IX

Un telegramma di S. E. interruppe l'estasi di Roberto. Preoccupato della sua continua lontananza e del suo quasi completo silenzio, l'ambasciatore chiedeva di vederlo al piú presto. Roberto era partito per Tokio e Yu-rí l'aveva accompagnato. Nell'entrare in Ambasciata Roberto ebbe l'impressione di uscire da un mondo e di entrare in un altro. Assuefatto ormai alla sua vita giapponese, quel brusco ritorno agli scenari e agli usi che gli erano stati abituali gli fece un effetto strano. I primi minuti si trovò quasi a disagio, ma la preoccupazione dell'imminente colloquio con l'ambasciatore lo rimise in sesto. Entrò nell'ufficio di S. E. con un pensiero unico: quello di difendere a fondo, con qualunque mezzo, il suo amore, disposto a mentire, a imbrogliare, magari a ribellarsi, ma a non farsi rubare il suo bene.

Nel colloquio fra il vecchio funzionario e Roberto, S. E. ebbe rapidamente la peggio; ma il capitano sentiva che in successivi colloqui del genere non sarebbe riuscito a cavarsela con tanta facilità. In quel momento, Sua Eccellenza non domandava che di essere convinto e il giuoco era stato semplice. La conversazione volgeva ormai alla fine.

— Bene, capitano – diceva l'ambasciatore – mi rendo esattamente conto della situazione. A Parigi sono molto lontani e vedono naturalmente le cose in maniera diversa. Si meravigliano anzi che in sette mesi non si sia arrivati a nessun risultato. Il mio telegramma rassicurerà il Ministero. Telegraferò dunque che siete sulla buona strada, ma che non potete accelerare i vostri movimenti senza compromettere tutto il sapiente e faticoso lavoro fatto finora. Siamo d'accordo?

— Perfettamente, Eccellenza. È, del resto, la realtà...

— Capisco, capisco, capitano! Il terreno è estremamente sdrucciolevole e avete ragione di andar cauto. In ogni modo, per tranquillare un po’ la gente di Parigi, di quanto tempo credete d'avere ancora bisogno per stringere il nodo? Approssimativamente, s'intende! Mese piú mese meno?

— Da tre a cinque mesi.

— Verso ottobre, insomma?

— Mi par di sí. Può darsi anche prima, ma non posso impegnarmi.

— È logico. E adesso, tornerete a Kioto?

— No... Resterò a Tokio dove convergono ormai le fila.

— Posso telegrafare a Parigi il nome della vedova del commodoro?

— Mi sembra inutile, Eccellenza, ed estremamente imprudente. In Giappone anche i muri hanno orecchi... Telegrafate piuttosto che la faccenda non comporta nessun impiego di fondi. Ciò contribuirà a far capire al Ministero che trattandosi di una situazione impostata piú che altro su rapporti personali di... amicizia, il tempo è un fattore indispensabile.

— Giacché restate a Tokio, pensate riprendere il vostro posto in ufficio? La vostra prolungata assenza dall'Ambasciata deve essere stata certamente notata...

— Naturalmente verrò in ufficio, Eccellenza, ma senza orario fisso. Sopratutto desidererei essere esonerato da V. E. da qualsiasi incarico mondano, avendo assoluto bisogno di avere libere tutte le serate.

Roberto pensava a Yu-rí ed alle deliziose sue serate con lei.

L'ambasciatore gli dette in proposito carta bianca, e completamente rassicurato sulla condotta del suo addetto militare lo congedò cordialissimamente.

— Scusate, caro capitano, se vi ho obbligato a lasciare Kioto dieci giorni prima della data che avevate stabilito, ma se m'aveste scritto un po’ piú con frequenza, qualche rigo anche banale, tanto per farvi vivo, od aveste trovato modo di fare un paio di corserelle fin qui, sarei stato in condizione di rispondere esaurientemente al Ministero senza disturbarvi. In ogni modo, sono contento di sapere che siete sulla pista e che vi sentiate a buon punto. A proposito, come va la salute? Mi sembrate dimagrito! E un pò pallido, anche! Le ghescie di Kioto non sono dunque da meno della loro fama!

E l'ambasciatore accompagnò la frase col risolino secco che gli era abituale: un risolino secco che aveva l'aria di una piccola tosse ben educata. Negli ambienti diplomatici di Tokio quel risolino caratteristico che condiva immancabilmente le conversazioni dell'ambasciatore era stato definito: le glu-glu du vieux dindon de France!

Uscito dall'Ambasciata, Roberto aveva tirato un sospirone di sollievo, ma era rimasto di cattivo umore. Per la prima volta nella sua carriera di ufficiale e nella sua vita di uomo aveva mentito spudoratamente turlupinando quel bravo vecchio dell'ambasciatore, che aveva fiducia in lui. Per di piú, la faccenda s'impastoiava. Entro tre mesi, quattro al massimo, la verità sarebbe venuta a galla. Il suo insuccesso avrebbe provocato certamente il suo ritrasferimento in Francia, il che avrebbe significato la separazione da Yu-rí. E ciò – Roberto lo sentiva – era per lui impossibile! Lo stesso fatto di abbandonare per sempre il Giappone gli sembrava una cosa mostruosa. In Giappone si stava cosí bene! Non era mai stato tanto felice come dà quando si trovava in Giappone! «Alla fin fine», si disse «se mi forzano, abbandonerò la carriera e sposerò Yu-rí. Sono ancora giovane e posso rifarmi una esistenza. Con la conoscenza che ho del giapponese, del francese e dell'inglese non deve essere tanto difficile trovar da sistemarmi in Giappone o magari in Manciuria o a Sciangai. Che colpo, però, per la povera mamma!»

Rientrato a casa – nella sua casa di scapolo – trovò Yu-rí sull'uscio che l'aspettava. Nella cornice europea della sua abitazione di addetto militare, la deliziosa figura di Yu-rí, stilizzata in uno dei suoi magnifici kimono, era come un fiore esotico in un giardino della vecchia Europa. Yu-rí indossava quel giorno un soavissimo kimono di seta lilla, fiorato a glicini spioventi: una vera piccola meraviglia per la sontuosità del tessuto, per la dolcezza delle tinte, per la vaporosità dei disegni. Intorno alla vita aveva un lato obi di broccato bianco a ramaggi amaranto e oro, gonfiato dall'abidorne in tinta, aggraziato sul davanti da un monile di giada tenuto fermo da una catenella d'oro. I tobi di seta bianca, gli zoccoletti di lacca lilla e un antico ventaglio dipinto completavano quel delizioso insieme di donna al quale le grandi maniche svolazzanti davano una leggerezza alata. Sotto l'alta capigliatura corvina, il bell'ovale del viso, stellato dai nerissimi occhi a mandorla, era pieno di luce, pieno di dolcezza... Nel vano della porta Yu-rí sorrideva, un pò reclina in avanti in uno spunto di riverenza che era tutto un tremore di grazia. Creatura di amore e di docilità, veniva incontro e nello stesso tempo sostava, rispettosa. Roberto l'accolse fra le braccia e mentre se la stringeva contro il petto sentí di amarla infinitamente. Un rigurgito di rivolta gli muggiva nell'anima contro le forze imprecise che volevano staccarlo da lei. Cenarono all'europea, poi Roberto si accomodò in una poltrona e Yu-rí gli si mise vicina. Inginocchiata ai suoi piedi sopra una specie di cuscinetto lo interrogava con gli occhi, senza parlare. Lui taceva. Il suo viso era preoccupato. Aveva le ciglia aggrottate e gli occhi duri. Il sorriso di Yu-rí spianava di quando in quando quelle ciglia infoschite e rasserenava quegli occhi cupi, ma dopo un po’ la preoccupazione interna riprendeva il sopravvento riflettendosi sul volto.

Roberto parlò. Un bisogno prepotente di sfogo lo spingeva a parlare con qualcuno di ciò che gli bolliva nell'anima. Chi piú indicato di Yu-rí, suo amore e sua piccola fata? Lei lo lasciava dire, senza interromperlo, condensando nell'espressione degli occhi i suoi sentimenti, la bocca schiusa ad un impercettibile sorriso appena sfumato, le mani in quelle di lui, il corpo contro i ginocchi.

E Roberto le disse tutto.

Scosso nella sua abituale sicurezza d'uomo dal turbamento interno, inebbriato dalla vicinanza della donna amata che volevano portargli via, innervosito e immalinconito da tutte quelle difficoltà che gli amareggiavano l'esistenza, Roberto rivelò a Yu-rí la faccenda del documento che l'Ambasciata aspettava da lui.

— Non è spionaggio – le diceva; – è, in fondo, un semplice controllo che deve anzi legittimare una politica amichevole per il Giappone, ma praticamente debbo agire come fossi uno spione e ciò, tu lo sai, è in Giappone estremamente difficile. Se non ti avessi incontrata, avrei trovato modo di muovermi in mezzo alle mie conoscenze di Tokio e avrei avuto sempre la risorsa, dopo un mese, di dichiarare all'ambasciatore la cosa impossibile. Ti ho invece conosciuta! Ci siamo amati! Assorbito dal mio amore per te che mi empie l'anima di luce e la vita di gioia ho trascurato tutto, e per non essere disturbato nella mia lunga luna di miele, ho fatto credere in Ambasciata di essere sulla buona strada per avere il famoso documento. Intanto, molti mesi sono passati. Parigi preme. L'ambasciatore insiste. Fra qualche settimana la situazione diventerà insostenibile e... mi richiameranno in Francia. Se sei disposta a seguirmi in Francia e a condividere con me la mia vita di ufficiale, non me ne importa; altrimenti, dovrò dare le dimissioni. Io non potrei ormai vivere senza di te. So che tu ami assai il Giappone...

— Anche tu, l'ami!

— Amo il Giappone in te...

— Io sono cosí piccola cosa...

— Non per me, Yu-rí, non per me...

Yu-rí lo lasciò parlare e parlare... Lui sentiva in bocca il bruciore dell'angustia che gli rodeva l'anima e cercava refrigerio nelle sue medesime parole... Lei gli accarezzava i capelli con femminilità materna. La sua piccola mano dalle dita trasparenti di porcellana ambrata stringeva un polso di lui, e attraverso quella stretta amorosa cercava di comunicargli il suo sentimento, la sua fede mistica, il suo fervore magnetico di giapponese...

Quando Roberto ebbe terminato di parlare, Yu-rí gli disse pianamente:

— Quanto tempo credi di avere ancora dinanzi a te?

— Tre mesi, circa.

— In tre mesi si possono accomodare tante cose! Le piú grandi tempeste si compongono nel sereno. Oggi ti sei dato abbastanza da fare. Tirati fuori ora da tutti questi pensieri neri. Ci rifletterai domani e il giorno dopo. La corda troppo tesa si spezza. E tu hai bisogno di avere tutte le corde, ben tese e ben forti al tuo arco. Spiana ora la fronte, Roberto, e sorridi alla tua Yu-rí che ti ama, che ti amerà sempre, qualunque cosa accada. Io sono tua. Tu sei il mio signore ed il mio amore. Il mondo è abbastanza grande perché ognuno vi possa trovare la sua pace. Usciamo insieme, ora. Vuoi? Hai bisogno di distrarti. Dimmi di sí, Roberto!

— Dove vuoi andare, Yu-rí?

— Dove tu preferisci, Roberto. Vuoi che andiamo da O-yuki? Sua figlia suona divinamente il kodo. Se non hai sentito ancora suonare Ja-to-sàn non sai che cosa voglia dire un suono d'arpa. Ja-to-sàn sa anche cantare le belle canzoni del Sud e sua madre O-yuki, che è di Kagoscima, l'accompagna alla chitarra. Da O-yuki c'è sempre una buona botfiglia di sakè di Kobe. È gente brava e ben educata. Il fratello di O-yuki-sàn è il comandante della guarnigione di Tokio.

Il giorno dopo Roberto si recò all'Ambasciata avvertendo Yu-rí che sarebbe rimasto assente l'intero pomeriggio.

— Debbo farmi vedere da un pò di gente – disse – per non avere l'aria di essere morto.

Partito Roberto, Yu-rí si vesti in fretta per recarsi al Tempio di Yoko. Sentiva bisogno di consultarsi col suo iddio preferito, Tengín, protettore di «chi cerca la sua strada». Arrivata dinanzi al Tempio congedò l'automobile e s'inoltrò a piedi nel viale centrale. La pace dell'annoso bosco che circonda il Tempio le dette immediatamente una sensazione di pace interiore. Il viale pieno d'ombra era listato da lampade funerarie, alcune in pietra, altre in legno: inverdite le prime dalle muffe del bosco; verniciate di fresco le seconde con una giuliva tinta rosso-ciliegia che metteva gaiezza nell'anima. Alcuni venditori ambulanti avevano collocato tra le lampade funerarie i loro bancarelli ed invitavano Yurí con profonde riverenze a ricordarsi di loro. Vendevano scatolette di lacca, cicogne scolpite, focacce di farina di fagiuoli, piccole figure in legno del dio Tengín, fazzoletti di seta stampata con l'immagine del Tempio. Sotto un chiosco un bonzo leggeva un grosso libro. Sotto un altro chiosco un bonzo meditava. Sotto un terzo chiosco un bonzo vendeva preghiere scritte su rotolini di carta che si depongono dinanzi alla Divinità senza darsi la pena di recitarle.

Due ponticelli di legno interrompevano il viale a cavaliere di due corsi d'acqua i quali si affondavano a destra e a sinistra in lontananze di alberi e di fiori. Quella immensa pace agreste era quasi paradossale in mezzo al tumulto della metropoli. Le città del Giappone sono piene di questi angoli di raccoglimento spirituale. Yu-rí avrebbe voluto sostare alla balaustra dei ponti a contemplare quei vaghi sfondi d'acqua e di foglie che la luce solare filtrata dalle frasche irrorava d'una luminosità verde-oro ma aveva fretta di parlare al suo Dio. Nell'avvicinarsi al Tempio il viale si allargava diventando ampio e maestoso. I grandi alberi di canfora s'ingrandivano e s'incupivano. In mezzo al loro verde solenne erano disseminati i padiglioni sacri, costruiti in legno grezzo annerito dal tempo, sormontati da immensi tetti sontuosi di tegole nere e lucide, venate qua e là da un fregio di porcellana azzurra o scarlatta. Graziosi porticati inframezzati a pergolati di glicini collegavano fra loro i vari chioschi.

Un alto arcale monumentale color marrone scuro, mitrato da un tetto trapezoidale fortemente inclinato, immetteva nel recinto dei padiglioni maggiori. Un bufalo e un leone di pietra vigilavano l'ingresso. In due grandi nicchie, scavate ai due lati dell'arcale, si drizzavano due statue del dio Tengín, in legno scolpito e laccato. L'artista lo aveva raffigurato con mirabile potenza, muscoloso e ciclopico, corazzato e barbuto, simbolo del vigore gagliardo della razza nipponica. Un gong martellava il silenzio. Yu-rí s'accostò alla fontana propiziatrice e battute tre volte le mani eseguí le abluzioni rituali che permettono di presentarsi, puri, dinanzi a Dio. Poi si diresse, risoluta, verso il Tempio maggiore, ne ascese l'alta gradinata di legno lustrata dall'uso, entrò nell'edifizio, fu alla balaustra del grande altare, s'inchinò tre volte, si genuflesse. Nel centro dell'altare, sotto un baldacchino di lacca vermiglia rigata d'oro, splendeva in un disco di agata trasparente lo «Specchio Divino» che simboleggia lo Spirito di Dio il quale è tutt'uno con lo Spirito del Giappone.

— È un giapponese! – disse semplicemente Yu-rí. – Figlio del Daj Nippon deve tornare alla sua terra. Il mio amore per lui è grande, ma le mie forze sono piccole. Aiutami Tu! Nei suoi occhi leggo lo smarrimento. Aiutami Tu! Il suo viso è pallido e la sua carne scotta. Aiutami Tu!

Nell'ombra mistica dell'Altare lo «Specchio Divino» era una grande ostia tremula ed evanescente nella quale gli occhi di tutti i fedeli vedevano riflessi i brividi delle loro anime, le lagrime del loro pianto, le trafitture della loro carne...

L'indomani Yu-ri-sàn ispirata dal dio Tengín fu a visitare la sua protettrice, la principessa imperiale. La grande dama che voleva bene a Yu-rí l'accolse affettuosamente, e ascoltata la storia del suo amore per Roberto l'invitò a persistere nella sua opera di redenzione e ad avere fede nelle forze strapotenti del Giappone. Ispirata dall'iddio Tengín Yu-rí raccontò alla grande dama austera anche il segreto del documento che il Governo francese aveva chiesto al capitano Namura.

Finita l'udienza, mentre Yu-rí si genufletteva per baciarle la mano la grande dama le aveva accarezzato maternamente i capelli.

— Abbi fede nello Scin, simbolo dell'ascensione della Luce al di sopra della Terra! – fu l'ultima frase della principessa imperiale.

Il caso del capitano Namura fu esaminato il giorno dopo al Sambo-Hòmbu. L' Ufficio della Sicurezza Nazionale aveva la sua sede nel Palazzo dello Stato Maggior Generale accanto al Ministero della Guerra in un massiccio edifizio di cemento armato nel quale il «Paese dei Mille Autunni» si mostrava in uniforme occidentale. In quella rozza costruzione statale non v'erano né legni scolpiti né sete dipinte né paraventi intagliati. Trionfava in pieno il cemento. Le linee erano rigide, nude, geometriche. I mobili erano di acciaio. Scrivanie occidentali. Armadi occidentali. Molte casseforti. Incurvati dal fuoco i metalli nichelati e cromati si erano piegati alle forme brutali delle suppellettili. Gli ambienti avevano una impronta cruda di nord-americanesimo stilizzato. Liste di rame lucido blindavano gli spigoli delle porte. Innumerevoli telefoni dai filamenti invisibili incassati nei muri trillavano in ogni angolo. I tubi della posta pneumatica formavano qua e là fasci mostruosi di cordoni ombelicali attraverso i quali i venti Dipartimenti e le centosettanta Sezioni del Grande Stato Maggiore comunicavano fra loro. Innumerevoli quadranti luminosi indicavano agli interessati l'ubicazione degli uffici. Gli orologi elettrici battevano le ore tutti in una volta come un «presentat'arm». Negli imponenti lavatoi rivestiti di maiolica e permanentemente disinfettati dagli sprigionatori di gas fenico, gli asciugamani erano sostituiti da essiccatori d'aria calda. La civiltà meccanica d'Occidente aveva in quell'Amministrazione asiatica una delle sue grandi basiliche. L'Altare Maggiore era al secondo piano nell'Ufficio Generale del Grande Stato Maggiore dove il principe Kan-i-nin, zio dell'Imperatore, aveva la sua scrivania di Comandante supremo delle Forze Armate. Ma se occidentale, violentemente occidentale, esageratamente occidentale era lo scenario, intensamente nipponico era lo spirito che lo faceva muovere. I rigidi saluti militari alla prussiana a colpi di tacco si asiatizzavano in immediate riverenze, mezzo religiose mezzo familiari. Il personale si muoveva silenziosamente ed armoniosamente con un andare scivoloso e felpato che faceva pensare all'azione dei lubrificanti nell'interno dei macchinari.

Il caso del capitano Namura trasmesso dall'Ufficio del Consiglio Privato della Corona al Ministero competente, era esaminato in un ufficietto del Dipartimento della Sicurezza Nazionale. Due generali e due colonnelli studiavano il caso e i loro pareri erano discordi. Il generale Watabé ed il colonnello Ogàta reputavano che il caso doveva essere trasmesso al Ministero degli Affari Esteri ed all'Intelligente Service dell'Impero, Il generale Saedo Honjo ed il colonnello Doyara lo ritenevano di competenza dello Stato Maggiore Generale.

— Non si tratta di uno straniero – diceva il generale Saedo Honjo – ma di un giapponese che tradisce il suo Paese. Figlio di un giapponese il capitano Namura è un giapponese, quindi un traditore. Sono ammesse le circostanze attenuanti ma il tradimento resta, cosí come resta, chiara, precisa, indiscutibile, la nazionalità giapponese del capitano Namura. Indipendentemente dal fatto che ormai il capitano è nell'impossibilità assoluta di nuocere all'Impero, abbiamo il fatto spirituale di un giapponese che ha cessato di essere giapponese e che deve tornare a far parte della grande famiglia del Daj Nippon. Anzi, secondo la mia opinione che mi lusingo di vedere approvata da S. E. il Comandante generale del Dipartimento, il capitano Namura prima di essere riammesso nella famiglia giapponese deve riscattare il suo delitto di lesa patria mettendo al servizio dell'Impero quanto conosce sulla difesa dell'Indocina e sugli armamenti generali della Francia in Estremo Oriente. Nel caso che si rifiutasse, il suo nome deve essere comunicato alle Associazioni segrete. Ed eseguita la sentenza!

— Sono assolutamente d'accordo con voi – replicò il generale Watabé – sul fondo della questione e non v'è giapponese che non possa esserlo. Insisto però sulla delicatezza del caso particolare trattandosi dell'addetto militare di una Grande Potenza estera nell'esercizio «regolare» e «normale» delle sue funzioni. Sono profondamente persuaso che il capitano Namura, messo brutalmente dinanzi all'obbligo di tradire la sua Ambasciata, rifiuterà sdegnosamente di farlo. Ho soggiornato quattro anni in Francia e so quel che dico. D'altra parte, l'intervento delle Associazioni segrete nel caso concreto di un addetto militare estero è suscettibile di creare un grosso incidente diplomatico con spiacevoli ripercussioni anti-giapponesi nella stampa mondiale. Il mio illustre collega, generale Saedo Honjo, sa quali siano le vedute del Governo Superiore dell'Impero in questo delicatissimo momento internazionale, alla vigilia di una nuova avanzata dell'Armata del Kwantung in territorio cinese. Qualora il mio illustre collega generale Saedo Honjo si irrigidisca nel suo ordine d'idee indiscutibilmente rispettabile, ma secondo me praticamente non opportuno, propongo che i due gruppi stendano ognuno un rapporto a S. E. il Comandante generale. S. E. deciderà il da farsi nell'interesse superiore dell'Impero.

Cosí fu fatto. La sera medesima i due rapporti erano presentati a S. E. il Comandante generale il quale convocò alla sua presenza il generale Watabé.

— Il capitano Namura – disse seccamente S. E. – è un giapponese, quindi figlio, come qualunque giapponese, di Sua Maestà l'Imperatore.

Il generale s'inchinò profondamente.

— Come tale – continuò S. E. – deve essere reintegrato nella famiglia giapponese e, se possibile, deve essere adoperato nell'interesse dell'Impero. Vi affido la pratica. Dall'incartamento risulta che la signorina Yu-ri-sàn ha un forte ascendente sul capitano e che anche il professore Kiyòsci è suo buon amico. Conosco la signorina Yu-ri-sàn e conosco il Kiyòsci. Sono sicuro che troverete in entrambi due eccellenti collaboratori. Secondo la mia opinione il capitano Namura deve essere messo in condizione di comunicare all'Ambasciata francese l'inesistenza del documento denunciato dal Governo britannico e deve nello stesso tempo essere spinto a fornire allo Stato Maggiore Generale tutti quegli elementi sulla difesa dell'Indocina che giudicherete utili all'Impero. Generale Watabé, lo Stato Maggiore conta su di voi in questa faccenda! Avete carta bianca ed aspetto che mi riferiate!

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