e dei capi di parte, nascono, come s'è già visto nei Discorsi, dal non accordarsi sempre le qualità loro con la natura dei tempi, i quali variano di continuo, mentre che gli uomini non possono a loro arbitrio variare la propria natura, donde ne segue che coloro i quali sono stati fortunati un tempo, o rovinano a un tratto, o nulla più ad essi riesce secondo i desideri. «Variando la fortuna, e stando gli uomini nei loro modi ostinati, sono felici, mentre concordano insieme, e come discordano, sono infelici. Io giudico ben questo, che sia meglio essere impetuoso che rispettivo, perchè la fortuna è donna, ed è necessario, volendola tener sotto, batterla ed urtarla; e si vede che la si lascia più vincere da questi, che da quelli che freddamente procedono. E però sempre, come donna, è amica de' giovani, perchè sono meno rispettivi, più feroci, e con più audacia la comandano.»

Ed ora siamo giunti all'ultimo capitolo, che finisce con la tanto celebrata esortazione ai Medici, perchè, dopo avere ordinato lo Stato nuovo, s'inducano a liberare la patria. A tutti coloro i quali non osservarono, come anche nei Discorsi il grande legislatore, fondato che ha colla violenza un regno, deve, affidandolo al popolo, renderlo libero e difenderlo, questa esortazione sembrò appiccicata, senza legame alcuno nè col resto del libro, nè colle idee dell'autore. In realtà essa è però l'ultima sintesi del Principe, che fu sempre il pensiero dominante del Machiavelli. Perfino quando egli serviva la Repubblica, lo vediamo rivolgersi ai Fiorentini, esclamando nei propri appunti, già da noi ricordati: «Manco male il tiranno, alla testa delle milizie nazionali, che stare come voi, senza difesa, in balìa del più tristo facchino che vesta armi in Italia.» Non deve quindi recar nessuna maraviglia il vederlo ora concludere: «Considerato adunque tutte le cose di sopra discorse, e pensando meco medesimo se al presente in Italia correvano tempi da onorare un Principe nuovo, e se ci era materia che desse occasione a uno prudente e virtuoso d'introdurvi nuova forma, che facesse onore a lui, e bene alla universalità degli uomini di quella, mi pare concorrano tante cose in beneficio di un Principe nuovo, che io non so qual mai tempo fusse più atto a questo.» «E se a provare la virtù di Mosè, di Ciro, di Teseo, era necessario che l'Egitto, la Persia e Atene venissero nelle misere condizioni che troviamo descritte; a provare la virtù d'uno spirito italiano,» «era necessario che l'Italia si riducesse nel termine ch'ell'è di presente, e che la fosse più schiava che gli Ebrei, più serva che i Persi, più dispersa che gli Ateniesi, senza capo, senz'ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa, ed avesse sottoportato di ogni sorta rovine.» «E sebbene finora si sia visto qualcuno, che ha dato un barlume di speranza d'essere mandato da Dio a redimerla, pure è stato poi dalla fortuna respinto, sì che s'aspetta sempre chi venga a sanar le sue ferite.» «Vedesi come la prega Dio, che le mandi qualcuno che la redima da queste crudeltà ed insolenzie barbare. Vedesi ancora tutta pronta e disposta a seguire una bandiera, purchè ci sia uno che la pigli. Nè ci si vede al presente in quale la possa più sperare che nella illustre Casa vostra, la quale con la sua virtù e fortuna, favorita da Dio e dalla Chiesa, della quale ora è principe, possa farsi capo di questa redenzione.» «Qui è giustizia grande e disposizione negli animi; si sono visti prodigiosi segni che annunziano grandi mutamenti; tutto è concorso alla vostra grandezza; il rimanente fate voi, perchè Dio non vuol torre il libero arbitrio.»

«È necessario però non perdersi d'animo, per l'esempio di coloro che non riuscirono nell'impresa, perchè se voi fondate i nuovi ordini militari, questi troveranno subito la materia pronta. Qui è virtù grande negli individui, quando non manchino i capi, come si vede nei duelli e nei combattimenti di pochi, nei quali gl'italiani vincono sempre con le forze, con la destrezza e con l'ingegno. Bisogna armarsi di armi proprie, e fondarsi sulle fanterie nazionali, che possono riuscire eccellenti. Sebbene le svizzere e le spagnuole sieno stimate terribili, esse non sono senza difetti, ed un terzo ordine potrebbe in Italia superarle. Gli Spagnuoli non possono sostenere i cavalli, e gli Svizzeri dovrebbero temere i fanti, quando li trovassero in guerra ostinati come loro; laonde si può ordinare una nuova fanteria, che resista ai cavalli e non tema i fanti, al che si riuscirà non con la nuova qualità delle armi, ma con la variazione degli ordini. E queste son quelle cose, che danno reputazione e grandezza ad un principe nuovo.» «Non si deve adunque lasciar passare questa occasione, acciocchè la Italia vegga, dopo tanto tempo, apparire un suo redentore. Nè posso esprimere con quale amore ei fusse ricevuto in tutte quelle provincie, che hanno patito per queste illuvioni esterne, con qual sete di vendetta, con che ostinata fede, con che pietà, con che lacrime. Quali porte se gli serrerebbero? quali popoli gli negherebbero l'ubbidienza? quale insidia se gli opporrebbe? quale Italiano gli negherebbe l'ossequio? Ad ognuno puzza questo barbaro dominio. Pigli adunque la illustre casa vostra questo assunto, con quell'animo e quella speranza che si pigliano le cose giuste; acciocchè sotto la sua insegna e questa patria ne sia nobilitata, e sotto i suoi auspici, si verifichi quel detto del Petrarca:

«Virtù contro al furore

Prenderà l'arme, e fia il combatter corto;

Che l'antico valore

Negl'Italici cor non è ancor morto.»

Così finisce questo piccolo volume, che restò per sempre un monumento immortale nella storia della letteratura. Nei Discorsi, noi lo abbiamo già visto, i varî elementi da cui il pensiero politico del Machiavelli è formato, son messi gli uni accanto agli altri, senza troppo occuparsi di coordinarli organicamente fra di loro, sotto principii generali, senza neppur troppo occuparsi di vedere se vanno sempre d'accordo fra di loro. L'unità della sua scienza bisogna quindi cercarla nel suo modo di pensare e di osservare, nel suo metodo, nel modo di concepire la società, lo Stato, soprattutto il carattere dell'uomo politico, che può veramente dirsi il centro comune de' suoi pensieri, e che diviene il soggetto stesso del Principe, il quale da ciò acquista la fisonomia ed il valore suo proprio. Sebbene neanch'esso ci dia un vero sistema di filosofia politica, pure i concetti fondamentali vi sono più sicuramente scolpiti, e ritrovano la loro unità organica, personificandosi nel sovrano, che, costituendo lo Stato, redime la patria. E questo Principe redentore, che nei Discorsi apparisce e sparisce di continuo, restando in una forma ancora incerta, quasi astratta, si presenta finalmente come un personaggio reale, vivente. Tutto ciò nell'Italia d'allora non poteva essere, come noi vedemmo, che un sogno; ma il sogno del Machiavelli era talmente fondato sulla realtà, che ebbe l'importanza di un avvenimento storico. Il suo libro perciò è senza alcun dubbio quello che più di ogni altro, esercitò una vera, efficace azione sugli uomini di Stato e sugli avvenimenti, per mezzo dei quali l'Europa uscì fuori del Medio Evo. Ed è un grande errore il credere che egli non facesse altro che esporre, ripetere idee comuni a tutti nel suo tempo: troviamo invece che molti de' suoi contemporanei lo biasimarono o non lo capirono. Egli studiò la storia e la società del suo tempo; fu il solo allora che ne comprese davvero lo spirito; ed assai spesso venne tenuto responsabile, quasi autore dei fatti che andarono poi seguendo in Europa, unicamente perchè essi seguivano nel modo stesso che da lui era stato preveduto. Tutto ciò è ben altro che ripetere quello che allora universalmente si diceva o pensava.

E se molti trovano strano, che, nella esortazione finale, quel Principe che pareva avesse voluto e saputo dare alla società, come a creta molle, la forma che più gli piaceva, a un tratto s'avvicina ad essa, s'immedesima col popolo, per rappresentarne le più nobili aspirazioni, personificarne la più intima coscienza, anche in ciò il libro ritrae fedelmente il processo storico, che le monarchie moderne dovevano necessariamente seguire. Esse infatti cominciarono con la tirannide a formare l'unità nazionale, per poi, appoggiandosi alla borghesia ed al popolo, contro l'aristocrazia, andarsi lentamente trasformando, ed arrivare al governo rappresentativo. Così fu che il Principe finì coll'essere davvero la profezia dell'avvenire. Che se poi si guardi solo all'Italia, l'esortazione sembra descrivere addirittura quello che, dopo tre secoli e mezzo, abbiam visto seguire sotto i nostri propri occhi. E però, a misura che i fatti andarono dimostrando la verità del sogno, si potè sempre meglio comprendere il pensiero del Machiavelli, e misurare tutta quanta la prodigiosa originalità della sua mente.

Nel tempo stesso in cui il Machiavelli correggeva ancora il Principe, Tommaso Moro scriveva la sua Utopia (1515), che fu pubblicata anche prima (1516). Vissuti ambedue pigliando parte non piccola agli affari del loro paese, erano stati l'uno e l'altro educati in mezzo alla erudizione classica. Ma questa erudizione, passando da Firenze in Inghilterra, massime in Oxford, s'andò subito profondamente trasformando. Fra di noi essa rimase solo e sempre un fatto letterario ed intellettuale, ivi invece, come in Germania, apparecchiò la Riforma, iniziando un rinnovamento della coscienza. L'Inghilterra cominciava allora a salire, l'Italia doveva fra poco rapidamente decadere. Nel carattere del Moro, non ostante i suoi difetti, v'era anche una grande altezza e nobiltà morale, che lo condusse in fine al martirio, e che mancava nel Machiavelli. I due libri, sorti da uno stato di cose tanto diverso, si trovarono, come era naturale, l'uno agli antipodi dell'altro.

Tommaso Moro vide i mali, i pericoli, le ingiustizie della società in cui era nato e vissuto. Vide l'ignoranza delle moltitudini, e i potenti che nuotavano nelle ricchezze, vivendo nell'ozio, col sudore dei poveri, che lavoravano come bestie da soma, senza avere abbastanza da sfamarsi. - Perseguitati, egli scrive, quando si danno all'accattonaggio, sono subito messi a morte, se rubano qualche cosa, per soddisfare la fame che li opprime. E così noi ci occupiamo a formar dei ladri, per poi impiccarli. I principi pensano a raccogliere soldati stipendiati, a far guerre per accrescere il proprio Stato, occupati come sono esclusivamente del loro potere, del loro interesse personale. Non sembrano comprendere, non sembrano avvedersi, che la loro vera forza può venir solo dalla giustizia e dal benessere sociale; che essi sono fatti per lo Stato, non viceversa. Ma a che varrebbe il far loro un tale discorso? Qual sovrano, in qual paese del mondo, darebbe ascolto? - L'Utopia nel suo primo libro riusciva così un documento storico di grande importanza, perchè ci fa conoscere la società inglese di quel tempo, descrivendoci i mali che la travagliavano, per bocca d'un uomo, che la vide, la conobbe, e qualche tempo fu anche tra quelli che la diressero. Nel secondo libro il Moro cerca invece i rimedi, ponendoci sotto gli occhi una società ideale, ritrovata in un'isola sconosciuta, che egli suppone scoperta da un compagno d'Amerigo Vespucci. In essa non solamente la giustizia trionfa, ma l'autore, fra molte idee singolari e fantastiche, ha come una chiara visione dei grandi problemi sociali che agiteranno l'avvenire. Ed in un tempo nel quale già cominciavano feroci odii religiosi, che dovevano portare ad una cieca intolleranza, egli esponeva tutti i vantaggi della tolleranza. Nessun uomo, egli dice, deve esser punito per quello che crede, perchè nessuno è padrone di credere quello che vuole. Sulla pena di morte adopera un linguaggio, sostiene idee che preconizzano il Beccaria. La pena, egli dice, deve servire a migliorare l'uomo; ricondurlo al lavoro, alla virtù; non a pervertirlo o distruggerlo. Persino la questione delle otto ore di lavoro, si trova preveduta e risoluta nel modo stesso che si cerca di risolverla oggi. In Utopia l'ozio è severamente vietato, e tutti sono costretti a vivere lavorando. Anche molte questioni moderne d'igiene sulla costruzione delle case e delle città, sono prevedute e risolute. Ma dove propriamente si trova questa fortunata e felice società? Nel paese di Nowhere, cioè in nessun luogo. Chi, quando ed in che modo potrà mai iniziare una così grande riforma del vivere civile? Il Moro non si fa neppure una tale domanda, per lui affatto oziosa. I principi, padroni di tutto, non pensano che a sè, al loro male inteso interesse personale, e sarebbe vano sperare di rimuoverli dalla loro via fallace.

Un tal libro non poteva di certo esercitare alcuna azione efficace sulla società, e fu in parte contradetto dallo stesso autore, che negli ultimi anni della sua vita tornò al cattolicismo, divenendo un persecutore religioso. Ma se molti eruditi, come il Pontano ed Erasmo, si contentarono di descrivere un principe filosofo, ideale, non riuscendo così a far altro che un esercizio di retorica, il Moro descrisse le più nobili aspirazioni dell'umana natura e della futura società, scrivendo un'opera, che ha un vero valore storico, filosofico e morale. Ma egli si allontanò dal presente, senza punto occuparsi d'indicarci la via, i mezzi coi quali si poteva camminare verso questo ideale; ed il suo libro restò quindi una nobile utopia e niente altro. Il Machiavelli prese invece la via opposta, proponendosi di studiare la società quale essa è realmente, e i modi per farla progredire verso la libertà. I principi, è vero, egli disse, non cercano che il loro proprio tornaconto; e supporre che vogliano mai fare altrimenti, sarebbe lo stesso che non conoscere l'uomo, fantasticare, non ricercare la verità. Ma facendo e sapendo fare il loro interesse, possono anche costituire l'unità dello Stato, assicurandone la prosperità. Occorre solo che imparino a condurre con prudenza l'opera loro, e chiamino poi il popolo a compierla, a difenderla colle armi proprie. Ma per riuscire a trovare ed insegnare questa via, bisogna cercare la verità effettuale delle cose; non dimenticare quello che si fa, per correr dietro a quello che si dovrebbe fare; non perdere il tempo, immaginando società e governi, che non sono esistiti, e non esisteranno mai. Questa è la ragione per la quale il Principe, e non l'Utopia, potè essere la guida politica di molti sovrani, di molti uomini di Stato; potè esercitare una efficace, potente azione sulla realtà storica.

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