CAPITOLO XVII.

Assalto dei Colonna in Roma. - Tregua del Papa coll'Imperatore. - Il Guicciardini e il Machiavelli al campo. - Cremona s'arrende alla Lega. - Ordine al Guicciardini di ritirare il campo di qua dal Po. - Gl'imperiali s'avanzano verso Bologna. - Vani tentativi d'accordo tra il Papa e gl'imperiali. - Il Machiavelli torna a Firenze. - Tumulto di Firenze. - Sacco di Roma. - Cacciata dei Medici, e ricostituzione della repubblica fiorentina.

L'Imperatore riteneva adesso che, spingendo innanzi l'esercito, potesse facilmente divenire arbitro dell'Italia. Ma egli mancava assolutamente di danaro, ed il paese, quantunque debole e diviso, gli era tutto nimico. Francesco I, uscito dalla prigione, e deliberato a non mantenere i patti, aveva a Cognac (22 maggio 1526) stretto col Papa, con Firenze, Venezia e Milano una lega, che fu detta santa, e che era in sostanza diretta contro l'Impero. A Carlo V importava quindi moltissimo separarne il Papa, o renderlo almeno temporaneamente neutrale. E però, quando il cardinal Colonna, che era più soldato che prelato, e nimicissimo di Clemente VII, si offerse d'impadronirsi della persona di lui, fu mandato a Roma don Ugo di Moncada, con incarico di tentar prima una tregua, e non riuscendogli, dire al Colonna che facesse pure quello che voleva. In fatti don Ugo non concluse nulla, essendo giunta la notizia delle strettezze in cui era l'esercito imperiale, e partì quindi sdegnato, il 20 giugno, lasciando mano libera al Colonna, che non mise tempo in mezzo. Alla testa di 800 cavalieri, 3,000 fanti ed alcune poche artiglierie tirate da buoi, irruppe nella Città Eterna con tale impeto, che Clemente VII ebbe appena il tempo di fuggire con la sua guardia svizzera, e rinchiudersi in Castel Sant'Angelo. Il Vaticano, San Pietro, le case dei cardinali andarono a sacco, ed in poche ore fu fatta una preda di 300,000 ducati. Era già un pessimo esempio dato agl'imperiali, che s'avanzavano dalla Lombardia; ma il Cardinale voleva andar oltre ancora, e metter le mani sulla persona stessa del Papa. Laonde questi si rivolse spaventato al Moncada, che seguiva il piccolo esercito tumultuario, ed il Moncada si fece subito mediatore, dettando le condizioni della pace, che furono: tregua di quattro mesi coll'Imperatore, il naviglio del Papa ritirato da Genova e i soldati dalla Lombardia, amnistiati i Colonna. Il Cardinale si ritirò allora co' suoi a Grottaferrata, ed eran tutti pieni di sdegno, chiamandosi traditi. Il Papa accettò i patti impostigli dalla forza, con animo però, alla prima occasione, di non rispettarli. E don Ugo lo sapeva bene; ma per ora gli bastava guadagnar tempo, dopo averlo spaventato. Se ne andò quindi a Napoli, menando come ostaggio Filippo Strozzi parente dei Medici. In questo medesimo tempo Clemente VII ebbe a sopportare anche un'altra umiliazione. Sotto pretesto d'assicurare le spalle al suo esercito in Lombardia, egli aveva mandato alcune sue genti, con una moltitudine raccogliticcia di Fiorentini, a mutare il governo in Siena. Ma furono subito messi dai Senesi in una fuga precipitosa e vergognosa, senza avere neppur tentato di combattere.

E per colmo di sventura, tutte queste notizie, con l'ordine di ritirarsi di qua dal Po, arrivarono al campo pontificio nel momento appunto in cui, dopo molte traversie, s'aveva la prima volta qualche speranza di migliore fortuna. Le cose erano dapprima cominciate colà assai male. I Veneziani, comandati dal duca d'Urbino, non passarono l'Adda; gli Svizzeri aspettati non venivano; ed invece i Lanzichenecchi ingrossavano nel Tirolo, sotto il comando del Frundsberg, protestante, che diceva di volere andare in Roma ad impiccare il Papa, ed impegnava le proprie terre, per poter pagare i soldati imperiali. Un tumulto seguìto a Milano contro gli Spagnuoli fu subito represso, senza che gli alleati, i quali avrebbero facilmente potuto mandar 20,000 uomini per sostenerlo, osassero far nulla. Venivano finalmente in aiuto molti Svizzeri alla spicciolata, sebbene non vi fosse un regolare contratto coi Cantoni; ma neppur questo induceva il duca d'Urbino ad un'azione risoluta. Egli voleva il comando generale di tutto l'esercito; si lamentava sempre d'ogni cosa, e non decideva mai niente. Dopo aver fatto le viste d'andare a Milano, dove tutti lo spingevano, s'era invece fermato, mandando ad assediar Cremona, il che aveva messo l'esercito nella impossibilità d'inviare aiuti al Doria, che bloccava Genova, e dichiarava di poterla prendere, se gli alleati andavano subito a stringerla dalla parte di terra.

Il Guicciardini si trovava allora al campo, luogotenente del Papa, e non cessava mai di scrivere a Roma per dargli animo; s'adoperava a tenere in ordine l'esercito, a spronare il Duca, a spingerlo innanzi, a farlo operare; ma tutto era vano. Quando credeva d'esser finalmente riuscito a decidere l'inerte capitano d'andare a Milano, lo vide invece fermarsi per l'inutile assedio di Cremona. Quando aveva sperato che il Papa non pensasse più che alla guerra, arrivava invece la notizia, che si trattavano accordi. «Che carico,» egli esclamava allora, «che vergogna sarebbe smarrirsi alle prime difficoltà, ora che l'esercito non è rotto, non sono seguiti disordini, e siamo sulle terre del nemico!» In questo mezzo appunto giungeva al campo Niccolò Machiavelli, mandato dai Fiorentini, che vivevano assai perplessi per la loro città, ad esaminare e riferire come procedevano le cose. Per via aveva ricevuto lettere del Vettori, con le quali era stato ragguagliato del vergognoso fatto di Siena. «Credo,» così questi gli aveva scritto, «che altra volta sia accaduto che un esercito fugga alle grida; ma che fugga dieci miglia, non essendovi alcuno che lo insegua, questo non credo si sia mai letto nè veduto. Ormai tutto va a rovina. Quando vedo come vanno male le cose a Milano, a Cremona, a Genova; come è andata male questa impresa di Siena, io penso che con simile disdetta non riusciremo neppure a sforzare un forno.»

Pare che in questi estremi momenti il Machiavelli fantasticasse ancora d'una possibile resistenza del popolo in armi, e raccomandasse di nuovo la sua Ordinanza. In fatti troviamo che Roberto Acciaioli, oratore del Papa e dei Fiorentini in Francia, scriveva, il 7 agosto 1526, al Guicciardini: «Ho caro che il Machiavelli habbi dato ordine a disciplinare le fanterie. Volesse Iddio che fusse messo in atto quello che egli ha in idea; ma dubito che non sia come la Repubblica di Platone. E però me pareria fussi meglio che se ne tornassi a Firenze, a fare l'offizio suo di fortificar le mura, perchè corrono tempi da averne bisogno.» Il 10 settembre egli veniva dal Guicciardini spedito al campo di Cremona, perchè vedesse coi propri occhi lo stato delle cose, e facesse intendere al Pesaro, provveditore veneto, e al duca d'Urbino, che se non credevano di potere, in cinque o sei giorni, prendere quella città, era meglio abbandonare addirittura l'impresa, per correre in aiuto del Doria a Genova e, potendo, assalire anche il nemico a Milano. Ma al Machiavelli non fu possibile concludere nulla. Il provveditore Pesaro, in fatti, scriveva che il dì 11 settembre il Duca s'era dimostrato assai contrario a correre in aiuto del Doria, e che il 13, presente il Machiavelli, avendo adunato i suoi capitani, per consultarli, «s'il doveva levarsi de l'impresa, et atender a quella di Zenova,» tutti s'eran dichiarati contrarî. Affermavano esser necessario pigliar prima Cremona, dopo di che sarebbe stato assai facile mandar gente a prendere Genova. Ed il Machiavelli perciò, dopo avere di là scritto più lettere al Guicciardini, ripartiva subito per ritornarsene a Firenze, dove riferì come nel campo nessuno volesse abbandonare l'impresa di Cremona, che pareva veramente vicina al suo termine. In fatti la città poco dopo s'arrese.

Allora l'esercito fu libero. Esso componevasi di 20,000 Italiani e 13,000 Svizzeri, senza tener conto di altri 3500 che s'aspettavano ancora dalle Alpi. Questi erano però gl'iscritti, quelli cioè che si pagavano, non i presenti, e molti ogni giorno disertavano o si sbandavano. Ma i nemici erano in numero minore, e privi di tutto. Qualche cosa dunque si poteva certamente operare. Invece arrivò, come fulmine a ciel sereno, la notizia della tregua, e l'ordine al Guicciardini di ritirare le genti del Papa di qua dal Po. «Piuttosto,» egli scriveva allora al Datario, «abbandonerei l'Italia, che vivere a Roma nel modo che dovrà Nostro Signore, se va per la via che mi dite, Tu ne cede malis, sed contra audacior ito. Deve dunque il cardinal Colonna con mille comandati aver tanta forza da ridurci in sì misera condizione, e quasi dar legge al mondo?» Ormai però non c'era rimedio, e bisognava obbedire. Per conto del Papa restava in armi solo Giovanni de' Medici, con una condotta di 4000 fanti, e l'ordine segreto di continuare la guerra, sotto colore d'essere a soldo della Francia. Per colmo di sventura, questo valoroso soldato era scontentissimo del modo in cui veniva trattato, e minacciava di passare al nemico, se non gli davano uno Stato, come tante volte avevano promesso. «Ed è uomo capacissimo di farlo,» scriveva il Guicciardini da Piacenza. Al duca d'Urbino non parve vero d'abbandonar subito il campo, per andarsene a trovar la moglie. Intanto i Lanzichenecchi, già riuniti in Bolzano, arrivavano a 10 o 12 mila, ed aumentavano ogni giorno, pronti a scendere in Italia.

Il Machiavelli, tornato a Firenze, dopo che ebbe riferito a voce, espose anche in una sua relazione scritta lo stato vero delle cose. S'era, secondo lui, commessa una serie d'errori, cominciando dallo sperar troppo nella sollevazione di Milano, subito repressa dagl'imperiali. L'impresa di Cremona era stata condotta troppo debolmente, il che aveva fatto perdere tempo e reputazione. Il Papa non aveva voluto ricorrere alla nomina di nuovi cardinali per far danaro, nè aveva saputo trovarlo altrimenti. Se n'era rimasto a Roma in modo che ne andò preso come un bimbo, «il che ha siffattamente avviluppata la matassa, che nessuno può ravviarla, avendo egli anche ritirato dal campo le sue genti e messer Francesco Guicciardini, che solo correggeva gl'infiniti disordini. Ora sono più capitani discordi fra loro, per modo che, mancando chi li guidi, fia una zolfa di cani, dal che segue una stracurataggine di faccende grandissima.» Egli avrebbe desiderato che si fosse venuto a qualche partito audace e disperato, ma non aveva mai trovato ascolto. Da una lettera di Filippo Strozzi (Roma, 26 agosto 1526) apprendiamo in fatti che il Machiavelli aveva, in una sua, proposto che s'andassero ad assalire gl'Imperiali nel regno di Napoli; ma che il Papa, dopo averla letta con attenzione, concluse che la risoluzione del detto non gli piaceva.

L'armata di Spagna muoveva intanto dal porto di Cartagena, sotto il comando del Lannoy vicerè di Napoli, per andare a combattere il Doria; ed il Frundsberg a novembre era già nel Bresciano, con più di 12 mila Lanzichenecchi. Tuttavia il Doria, con l'aiuto delle navi francesi, comandate da Pietro Navarro, era sul mare in condizioni da poter respingere il nemico. Nè sarebbe stato difficile ricacciare nei monti i Lanzichenecchi, separati ancora dagli altri imperiali, senza artiglierie, senza danari e senza vettovaglie. Ma nessuno andò ad affrontarli, sebbene il duca d'Urbino con Giovanni de' Medici avesse 1600 cavalli e 19,000 fanti. I Tedeschi, dopo essersi lentamente avanzati, si trovarono nel Mantovano, in mezzo alle paludi, circondati dai nemici; e neppur questo potè indurre il Duca ad assalirli. Tutto dimostrava che la servitù d'Italia non si poteva ormai evitare. Pure le condizioni degli imperiali erano tali, che c'era da vederli sbandarsi senza assalirli, se in quel momento non veniva ad essi un aiuto inaspettato. Il duca di Ferrara, che possedeva le migliori artiglierie allora conosciute, era in una posizione geograficamente così vantaggiosa, da poter esso solo decidere l'esito della guerra. Ed il Papa appunto allora lo aveva scioccamente offeso, respinto, irritato. Egli mandò quindi ai Tedeschi danari con alcune delle sue artiglierie, le quali arrivarono nel momento del maggiore bisogno. Giovanni dei Medici, stanco dell'ozio forzato, cominciò il 25 novembre una scaramuccia contro gl'imperiali, e secondo il suo solito, s'avanzò arditamente, nulla sapendo delle artiglierie arrivate al nemico; sicchè la seconda palla che esse tirarono, lo ferì in una gamba per modo che dopo cinque giorni ne morì. E così mancava al Papa il solo capitano che allora potesse e volesse con animo deliberato fare la guerra.

La tregua intanto si poteva dire già finita, essendosi di fatto venuto di nuovo alle mani. Ed il Machiavelli tornava in fretta al campo, per esporre al Luogotenente le misere condizioni di Firenze, e dirgli che in niun modo essa avrebbe senza aiuti potuto resistere al nemico, quando fosse venuto ad assalirla. Ma il Guicciardini dovette rispondergli, che i soldati della Lega si trovavano talmente sparsi, che in caso d'urgenza egli non avrebbe potuto condurre in aiuto della Città più di 6 o 7 mila fanti del Papa. S'apparecchiassero perciò come meglio potevano, e se credevano di dover tentare accordi, era meglio trattar direttamente col Vicerè, dal quale tutti gli altri dipendevano, perchè esso rappresentava l'Imperatore. Ed il Machiavelli, dopo aver mandato per lettera queste notizie, tornava daccapo a Firenze.

Da Milano uscivano intanto continui drappelli di Tedeschi e di Spagnuoli, che andavano a raggiungere i Lanzichenecchi. V'andò anche il Borbone, dopo aver prima minacciato il Morone per cavarne nuovo danaro, nominandolo poi suo consigliere, vedendo che si prestava efficacemente a tutto; quando vi trovava il suo interesse. Gl'imperiali erano arrivati al numero di 30,000, ed avendo ricevuto una seconda volta danari e munizioni dal duca di Ferrara, lasciavano Piacenza, avviandosi verso Bologna. Ed il Papa non si decideva ancora nè alla pace nè alla guerra. I Fiorentini promettevano di dargli fino a 150,000 ducati, se riusciva a fare un accordo stabile, per salvar tutti dal pericolo imminente. Ma egli ora trattava cogl'imperiali, ed ora faceva assalire le loro genti nel Napoletano, per venire poi di nuovo ad accordi, che dovevano essere da capo violati. L'Imperatore, come sin da un anno aveva preveduto e scritto il Guicciardini, voleva addormentarlo, per averne occasione a farsi padrone d'Italia. E però il suo esercito s'avanzava sempre dal settentrione, sebbene assai lentamente e fra mille ostacoli, per mancanza di danaro, per disordini continui nel campo, per la cattiva stagione. E fra poco doveva, in tale stato, affrontare anche la difficoltà di traversare le nevi dell'Appennino. Il Guicciardini era a Parma, donde scriveva e riscriveva, che nulla poteva indurre il duca d'Urbino ad assalire il nemico: o tradiva o aveva una gran paura; forse era vera l'una cosa e l'altra. Nel febbraio lo raggiunse di nuovo in gran fretta il Machiavelli, mandato per la terza volta da Firenze a dirgli, che negli accordi non si poteva più sperare, che la Città non poteva in nessun modo resistere, e chiedeva di non essere abbandonata al nemico. Il Guicciardini lo condusse dal Duca a Casal Maggiore, per vedere se in due riuscivano a farlo muovere una volta. Ma ogni preghiera fu vana. Egli non voleva nè affrontare, nè precedere il nemico: solo a distanza lo seguiva. Tutto induce a credere che non fosse allora trattenuto unicamente dalla paura, come molti dicevano e credevano; ma forse anche da segrete istruzioni dei Veneziani, ai quali pare che non dispiacesse vedere il Papa umiliato, piuttosto che divenuto per qualche vittoria potente e pericoloso. Certo è che il Guicciardini aveva pienissima ragione di scrivere: «Qui non si fa altro che prevedere e ritenere per certi tutti i possibili pericoli nostri e tutti i possibili disegni del nemico, il quale non arriverebbe a pensarne la metà, quando pure potesse leggere nella nostra mente.» Assicurava tuttavia al Machiavelli che, quando gl'imperiali fossero venuti in Toscana, egli li avrebbe preceduti con le genti del Papa, per salvare Firenze, anche se il Duca si fosse ostinato a rimaner sempre alla coda. Ed il Machiavelli mandava queste notizie agli Otto, scrivendo ripetutamente da Parma, che non si poteva in nessun modo prevedere quello che i nemici erano per fare, non sembrando che lo sapessero essi stessi. Facile sarebbe stato metterli in rotta, se però i disordini della Lega e la inerzia del duca d'Urbino non continuassero a mandar tutto a rovina. Nel marzo scriveva da Bologna, dove si trovava col Guicciardini, che gl'imperiali erano colà presso alle mura; avevano avuto la seconda volta aiuto dal duca di Ferrara, fatalmente divenuto arbitro della guerra, e parevano decisi a venire in Toscana. Essi intanto domandavano vettovaglie, e volevano entrare in quella città; ma il Guicciardini fece chiudere le porte, senza altro rispondere, ed invano minacciarono e tentarono di ricorrere alla forza.

Il Luogotenente era adesso molto impensierito, non solo del pericolo in cui si trovava il Papa, ma di quello che pareva più vicino ancora alla città di Firenze. E per indurre il Duca a soccorrerla in tempo, aveva preso su di sè la grave responsabilità di cedergli la terra di San Leo, che i Fiorentini gli avevano sempre fatta sperare, senza mai dargliela. Per fortuna l'imminente pericolo sembrava ora allontanarsi, giacchè gl'imperiali accennavano a pigliar direttamente la via di Roma, e il disordine andava sempre crescendo fra di loro. Verso la metà di marzo in fatti vi fu nel campo un vero e proprio tumulto, che durò alcuni giorni. Il Borbone si dovette nascondere, per salvarsi dall'ira de' soldati. Il Frundsberg volle invece affrontarla, e si provò il 16 ad arringare i suoi Lanzichenecchi; ma gli risposero con le punte delle alabarde sul viso, gridando ferocemente che volevano subito le paghe. Ed a questo atto d'indisciplina, lo sdegno del valoroso capitano fu tale che ne ebbe un colpo d'apoplessia. Sedutosi sopra un tamburo, venne soccorso dai suoi, che poterono condurlo a Ferrara; ma non andò molto che cessò di vivere. E neppure in tale momento il duca d'Urbino seppe decidersi ad assalire il nemico.

Intanto arrivava la notizia d'una nuova tregua conclusa a Roma fra il Vicerè ed il Papa. Questi doveva reintegrare i Colonna; ritirare le armi che aveva fatte avanzare nel Napoletano; lasciare il Reame a Carlo V, Milano allo Sforza, e dare 60,000 ducati al Borbone, che si sarebbe col suo esercito ritirato dallo Stato della Chiesa e dall'Italia, se Francia e Venezia accettavano i patti. Lo sdegno del popolo romano, allora già in armi, fu grandissimo; ma Clemente VII, che non poteva più sostenere le enormi spese, ed era avarissimo, non appena il 25 marzo fu firmato l'accordo dal Vicerè, licenziò buona parte de' soldati in Roma, facendo un'economia di 30,000 ducati il mese. Così la Città restava senza potersi difendere, ed il Borbone, che aveva l'ordine segreto d'andare innanzi, scrisse subito al Vicerè, che i 60,000 ducati erano pochi pel suo esercito; non poteva quindi accettare la tregua, ed era vano presumere che egli o altri potesse ora fermare i soldati. Il 31 marzo in fatti passò il Reno presso Bologna, ed andò oltre.

Il Guicciardini non sapeva più che dire o che fare, ed a confonderlo sempre più, il Morone mandava a dire, che se gli dava subito 3000 ducati, dei quali avea bisogno per liberare un suo figlio, che era in ostaggio, avrebbe tradito gl'imperiali, lasciandoli in grandissima confusione. Ma il Luogotenente non rispose neppure, troppo bene conoscendo l'uomo. E sempre più rattristato, scriveva a Roma, che il pensare, come facevano colà, alla tregua e non alla difesa, era un funesto errore. «Non so se la necessità ci farà infine uscire dall'incertezza. Li inimici vogliono da Nostro Signore e da noi tutto quello che abbiamo, nè pensano solo al temporale; ma ruinano le chiese, profanano i sacramenti, mettono eresie nella fede di Cristo. Alle quali cose, se non pensa chi può e deve sforzarsi di portarvi rimedio, credo sia colpevole della medesima infamia ed offesa a Dio.» Nè molto diversamente scriveva a Firenze il Machiavelli, il quale, annunziando che il Papa voleva far pagare dai Fiorentini i 60,000 ducati promessi agl'imperiali, aggiungeva: «Bisogna pure trovarli e far quest'ultimo sforzo per salvare la patria. O si fa davvero la tregua, e serviranno a pigliar tempo, a ritardare almeno la rovina, o non si fa la tregua, e serviranno a far guerra.» Ormai però già si sapeva che il Borbone non accettava. Egli anzi, rispondendo che i danari promessi erano pochi, non aveva neppur detto qual somma maggiore volesse. Un suo uomo, è vero, mandato a Firenze, dove espressamente venne anche il Vicerè, s'accordò per 150,000 ducati, promettendo che l'esercito avrebbe cominciato a ritirarsi appena pagati i primi 80,000. Ma neppure a ciò il Borbone dichiarava di consentire; e però il Machiavelli, finalmente affatto disilluso, scriveva che adesso era meglio pensare alla guerra e non occuparsi d'altro. «Quale accordo volete voi sperare da nemici che, quando ancora i monti li separano da voi, e le nostre genti sono in piedi, vi domandano 100,000 ducati fra tre giorni, ed altri 50,000 fra dieci? Arrivati che saranno costà, vi chiederanno tutto il mobile vostro. Non vi è altro rimedio che sgannarli, e quando ciò s'abbia a fare, è meglio sgannarli con queste alpi che con coteste mura.»

Sebbene le nevi e i monti tenessero ancora fermo l'esercito, e si continuasse a parlare d'accordi e di somme sempre maggiori per poterli concludere, pure il Machiavelli che, non avendo ormai altro da sperare o da fare a Bologna, era partito per Firenze, scriveva il 16 aprile da Forlì al Vettori: «Se il Borbone va innanzi, bisogna pensare alla guerra affatto, senza avere più un pelo che pensi alla pace. Se non muove, bisogna concludere addirittura la pace, senza pensare alla guerra. Dovendola però fare, non si deve più claudicare, ma farla all'impazzata, perchè spesso la disperazione trova dei rimedî che la elezione non ha saputo trovare. Io amo messer Francesco Guicciardini, amo la patria mia, e vi dico, per quella esperienza che mi hanno dato sessanta anni di vita, che io non credo mai si travagliassero i più difficili articoli che questi, dove la pace è necessaria e la guerra non si può abbandonare, e si ha alle mani un principe, che a fatica può supplire alla pace sola o alla guerra sola.» Da Brisighella scrisse il 18 allo stesso un'altra lettera, più incerta che mai, e poi venne a Firenze, dove la sua opera poteva essere utile e la famiglia lo aspettava con grandissima ansietà. La moglie ed i figli, in gran paura dei Lanzichenecchi e degli Spagnuoli, già avevano in parte sgomberato la villa; ed egli aveva promesso di raggiungerli in tempo, quando vi fosse stato davvero vicino pericolo. «Saluta Mona Marietta,» così il 2 aprile aveva concluso da Forlì una sua affettuosa lettera al figlio Guido, «e dille che io sono stato quasi per partirmi di dì in dì, e così sto, e non ebbi mai tanta voglia di essere a Firenze, quanto ora; ma io non posso altrimenti. Solo dirai che per cosa che la senta, stia di buona voglia, che io sarò costì prima che venga travaglio alcuno.» Ed il figlio, ancora giovanetto, rispondeva il 17, dicendo che erano tutti lietissimi della promessa. Li avvertisse però subito se venivano i Lanzichenecchi, perchè si fosse in tempo a portar via ogni cosa dalla villa. Questa lettera in grossi caratteri, quasi infantili, fu gelosamente serbata dal padre, e così arrivò sino a noi. Egli, secondo la promessa fatta, fu subito tra i suoi.

A Firenze i cittadini s'erano dimostrati pronti ad ogni sacrifizio, per evitare il pericolo che loro sovrastava. Avevano in fretta raccolto e spedito i primi 80,000 ducati promessi dal Papa al Borbone; fondevano gli ori e gli argenti delle chiese, per mandare il resto. Ma i loro messi seppero per via che non erano neppur ora accettati i patti, e furono a mala pena in tempo a mettere in salvo il danaro, riportandolo a Firenze. Non v'era dunque, come il Machiavelli aveva già detto, da pensare ad altro che a difendersi. In città si trovavano solo alcuni pochi soldati, ed il lavoro delle fortificazioni, sebbene fosse stato a più riprese da lui sollecitato, si poteva dire a mala pena iniziato. Il popolo era scontentissimo del cardinal Passerini, che non voleva consigli e non faceva nulla. «Tutto il male,» scriveva il Guicciardini, venuto ora anch'egli a Firenze, «procede dalla ignoranza di questo castrone, il quale si consuma in favole, e stracura le cose importanti. Non vuole che gli altri le faccino, ed egli non sa far nulla. Pensa solo a guardare la casa dei Medici ed il Palazzo; abbandona lo Stato, e non vede la rovina che si tira dietro. Oh Dio! che crudeltà è vedere tanto disordine.» Era riuscito a condurre l'esercito della Lega presso Firenze, il che aveva contribuito a far sì che gl'imperiali si decidessero a continuare il loro cammino verso Roma. Ma anche quell'esercito, che doveva essere amico, saccheggiava il contado, e quindi il malumore dei Fiorentini cresceva sempre più. Bastò in fatti una rissa seguita il 26 aprile fra un cittadino ed un soldato, per far nascere un tumulto generale, nel quale il popolo si levò a chiedere le armi. Il caso volle, che allora appunto il Passerini, salito a cavallo coi cardinali Ridolfi, Cibo e Ippolito de' Medici, si movesse per andare incontro al duca d'Urbino, il quale, insieme coi Provveditori veneti e col Luogotenente, aveva preso alloggiamento in una villa a poche miglia dalla Città. Il Cardinal Passerini volle far mostra di sprezzare il tumulto, e quindi, senza neppur chiedere che scopo e che gravità avesse, continuò il suo cammino. Tutto ciò fece credere alla moltitudine, che i Medici con i loro rappresentanti se ne andassero via; ed il Palazzo fu subito invaso al grido di popolo e libertà. Accorsero molti autorevoli cittadini, ma il disordine divenne subito assai grande: vi furono ingiurie ed anche qualche colpo di pugnale. Finalmente si concluse col dichiarare decaduto il governo dei Medici e ripristinata la repubblica.

Il Cardinale allora, avvertito dell'accaduto, tornò in fretta con alcuni archibusieri del Duca, i quali occuparono gli sbocchi della Piazza. Il Palazzo fu subito chiuso da quelli che vi si trovavano dentro; ma la guardia medicea, che s'era prima nascosta, uscì fuori adesso, e puntò le picche alla porta per sforzarla. Pareva che dovesse seguirne addirittura una rivoluzione sanguinosa; ma i cittadini rinchiusi colà, non facevano altro che tirar dalle finestre qualche tegolo, il quale cadeva lontano, senza recar danno a nessuno. Iacopo Nardi racconta, che allora mostrò come si potevano disfare i parapetti dei ballatoi, facendo cadere le pietre sui soldati. E così in fatti li costrinsero ad allontanarsi. Da una parte e dall'altra si aveva però assai poca voglia di combatter davvero; si cercava quindi una via per farla subito finita. Non era possibile difendere il Palazzo senz'armi, e non era facile di fuori sforzarlo in breve tempo. Sarebbe poi stato inevitabile, nel prenderlo, fare strage dei cittadini ivi rinchiusi, il che avrebbe di certo indignato tutta la Città. Francesco Guicciardini, il cui fratello gonfaloniere trovavasi ivi rinchiuso, e Federigo da Bozzolo vennero allora a portare una promessa scritta d'amnistia generale; e così tutto finì con la elezione d'una nuova Signoria. Certamente, se le cose del Papa non fossero andate subito a rovina, egli avrebbe fatto aspra vendetta in Firenze; ma ora aveva ben altro da pensare.

L'esercito imperiale continuò il suo cammino verso Roma, e quello della Lega lo seguiva, come sempre, a rispettosa distanza. Il duca d'Urbino dette l'ordine della partenza, facendo dai suoi attraversare la Città, e tutti restarono maravigliati di vedere tanti armati e così bene in ordine, incapaci d'affrontare il nemico, buoni solo a devastare le terre e le case degli amici. Il Guicciardini assai di mal animo dovette anch'egli continuare il doloroso e vergognoso cammino. A Castello della Pieve ebbe il dì 8 di maggio l'infausta nuova, che i nemici, dopo poche ore di combattimento, erano entrati nella Città Eterna, la quale già ne andava a sacco. Il Papa s'era chiuso in Castel S. Angelo, ed il Duca, invece di raggiungere il nemico, s'era diretto a Perugia per mutare colà il Governo. Invano il Luogotenente faceva ogni opera, per indurlo almeno ora ad un ultimo sforzo, invano scriveva al Passerini, perchè da Firenze mandassero genti a tentar di liberare il Papa con qualche colpo ardito. «Sta il meschino chiuso in Castello, senza altra speranza che il vostro aiuto, e lo sollecita con parole che muoverebbero le pietre. Ma da voi non s'ha neppure una risposta. Iddio non mi aiuti se non vorrei prima esser morto, che veder tale crudeltà. Voi pensate tanto al Palazzo ed alla Piazza costà, che dimenticate il resto. Nondimeno se si perde il Papa, tutto ciò vi tornerà, a nulla, perchè si perderà con esso l'anima di cotesto corpo.» Poco dopo avvertiva però, che ormai non v'era più nulla da sperare: il Papa si sarebbe in qualche modo accordato coi nemici, e questi sarebbero inevitabilmente venuti addosso a Firenze.

La nuova della presa e del sacco di Roma, e quindi il pericolo d'una guerra in Toscana furono noti a Firenze il giorno 11 maggio. Il pensiero di tutti fu allora di disfarsi al più presto del cardinal Passerini, dal cui governo nulla si poteva sperare di buono. Il tumulto divenne subito generale, pigliandovi parte i più reputati cittadini, e perfino Filippo Strozzi, parente dei Medici, tornato appena a Firenze. Il Passerini, convintosi che non v'era adesso nulla da fare, se ne andò via con Ippolito ed Alessandro dei Medici. Il 16 maggio venne ripristinata la repubblica, e si deliberò poi con grandissima fretta di convocare pel 20 dello stesso mese il Consiglio degli Ottanta ed il Consiglio Maggiore, con incarico di nominare un Gonfaloniere annuale e rieleggibile. Le stanze che erano state costruite nella sala del Consiglio Maggiore, per alloggiarvi la guardia dei Medici, furono demolite dai più nobili giovani fiorentini, i quali vollero, colle proprie mani, tirar le barelle in cui si portaron via le pietre e i calcinacci. Il primo di giugno, Niccolò Capponi, eletto Gonfaloniere, entrò in ufficio con la nuova Signoria. Furono eletti anche i nuovi Otto di Balìa, e vennero soppressi gli Otto di Pratica, ricostituendo invece, come al tempo del Soderini, i Dieci della Guerra. Ognuno pareva contento della conquistata libertà; ma non v'era tempo da perdere; bisognava apparecchiarsi alla difesa, perchè l'esercito di Carlo V, dopo avere devastato Roma, si sarebbe di certo, nel suo ritorno, mosso verso Firenze. Il Papa, in un modo o nell'altro, si sarebbe accordato coll'Imperatore, ed ambedue avrebbero voluto far le loro vendette contro la risorta repubblica. Il de Leyva già da un pezzo aveva promesso ai suoi soldati di condurli «a misurar colle loro picche i broccati di Firenze»; ed essi eran sempre più avidi di preda. Si cominciarono quindi a discutere i provvedimenti per armare tutti i cittadini validi a difendere la patria; per trovar buoni capitani; per fortificare le mura, non secondo le proposte fantastiche, già vagheggiate dal Papa, ma secondo quelle degli uomini competenti. E fu poco dopo approvato il disegno di Michelangelo Buonarroti, «lodato anche dal giudizio delle persone militari.» L'ardore dei cittadini s'infiammava di giorno in giorno sempre più, e si vedeva che questa volta essi eran davvero pronti ad uno sforzo estremo. Ma tutto ciò incomincia un nuovo dramma, del quale noi non dobbiamo qui occuparci, perchè l'assedio e l'eroica difesa di Firenze escono dai confini della presente storia.

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