CONCLUSIONE

Il Machiavelli, come abbiam visto, è assai strettamente legato ai suoi tempi. Il concetto che di lui ci formiamo, risulta perciò, in parte non piccola, dal concetto che ci formiamo del secolo in cui egli visse. Nacque in un tempo nel quale la corruzione politica era generale in tutta Europa, ma in Italia più che altrove, perchè maggiore era in essa il numero di coloro che pigliavano parte alla vita pubblica. Questa corruzione faceva quindi più largamente sentire la sua malefica azione in tutta quanta la società italiana. La nostra maggiore cultura rendeva anche meno scusabili i vizî e le colpe d'una politica non più dominata dalle passioni istintive e cieche del Medio Evo, ma conseguenza di calcolo e di astuzia raffinata, crudele e senza scrupoli. Le istituzioni del Medio Evo andavano fra di noi tutte a rapida rovina, lasciando ogni individuo della civile comunanza come abbandonato a sè stesso. In Francia, in Inghilterra, nella Spagna, invece, il feudalismo formava ancora la base su cui s'innalzava il potere sovrano delle grandi monarchie, che avevano quindi più ferme tradizioni, e seguivano una politica la quale, se non era meno corrotta nei mezzi che adoperava, riusciva di certo più determinata e costante, sopra tutto più nazionale, nei fini che si proponeva. La corruzione italiana apparve però ai posteri assai più profonda, più generale che veramente non era, perchè diffusa sopra tutto negli ordini superiori della società, fra gli uomini politici e i letterati, dei quali quasi esclusivamente si occupano le storie. Negli ordini inferiori la virtù e la morale avevano ancora salde e profonde radici, sebbene di essi poco o punto si parli. Questo apparisce ben chiaro nella letteratura popolare, nelle corrispondenze familiari, nella vita di non pochi oscuri personaggi. In una gran parte d'Italia il popolo era in fatti assai più culto e gentile che al di là delle Alpi, e minore era il numero dei delitti. Dei nostri politici molti diffidavano, tutti anzi stavano in guardia contro di loro; non troviamo però che si diffidasse dei nostri mercanti o banchieri, ed in ogni parte d'Europa si chiedevano medici, segretarî, educatori italiani.

A questa diversa morale, che v'era far due parti della società, s'aggiungeva negli ordini superiori di essa, un conflitto nel concetto stesso che gl'Italiani s'erano formato della vita. La morale cristiana, teoricamente almeno, dominava sempre nelle private relazioni, era da tutti riconosciuta indiscutibile; ma veniva poi abbandonata nella vita pubblica, nella quale pareva che avesse perduto affatto ogni valore così teorico come pratico. La buona fede, la lealtà, la bontà cristiana avrebbero, si diceva, menato a certa rovina il principe, il governo che avessero voluto prenderle davvero a regola costante di condotta politica. Questo era ciò che istintivamente sentivano e pensavano allora tutti, ma gl'Italiani ne avevano fatto una teoria, che apertamente proclamavano. La contradizione che v'era nell'accettare questa doppia norma, appariva di certo anche ad essi visibile; ma nessuno pareva che si curasse molto di cercare un modo di sopprimerla, ricostituendo l'armonia interiore. La coscienza si sentiva quindi dolorosamente divisa e lacerata, come tirata in due opposte direzioni, in fondo all'una delle quali si trovava il Paradiso, in fondo all'altra l'Inferno. E si concludeva spesso col dire, che bisognava pure decidersi ad «amare più la salute della patria che la salvezza dell'anima»

Un tale stato di cose doveva avere le sue inevitabili e gravi conseguenze nella vita e nella letteratura. Lo scetticismo di fatti invase gli animi; s'indebolì il sentimento religioso; si cercò di esaminare il mondo e la realtà quali allora erano o sembravano essere, senza occuparsi d'altro. Crebbe sempre più l'ammirazione per gli antichi Greci e Romani, i quali riconducevano appunto allo studio della realtà e della natura, senza pensiero alcuno dell'oltre-tomba, e non solo riconoscevano le necessità della politica, ma ponevano accanto agli Dei coloro che ad esse obbedivano per salvare la patria, non lasciandosi mai fermare dagli scrupoli della morale cristiana. La pittura, la scultura si dettero anch'esse allo studio dell'antico, della natura, della forma, della bellezza esteriore e sensibile; cercaron di essere pagane in una società cristiana. Se non che in esse la forma greco-romana venne lentamente, inconsapevolmente ravvivata da uno spirito nuovo e ne nacque quell'arte del Rinascimento, che è una creazione tutta italiana, quasi una prima conciliazione intellettuale del Cristianesimo col Paganesimo, dello spirito colla natura, del cielo colla terra. Ma nella condotta pratica della vita non era facile il riuscire a trovare una simile conciliazione. Ed in vero una parte non piccola della nostra letteratura, la novella e la commedia soprattutto, che con grande fedeltà ritraggono i costumi ed i tempi, ci rendono immagine del disordine interiore, che travagliava l'animo e l'intelletto italiano. Lo spirito nazionale lottava duramente in mezzo ad una trasformazione politica, sociale ed intellettuale. Sarebbe stato necessario trovar la base d'una morale naturale e razionale, che, rispettando le condizioni reali, pratiche della vita, non si trovasse in contrasto con i precetti della religione rivelata; conquistare la indipendenza della ragione o della coscienza, senza distruggere la santità della fede. Ma quando l'Italia, dibattendosi ancora in questa lotta, vedeva già incominciare a sorgere sull'orizzonte una nuova luce intellettuale, che poteva far sperare un migliore avvenire di civiltà e di moralità, l'Europa le piombò addosso e la soffocò, accusandola poi d'aver lasciato compiere ad altri l'opera da essa gloriosamente iniziata.

Senza aver ricevuto una grande cultura classica, il Machiavelli cominciò subito ad ammirare anch'egli, sopra ogni altra cosa, l'antichità pagana, massime i Romani. Colla loro storia e letteratura si formò in fatti il suo spirito. La natura lo aveva dotato d'una straordinaria chiarezza ed acutezza di mente; d'un gusto squisito per la eleganza della forma; d'una fantasia vivacissima, che, senza renderlo veramente poeta, pur lo dominava di continuo; d'uno spirito mordace e satirico, che vedeva il lato comico delle vicende umane, e dava maggior forza all'atticismo pungente di quei sarcasmi, che gli procurarono tanti nemici e detrattori. La sua indole non era, come da molti fu creduto, cattiva, nè di lui si potè mai citare una sola azione malvagia. Ma i suoi costumi erano molto liberi, sebbene assai meno di quanto apparirebbe dal linguaggio che, secondo l'uso di quei tempi, egli usava nelle lettere e nelle commedie. Alla moglie, ai figli restò sempre affezionato in tutta la vita, fino alla morte. Viveva però tutto nell'intelletto, lì era la fonte vera della sua grandezza. Fra le doti della sua mente, quella che sopra ogni altra predominava e per la quale di gran lunga superava i contemporanei, era una singolare facoltà di ritrovar le vere cagioni dei fatti storici e sociali. Non fu mai un paziente indagatore di minuti particolari, e non ebbe neppure quel genio speculativo che si leva a considerazioni metafisiche, astratte sulla natura dell'uomo, dalle quali sembrava anzi rifuggire. Ma nessuno poteva al pari di lui ricercare, scoprire le origini e le conseguenze d'una rivoluzione politica o d'una trasformazione sociale; nessuno al pari di lui vedeva le qualità che determinano la natura d'un popolo o d'uno Stato: nessuno poteva come lui esporre quale era il carattere vero, non tanto di questo o di quel sovrano o capitano in particolare, quanto del sovrano, del capitano, dell'aristocrazia, del popolo in generale. Su di ciò si fondava la sua scienza politica, in ciò si manifestava la straordinaria originalità della sua mente.

E queste medesime qualità eran quelle che lo spingevano irresistibilmente a vivere in mezzo agli affari, fra i quali trovava materia continua alle proprie osservazioni e riflessioni. Ma negli affari il Machiavelli non potè mai avere grande fortuna, perchè, non ostante le molte e rare attitudini che aveva per essi, non possedeva abbastanza quello spirito pratico, che fa conoscere subito il carattere personale degli uomini, e trovare come per istinto il modo di condurli e dominarli. In ciò era anzi superato da molti de' suoi contemporanei, specialmente dal Guicciardini. Entrato nella cancelleria della Repubblica, egli non fu in sul principio altro che un segretario eccellente. La cura assidua da lui posta nei doveri d'ufficio, la sua attività febbrile, la tendenza a meditare e proporre sempre nuovi disegni, gli fecero guadagnare la fiducia del Soderini, che lo adoperò subito in affari di maggior momento; ma egli restò sempre un subordinato.

Il fatto che decise l'indirizzo de' suoi studî e della sua mente, che gli aprì la via già dalla natura a lui predestinata nella scienza, ed incominciò la sua vera educazione politica, fu la legazione al Valentino. Si persuase allora che un avventuriero di pessimo carattere morale, capace d'ogni più malvagia azione, poteva avere grandi qualità come uomo di Stato e come capitano. Percorrendo una via sanguinosa di tradimenti, il Duca riuscì in fatti ad estirpare i più tristi tiranni della Romagna, e vi fondò un governo che ricondusse l'ordine, la quiete, una pronta, sebbene spesso sanguinosa, amministrazione della giustizia in mezzo a quelle fiere popolazioni, che si sentirono subito sollevate, incominciarono a prosperare, e si affezionarono al nuovo signore. Se questi fosse stato più buono o men tristo, se avesse esitato, la sua pietà, pensò il Machiavelli, sarebbe stata crudele; e l'immagine del Valentino gli apparve come la vivente personificazione dell'enigma che travagliava il secolo, e cominciò a spiegargliene il significato. Cominciò a veder chiaro, che la politica ha fini e mezzi suoi proprî, i quali non son quelli della morale individuale; che le virtù e la bontà privata possono qualche volta fermare a mezzo l'uomo di Stato, rendendolo incerto, senza farlo riescire nè buono nè tristo, che era il peggio di tutto, secondo il Machiavelli. Non bisogna mai esitare, egli diceva, ma entrare risolutamente in quelle vie che la natura delle cose dimostra necessarie. Esse saranno sempre scusate, quando conducono al fine desiderato e necessario, alla formazione, cioè, alla grandezza e forza dello Stato. Colui che in ciò riesce, anche per vie malvagie, potrà certo, come privato cittadino, essere biasimato; ma meriterà pure, come principe, gloria immortale. Se invece manda a rovina lo Stato, sia pure per la bontà del suo animo che lo fa esitare, sarà sempre come principe inetto, condannato. Tale è il vero significato della massima del Machiavelli: il fine giustifica i mezzi.

Queste idee non lo abbandonarono più in tutta quanta la vita, e furono la base su cui cominciò a costruire le sue dottrine politiche. Ma tornato a Firenze, gli affari incalzanti non gli lasciavano tempo a meditare o scrivere libri. Le sue varie legazioni gli dettero occasione di esaminare l'ordinamento politico e militare della Francia e della Germania che egli ritrasse mirabilmente ne' suoi dispacci, nelle sue relazioni. Imparò così a conoscere gl'immensi vantaggi che vengono alla forza d'una nazione, al benessere universale dalla formazione d'un grande Stato, di un esercito forte. Questo esame che potè fare degli ordinamenti militari in varî paesi, massime la Svizzera e la Germania; l'esperienza avuta nelle guerre d'Italia, sopra tutto di Pisa; lo studio indefesso che fece nella storia degli eserciti greci e romani, gl'insegnarono a deplorare i soldati mercenarî, i capitani di ventura, e sorse così innanzi alla sua mente l'ideale d'un popolo armato e libero. Di qui ebbe origine il concetto della sua Ordinanza, intorno alla quale fece tanti studî, e spese invano tante fatiche. Ma queste idee, che s'andavano via via formando nella sua mente, vi restavano come frammenti staccati, non si potevano coordinare in un sistema scientifico, finchè egli era costretto a girar di continuo pel territorio fiorentino o anche fuori, a scrivere nel suo ufficio lettere infinite per affari, spesso di assai piccola importanza. Si provò per distrazione a comporre alcuni versi, ad abbozzare qualche commedia; ma erano lavori che restavano assai spesso interrotti, per mancanza di tempo e di quiete. Pure le sue osservazioni sociali e politiche sugli uomini e sugli affari, continuavano sempre, e crescevano d'importanza, massime quando la Repubblica si trovò in momenti difficili, tra pericoli che d'ora in ora ne minacciavano l'esistenza. Egli la servì fino all'ultimo con fedeltà, con disinteresse grandissimi, e fece di tutto per impedirne la caduta, che fu inevitabile. Così dopo quattordici anni d'indefesso lavoro, dopo aver compiuto molte legazioni, dopo aver maneggiato grandi somme di danaro per l'ordinamento delle milizie e le spese della guerra, si trovò finalmente senza ufficio, povero come prima.

La caduta della Repubblica fu di certo pel Machiavelli una grande sventura, perchè lo cacciò dagli affari e lo ridusse nelle più gravi strettezze economiche; ma fu da un altro lato una grande fortuna, perchè gli fece scrivere quelle opere che lo resero immortale. Se egli fosse rimasto sempre nella cancelleria, noi non avremmo di lui avuto altro che le legazioni. Tornato invece alla vita privata, cominciò a raccogliere le proprie idee, ad ordinarle, ed il suo orizzonte intellettuale s'andò subito grandemente allargando. I Medici, divenuti allora potentissimi in Roma ed in Firenze, gli rendevano impossibile sperare il pronto risorgimento del governo popolare nella sua Città, ed egli si rivolse quindi a meditare sulla costituzione di un forte Stato italiano. Così potè concepire il suo sistema scientifico, il quale ebbe un doppio carattere, teorico e pratico ad un tempo. Esso pone in fatti le basi di una nuova scienza politica, della quale il Machiavelli fa continua applicazione all'Italia del suo tempo, cercando i modi pratici, per ordinarla in nazione, riconducendola a vera grandezza. Questo doppio concetto fu da lui esposto nel Principe, nei Discorsi, nell'Arte della Guerra; si trova più o meno, sotto forma diversa, in tutte quante le sue opere. Duplice è anche la base scientifica del sistema, perchè si fonda sulla esperienza e sulla storia, la seconda venendo di continuo a riconfermare le conclusioni della prima. Anche nelle Storie, che furono l'ultima delle opere letterarie del Machiavelli, noi lo troviamo animato sempre dallo stesso concetto politico, da cui lo vedemmo dominato del pari in mezzo agli affari, che prima glielo ispirarono, e da cui fu accompagnato sino alla morte. In esse a lui parve di vedere i grandi avvenimenti cagionati sempre dalla volontà, dall'audacia e prudenza di qualche gran principe o uomo di Stato. E si persuase sempre più, che la rovina d'Italia fu conseguenza inevitabile delle sue divisioni, le quali aprirono di nuovo la via alle invasioni straniere, provocate, secondo lui, sopra tutto dall'ambizione dei Papi. L'Italia, egli concluse costantemente, non sarà mai felice, grande, libera davvero, se non sarà unita, il che può esser solo l'opera di un principe riformatore. E questo principe, che gli era apparso la prima volta sotto le forme del Valentino, come una volontà sicura e intelligente, che ordina e disordina, fa e disfà i popoli a suo arbitrio, divenne più tardi nella sua mente un uomo che operava quasi come una forza della natura, perdeva quindi il suo carattere personale, e con esso ogni valore morale. Pel Machiavelli l'uomo di Stato si fonde e confonde con quella che è l'opera sua propria, dalla quale e dal fine che con essa consegue, deve essere giudicato. È un individuo, la cui individualità si dilegua nella moltitudine che rappresenta, nell'opera che è chiamato a compiere.

Così fu concepito e scritto il Principe. Esso ci espone la difficile impresa del riordinamento politico di una nazione in genere, dell'Italia in ispecie, personificandola in un uomo, nel quale la coscienza individuale, morale è destinata, temporaneamente almeno, a scomparire. È forza rimuovere ogni ostacolo al compimento della grande impresa, senza lasciarsi fermare da nessuna considerazione di onesto o disonesto. Questa che fu la via per la quale s'andò formando nella mente del Machiavelli il concetto dell'organismo politico e nazionale dello Stato, fu anche la via per la quale lo Stato stesso s'andò storicamente formando nella realtà. Ciò dà un grandissimo valore al concetto fondamentale del suo libro, e ci spiega il fascino singolare che esso esercitò sulla mente dei pensatori e dei politici, non ostante le critiche e le calunnie con cui fu continuamente assalito. Il metodo dal Machiavelli seguìto lo costrinse ad esaminare con la medesima impassibilità il principe buono ed il principe scellerato, dando all'uno ed all'altro consigli adatti a raggiungere i loro intenti, consigli che esso ricavò da uno studio continuo di tutto ciò che nella storia antica e nella moderna aveva veduto avvenire. Il caso di coscienza che a noi si presenta inevitabile, sembra che non si presenti mai a lui. Egli non domandò a sè stesso, se la immoralità dei mezzi adoperati poteva, anche ottenendo temporaneamente il desiderato fine, distruggere le basi stesse della società che si voleva fondare, e rendere a lungo andare impossibile ogni buono, forte e sicuro governo. Nè domandò se come v'è una morale privata, vi sia anche una morale sociale e politica, che imponga del pari limiti da non doversi in nessun caso oltrepassare, dando alla condotta dell'uomo di Stato una norma che, pur essendo diversa, secondo i tempi e le condizioni sociali, sia regolata anch'essa da principî sacrosanti. Questo è il lato debole, fallace della sua dottrina; quello che ci allontana da lui, ci fa qualche volta orrore, ed è stato la sorgente continua delle accuse e delle calunnie. Ma quando il Machiavelli, dopo la sua analisi, la sua crudele vivisezione, viene alla conclusione finale e pratica dell'opera, allora solamente se ne vede chiaro lo scopo, e se ne possono misurare i pregi e i difetti. Si trattava di costituire l'unità della patria, liberandola dallo straniero; questo avrebbe dovuto essere la mira costante, universale degl'Italiani. Ma nelle condizioni in cui l'Italia e l'Europa si trovavano, non era sperabile conseguire un tal fine, senza ricorrere ai mezzi poco morali di cui la politica di quei tempi si valeva, e che soli sembravano allora possibili. Incalzato da un tal pensiero, dominato dal suo soggetto, il Machiavelli non si fermò a distinguere lo scopo scientifico, generale e permanente dell'opera, dallo scopo pratico e immediato, dai mezzi transitori, che potevano in quel momento sembrare o anche essere necessarî a conseguirlo. Concludeva perciò, generalizzando, che la santità del fine giustifica i mezzi. E ripeteva nuovamente, che l'uomo politico deve tutto osare, pur di riuscire, anche con la violenza, col ferro e col sangue, a redimere la patria, a costituire lo Stato. Spetterà poi al popolo dare alla patria redenta la libertà, difenderla colle armi, consolidarla con la virtù.

Questo secondo concetto è l'argomento dei Discorsi. Essi infatti cominciano con quella che è l'idea fondamentale del Principe; ma si fermano poi a dimostrare come il popolo debba impadronirsi del governo, una volta fondato colla forza, per farlo prosperare con gli ordini liberi. Inesauribile è qui la infinita varietà delle osservazioni giuste, profonde, pratiche, con le quali viene iniziata e svolta la nuova scienza dello Stato. In tutte le letterature difficilmente si troverebbero pagine che, anche da lontano, possano paragonarsi a quelle con cui i Discorsi esaltano l'amore della libertà, la devozione alla patria, il sacrifizio di ogni interesse privato al pubblico bene. In esse e nella esortazione del Principe il patriottismo del Machiavelli si manifesta con un entusiasmo ed una eloquenza che sono insuperabili davvero. Il carattere dello scrittore s'innalza allora dinanzi ai nostri occhi, la sua figura sembra illuminarsi di luce improvvisa; ed egli assume addirittura eroiche proporzioni, quando ci ricordiamo, che questo patriottismo non solo ispirò la sua mente, ma guidò anche la condotta della sua vita.

Il popolo, egli osservò inoltre, a voler essere libero veramente, deve essere armato, e questo lo spinse a scrivere l'Arte della Guerra. Il lungo studio fatto sul diverso ordinamento degli eserciti nazionali e stranieri, antichi e moderni lo condusse al concetto della sua Ordinanza, e gli fece dichiarare altamente, che la forza vera degli eserciti sta nella virtù pubblica e privata, non meno che nella bontà degli ordinamenti militari. L'educare gl'Italiani alle armi, ad esser sempre pronti a dare la vita e tutto alla patria, sarà, egli conclude, il solo efficace principio del risorgimento nazionale. Ed anche in quest'opera esalta la virtù con un calore, con una convinzione, che gl'ispira una eloquenza, che non era di parole solamente. Ed in verità, come noi più volte abbiam visto, gli anni migliori del Machiavelli, tutte le sue forze, la sua costante, irrefrenabile attività, vennero, ogni volta che se ne presentò l'occasione, dedicati a porre in atto le idee che furono poi esposte nell'Arte della Guerra. Quando noi lo vediamo predicare la necessità di armare il popolo, di educarlo a morire per la patria, e con indomita persistenza convincere di ciò il Soderini e la repubblica di Firenze, come si può non ammirarlo? Ma egli non si fermò a questo, che nella sventura e sotto le persecuzioni dei Medici, ricominciò da capo la stessa propaganda fra i giovani degli Orti Oricellari. Più tardi ancora, dimentico di sè, de' suoi privati interessi, dell'età avanzata, della mal ferma salute, cercò di convertire alla sua fede patriottica lo stesso Clemente VII. Offrendosi pronto ad iniziare, vecchio com'era, l'opera generosa in quei giorni funesti, nei quali gli eserciti di Carlo V s'avanzavano a danno di Roma, di Firenze, dell'Italia tutta, finiva coll'infondere una momentanea scintilla di entusiasmo nell'animo stesso, sempre incerto e vacillante di quel papa. Allora è forza riconoscere che v'è davvero in lui una grande, una nobile passione, che lo redime, lo rialza, lo pone al di sopra di tutti i suoi contemporanei: un amore vero, ardente, irresistibile della libertà e della patria, un'ammirazione sincera della virtù. Così la fronte di colui che, con tanta ostinazione, ci fu sempre descritto come la personificazione del male, dell'inganno, si circonda a un tratto d'un'aureola luminosa ed inaspettata.

Tale è il processo che seguì la mente del Machiavelli nelle varie sue opere. Separandole, non se ne può vedere l'intima connessione; si smarrisce il loro scopo, e si dà luogo alle più strane interpretazioni e calunnie. Riunendole, non solo se ne comprende assai meglio tutto il grande valore; ma si vede anche quale fu la via che il pensiero nazionale, individuandosi in lui, tenne per cercar di uscire dalle dolorose contradizioni in cui si travagliava. L'Italia era divenuta incapace d'una riforma religiosa, quale seguì in Germania ed in Inghilterra. Invece di slanciarsi verso Dio, come già le aveva predicato il Savonarola; invece di cercar forza in un nuovo concetto della fede, quale fu predicato da Martino Lutero, si volse all'idea dello Stato e della patria, che solo col sacrifizio di tutti al bene comune si possono solidamente costituire. Pareva che questa fosse l'unica via allora possibile fra noi ad una vera redenzione nazionale. L'unità della patria risorta avrebbe reso necessaria, inevitabile la ricostituzione della morale, riacceso la fede nella virtù pubblica e privata, fatto trovar modo di santificare di nuovo lo scopo della vita. Questo concetto, che noi troviamo vagamente e debolmente sentito da moltissimi dei nostri più grandi scrittori e statisti in quel tempo, fu il pensiero dominatore del Machiavelli, l'ideale a cui sacrificò la sua vita intera. Ma la decadenza nazionale era divenuta inevitabile, gli avvenimenti incalzavano inesorabili, ed egli morì dinanzi allo spettacolo dell'Italia che andava in rovina, invasa dagli stranieri. Il suo grande pensiero rimase perciò un sogno, ed egli fu quindi l'uomo meno compreso e più calunniato che la storia conosca. Oggi che il popolo italiano ha incominciato a redimersi politicamente, che la patria si è costituita secondo la profezia del Machiavelli, il cui sogno divenne una realtà, è venuto il momento in cui può essergli finalmente resa giustizia.

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