CAPITOLO XVIII.

Il Machiavelli inviato al campo presso Roma. - Suo ritorno a Firenze. - Nuove calamità e nuovi dolori. - Malattia e morte. - Testamento. - Preteso sogno del Machiavelli.

Che cosa era intanto avvenuto del Machiavelli, il Provisor murorum, che con grande ardore, sebbene con iscarso profitto, s'era adoperato a fortificar le mura della sua nativa città, e che, per salvarla dall'assalto e dal saccheggio dei soldati imperiali, aveva corso più volte l'Italia? Nei primi di maggio egli era stato, in compagnia di Francesco Bandini, rimandato presso il Guicciardini, che si trovava allora nello Stato della Chiesa, e sempre più s'avvicinava a Roma, sperando invano di far qualche cosa per salvare almeno la persona del Papa. Dovevano i messi fiorentini informarsi dello stato delle cose, e chiedere, in nome del Passerini e del Governo, se qualche cosa si poteva fare per venire in aiuto di Sua Santità. In sostanza però non c'era allora a Firenze nè voglia nè modo di far nulla. Il Guicciardini li mandò subito a Civitavecchia, dove trovavasi Andrea Doria ammiraglio delle navi pontificie, affinchè gli esponessero quali erano i disegni possibili per liberare il Papa, e gli chiedessero se poteva dare aiuto ad attuarli. Dovevano in ogni caso sollecitarlo a mandare le vettovaglie già promesse all'esercito, che, per la mancanza di esse, minacciava sbandarsi d'ora in ora. Il 22 maggio il Machiavelli ed il Bandini scrissero, che il Doria non voleva adoperar le sue navi nè a prender vettovaglie nè ad altro, dovendo tenerle a disposizione del Papa, cui potevano occorrere da un momento all'altro, quando gli riuscisse evadere dal castello. Offriva solo un brigantino o una galea, di cui potevano valersi per tornarsene a Livorno. Lodava in genere il disegno d'un improvviso assalto, meditato dal Guicciardini per liberare il Papa; ma sembrava prestar poca o nessuna fede alla riuscita. E questa è l'ultima lettera che abbiamo di mano del Machiavelli. Con la rivoluzione ed il mutamento di governo seguiti a Firenze, cessò di fatto ogni suo ufficio, ed egli s'affrettò a tornarsene in patria, ove dovette ben presto seguirlo anche il Guicciardini.

L'uno e l'altro di questi due grandi Italiani sentivano d'essere ora ridotti in tristissime condizioni. Il Guicciardini, avversario del governo popolare, legato indissolubilmente al destino del Papa e dei Medici, dopo averli con grande intelligenza e fedeltà serviti, trovava la Città in balìa de' suoi nemici; gli fu quindi necessario andarsene ben presto in volontario esilio, tenendosi fortunato se non gli confiscavano i beni. Ma questa sua infelice condizione aveva almeno il vantaggio di essere chiara e decisa: non gli restava altro che sperare ed aspettare il ritorno dei Medici, coi quali solamente poteva risorgere la sua fortuna. Ben diversa, ben più triste era invece la condizione in cui si trovava il Machiavelli. Repubblicano di buona fede, egli era caduto in disgrazia con la rovina della libertà. Dopo molte sventure e grandi strettezze, era stato finalmente adoperato dai Medici in assai modesti ufficî, quando essi, d'accordo in ciò con tutta la cittadinanza, erano animati dal comune desiderio di salvare la patria dagli stranieri. A questo nobile fine egli, sentendosi come ringiovanito, aveva speso tutta l'attività, tutta l'energia de' suoi ultimi anni, sebbene fossero già presso ai sessanta, e la sua salute fosse divenuta assai mal ferma. Di giorno, di notte, col freddo, col caldo, fra le armi dei nemici, esposto a continui pericoli, non aveva avuto mai posa. Ad un tratto, tornando ora a Firenze, doveva involontariamente, ma fatalmente apparire come un nemico della libertà che tanto aveva amata, e della indipendenza della Città cui aveva dedicato tutte le sue forze. Egli in fatti tornava adesso come un servitore dei tiranni già caduti e cacciati. Che cosa poteva mai sperare? Non v'è dunque da maravigliarsi di ciò che più tardi raccontò nelle sue lettere il Busini, che cioè il Machiavelli, tornando a Firenze insieme con Piero Carnesecchi e con una sorella di costui, fu sentito più volte dolorosamente sospirare. Di certo non sospirava per rammarico della ricuperata libertà che, come dice lo stesso Busini, egli «amava straordinarissimamente,» ma pel dolore invece di doverne essere tenuto nemico. Ora bisognava fortificare le mura, armare i cittadini, e per mezzo dei liberi ordini animarli agli eroici sacrifizî in difesa della patria. Questo il Machiavelli aveva sempre sperato, sempre insegnato, sempre voluto; e da questo doveva ora restare lontano, di questo doveva inevitabilmente apparire nemico!

In fatti, non appena fu arrivato a Firenze, trovò che, tutti s'occupavano a riordinar la Repubblica, ad apparecchiar la difesa della Città; ma nessuno pensava a lui, ognuno anzi lo guardava con diffidenza, e quasi lo fuggiva. Gli amici dei Medici andavano la più parte in esilio, o si nascondevano; quelli che avevano saputo voltar faccia in tempo, per farsi credere ardenti fautori del nuovo governo, più degli altri cercavano di evitarlo, perchè egli faceva ricordare il loro passato, non essendo uomo nato a fare il tribuno, mutando clamorosamente abito e modi. Nè i veri repubblicani potevano certo guardar di buon occhio colui che aveva accettato di servir fedelmente i Medici, sia pure a difesa della Città. Tutto ciò lo afflisse profondamente; ma il dolore divenne anche più acuto, quando ebbe una prova visibile e tangibile dello stato vero in cui egli si trovava ora in Firenze, di fronte ai suoi concittadini. Il 10 giugno, essendo stati aboliti gli Otto di Pratica, e ristabiliti invece i Dieci della Guerra, il segretario Niccolò Michelozzi, rimasto sempre fido strumento dei Medici, fu dimesso, e doveva essere sostituito da un altro. Il Machiavelli aveva assai onorevolmente tenuto quell'ufficio al tempo del Soderini, aveva recentemente provveduto alla fortificazione delle mura; era quindi naturale il supporre che si pensasse anche a lui. Ma con un'altra deliberazione dello stesso 10 giugno, venne nominato a quel posto un tal Francesco Tarugi, senza che dell'antico compagno di Marcello Adriani e del Soderini alcuno mostrasse pur di ricordarsi. Ciò dovette riconfermargli, che ormai tutto era per lui finito, che nessuna speranza, nessuna illusione più era possibile. Non poter servire la patria in pericolo, non poter difendere la libertà, le quali tanto aveva amate, per le quali tanto aveva sofferto, fu questo il dolore a cui non potè sopravvivere Niccolò Machiavelli.

Se un tal dolore fu la sola causa immediata della sua morte, è impossibile dirlo. Certo è che dopo pochi giorni, il 20 giugno, egli, che già da lungo tempo soffriva nella digestione, si sentì assai male. Par che prendesse allora la sua solita medicina, la quale questa volta non gli avrebbe giovato punto; venne anzi assalito da fierissimi dolori colici, e ben presto si trovò in fin di vita. La moglie, i figli, gli amici furono subito intorno al suo letto. Il giorno preciso della morte non è conosciuto, ma dovette essere poco prima del 22 giugno 1527; giacchè, come fu osservato già dal Mordenti, il Libro dei Morti in Archivio dice che in quel giorno il Machiavelli fu sepolto in Santa Croce. Una breve lettera, attribuita al figlio Piero e molte volte ristampata, lo dice morto il 22, ed aggiunge che «si lasciò confessare le sue peccata da un frate Matteo, che gli ha tenuto compagnia fino a morte.» La lettera non è però autografa, e sulla sua autenticità il Tommasini (II, 902 e seg.) ha giustamente sollevato gravi dubbi. Sembra tuttavia vero che, morendo, il Machiavelli volesse assistenza religiosa. E non deve recar nessuna maraviglia se, dopo aver detto tanto male dei papi, dei preti e dei frati, si lasciasse confessare. Era quello che facevano allora tutti in Italia. Egli del resto aveva parlato molto della corruzione del clero, dei mali che la Chiesa aveva recati all'Italia; non aveva però mai impugnato i dommi della religione, non gli aveva anzi neppure discussi.

Nel 1522 il Machiavelli aveva fatto il suo secondo testamento, e con esso lasciava eredi i quattro figli maschi, Bernardo, Lodovico, Guido e Piero; alla figlia Bartolommea o Baccia, che sposò poi Giovanni padre di Giuliano dei Ricci, lasciava gli alimenti, ai quali ella aveva diritto per legge. Non sappiamo se riuscisse a costituirle, sul Monte delle Fanciulle, una piccola dote, come nel testamento stesso diceva di voler fare. Verso la moglie Marietta adoperava parole di stima e di affetto sinceri, inalterati, nominandola amministratrice e tutrice dei figli minorenni.

Non ostante però la morte cristiana e l'affezione da lui dimostrata sino all'ultimo alla moglie, ai figli, non mancarono, com'era da aspettarsi, aneddoti più o meno malevoli, inventati allora e dopo dai detrattori, i quali neppure nell'agonia vollero lasciarlo in pace. Il Giovio, ne' suoi Elogia, affermò che il Machiavelli era morto celiando, per abuso d'una medicina con la quale si credeva al sicuro dalle malattie. Il Busini, che gli fu anch'egli sempre avverso, scrivendo al Varchi nel 1549, diceva che morì in parte di naturale malattia, in parte pel dolore di vedere, che all'ufficio cui egli aspirava e credeva di avere diritto, veniva eletto Donato Giannotti. Ma ciò, come abbiam visto, non è vero, perchè fu nominato invece il Tarugi, il quale morì poco dopo, ed ebbe a successore il Giannotti nell'ottobre dello stesso anno, quando cioè da più mesi anche il Machiavelli aveva cessato di vivere. Il Busini aggiunse, che questi appena s'ammalò prese le sue solite pillole, e sentendosi molto aggravare, «raccontò quel tanto celebrato sogno a Filippo (Strozzi), a Francesco del Nero ed a Iacopo Nardi e ad altri; e così si morì malissimo contento, burlando.» Non dice qual fosse questo celebrato sogno, che più tardi venne da molti ripetuto, ma che non ci è riuscito di trovar narrato da nessuno dei contemporanei. Il Ricci, biasimando aspramente le parole con cui il Giovio sembra alludere a celie ed a poco rispetto dal Machiavelli mostrato alla Divinità nell'ora estrema, afferma che in tutto ciò non v'è ombra di vero, essendo tutte invenzioni malevole e calunniose. La medicina presa era blandissima. Il Machiavelli suo avo era morto cristianamente, circondato dagli amici e dai parenti. La Marietta, i loro figli, tra i quali la Baccia, madre dello stesso Ricci, non avevano mai fatto cenno di queste false dicerie. E in verità il Machiavelli era assai innanzi cogli anni; s'era recentemente esposto a tutte le intemperie, viaggiando di giorno e di notte, col caldo e col freddo; era tornato a Firenze, dopo aver traversato la campagna di Roma, il cui clima è sempre più o meno insidioso; l'animo suo era stato da un pezzo lacerato da continui dolori morali, divenuti negli ultimi giorni ancora più crudeli. Tutto questo è più che sufficiente a dar ragione della sua morte, senza che vi sia bisogno di strane spiegazioni, e rende impossibile credere che egli potesse avere alcuna voglia di celiare accanto al confessore, in mezzo alla moglie ed ai proprî figli, che abbandonava per sempre.

Pure il sogno, che gli amici ed i parenti vicini ignoravano, i lontani e sopra tutti i posteri lo raccontarono. Secondo questi, il Machiavelli vide, dormendo, una moltitudine di genti affamate e misere. Chiese chi erano, e gli fu risposto: i beati del Paradiso. Dopo che questi furono scomparsi, si presentò una moltitudine di uomini gravi, i quali ragionavan di politica, ed in mezzo a loro vide illustri filosofi greci e romani: erano i dannati alle pene eterne dell'Inferno. Interrogato allora con chi avrebbe egli preferito d'andare, rispose subito: - Piuttosto nell'Inferno a ragionare di Stato coi grandi spiriti, che in Paradiso, fra quella marmaglia che ho visto prima. - È difficile dire chi sia stato il primo a narrare, ad inventare questo sogno. Il Bayle che ne parla lungamente nel suo Dizionario, cita solo autori assai posteriori al Machiavelli, uno dei quali è il gesuita Binet (1569-1639). Le lettere del Busini però dimostrano chiaro che già assai prima se n'era discorso. Ma più che un sogno, esso apparisce una parodia abbastanza fedele dello spirito pagano e mordace del Machiavelli. Nel principio del quarto Atto della Mandragola, Callimaco, disperato del suo amore poco onesto, dice a sè stesso: «Dall'altro canto il peggio che te ne va, è morire ed andare in Inferno. E' son morti tanti degli altri, e sono in Inferno tanti uomini da bene. Hatti tu a vergognare d'andarvi tu?» Queste espressioni e molte altre simili, che si trovano nelle Storie, nei Discorsi ed altrove, specialmente quando l'autore mette a confronto le religioni pagane col Cristianesimo, poterono dare origine alla invenzione del sogno. Si può anche supporre che in tempi meno infelici, egli medesimo lo avesse, celiando, narrato, non però mai nel momento della morte. Francesco Otomano, che è il più antico autore citato dal Bayle, scriveva nel 1580, dicendo solamente di aver letto nell'opera d'un altro avversario del Machiavelli, come questi, in certo luogo delle sue opere, dichiarasse che dopo la morte avrebbe preferito andare nell'Inferno piuttosto che nel Paradiso, dove avrebbe trovato solo miseri monaci ed apostoli, quando invece nell'Inferno sarebbe stato in compagnia di cardinali, papi, principi e re. Questo conferma, secondo noi, che il sogno fu immaginato cavandolo in parte dalle opere stesse del Machiavelli e dallo spirito che domina in esse, per condannare alcune sue opinioni, giudicate poco cristiane.

Come abbiamo già detto egli fu sepolto in Santa Croce, nella sua cappella gentilizia, che coll'andar del tempo venne abbandonata ad una compagnia religiosa, la quale v'innalzò un altare e vi seppellì alla rinfusa i proprî fratelli, senza che alcuno ne movesse lamento. La famiglia si estinse ben presto; giacchè dei figli del Machiavelli solo Bernardo ebbe discendenti maschi, uno dei quali, Niccolò, fu canonico, e l'altro, Alessandro, morì nel 1597, lasciando una femmina di nove anni, per nome Ippolita, che andò nei Ricci. La cappella gentilizia, come si può creder facilmente, cadde allora in sempre maggiore abbandono, tanto che si perdette perfino la memoria del luogo preciso dov'era. Il nome del Machiavelli, per le ragioni che già abbiamo altrove lungamente esposte, finì coll'essere poco curato, spesso anzi aborrito fra i suoi stessi concittadini. Nel secolo XVIII la sua fama cominciò invece a risorgere, come si vide per le molte edizioni delle Opere, che rapidamente si seguirono. Nel 1760 furono a Lucca pubblicati alcuni suoi scritti inediti, e nel 1767 il proposto Ferdinando Fossi pubblicò in Firenze un volume di legazioni anch'esse inedite. Finalmente nel 1782 venne in luce la grande edizione fiorentina di tutte le Opere, in sei volumi in quarto, la quale per quei tempi era veramente degna del grande italiano. Fu dedicata a lord Cowper, che insieme col granduca Pietro Leopoldo l'aveva efficacemente promossa. Quel nobile Inglese ebbe quasi cittadinanza in Firenze, dove favorì sempre con ardore i buoni studî, e fu grande ammiratore del Machiavelli. Nel 1787 egli volle, insieme con lo stesso Granduca, essere operoso e largo fautore anche dell'idea proposta da Alberto Rimbotti, d'iniziare una pubblica sottoscrizione, per inalzare in Santa Croce un monumento a Niccolò Machiavelli. Innocenzo Spinazzi, scultore non privo di merito per quei tempi di decadenza dell'arte, lo condusse a termine, ed il dottor Ferroni vi pose la semplice e bella iscrizione:

TANTO NOMINI NULLUM PAR ELOGIUM

NICOLAUS MACHIAVELLI

OBIT ANNO A P. V. MDXXVII

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