CAPITOLO XVI.

L'esercito imperiale s'avanza in Lombardia. - Il Guicciardini Presidente della Romagna, poi Luogotenente al campo. - Il Machiavelli rientra negli affari. - Sua gita a Roma. - È inviato presso il Guicciardini a Faenza. - Sua gita a Venezia. - Corrispondenza col Guicciardini. - È nominato Cancelliere dei Procuratori delle Mura. - Attende ai lavori per le fortificazioni della Città.

L'esercito imperiale, padrone ormai del ducato di Milano, comandato dal conestabile di Borbone, che aveva con sè il Morone, s'apparecchiava baldanzoso ad andare oltre, e nuovi avvenimenti sempre più funesti all'Italia erano inevitabili. A questi era rivolta adesso l'attenzione dei politici italiani, che tutti in un modo o nell'altro vi pigliavano parte. Anche il Machiavelli fu ricondotto ora in mezzo agli affari, e più volte mandato al campo degli alleati, dove trovò il Guicciardini luogotenente generale del Papa. Ambedue fecero prova di tutta la loro energia, di tutto il loro ingegno, dimostrando invano le migliori qualità del loro carattere. Il Machiavelli però era già innanzi cogli anni e vicino alla morte, in condizione sempre subordinata, a servizio d'uno Stato dipendente dall'autorità del Papa; poteva quindi far poco altro che mostrare la sua buona volontà, il suo ardente patriottismo, il suo dolore per le sorti infelici della patria. Il Guicciardini era invece nel vigore delle forze, investito sempre di altissimi uffici, e questo fu anzi il periodo più importante della sua vita politica. Egli aveva in Roma un suo rappresentante nella persona di messer Cesare Colombo, cui scriveva lettere continue, perchè ne riferisse al Papa ed ai cardinali. Esse ci danno un ritratto fedele degli avvenimenti del tempo, e sono una sicura testimonianza della sua grande intelligenza politica, delle sue qualità di vero uomo di Stato.

Mandato governatore nell'Emilia, s'era fatto molto lodare per la energia e prontezza dimostrate durante la guerra. Nel 1524 fu perciò nominato Presidente della Romagna, con incarico di pacificare quel paese lacerato dalle fazioni, insanguinato da continui delitti. E voleva subito usare severità contro i colpevoli, per venir poi alla clemenza. Ma quando ebbe a Forlì fatta eseguire la prima condanna capitale, pronunziata contro uno «imbrattato nelle ribalderie insino agli occhi,» dovette avvedersi d'andare incontro a difficoltà più gravi assai che non pensava. I ribaldi ricorrevano al Papa per protezione, si facevano raccomandare, ed ottenevano salvocondotti. Ciò faceva subito crescere i delitti, e indeboliva l'autorità del Presidente, che ne restava irritato e sgomento. Un Bastiano Orsello, che aveva ammazzato l'avo, ed era accusato d'aver commesso in un tumulto sedici o diciotto omicidi, oltre infinite rapine, trovava anch'esso protezione in Giovanni dei Medici e nel Papa. E mentre il Guicciardini si lamentava d'uno, facevasi grazia ad un altro, tanto che egli esclamava sdegnato: «Meglio far grazia a tutti gli assassini, invitandoli a far peggio! È stato per Dio! un bel ghiribizzo. Si sono visti girare liberamente omicidi, che nelle piazze di Forlì avevano giocato alla palla colle teste degli uccisi!» Pure egli, profittando delle più gravi cure che assediavano il Papa, andò innanzi per modo, che alla fine dell'anno potè annunziare di aver pacificato la Romagna.

Ed allora la sua attenzione si rivolse agli avvenimenti che seguivano fuori di quella provincia, dando giudizi e consigli così giusti, così pratici, che paiono qualche volta addirittura profetici. Poco prima della battaglia di Pavia, egli scriveva che, a suo giudizio, vincevano gl'imperiali.

E quando la previsione s'era avverata, aggiungeva: «Ormai tutto riuscirà a nostro svantaggio. Gl'Italiani non hanno forze per resistere, ed il capitolare sarà la nostra servitù. Questo sarebbe il tempo di audaci disegni, e io loderei chi pigliasse un partito nel quale la speranza fosse uguale al pericolo. È vano sperare nei Francesi, che non pensano mai al domani, e saranno pronti a tutto per liberare il loro Re. Capisco che ora ogni buon cervello si smarrisce; ma chi si avvede che stando fermo gli viene addosso la rovina, deve preferire i più gravi pericoli alla morte sicura.» E quando venne notizia della cattura del Morone, nel quale egli non ebbe mai fiducia, scriveva: «Ormai gl'imperiali non aspettano più. Forse vorranno subito rendersi padroni del Milanese, il che può loro riuscire per la debolezza del Duca, e per qualche nuova girandola del Morone. Noi non abbiamo nulla da sperare, perchè essi si spingeranno ancora più innanzi ad occupare le terre della Chiesa, o a mutare lo Stato di Firenze, o a qualche cosa anche peggiore, quando ne vedessino l'occasione. Cesare vuol farsi signore d'Italia, e non potrà mai essere amico di chi deve opporglisi. È vano sperare in un accordo colla Francia, che ora è prostrata, perchè esso sarebbe sempre a nostro danno. Nessun accordo riuscirebbe stabile, senza la liberazione del Re, il quale poi non osserverebbe i patti che fossero a suo carico. Il vero è che Cesare farà i fatti suoi, mentre gli altri stanno addormentati, e così prevarrà contro tutti, non per maggior forza, ma fatali omnium ignavia Queste parole sembrano preveder chiaramente l'avanzarsi degl'imperiali fino al sacco di Roma ed all'assedio di Firenze. Nè dalla sua opinione si rimosse il Guicciardini, quando seppe che un messo dell'Imperatore faceva proposte d'accordo, e che il Papa trattava. «L'Imperatore,» egli scriveva, «vuole abbattere la Francia e i Veneziani, deve quindi assicurarsi prima del Papa, e lo farà appena ultimata la faccenda di Milano. Egli sarà in ogni caso l'arbitro d'Italia. Il Papa avrà di principe solamente il nome, e verrà per ora tenuto a bada con proposte che finiranno in sogni. Ma pur troppo io temo che si appiglierà al partito più da poco. A chi ha paura della guerra bisogna mostrare i pericoli della pace. La troppa prudenza è ora imprudenza, nè si possono più prendere imprese misurate. È necessario correre alle armi, per fuggire una pace che ci rende schiavi.» Ed anche questo s'avverò. La guerra divenne inevitabile, ed il Guicciardini fu chiamato a Roma, per essere prima consultato e poi mandato al campo come Luogotenente generale. Egli allora affidò il governo della Romagna a suo fratello Iacopo, cui lasciò scritte lunge e minute istruzioni, le quali sono un'altra prova della sua attitudine a governare.

È questo il tempo in cui finalmente ricomparisce sulla scena politica il Machiavelli. Noi lo troviamo col suo solito carattere, combattuto sempre dalla fortuna, in uffici modestissimi, esaltato da un vivo entusiasmo a favore della patria italiana, che invano cerca salvare, dominato, trascinato da' suoi eterni ideali. Questi ideali, che assai spesso lo fecero apparire visionario e fantastico ai suoi contemporanei, paiono a noi poco meno che sublimi e profetici, perchè sono più vicini al nostro che al suo tempo, e dimostrano più una profonda visione dell'avvenire, che una conoscenza pratica del presente. La quale conoscenza era invece la dote principale del Guicciardini, che perciò ebbe maggiore fortuna e potenza. Più freddo ed impassibile calcolatore, sembra qualche volta ripetere al suo grande contemporaneo le parole di Dante a Farinata degli Uberti:

E' par che voi veggiate, se ben odo,

Dinanzi quel che il tempo seco adduce,

E nel presente tenete altro modo,

Il Machiavelli stesso più di una volta si accorse della contradizione in cui si trovava, quando voleva a forza supporre i suoi contemporanei, il suo paese, de' quali pur vedeva i difetti, troppo migliori che non erano, e capaci di grandi, eroiche risoluzioni. Allora scoraggiato s'abbandonava un tratto al suo spirito satirico, mordace, cinico, che scoppiava improvviso, irresistibile. Ma poi tornava da capo a' suoi ideali, nei quali ebbe fino alla morte una fede incrollabile.

Ai primi del 1525, quando non era anche ingrossata la marea delle nuove calamità, egli meditava dolorosamente sugli avvenimenti che seguivano alla giornata, e finiva l'ottavo libro delle sue Storie, che arriva alla morte di Lorenzo il Magnifico. Voleva egli stesso presentarle al Papa, cui le aveva dedicate, e cercare così di ricevere qualche nuovo sussidio a continuarle. Ne tenne per lettera parola al Vettori, che lo incoraggiò sempre assai poco. Pure il dì 8 marzo gli scrisse da Roma, che il Papa gli aveva chiesto notizia delle Storie, e che egli aveva risposto d'averne letto una parte, e giudicarle tali da soddisfare; sconsigliava però il Machiavelli dall'andare in persona a presentarle, non parendogli opportuno, rispetto ai tempi che correvano. Ma il Papa invece aveva soggiunto: doveva venire, e sono certo che i suoi libri debbono piacere ed essere letti volentieri. Pure il Vettori, sempre freddo, concludeva la sua lettera col dire: è necessario tuttavia non illudersi, perchè, venendo, c'è sempre il caso di restare colle mani vuote, tali sono ora i tempi. Il Machiavelli, dopo aver molto esitato, decise d'andare, e trovò non solo il Papa ben disposto, ma anche Filippo Strozzi e Iacopo Salviati pronti ad aiutarlo assai più efficacemente del Vettori, sempre largo di sole parole. Il Salviati s'era già prima adoperato a fargli avere qualche incarico; ma non era riuscito, perchè al Papa non piacque la proposta. Filippo Strozzi fu invece più fortunato. Per mezzo di Francesco del Vero potè far sapere al Machiavelli già ripartito da Roma, che Sua Santità era pronta a concedergli un nuovo sussidio, per fargli continuare le Storie. Il sussidio in fatti venne poi concesso, e fu di altri cento ducati.

La ragione per la quale il Machiavelli, non ostante le buone disposizioni del Papa, era ripartito da Roma senza nulla concludere a proprio vantaggio, prima anche d'esser sicuro del sussidio per le Storie, è tale che fa molto onore al suo carattere. Arrivato colà dopo la battaglia di Pavia, quando gli animi di tutti gl'Italiani erano sospesi per l'evidente pericolo di vedere da un momento all'altro l'esercito imperiale avanzarsi minaccioso, egli quasi istantaneamente perdette il pensiero de' suoi personali interessi, e ne abbandonò la cura agli amici. Al Papa ragionò invece dei provvedimenti più necessarî a prendersi nelle presenti condizioni, dei modi di fortificare Firenze contro qualche improvviso assalto. A lui, ai cardinali, a quanti potè vedere di coloro che frequentavano la Corte, espose con ardore la sua vecchia idea della milizia nazionale, cercando persuadere ad ognuno, come unico rimedio efficace sarebbe ora dar le armi al popolo, chiamandolo alla difesa della patria minacciata dagli stranieri. E con tanto calore, con tanta eloquenza ne parlò, che gli parve finalmente d'esser riuscito a convincerne il Papa ed alcuni di coloro che gli erano vicini. Nel giugno di quell'anno fu in fatti mandato al Guicciardini in Romagna, con un Breve di Clemente VII che lo chiamava dilectum filium Nicolaum Macchiavellum, per esporgli il suo disegno, e cercare d'effettuarlo colà, dove il popolo era assai armigero. Iacopo Salviati e lo Schonberg ne parlarono al Colombo, invitandolo a scriverne anch'egli subito al Guicciardini. E questi, che era forse la testa più fredda e pratica che avesse allora l'Italia, gli rispondeva da Faenza il 15 giugno 1525: «Ho visto quel che dicono circa la venuta del Machiavelli. Aspetterò il suo arrivo, per intender prima il disegno suo, e dar poi il mio avviso; perchè è cosa da considerarla bene, e così direte anche a loro. Intanto chiedete a che fine mira il Papa con questa proposta; chè se ne spera rimedio ai pericoli presenti, è provvisione che non può essere a tempo.»

Il 19 scriveva, che il Machiavelli era arrivato ed aveva esposto il disegno dell'Ordinanza. «Certo, se questa cosa potesse condursi al fine desiderato, sarebbe una delle più utili e più laudate opere che Sua Beatitudine potesse fare. Ed a me non farebbe paura dar le armi al popolo, se però fosse d'altra sorte che è questo, perchè allora con pochi buoni ordini e con severità si provvederebbe a tutto. Ma la Romagna, lacerata da nimicizie crudeli, è divisa in due grandi fazioni, dette ancora dei Guelfi e dei Ghibellini, le quali s'appoggiano una alla Francia, l'altra all'Impero. La Chiesa non ci ha veri amici, e però quando si trovasse in guerra con Cesare, le sarebbe di grandissimo pericolo avere armato gli amici di lui, sperando valersene a proprio vantaggio. Questa impresa dovrebbe esser fondata sull'amore del popolo, che in Romagna manca del tutto alla Chiesa. Qui non son sicuri nè della roba, nè della vita, e guardano perciò sempre ai principi stranieri, dai quali in tutta la provincia dipendono. Lo sperare poi di comporre l'Ordinanza, come vorrebbe il Machiavelli, d'uomini non legati a nessuna delle due fazioni, sarebbe lo stesso che non voler trovare alcuno. Pure, se deve in ogni modo tentarsi l'impresa, io mi ci metterò con ogni mia forza, e così dovrebbe fare Sua Santità, perchè una volta che fosse iniziata, bisognerebbe tenerne più conto che di qualunque altra cosa.» Aggiungeva poi che l'idea d'addossare, come voleva il Papa, la spesa alle già troppo esauste Comunità, era pericolosissima, e sarebbe riuscita solo ad irritarle, sin dal principio, contro una istituzione cui bisognava invece affezionarle. Il 23 giugno tornava ad esprimere i suoi dubbi, invitando il Colombo a far leggere la lettera prima allo Schonberg ed al Salviati, riferendo i giudizî e le opinioni loro; poi al Papa, notando attentamente «li moti e parole sue.» Mentre però egli era così sospeso pel dubbio di vedere il Papa gettarsi, senza riflessione e senza energia, in una impresa assai incerta, già in questo ogni entusiasmo s'era spento come fuoco di paglia, specialmente quando sentì che bisognava spendere. Non pensò più neppure a rispondere. Laonde il Machiavelli, avendo invano aspettato lettere fino al 26 luglio, persuaso ormai che nè il Guicciardini, nè il Papa osavano dar le armi al popolo, e non volendo invano perdere il suo tempo, se ne tornò a Firenze, dichiarando tuttavia che sarebbe stato sempre pronto ad ogni loro cenno. Fino alla morte egli non perdette mai la sua fede nell'Ordinanza.

Da Firenze scrisse più volte al Guicciardini, senza per qualche tempo tornare sull'argomento. Ragionavano fra loro d'affari privati e di facezie, colle quali cercavano una distrazione dalle miserie in cui l'Italia si trovava, e dai maggiori pericoli che la minacciavano. Non potevano però fare che di tanto in tanto non parlassero anche di questi pericoli, con animo assai addolorato. Il 17 agosto il Machiavelli accennava al matrimonio proposto tra una delle figlie del Guicciardini ed un ricco fiorentino; poi si rallegrava molto che all'amico fosse piaciuta la sua Mandragola, tanto da volerla far rappresentare a Faenza nel carnevale prossimo, e prometteva d'assistere alla rappresentazione. Gli mandava una medicina, dalla quale diceva d'avere molte volte ricevuto grande benefizio, massime quando aveva troppo lavorato. Aggiungeva che forse andrebbe presto a Venezia, nel qual caso si sarebbe, ritornando, fermato a Faenza per rivedere gli amici.

Il 19 agosto, in fatti, dai Consoli dell'Arte della lana, e da quelli che i Fiorentini avevano in Romania, chiamati anche Provveditori di Levante, fu mandato a Venezia per un affare d'assai poco momento. Alcuni mercanti fiorentini, tornando dall'Oriente, con molto danaro, sopra un brigantino veneto, arrivati che furono in un porto di quella repubblica, trovarono il brigantino padroneggiato da un G. B. Donati, che accompagnava l'oratore turco. Questo Donati li chiamò, e dopo aver loro «fatto sopportare molte cose indegne, non che altro di essere riferite, gli sforzò finalmente a riscattarsi con 1500 ducati d'oro. Di ciò si chiedeva dai Consoli risarcimento alla Serenissima Repubblica, essendo il Donati cittadino veneto. E di questa commissione che finì subito, abbiamo solo la credenziale, la istruzione dei Consoli al Machiavelli, e la lettera, in cui è l'esposizione del fatto, senza che altro se ne sappia. Invece sappiamo che allora appunto si sparse per Firenze la voce, ch'egli avesse a Venezia tentato la sorte, vincendo al lotto da due a tre mila ducati. Così gli scriveva Filippo de' Nerli, il quale aggiungeva la notizia, che il Machiavelli era stato imborsato fra i cittadini abili agli ufficî politici, avendo gli Accoppiatori chiuso un occhio sulle difficoltà che si presentavano; e ciò era riuscito, perchè era stato raccomandato da donne a lui benevole. Su di che il Nerli andava celiando, con un linguaggio e con allusioni che per noi sono ora poco facili ad intendere. Si capisce che dagli amici e dagli Accoppiatori era stato veramente favorito, non avendo essi tenuto conto della voce diffusa dagli avversarî, che egli non avesse tutte le condizioni richieste dalle leggi per l'ammissione agli ufficî politici. Quanto alla pretesa vincita al lotto, o fu cosa d'assai poco momento, o addirittura una favola, perchè non se ne trova nessun altro riscontro, e due o tre mila ducati erano a quel tempo tale somma da far mutare condizione al Machiavelli, che non ebbe mai questa fortuna. Neppure il Canossa, allora ambasciatore a Venezia, che lo vide in quei pochi giorni due volte, dando di lui notizia al Vettori, accennò punto alla pretesa vincita. Scriveva solamente, che avevano fra loro parlato delle cose pubbliche, delle quali, concludeva, non v'era da dir altro, se non che «ce ne andiamo in servitù, o per dir meglio la compriamo. Tutti lo conoscono e nessuno vi rimedia.»

Tornato a Firenze senza, a quanto pare, aver per via potuto vedere il Guicciardini, che era andato ad Imola, il Machiavelli trovò ammalato il figlio Bernardo, e ricevè lettera dall'altro figlio Lodovico, giovane impetuosissimo, che era assai spesso in dispute e risse sanguinose, che prese più tardi parte assai viva alla cacciata dei Medici, e morì, con la bandiera in mano, combattendo sotto le mura di Firenze assediata dagl'Imperiali. Ora si trovava per affari commerciali in Adrianopoli, di dove moveva aspro lamento contro un prete, che non voleva lasciare una chiesa di patronato dei Machiavelli, non lungi da Sant'Andrea in Percussina. E minacciava di venire a farsi giustizia colle proprie mani, quando il padre non avesse trovato modo di rimediarvi subito. «Non vedo,» egli concludeva, «a che si aspetti tanto. Questo mi pare un modo di cavarci due occhi noi, per cavarne uno al compagno.»

A tutte queste piccole noie s'aggiungevano i pensieri sempre più gravi per le pubbliche faccende. Il Morone era prigione, il Pescara s'avanzava verso Milano, il Papa si trovava al solito senza consiglio e senza risoluzione. Le lettere del Guicciardini e del Machiavelli sembravano ondeggiare fra la disperazione ed un cinico sorriso, che spesso era invece un sorriso disperato. In una, che è senza data, il Machiavelli mandava spiegazioni intorno al significato di qualche motto fiorentino nella Mandragola. Prometteva di comporre le canzonette da cantarsi fra un atto e l'altro; di far andare a Faenza la Barbera, la ben nota cantatrice, insieme co' suoi cantori. In un'altra, senza data del pari, e firmata: Niccolò Machiavelli, istorico, comico e tragico, cominciava col parlare a lungo del matrimonio, che tanto stava a cuore al Guicciardini; poi a un tratto s'interrompeva, scrivendo: «Il Morone ne andò preso, e il ducato di Milano è spacciato; e come costui ha aspettato il cappello, tutti gli altri principi l'aspetteranno, nè ci è più rimedio: Sic datum desuper. - Veggo d'Alagna tornar lo fiordaliso, e nel Vicario suo, ecc. - Nosti versus, coetera per te ipsum lege E poi, mutando da capo bruscamente: «Facciamo una volta un lieto carnesciale, e ordinate alla Barbera un alloggiamento tra quelli frati, che se non impazzano, io non ne voglio danaio, e raccomandatemi alla Maliscotta, e avvisate a che porto è la commedia, e quando disegnate farla. Io ebbi quell'augumento infino in cento ducati per l'Istoria. Comincio ora a scrivere di nuovo, e mi

Qui si allude, com'è noto, alla prigionia di Bonifazio VIII. Ciò che a questo Papa fecero allora i Colonna in Anagni (Alagna), ricorda davvero la condotta che più tardi essi tennero, come vedremo fra poco, verso Clemente VII in Roma.] sfogo accusando i principi, che hanno fatto ogni cosa per condurci qui.»

E così continuavano. Il 19 dicembre il Machiavelli tornava sull'affare del matrimonio, e cercando la via a farlo concludere, dava consigli circa il modo di cavar danari dal Papa, per aumentar la dote della fanciulla. Ma il Guicciardini, più orgoglioso e pratico, esitava a parlare di queste cose a Clemente VII, quando erano così gravi le condizioni in cui versavano lo Stato della Chiesa e l'Italia. Allora era morto il Pescara, ed i potentati italiani parevano di nuovo disposti ad addormentarsi, il che rendeva assai maggiore il pericolo in cui tutti versavano. Il Machiavelli concludeva quella stessa lettera, dicendo: Ognuno si crede ora rassicurato, «e parendogli aver tempo, si dà tempo al nemico. E concludo in fine, che dalla banda di qua non si sia per far mai cosa onorevole e gagliarda da campare o morire giustificato, tanta paura veggo in questi cittadini, e tanto male volti a chi fia per inghiottire.» A che il Guicciardini rispondeva il 26, cominciando col parlar nuovamente della commedia, «perchè non mi pare delle meno importanti cose abbiamo alle mani, e almanco è pratica che è in potestà nostra, in modo che non si getta via il tempo a pensarvi, e la ricreazione è più necessaria che mai in tante turbolenze.» Quanto alle cose pubbliche, non sapeva che si dire, vedendo come tutti biasimavano la opinione che solo a lui pareva buona. «Si conosceranno i mali della pace, quando sarà passata l'opportunità di fare la guerra. Noi soli vogliamo aspettare in mezzo alla via il cattivo tempo che viene, e non potremo dire che ci sia stata tolta la signoria, ma che turpiter elapsa sit de manibus

Pare che allora non solamente il Guicciardini ed il Machiavelli, non sapendo dove posare il capo, cercassero distrarsi colle commedie; ma che molti in Italia, pensassero, in questi anni veramente terribili, a distrarsi colle feste. A Firenze, in fatti, durante il carnevale del 1526, la Compagnia della Cazzuola rappresentava la Mandragola in casa di Bernardino Giordano, con uno scenario dipinto da Andrea del Sarto e da Bastiano da San Gallo, il quale, per la sua perizia in questi lavori, era chiamato Aristotele. Poco dopo, nell'orto di Iacopo Fornaciai, presso la porta San Frediano, a bella posta spianato, con lo scenario dipinto dallo stesso Aristotele, fu rappresentata la Clizia. Si fecero in questa occasione grandissime feste e conviti a nobili, a borghesi e popolani, tanto che se ne parlò per tutta Italia. E dobbiam credere che il Machiavelli vi si abbandonasse non meno degli altri, perchè Filippo dei Nerli, che solo in apparenza gli era amico, dopo essersene con lui rallegrato, scrivendone agli altri, se ne mostrava invece assai scandalezzato. A Venezia, nel medesimo tempo, due private Compagnie facevano recitare, una la Mandragola, l'altra i Menecmi di Plauto, i quali ultimi riuscirono al paragone freddissimi, tanto che i promotori della rappresentazione invitarono gli attori della Mandragola a ripeterla in casa loro. Ed il Machiavelli ebbe dai mercanti fiorentini colà residenti, premuroso invito di mandar qualche altro suo lavoro, per farlo recitare nel prossimo maggio. Ma la rappresentazione apparecchiata in Romagna pel carnevale di quell'anno, non sembra che avesse altrimenti effetto, perchè egli non potè andare a Faenza come aveva promesso, trovandosi occupatissimo in Firenze, o in gite per affari urgenti. Il Guicciardini era anch'esso in moto continuo, e nel gennaio dovè recarsi in fretta a Roma. La notizia improvvisa d'un accordo seguìto tra la Francia e la Spagna, per la liberazione del Re, sebbene non se ne conoscessero ancora i termini precisi, teneva gli animi più che mai sospesi, ed era quindi necessario apparecchiarsi agli eventi.

Di ciò le lettere dei due amici cominciavano ora a parlare con sempre maggiore insistenza. Il Guicciardini, come già vedemmo, aveva da un pezzo affermato che l'Imperatore avrebbe liberato il Re, e che questi poi non avrebbe mantenuto i patti. Il Machiavelli, invece, s'era su di ciò sempre illuso, credendo che il Re non sarebbe stato liberato, e che in ogni caso avrebbe mantenuto i patti. Anche quando s'era sparsa per tutto la notizia dell'accordo, egli durava una gran fatica a non perseverare nella stessa sua erronea opinione. Tanto era di ciò convinto che, quando giunse la nuova che il Re era stato effettivamente liberato, e che si attribuiva questa deliberazione all'accortezza del Papa, egli dette sfogo al suo malumore con l'epigramma che finiva:

E quinci avvien che 'l matto

Carlo re de' Romani e 'l Vicerè

Per non vedere hanno lasciato il Re.

E poco prima, quando la nuova della liberazione non era ancor giunta in Firenze, ma si sapeva che si trattava già degli accordi, egli ne aveva scritto prima a Filippo Strozzi, e subito dopo, il 14 marzo, al Guicciardini, dicendogli che aveva il capo pieno di ghiribizzi per quest'accordo, e ripeteva ancora che o il Re non sarebbe libero, o manterrebbe i patti. «È vero che così lascerebbe rovinar l'Italia, e potrebbe anche perdere il regno; ma avendo esso, come voi dite, il cervello francese, questo spauracchio non è per muoverlo come muoverebbe un altro. Libero poi o non libero che egli sia, l'Italia avrà guerra. E per noi non vi sono che due vie: o abbandonarsi a discrezione del vincitore, dandogli danari, o armarsi. Il primo partito non basta, perchè il nemico ci leverebbe i danari e poi la vita; non resta dunque che l'armarsi.» E qui si abbandonava ad un'altra di quelle ardite idee, tutte sue proprie. «Io dico una cosa che vi parrà pazza, metterò un disegno innanzi, che vi parrà o temerario o ridicolo; nondimeno questi tempi richieggono deliberazioni audaci, inusitate e strane. E sallo ciascuno che sa ragionare di questo mondo, come i popoli sono varî e sciocchi; nondimeno, così fatti come sono, dicono molte volte che si fa quello che si dovrebbe fare. Pochi dì fa si diceva per Firenze, che il signor Giovanni de' Medici rizzava una bandiera di ventura, per far guerra dove gli venisse meglio. Questa voce mi destò l'animo a pensare, che il popolo dicesse quello che si dovrebbe fare. Ciascuno credo che pensi, che fra gl'italiani non ci sia capo a chi i soldati vadano più volentieri dietro, nè di chi gli Spagnuoli più dubitino e stimino più. Ciascuno tiene ancora il signor Giovanni audace, impetuoso, di gran concetti, pigliatore di gran partiti. Puossi adunque, ingrossandolo segretamente, fargli rizzare questa bandiera, mettendogli sotto quanti cavalli e quanti fanti si potesse più.» «Questo ben presto potrebbe aggirare il cervello agli Spagnuoli, e far mutare i disegni loro, coi quali hanno forse pensato a rovinar la Toscana e la Chiesa, senza trovare ostacolo. Potrebbe anche far mutare animo al Re, che vedrebbe d'aver da fare con genti vive. E legatevi al dito questo, che se il Re non è mosso con cose vive e con forze, osserverà l'accordo o vi lascerà nelle peste, perchè essendogli voi stati troppe volte contro, o rimasti a vedere, non vorrà che gli intervenga ora lo stesso.»

Filippo Strozzi mostrò al Papa la lettera che aveva ricevuta dal Machiavelli, e gli parlò ancora della proposta fatta in quella diretta al Guicciardini. Ma erano pensieri troppo audaci, troppo patriottici per farli accettare da Clemente VII, che si smarriva al solo sentirne parlare. Disse che ben presto il Re sarebbe libero ed osserverebbe i patti, il che lascerebbe l'Italia in balìa dell'Imperatore. La proposta d'armare Giovanni de' Medici non gli pareva accettabile, perchè sarebbe lo stesso che dichiarar guerra aperta all'Imperatore. In fatti senza danari Giovanni de' Medici non poteva formare un esercito, e se glieli dava il Papa, sarebbe stato subito responsabile dell'impresa. Così, come nulla s'era fatto dell'Ordinanza, nulla si fece ora del nuovo disegno del Machiavelli.

Questi si volse perciò tutto a fortificare le mura di Firenze, di che aveva in Roma tenuto lungo ragionamento col Papa, «il quale raccomandò che si facessero opere così gagliarde da mettere nel popolo animo di poter resistere contro ogni assalto. Voleva che si costruisse addirittura dalla parte di San Miniato, un nuovo cerchio di mura; ma ciò era impossibile, a cagione di quel colle. Per includerlo dentro le nuove mura, sarebbe stato necessario allargarsi troppo e quindi indebolirsi. Se invece si deliberava di lasciarlo fuori, bisognava restringersi tanto da lasciar fuori anche un intero quartiere della Città. E se questo quartiere si demoliva, era una grande rovina; se si abbandonava, era come darlo al nemico, che subito vi si sarebbe fortificato. Il Machiavelli perciò, dopo una visita accuratissima fatta alle mura, insieme con l'ingegnere Pietro Navarro, scrisse una minuta e precisa relazione, nella quale, proponendo tutti i lavori necessarî, insisteva sempre più sul concetto di fortificare solo le mura esistenti con nuove torri, fortilizî, fossati ed altre opere. Il 17 maggio scriveva al Guicciardini ancora in Roma, dicendogli che aveva il capo così «pieno di baluardi» che non vi entrava altro. Gli aggiungeva che a Firenze s'era fatta la legge con cui veniva istituito il nuovo magistrato, per provvedere alle fortificazioni; e che se la cosa andava innanzi, come pareva certo, egli, Machiavelli, sarebbe stato il nuovo cancelliere. Faceva premure che il Papa cominciasse da parte sua a dare gli ordini pel denaro necessario a cominciare i lavori. Accennando poi alle notizie venute di Francia sulla nuova attitudine presa dal Re, a quelle venute di Roma sui pericoli cui s'era trovato esposto il Papa, ed a quelle finalmente venute in Lombardia sui tumulti seguìti nell'esercito imperiale, concludeva che da esse si vedeva chiaro «quanto facile sarebbe stato cavar d'Italia questi ribaldi. Per amor di Dio non si perda questa occasione. Ricordatevi che cattivi consiglieri e peggiori ministri avevano tratto non il Re, ma il Papa come in prigione, di dove è appena fuori. L'Imperatore adesso, vedendosi mancare sotto il Re, farà profferte che dovrebbero trovar le orecchie vostre turate. Non si può più pensare di rimettersi al tempo ed alla fortuna, perchè ingannano. Bisogna operare. A voi non occorre dire altro. Liberate diuturna cura Italiam. Extirpate has immanes belluas, quae hominis praeter faciem et vocem nihil habent.». Il Guicciardini gli rispondeva d'essere pienamente d'accordo con lui, e che le cose erano ormai tanto chiare, che sperava bene si provvederebbe una volta con animo deliberato. Pure non fu così. Il Papa, nelle piccole e grandi cose, era sempre in preda alla stessa incertezza, la quale fece sì che anche l'opera di fortificare le mura fiorentine non arrivasse ad alcuna conclusione, ostinandosi egli sino all'ultimo nel suo disegno poco pratico e da tutti condannato.

La nuova Provvisione che istituiva in Firenze i Cinque Procuratori delle Mura, fu scritta dallo stesso Machiavelli, e venne approvata nel Consiglio dei Cento, il 9 maggio 1526. Il 18 furono eletti i Procuratori, che lo scelsero loro Cancelliere e Provveditore; ed egli facendosi aiutare da un suo figlio e da Daniello Bicci, che teneva i conti e le scritture, incominciò subito a scrivere lettere, a dare ordini per mettere mano ai lavori. Fu ordinato ai Podestà di mandare uomini a cavare fossati; fu scritto al Papa, perchè desse danaro, non essendo ora possibile aggravare i cittadini con nuovi carichi. Lo pregavano ancora che sollecitasse la venuta d'Antonio da San Gallo, inviato già in Lombardia a studiare le fortificazioni colà, non essendo prudente consiglio il metter mano ai lavori prima che gl'ingegneri si fossero messi d'accordo sul disegno dei baluardi da costruire. Ma questo appunto fu quello che riuscì impossibile, perchè il Papa tornava sempre alla sua strana idea d'allargare la cerchia delle mura, per modo che circondassero tutta la collina di San Miniato, e pretendeva che l'aumento del prezzo de' nuovi terreni, i quali verrebbero così inclusi nella cinta, dovesse far guadagnare 80,000 ducati. Il Machiavelli fu per perderne la pazienza, e tre lettere ne scrisse il giorno 2 giugno al Guicciardini, concludendo: «tutto questo è una favola, nè il Papa sa quello che si dice.» Caldamente pregava che lo rimovesse da tanta ostinazione, altrimenti si sarebbe, egli affermava, indebolita la Città, e spesa invano gran somma di danaro. In conclusione s'andò per le lunghe, senza far lavori d'importanza. E quando si doveva finalmente venire a qualche cosa di più concreto, di più utile, i nemici erano già tanto innanzi, che il Machiavelli dovette ripetutamente correre al campo, dove era il Guicciardini, lasciando quindi e ripigliando più volte i lavori. Ormai ogni speranza stava nel trovare il modo di deviar da Firenze la minacciosa bufera, la quale si avanzava rapidamente, senza che si fosse in condizioni da poter resistere con energia.

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