CAPITOLO XV.

Morte di Adriano VI. - Elezione di Clemente VII.

Battaglia di Pavia. - Congiura del Morone.

Mentre il Machiavelli lavorava ancora a compiere le Storie avvennero fatti che interruppero per sempre i suoi lavori letterari. Improvvise e grandi complicazioni politiche lo ricondussero agli affari, negli ultimi anni della sua vita, che furono assai infelici, perchè dovette assistere alla rovina della patria, senza che i suoi sforzi valessero in modo alcuno a lenirne i dolori.

Il 14 settembre 1523 moriva Adriano VI. La prossima elezione aveva una grandissima importanza, combattendosi nel Conclave le tendenze rivali della Spagna e della Francia, che fuori si disputavano il dominio d'Italia. Il nuovo Papa poteva facilmente far pendere la bilancia da un lato o dall'altro. La gara s'accese perciò vivissima. I cardinali arrivavano da ogni parte; giunse fra gli altri anche il Soderini sempre potentissimo, sebbene allora liberato appena dalla prigionia, in cui Adriano VI lo aveva tenuto. Quando egli s'avvide che Giulio dei Medici, aiutato dalla Spagna, guadagnava rapidamente terreno, s'unì ai fautori di lui, che così fu sicuro del trionfo. Nella notte del 18 al 19 novembre questi venne eletto, e prese subito il nome di Clemente VII. Tutti sapevano che era un bastardo, quantunque si facesse ogni opera per nasconderlo. Si dice che la fortuna arride ai bastardi; ma essa fu invece a lui tanto nemica, quanto in ogni cosa era stata amica a Leone X. A questo in fatti riuscivano bene anche le cose peggio pensate, a Clemente VII riuscivano male anche i partiti più lungamente ponderati. Il suo pontificato fu non meno funesto a lui, che a Firenze, all'Italia ed alla Chiesa.

Assunse la tiara con la reputazione di buoni costumi, di uomo religioso, accortissimo, instancabile al lavoro, conoscitore degli affari e delle umane passioni. Tutti avevano creduto che egli fosse stato la guida di Leone X, e assai più di lui atto a governare. Ma Leone X, quantunque amasse i piaceri e non volesse durare fatica, aveva pure un certo istinto politico, che gli faceva prendere le più grandi risoluzioni senza molto esitare. Del cardinale Giulio s'era valso solamente per avere le notizie che gli occorrevano, a compiere gli studî necessarî alla piena conoscenza degli affari, per eseguire le proprie deliberazioni. Questi era in fatti un attivissimo strumento, e pareva quindi che guidasse colui che invece serviva. «Così,» osserva il Guicciardini, «le faccende messe in mano di due nature tanto diverse, mostravano quanto qualche volta convenga bene la mistura di due contrari.»

Non appena però Clemente VII si trovò solo a reggere gli affari della Chiesa, si vide subito che a lui mancava assolutamente quella facoltà che costituisce il genio pratico dell'uomo di Stato, la quale, facendogli quasi istintivamente calcolare l'impreveduto, lo spinge a decidere ed operare, senza pericolosi indugi. Timido e irresoluto, il nuovo Papa rifuggiva invece da ogni grande responsabilità, e questa debolezza di carattere, che gli fu sempre funesta, veniva accresciuta dalla natura del suo ingegno, il quale, nei più di facili momenti, si perdeva a bilanciare lungamente il pro ed il contra d'ogni partito da prendere. E come se tutto ciò fosse poco, egli prese a suoi consiglieri due uomini di carattere e d'intendimenti opposti: un Italiano, Giovan Battista Giberti, ed un Tedesco, Niccolò Schömberg. Questi, vestitosi frate al tempo del Savonarola, e fatto poi arcivescovo di Capua, era accorto, tenace, impetuoso, e favoriva con ardore la politica spagnuola, dominando il Papa, da cui si faceva quasi temere. Quegli, il Giberti, si faceva invece amare, ed era uomo più d'impeto e di passione che di ragione, tanto che dopo essere stato grande avversario della Francia, n'era divenuto poi non meno caldo fautore. È facile capire come dovesse essere assai pericoloso il veder salire al pontificato un uomo in balìa di tante incertezze, di così opposti consigli, quando s'avvicinava un gigantesco conflitto, il cui esito poteva da un momento all'altro dipendere dalla sua condotta politica.

Primi a sperimentare le conseguenze dall'incerto carattere del Papa furono i Fiorentini. Sebbene egli da lungo tempo li conoscesse, pure cominciò subito a consultare ognuno sul modo in cui doveva farli governare, e da chi. I più gli rispondevano quello appunto che egli voleva, cioè: mandasse nella Città il cardinale di Cortona, Silvio Passerini, con i due giovani bastardi, Ippolito ed Alessandro de' Medici, perchè in loro nome la reggesse. Se non che, il Passerini, durissimo di modi, era affatto incapace. Ippolito de' Medici, che passava per figlio di una Pesarese e di Giuliano, aveva appena sedici anni. Ed anche più giovane era Alessandro, figlio di Lorenzo e d'una schiava mora o mulatta, da cui aveva ereditato la pelle scura, le labbra grosse, i capelli crespi. Questi due giovani erano l'ultimo avanzo del ramo principale dei Medici. Restava anche Giovanni, allora già noto, e ben presto notissimo come capitano delle Bande Nere; ma esso apparteneva ad un ramo collaterale della famiglia, nè fu mai nelle buone grazie del Papa. Alcuni Fiorentini assai autorevoli, quali Iacopo Salviati, Francesco Vettori e Roberto Acciaiuoli, apertamente disapprovarono l'idea di far governare Firenze dal cardinale di Cortona, e dicevano al Papa con pari franchezza, che Ippolito ed Alessandro era meglio mandarli ora a scuola, per vedere se sarebbero poi riusciti uomini di governo. Lasciasse che, sotto la sua protezione, i cittadini si reggessero da sè; aprisse la sala del Consiglio come tante volte aveva fatto sperare. Ma Clemente VII preferì l'avviso di coloro che lo adulavano, e dicendo di volersi attenere al parere dei più, mandò a Firenze i due bastardi col Cardinale. La conseguenza naturale fu che questi si fece ben presto odiare, e l'odio si rivolse poi contro i Medici, crescendo sempre fino a che scoppiò più tardi in aperta ribellione.

Ma assai più gravi erano gli eventi che s'apparecchiavano altrove. La grande lotta tra Francesi e Spagnuoli doveva ora decidersi col ferro. I primi si ritiravano dalla Lombardia, i secondi s'avanzavano pieni di baldanza. Questi erano comandati da valorosi capitani, perchè Carlo V non li nominava, come troppo spesso seguiva in Francia, per lusinghe di donne o intrighi di cortigiani. V'erano Antonio de Leyva ed il marchese di Pescara napoletano di nascita, ma spagnuolo d'origine, ambedue valorosissimi; v'era il celebre Conestabile di Borbone, che aveva clamorosamente disertato la Francia ed il suo re; v'era il vicerè di Napoli, visconte di Lannoy, fiammingo. Francesco I, essendosi deciso a farla una volta finita, passò ben presto le Alpi con un esercito di 50,000 uomini; ed il 21 ottobre 1524 entrò in Milano. Andò poi subito a Pavia, dove Antonio de Leyva s'era chiuso con 4,000 fanti, e colà doveva quindi decidersi ora la gran lite. Gli Spagnuoli facevano di tutto per tirare dalla loro parte il Papa; ma questi al solito esitava. Non poteva desiderare la loro vittoria nè quella dei Francesi, perchè sarebbe in ambedue i casi rimasto a discrezione del vincitore, divenuto arbitro delle sorti d'Italia. L'interesse dello Stato della Chiesa era perciò immedesimato ora con la indipendenza nazionale, e ciò poteva dare alla politica del Papa una grande importanza. Ma nè Leone X, nè Clemente VII osarono mai di sollevarsi all'altezza cui pareva che gli eventi per forza li chiamassero. E sebbene i migliori statisti italiani, fra cui il Machiavelli, li avessero in mille modi eccitati, spronati per questa via, non seppero far altro mai che tergiversare.

Francesco I s'era intanto fortemente trincerato nel suo campo, quando nuovi Tedeschi scendevano ad ingrossare il nemico. Il suo esercito era sempre assai numeroso; ma egli aveva dovuto mandare nel mezzogiorno d'Italia il duca d'Albany con 3,000 fanti e 2,000 cavalli; i suoi Grigioni erano partiti per difendere il castello di Chiavenna, e le nuove genti mandate di Francia in suo aiuto, erano state sbaragliate per via. Gli stava di fronte il grosso del nemico, ed alle spalle, in Pavia, era Antonio de Leyva, che aveva già fatto fortunate sortite, in una delle quali il valoroso Giovanni dei Medici era stato gravemente ferito, e messo così per qualche tempo fuori di combattimento. Nella città cominciavano a mancare i viveri, nel campo imperiale mancavano i danari; e tutto consigliava perciò il Re ad aspettare, a non dare battaglia. Ma il Pescara, cui il tempo stringeva, lo provocava ogni giorno con abilissime scaramucce, ed a lui parve finalmente viltà non accettare. In sul mattino del 24 febbraio 1525 il capitano spagnuolo penetrò nel campo dei nemici, per una breccia aperta la notte, nel muro del parco, in cui essi alloggiavano, e nello stesso tempo il de Leyva uscì da Pavia. I Francesi, che erano già pronti, s'avanzarono schierati in battaglia. Dapprima pareva che la vittoria loro arridesse; ma poi il Pescara, alla testa de' suoi archibusieri, mise in rotta i loro uomini d'arme, ed il Frundsberg diede prova d'ugual valore coi suoi lanzichenecchi. Il de Leyva s'era unito agli altri nel dar l'assalto ai Francesi. Gli Svizzeri, che già a Marignano avevano cominciato a perdere la loro reputazione d'invincibili, si misero in rotta, e così ben presto la vittoria fu degl'imperiali. Caddero quel giorno i migliori capitani di Francia; il suo valoroso esercito fu disfatto, e diecimila cadaveri rimasero sparsi sulla strada che da Pavia conduce alla Certosa. Ma il peggio di tutto fu che venne fatto prigioniero lo stesso Francesco I, il quale scrisse allora a Luisa di Savoia sua madre: «Tutto è perduto fuorchè l'onore e la vita, che è salva.» Il Pescara, il de Leyva e il Frundsberg furono gli eroi di questa battaglia, la più decisiva di quante se n'erano da secoli combattute, perchè essa rese Carlo V il più potente fra tutti i sovrani d'Europa, arbitro dell'Italia, che ormai aveva perduto la sua indipendenza.

Poco dopo la battaglia di Pavia avvenne un fatto stranissimo, che fu molto diversamente interpretato e narrato dagli storici. Esso è, fra le altre cose, una prova assai chiara che gl'Italiani non solo vedevano la disperata condizione in cui si trovavano, ma volevano uscirne, e che le aspirazioni, le speranze espresse dal Machiavelli nella esortazione del suo Principe, eran pure, sebbene assai vagamente e fiaccamente, sentite da moltissimi. Mancava però la virtù necessaria a metterle in atto. Diffidavano tutti gli uni degli altri, e anche per rendersi indipendenti cercavano, speravano aiuto solo dagli stranieri. Non v'era uomo capace d'assumere la direzione della grande impresa: meno d'ogni altro poteva poi quest'uomo essere Clemente VII, che il fato sembrava, quasi per ironia, ostinarsi a fare apparire come il rappresentante delle più nobili aspirazioni nazionali.

Il dì 1° aprile 1525 gl'imperiali che, sebbene vittoriosi, si trovavano senza danaro, vennero ad un accordo, mediante il quale si obbligavano a garantire Milano da ogni assalto nemico. Lo Stato della Chiesa, Firenze, i Medici restavano sotto la protezione dell'Imperatore, al cui esercito, ed era questo il punto essenziale dell'accordo, si dovevano pagare 100,000 ducati. L'insolenza del vincitore, i saccheggi e le continue taglie non cessarono per ciò, anzi crescevano ogni giorno. Gl'Italiani erano quindi sempre più scontenti ed irritati di dover passare, come un branco di pecore, da uno ad un altro padrone, tanto più ora che gl'imperiali, già signori del Napoletano, erano riusciti a farsi padroni della Lombardia. Ma questo scontento, sebbene assai generale, sembrava impotente. I soli che si trovavano in condizione da fare qualche resistenza, erano i Veneziani ed il Papa. Ma i primi pensavano ai loro commerci, alle loro colonie; il secondo non osava e non risolveva mai nulla.

In Francia invece il governo era subito venuto in mano della reggente Luisa di Savoia, ai cui cenni obbediva unanime la nazione, pronta a ripigliare la guerra per vendicare e liberare dalla prigionìa il suo Re. Questo generale ardore di vendetta, questo desiderio di rivincita dava speranza agl'Italiani. E la Reggente, che lo sapeva, fece dire al duca di Milano, e subito dopo anche ai Veneziani, che essa era pronta ad aiutare in Italia un movimento generale per liberarla dal dominio imperiale, rinunziando per parte della Francia ad ogni pretesa sul reame di Napoli, lasciando la Lombardia al Duca. La medesima proposta venne fatta al Papa, che l'accolse subito, e con più ardore degli altri. A lui pareva finalmente di vedere la possibilità di quella guerra nazionale d'indipendenza, che già tante volte gli era stata suggerita, e che i fatti stessi, nell'interesse della Chiesa, ora consigliavano. Essa, così gli avevano detto e con maggiore insistenza molti ripetevano adesso, avrebbe a lui salvato lo Stato, facendogli acquistare quella gloria immortale di liberare l'Italia, che Giulio II aveva un momento sperata, e che lo stesso Leone X aveva più volte invano desiderata. Il datario Giovan Matteo Giberti era quello che più di tutti lo sospingeva e spronava per questa via. Egli s'era in verità cosiffattamente acceso nell'idea d'una guerra nazionale, che incominciò, per mezzo delle sue lettere ai nunzi e messi straordinari del Papa, a riscaldare l'animo di tutti i potentati italiani, perchè non perdessero «l'occasione, che non potria essere al mondo più bella, di liberarsi e acquistar gloria eterna.» Così scriveva il dì 1° luglio 1525 ad Ennio Filonardi nunzio nella Svizzera, e il 10 dello stesso mese scriveva all'auditore Girolamo Ghinucci: «Mi par di vedere rinnovare il mondo, e da una estrema miseria Italia cominciare a tornare in grandissima felicità.» E così a tutti. In nome del Giberti e del Papa, Domenico Sauli genovese, andò a Milano per fare addirittura la proposta d'una lega italiana colla Francia, a fine di liberare la patria comune. Poco dopo partirono le proposte definitive del Papa alla Francia. E queste erano: Milano resterebbe al Duca, cui gli Svizzeri darebbero aiuto; Napoli e Sicilia verrebbero libere in mano del Papa, che potrebbe disporne. La Francia darebbe 50,000 ducati al mese sino a guerra finita, anticipando subito due mesi, e manderebbe a sue spese 600 lance, 6,000 fanti, con la necessaria artiglieria, e 10 galee o più, secondo gli eventi. Per maggior prova di sicurtà e leale amicizia, una principessa francese andrebbe sposa al duca di Milano. Così si sarebbe fermata un'alleanza perpetua tra la Francia e l'Italia, la quale, appena liberata dagl'imperiali, avrebbe dovuto mandare a sue spese 1,000 lance e 12,000 fanti, per liberare il Re, ed essere in ogni caso pronta a difesa della Francia, che prometteva da parte sua uguale aiuto. Tutto sarebbe stato pronto a cominciare la guerra di qua dalle Alpi, quando la Reggente avesse inviato i primi danari, e dato alle sue genti ordine di mettersi in cammino. Il Giberti, che più di tutti s'era acceso, sollecitava con ogni opera queste trattative, ma faceva nello stesso tempo vive premure ai potentati italiani, perchè, senza neppure aspettare gli aiuti francesi, si desse cominciamento all'impresa.

Intanto la Francia, che a tutta possa spingeva l'Italia, non dava in conclusione altro che parole. Essa trattava con la Spagna per liberare il Re, e quindi la sua politica poteva da un momento all'altro mutarsi. Gl'Italiani poi, non solo diffidavano dei Francesi, ma diffidavano anche di loro stessi, nessuno eccettuato, e però ciascuno voleva tenersi aperta un'uscita pel caso, che gli altri si tirassero indietro. E quindi la maggior parte di loro cercaron subito dare un qualche cenno più o meno indiretto della trama a Carlo V o ai suoi rappresentanti, per potere all'occorrenza dichiarare d'essergli stati sempre amici fedeli. Continuavano tuttavia con ardore le pratiche iniziate per l'impresa, deliberati a profittarne, quando le cose riuscissero, come allora si diceva, ad votum. Tale era pur troppo la politica del tempo. Carlo V e i suoi si conducevano, come vedremo, con la stessa mala fede. I Veneziani approvavano l'impresa, ma dicevano di rimettersene a ciò che farebbe il Papa. Questi, che aveva primo cominciato a stringere i segreti accordi, faceva in pari tempo dire all'Imperatore, che stesse attento ai suoi capitani in Italia. Il duca di Milano, che aveva accolto con favore i suggerimenti della Francia, ne rendeva, per mezzo del suo segretario Morone, consapevole il Vicerè, che consigliava di continuare la pratica, per vedere dove la fosse per condurre. Intanto lo stesso Morone continuava a trattare per ottener dall'Imperatore l'investitura del Ducato allo Sforza.

E finalmente arrivò il genovese Domenico Sauli, portando da Roma la proposta concreta della lega italiana contro gl'imperiali. L'occasione pareva allora singolarmente propizia. Francesco I aveva chiesto d'essere mandato nella Spagna, per parlare con Carlo V, ed il Vicerè ve lo aveva condotto all'insaputa del Borbone e del Pescara, che s'erano vivamente opposti, perchè volevano invece tenerlo in Italia, e cavarne profitto. Il Pescara sopra tutti n'era rimasto irritato contro il Vicerè, e nell'ira lo accusava d'essersi mostrato vile a Pavia, avendo più volte gridato: Noi siamo perduti! Aggiungeva d'esser pronto a provarglielo con la spada in mano. E pareva che fosse irritato anche contro l'Imperatore, che si diceva avesse consentito al Vicerè. Per queste ragioni il Sauli trovò grande ascolto, quando fece al Morone la proposta della lega, ed espose, in nome del Papa e del Datario, l'idea d'offrire al Pescara, che sapevano irritato e scontento, il regno di Napoli, se entrava deliberatamente nell'impresa, assumendone la direzione militare. Il segretario dello Sforza parve subito come invasato dalla proposta, e da quel momento fu il maneggiatore principale della congiura, il grande agitatore della politica italiana, senza per questo smetter di sollecitare dall'Imperatore l'investitura del Ducato pel suo signore. Anch'egli, anzi egli più di ogni altro, cercò di tenersi sempre aperta una via alla ritirata, la quale poteva da un momento all'altro divenire necessaria. E lo fece in un modo affatto proprio del suo strano carattere, del suo singolare ingegno, della sua audacia, di quella mala fede, che era grande in lui ed in tutti i politici del secolo. Così ne nacque una specie di tenebroso dramma, che restò per lungo tempo inesplicabile, ed anche oggi, dopo tante nuove ricerche e documenti venuti alla luce, non riesce interamente chiaro.

Il Morone era nato solo un anno dopo del Machiavelli; aveva studiato le lettere latine, le lettere greche e la giurisprudenza. Entrato poi negli uffici politici ed amministrativi, servì come segretario, cancelliere o simili, molti e diversi padroni. E fece per questa via rapido cammino, perchè all'ingegno s'aggiungeva in lui, non solo una singolare audacia ed intraprendenza, ma anche una grandissima accortezza nei raggiri diplomatici, talchè fu subito tenuto una delle prime teste politiche d'Italia. Nel 1499, quando Lodovico Sforza fuggì nel Tirolo, il Morone, che era suo segretario, formulò i patti della resa, e sebbene non venissero accettati dai Francesi invasori della Lombardia, noi lo troviamo subito dopo al loro servigio. Più tardi fu promotore della scelta di Massimiliano, figlio di Lodovico, a duca di Milano, servendolo fedelmente e con coraggio, fino a che quel giovane principe, stanco delle molte traversie, accettò l'esilio perpetuo in Francia. E dopo aver corso altre non poche vicende, quando in Italia risorse la fortuna degl'imperiali, s'adoperò moltissimo a far proclamare duca di Milano, il secondo figlio di Lodovico, Francesco Sforza. Di questo era adesso segretario, e nel nome di lui aveva trattato per la investitura del Ducato, che fu dall'imperatore offerta prima a condizioni inaccettabili, modificate poi ed accettate. Nello stesso tempo pigliava il Morone parte attivissima alla congiura, adoperandosi col Papa per la lega italo-francese contro l'Impero. Assunse sopra di sè il carico di guadagnare il Pescara, iniziando tutte le pratiche con tanto ardore, mostrandosi talmente persuaso di poter riuscire, e continuando con una così febbrile attività, da essere lungamente tenuto come il vero autore d'un disegno, che era stato invece concepito a Roma.

Il Pescara, giudicato allora il primo capitano d'Europa, era uomo ambiziosissimo e senza scrupoli, al che si aggiungeva ora, come dicemmo, l'essere egli irritato per la partenza di Francesco I, e per credersi non apprezzato abbastanza dall'Imperatore. Sebbene di origine spagnuola, e nemico del nome italiano, era pur nato in Italia: non pareva quindi che potesse essere addirittura indifferente alle sorti della sua patria. E la promessa d'un gran regno sembrava certo tal cosa da poter guadagnare l'animo di un uomo siffatto. Il Morone che aveva una fede grandissima nella sua propria capacità, nella propria eloquenza, non dubitava perciò di dover riuscire a fargli assumere un'impresa che gli offriva il modo di vendicare sè stesso, liberando la terra ove era nato, facendo la sua fortuna, acquistando gloria immortale. Si presentò dunque a lui, e dopo aver chiesta ed ottenuta la parola di soldato d'onore, che in ogni caso avrebbe serbato il segreto, gli rivelò il disegno dei collegati, e gli fece la grande offerta. Gli ricordò lo scontento universale e l'oppressione dell'Italia, che invocava un liberatore; gli dipinse con vivaci colori la gloria dell'impresa, la felicità di un regno, la santità di una guerra desiderata dal popolo, aiutata dalla Francia, benedetta dal Papa. Ricorse agli esempî della storia antica e della moderna. Con altra forma, dovettero essere le idee stesse che si trovavano già nella esortazione del Principe.

Ma chi lo ascoltava era un soldato, su cui non potevano nulla l'eloquenza e le ricordanze storiche o patriottiche, il quale guardava solo al presente, al reale, al suo interesse personale. Il Pescara sapeva che valore avevano le armi imperiali, e quanto deboli erano quelle degl'Italiani, sempre discordi, sempre diffidenti gli uni degli altri, e sapeva anco qual certezza c'era da avere negli aiuti promessi dalla Francia, che per liberare il suo Re, poteva da un momento all'altro mutare politica, piegandosi ad ogni patto. Oltre di ciò, egli era già ammalato d'una malattia, che doveva in breve condurlo alla tomba. Non poteva quindi accettar cambiali a lunga scadenza. Ma non era neppure uomo da respingere senz'altro le troppo lusinghiere proposte, che il Morone gli faceva, in nome del Papa e degli altri potentati. In sostanza, o l'impresa diveniva veramente tale da poter riuscire, ed egli allora avrebbe di certo accettato l'offerta, o in nessun modo sarebbe apparso sperabile il condurla a buon termine, ed anche in questo caso a lui sarebbe convenuto far mostra per ora di entrar nella trama, se non altro per conoscerla e trarne sicuro vantaggio, rivelandola all'Imperatore. Intanto poteva dagli alleati cavar danari, che era la cosa di cui più urgentemente aveva bisogno pel suo esercito privo di tutto. Giurato adunque il segreto, e saputo di che si trattava, non accettò nè ricusò d'assumere la direzione dell'impresa; ma ne dimostrò subito le gravi difficoltà, e dichiarò che voleva prima esser sicuro di non violare le leggi cui era tenuto, come soldato d'onore, come vassallo dell'Imperatore. Avrebbe fatto studiare il caso da persone competenti, lo stesso facessero lo Sforza ed il Papa, in termini generali ben inteso, senza nomi di persone, perchè non trasparisse ad anima viva il geloso segreto. Le risposte del Papa e dello Sforza non si fecero molto aspettare, quantunque la troppo ingenua domanda avesse tutta l'apparenza d'un pretesto. Legami verso la patria i generali d'allora non ne avevano, e meno di tutti poteva averli verso la Spagna o l'Impero il Pescara, che era nato a Napoli. Non restavano quindi che i doveri di vassallo, ai quali solamente egli aveva accennato. Ma gli fu subito osservato, che il Napoletano era feudo della Chiesa, e che ai possessi nella Spagna egli poteva, volendo, rinunziare fin d'ora per l'acquisto d'un regno. A lui non si proponeva in fatti nulla di straordinariamente insolito, secondo le idee di quel tempo. Non era il Borbone passato dalla Francia a servizio dell'Impero? Non aveva fatto lo stesso il principe d'Orange, e non era Pietro Navarro passato per dispetto dalla Spagna alla Francia? Se costoro furono dai posteri chiamati traditori della patria, essi continuavano allora ad esser tenuti fra i capitani più stimati e più rispettati, meritevoli di biasimo solamente per avere abbandonato il proprio signore. Il Pescara non era certo uomo da pretendere d'esser più scrupoloso degli altri, e quando avesse voluto mutar bandiera, non gli sarebbero mancate ragioni o pretesti, massime poi essendo istigato dal Papa.

Le trattative andarono perciò innanzi attivissime; ma la Francia prometteva sempre, senza mai muoversi. Il Pescara faceva con insistenza continue domande di danari, che bisognava dargli, e intanto, con generale maraviglia, si sentiva che scendevano dalle Alpi altri Lanzichenecchi. Da per tutto si andava inoltre ripetendo che l'Imperatore era già consapevole della congiura. In fatti d'ogni cosa lo aveva con lettere continue ragguagliato il Pescara, sollecitandolo a conchiudere subito accordi con la Francia, perchè in Italia tutti gli erano nemici, tutti desideravano cacciarne l'esercito imperiale: il nome tedesco e spagnuolo era universalmente odiato. Dalle lettere del Giberti si vede in fatti assai chiaro, come a Roma già si sapesse che la congiura non era più un segreto per nessuno, e si sospettasse che non solo il Pescara, ma anche il Morone tradisse. Questi, appena saputo che si era gravemente ammalato il suo Duca, dichiarò al Pescara, che avrebbe dato il Ducato in balìa dell'Imperatore, piuttosto che vedervi tornare Massimiliano Sforza, mostratosi inettissimo a governare. E non solo lo aveva detto; ma, sebbene i Veneziani ed il Papa, coi quali allora cospirava, si fossero dichiarati contrarissimi, aveva subito apparecchiato ogni cosa, per porre in atto il suo pensiero, quando fosse veramente seguìta la morte del Duca. Ma nessuno aveva mai fatto assegnamento sulla buona fede del Pescara o del Morone; s'era calcolato solo sul loro egoismo, sulla loro ambizione. Si riteneva che, quando la congiura fosse stata per riuscire, vi avevano ambedue troppo da guadagnare, per volerla abbandonare; si era anche convintissimi che avrebbero tradito, e si sarebbero subito rivolti all'Imperatore, quando appena quella probabilità fosse cominciata a venir meno. E quindi ciò che metteva adesso pensiero e sconfortava grandemente era l'arrivo dei Lanzichenecchi, la mancanza di ogni aiuto dalla Francia, la nessuna vicina speranza di averne.

Non mancavano neppure diffidenze tra il Pescara ed il Morone. Questi sapeva d'essere odiatissimo dagli Spagnuoli, e sopra tutti dal de Leyva, che aveva minacciato d'ucciderlo, quando lo avesse avuto nelle mani. Conosceva poi assai bene il Pescara, e aveva detto al Guicciardini: «Non essere uomo in Italia nè di maggior malignità, nè di minor fede.» E da ogni lato lo avvertivano ora, che stesse in guardia, altrimenti avrebbe fatto una misera fine nelle mani di quel tristo. Al quale egli stesso riferì le voci che correvano, aggiungendo però: «Io ho fede in V. S. come in Dio.» In fatti il Pescara stesso, nelle lettere che scriveva a Carlo V, rivelando la congiura, le offerte, i discorsi fattigli dal Morone, aggiungeva di tenersi ben sicuro di poterlo «condurre dove voleva.» Il vero è che giocavano ambedue un doppio giuoco, e n'erano consapevoli del pari. Il capitano imperiale aveva lasciato capire, che non avrebbe esitato a fare davvero, quando avesse potuto esser sicuro della corona promessagli; ma non s'era mai illuso fino a credere che questa sicurezza vi potesse esser davvero. Il Morone invece, come succede spesso ai più furbi, s'era molto illuso, non però quanto s'è voluto supporre da alcuni scrittori. Egli non era affatto cieco alle difficoltà cui s'andava incontro, e sapeva bene che avrebbe messo a rischio la propria testa, se troppo scopriva il Pescara. Pure gli dava qualche sicurtà il sapere quali ambiziosi desideri nel fondo del suo animo questi nascondesse. E da un altro lato gli aveva pure fatto ben capire che, quando l'impresa fosse stata per fallire, anch'egli sarebbe stato pronto a gettarsi con tutte le sue forze a servizio dell'Imperatore. Per tutte queste ragioni adunque, invitato dal Pescara ad andare a conferire con lui, che si trovava ammalato nel castello di Novara, v'andò col de Leyva, sebbene tutti lo avvertissero che correva alla sua estrema rovina.

Il 13 ottobre ebbe un primo abboccamento, il 15 un secondo, uscendo dal quale fu fatto prigioniero e menato nel castello di Pavia, dove il 24 venne il Pescara col de Leyva e l'abate di Nazaria ad esaminarlo. C'era poco da chiedere e poco da rispondere, perchè il Pescara già sapeva tutto, e lo sapeva dal Morone stesso. Questi, non ostante, scrisse di sua mano la propria confessione. Ed in essa, dopo aver protestato contro la ingiusta violenza che subiva, contro la fede tradita, diceva al generale di Carlo V, che non poteva rivelar nulla, che già non gli avesse detto e ripetuto più volte. Esponeva tuttavia la storia della congiura, ricordando l'offerta del regno di Napoli, le trattative per la investitura di Milano allo Sforza, che aveva dichiarato d'accettarla, continuando nel tempo stesso gli accordi per la guerra nazionale contro l'Imperatore. Quest'ultima dichiarazione fu il pretesto, di cui il Pescara si valse per andar subito a Milano, ed impadronirsi della Lombardia.

Ognuno s'aspettava ora di sentire da un momento all'altro già messo a morte il Morone, quando, con maraviglia universale, il Pescara pubblicò un decreto del 27 ottobre, col quale dichiarava di volerlo tenere presso di sè prigioniero, ed ordinava che non si toccassero punto le proprietà di lui, lasciandole per adesso alla moglie ed ai figli, usando loro ogni riguardo. Sentendosi poi vicino alla morte, che lo colpì in fatti il 3 dicembre 1525, nella età di soli trentasei anni, fece testamento, raccomandando all'Imperatore, non solo la vita, ma anche la libertà del Morone, ed ogni benefizio che gli si potesse fare, «perchè altrimenti mi riputerei essere caricato.» L'abate di Nazaria ed il marchese del Vasto, dimostrando anch'essi una singolare premura, scrissero subito al prigioniero, per avvertirlo che il Pescara lo aveva raccomandato a Carlo V, ed aggiungevano assicurazioni della loro buona disposizione. Lo stesso de Leyva, che non gli era stato mai benevolo, scriveva da Milano il 25 marzo 1526: «Si farà maniera che V. S. resterà contenta. Sicchè de novo la torno a pregare, che stia de bon animo, che farò per lei tanto quanto vorrei si facesse per me stesso, e me li raccomando.» Il Morone tuttavia restò per ora in carcere, a disposizione del conestabile di Borbone, che assunse il comando dell'esercito imperiale, e lo tenne come ostaggio, a fin di cavarne danari, dei quali era anch'egli in una estrema necessità. Ma dopo avere avuto da lui parecchie migliaia di ducati, con promessa di altri fino a 20,000, firmò il dì 1° gennaio 1527 un decreto col quale, pure rimproverandogli la congiura, ed accusandolo di pecunia indebitamente estorta in suo privato vantaggio, n'esaltava l'ingegno, il coraggio, l'esperienza, i servigi altra volta resi all'Imperatore. E concludeva poi che, per questi suoi meriti, pei danari recentemente dati in momenti di estremo bisogno, per la volontà dichiarata di volersi di nuovo rendere utile all'Impero, lo liberava e gli faceva grazia generale di tutte le sue colpe. Ma, quello che è ancora più, lo nominava poco dopo commissario generale nell'esercito. Ed in questo ufficio noi lo troviamo sotto le mura di Roma, quando il Borbone morì. Seguìto che fu poi il sacco della Città eterna, e trovandosi Clemente VII chiuso in Castel Sant'Angelo, il Morone ebbe parte principalissima nelle trattative allora fatte per liberarlo. Aiutato dal suo ingegno, dalla sua attività, dalla sua grande esperienza, salì sempre a maggior grado; fu come la mente che dirigeva gl'imperiali nello strazio che fecero dell'Italia, ed era presso l'esercito che assediava Firenze, il giorno 15 dicembre 1529, che fu l'ultimo della sua vita.

Tutto questo finì, com'era naturale, col lasciare mille dubbî, mille incertezze sul suo carattere e sul vero significato della congiura; incertezze e dubbî che crebbero assai più, quando si cominciò a voler vedere un gran patriotta in un uomo che aveva mirato solo e sempre a farsi strada nel mondo, che aveva mutato parte ogni volta che lo richiedeva il proprio interesse, cui solo obbediva. Facendone un patriotta, rimangono assolutamente inesplicabili la sua condotta e quella anche del Pescara, del de Leyva, del Borbone. In fatti, come mai il Morone, avvertito da tanti, sapendo con certezza che il Pescara era ormai in perfetto accordo coll'Imperatore, si sarebbe andato a mettere nelle mani di lui? Ed il Pescara, perchè lo avrebbe salvato e raccomandato? Ammettere in questo scrupoli di coscienza sarebbe assurdo. Non ne ebbe mai, e non c'era ragione d'averne allora, se non ne aveva avuti prima. Anche più impossibile sarebbe immaginare scrupoli o altro simile sentimento, per ispiegare la condotta del de Leyva, del Borbone, dello stesso Carlo V, i quali non avevano promesso nulla, e non dovevano usare riguardi ad un cospiratore. Al patriottismo del Morone non credettero mai i contemporanei che lo conobbero, neppure quelli stessi che lo avevano inviato alla congiura. Il Guicciardini, nella sua Storia d'Italia, dichiara di non aver capito la cecità con cui esso s'era andato a mettere nelle mani del Pescara, del quale conosceva bene la crudeltà e la mala fede. Nelle sue Legazioni, però, appena che lo seppe in prigione, scrisse a Roma: «Io temo che con le sue girandole riuscirà presto a consigliare ed a dirigere gl'imperiali a danno degli alleati.» E così fu.

Ma se i contemporanei dovevano giudicar solo dalla conoscenza che avevano del Morone, i documenti pubblicati ai nostri giorni ci pongono in grado di vedere anche meglio come le cose veramente andarono. Il Morone, che aveva servito molti padroni ed era prontissimo a servirne altri, pensava a farsi sempre più potente, servendo il duca di Milano, quando venne da Roma l'idea della lega e l'offerta del regno di Napoli al Pescara. La lega e la guerra corrispondevano ad un vero interesse nazionale, ad un bisogno che, se non era fortemente sentito, era pure assai generalmente inteso dagl'Italiani. Se il Pescara si faceva davvero promotore dell'impresa, si poteva sperare di riuscire a buon fine, e, riuscendo, egli ed il Morone sarebbero divenuti potentissimi. La proposta fu dunque fatta ed accettata con la intesa tacita e vicendevole, che non potendosi riuscire al fine voluto, si sarebbero ambedue rivolti a favorire l'Imperatore. Di ciò, come abbiam visto, il Morone dette prova coi fatti, quando pareva che il suo Duca morisse. Il Pescara, che si era pure avventurato abbastanza, si pose anche subito al sicuro, rivelando ogni cosa all'Imperatore. Aveva continuato ad avere od a fingere d'aver parte nella trama, cavando intanto dai collegati i danari che gli occorrevano a sostenere l'esercito, e così andando innanzi, s'era sempre più persuaso che il Morone poteva, nelle mani sue e degl'imperiali, riuscire un ottimo strumento a conquistare l'Italia, appena che la vanità della congiura fosse apparsa evidente anche a lui. Questi, in ogni caso, era anche, come si vide poi col fatto, l'uomo più adatto ad indicare le persone da cui si potevano in Italia estorcere danari, dei quali gl'imperiali avevano un bisogno così grande ed urgente, che la mancanza di essi li pose più di una volta sul punto di vedere sbandati i loro eserciti. Era poi egli stesso così ricco da poter dare anche del suo, come fece più tardi col Borbone. Così fu che, quando il Pescara lo ebbe nelle mani, iniziò il processo più per forma e per cavarne danaro, per avere un qualunque pretesto ad impadronirsi della Lombardia, che per la speranza di poter nulla apprendere di nuovo. La benignità inaspettata e le raccomandazioni insolite furono certo promosse dal desiderio che si adoperasse a profitto degli imperiali un uomo il quale si era dichiarato pronto a servirli, e poteva veramente riuscir loro di grande utilità.

Questa congiura, che fu detta del Morone, prova che l'idea di rendere l'Italia indipendente colle proprie forze, era allora nel pensiero di molti, e poteva anche essere effettuata, quando vi fosse stata sincera unione fra gl'Italiani, ed un uomo valoroso e grande l'avesse deliberatamente sostenuta colle armi. Se l'Italia, in fatti, era debole, i suoi nemici erano spesso in guerra fra di loro, e disordinati per modo che più d'una volta si trovarono sul punto d'andare a rovina, senza quasi essere combattuti da altri. Ma l'uomo necessario non sorgeva, e quando si veniva alla prova dei fatti, ognuno voleva operare a suo vantaggio esclusivo: così tutto andava a rifascio. Questo concetto d'indipendenza nazionale, di cui pur tanto si parlò dai tempi di Giulio II in poi, era allora vagheggiato dagl'Italiani più per entusiasmo letterario, e per sostenere interessi locali o personali, che per bisogno generale e fortemente sentito d'una patria comune. Non si poteva quindi, in nessun caso, arrivare a grandi e durevoli resultati. Lo stesso Machiavelli, fino a che restò segretario della Repubblica fiorentina, non riuscì mai a vederlo chiaramente, dimostrandosi anch'esso pronto a sacrificar tutto agl'interessi del suo piccolo Comune. Uscito però d'ufficio, egli fu ben presto il solo che comprendesse e sentisse fortemente l'idea nazionale, esponendola senza incertezze o secondi fini, con sublime eloquenza cercando convincerne gli altri. Ma perciò appunto dovette d'allora in poi passar la sua vita d'illusione in illusione, di speranza in speranza, vedendo un dopo l'altro svanire i sogni dai quali era sempre dominato. Nulla però fa credere che egli si fosse un momento solo illuso sulla condotta del Morone, quantunque la congiura si direbbe qualche volta ispirata dal Principe e dai Discorsi. A lui dovette apparir chiaro, che nessuno di coloro i quali vi presero parte, aveva pur l'ombra di quel forte e sincero patriottismo, che egli sapeva essere più di ogni altra cosa necessario a porre in atto la grande idea.

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