Ritornata dal suo viaggio ad A-ma-nosci-dàte, la vecchia signora Mi-zu-kò aveva trovato Roberto istallato come padrone nella sua casa. E Mi-zu-kò aveva preso tranquillamente il suo posto di suocera giapponese nella casa dei due amanti.
Roberto, assorbito dal suo sogno d'amore, si lasciava vivere, felice di sentirsi crogiolato da tanto tepore e coccolato da tanta gente. In realtà, egli era oggetto da parte di Yu-rí, della ottima signora Mi-zu-kò, delle fantesche, dei parenti, di tutti gli amici e frequentatori della casa d'un sottile quanto formidabile lavorio di rifacimento giapponese. Intorno alla sua persona le piccole mani di Yu-rí, guidate dal misticismo nazionale e rese sapienti dall'Amore, andavano tessendo una rete invisibile ed impalpabile nella quale egli pian piano s'imprigionava dolcemente. Era una rete di spuma. Roberto non la sentiva, ma vi si impaniava inesorabilmente. A poco a poco il suo palato si abituava alla cucina giapponese della casa di Yu-rí. Il sakè che una volta gli pareva una bevanda «sui generis» da prendersi di tanto in tanto come una curiosità esotica, diventò la sua bibita abituale alla quale chiedeva, secondo i casi, ristoro o sonno od ebbrezza. L'amante sapeva servirglielo graziosamente, con le sue caratteristiche mossette di principessa-ancella, in quelle minuscole tazzine di lacca dorata e miniata che era un piacere tenere fra le dita. Progressivamente si avvezzò al pesce crudo, ai legumi semicrudi, alla salsa di scyògu, alle zuppe chiare di ostriche, alle zuppe dense di gamberi, alle radici di bambú e di loto, alle insalate di crisantemi, al tè verde preso senza latte e senza zucchero. Yurí badava intelligentemente a evitare gli alimenti indigeni pei quali Roberto provava maggiore riluttanza. I tre pasti giornalieri erano diventati per Roberto tre piccoli godimenti fisici e spirituali. Genuflessa accanto a lui, in quelle posizioni tutte grazia che solamente le giapponesi sanno prendere, Yu-rí serviva il suo signore, aiutata dalle fantesche e dalla premurosa signora Mi-zu-kò. In quelle ore di intima vita domestica i kimono floreali e vivaci delle donne formavano intorno a lui deliziosi pastelli, a contatto dei quali la sua personalità occidentale si stemperava lentissimamente. Ogni gesto delle donne era ricco di grazia, stilizzato da un controllo secolare. Istintivamente Roberto era indotto a paragonare i gesti sgraziati o goffi o addirittura villani della maggior parte delle domestiche d'Occidente con le mosse fini, lievi, infinitamente gentili di quelle fantesche giapponesi che pur venivano da una risaia o da una capanna di pescatori. Istintivamente il suo spirito stabiliva un paragone tra la figura classica della suocera d'Occidente, arida, brontolona, attaccabrighe, e la soave signora Mi-zu-kò la cui unica preoccupazione era, secondo le tradizioni, di far felice il genero, e il cui occhio vigile sorvegliava attentamente la figlia perché non venisse mai meno ai suoi mille piccoli obblighi di sposa. Intorno a lui Yu-rí era sempre presente con una adorazione instancabile e nello stesso tempo tanto lieve che non se ne sentiva il peso. Cento volte durante la giornata Yu-rí indovinava i suoi pensieri, preveniva i suoi desideri, andava incontro ai suoi bisogni. Allo svegliarsi il mattino, la trovava desta accanto a lui. La sera, stanco, s'addormentava sotto i suoi occhi che lo carezzavano amorosi e riverenti. Yu-rí era come un riflesso della sua persona. Il suo viso, il suo nome, il suo kimono facevano parte dell'aria che egli respirava. Era la sua prima cameriera, ma una cameriera nobilitata e consacrata dall'Amore! E nello stesso tempo sapeva essere la sua amica gioiosa, la sua compagna intelligente, la sua amante calda e soave. Due elementi sopratutto gli rendevano gradita e cara quella vita domestica, sciropposa come un rosolio e carezzevole come una melodia: la squisita perenne eleganza di Yu-rí, lo squisito perenne sorriso di Yu-rí. In tutte le donne europee nella cui intimità aveva avuto fino allora occasione di vivere, aveva sempre sorpreso qualche momento di disordine: qualche istante nel quale la donna amata diventa per l'uomo meno bella e meno desiderabile. Yu-rí aveva invece la particolarità giapponese di mostrarsi sempre al suo uomo in una forma stilizzata e impeccabile. Norme precise, insegnate dalle madri alle figlie, trasmesse di generazione in generazione, vigilate dalla società, sublimate dalla Poesia e dalla Letteratura, regolano in Giappone tutti gli acconciamenti che la donna deve usare durante la giornata e il modo come debbono essere sbrigate le faccende domestiche. In tutte le donne d'Occidente, anche nelle piú buone, anche in quell'angelo di sua madre, Roberto aveva notato qualche momento di cattivo umore durante il quale la frase s'inasprisce e l'occhio s'infosca. Yu-rí aveva invece la specialità giapponese di essere un perpetuo sorriso aleggiante intorno al suo uomo. Quando gli occhi di una giapponese incontrano lo sguardo di un altro essere qualsiasi, le sue labbra istantaneamente sorridono. Il sorriso delle donne del Giappone è una perenne carezza sospesa nell'atmosfera dell'Impero.
Per essere piú sciolto nei suoi movimenti e poter partecipare in pieno alla vita popolare di Kioto, Roberto, spintovi da Yu-rí, aveva preso l'abitudine di uscire la sera in kimono ed in ghèta. Il suo corpo muscoloso, amante dell'aria libera e dei movimenti franchi, si sentiva a suo agio nel kimono che lasciava completamente libere le braccia e le gambe mentre il cerchio dell'ampia fascia rigirata intorno alle reni ha l'aria di sostenere il busto e di guidarlo. Piú penoso fu l'adottare la calzatura giapponese, che ha una specie di cordicella da infilarsi tra l'alluce e il resto delle dita. Per gli occidentali è quasi impossibile l'abituarvisi giacché hanno le dita dei piedi unite, mentre i giapponesi le hanno divaricate; ma dopo una diecina di prove l'alluce e il dito vicino dei piedi di Roberto si prestarono con arrendevolezza alla loro insolita funzione.
Uguali alla folla, confusi nella folla, Roberto e Yu-rí se ne andavano cosí per le strade e le stradine di Kioto, mescolandosi alla vita intima del popolo, frequentando i teatri e gli altri luoghi pubblici di divertimento, facendo visita a famiglie amiche, recandosi nei vari Templi nei quali secondo la giornata si celebrava questo o quel rito accompagnato da una festa popolare. Il popolo giapponese ama le feste e si diverte con poco. La vita intima del popolo si aprí per Roberto in tutta la sua profondità scoprendogli infiniti riflessi, infinite sfumature, infinite risonanze alcune delle quali gli parevano lontane sinfonie dimenticate che ritornavano al suo orecchio. Nella continua pratica quotidiana la lingua giapponese gli si amplificava intanto sulle labbra. A volte si sorprendeva addirittura a pensare in giapponese, sopratutto quando era in compagnia di Yu-rí. Certa musica indigena che prima gli sembrava falsa e indecifrabile diventò, pel suo timpano, naturale e chiara. Spesso gli capitava di non saper distinguere se un motivo fosse giapponese o europeo e domandava a Yu-rí:
— Che cos'è questa musica? Mi sembra Stravinsky!
— Ma no, Roberto, è il Miàko Odòri! – rispondeva sorridendo la donna con un palpito di gioia in cuore.
A poco a poco s'andava anche abituando a quel continuo star seduto sulle stuoie per mangiare, per riposarsi, per scrivere, che da principio gli era parso un supplizio. Il suo corpo e il suo spirito, dotati dalla Natura delle necessarie molle di adattamento, aderivano docili e plastici alle nuove forme di vita alle quali il suo essere era ricondotto attraverso il blando processo di ri-nipponizzazione.
Lo spirito cauto di Yu-rí non lo urtava mai né nei suoi sentimenti nazionali né nelle sue credenze religiose, ma la vita nazionale e religiosa del Giappone era sospesa come un elemento cosmico nell'atmosfera che respirava. Da tutta la vita giapponese nella quale era immerso, si sprigionavano mille microscopiche irradiazioni che diffuse nell'aria vi componevano una specie di seduzione magnetica. Il fascino del Giappone! Roberto lo aspirava attraverso i polmoni, i pori, gli occhi. A poco a poco il suo sangue si andava impregnando di tossine nipponiche. Tutto il funzionamento fisico, cerebrale e sentimentale del suo essere subiva un misterioso processo di alterazione. Le musiche, gli alimenti, i colori, i contatti, le forme esterne delle cose, l'andamento interno delle sensazioni, le minuscole forze imponderabili che operano al di fuori e al di dentro degli esseri viventi, finivano per agire su Roberto nel senso desiderato da Yu-rí. Pian piano, Roberto era sospinto a riflettere sull'inutile complessità di gran parte della vita occidentale e sull'immenso sforzo non necessario che essa richiedeva agli uomini bianchi. Quante ore del suo lavoro d'uomo, ad esempio, erano servite a pagare colletti, cravatte, giarrettiere, fibbie, tutte cose non necessarie, ingombranti e moleste! E cosí tanti altri aggeggi della casa occidentale, dell'abbigliamento occidentale, della vita occidentale, tutta piena di esigenze superflue e in fondo irrazionali! Il suo spirito, il suo raziocinio, il suo corpo medesimo sentivano la formidabile attrazione della vita giapponese, infinitamente semplice, spiccia, chiara nella quale le necessità materiali ridotte ai minimi termini e l'equilibrio domestico cristallizzato da regole millenarie, lasciano agli individui una grande dose giornaliera di pace fisica e di serenità spirituale. La vita religiosa liberata da ogni incubo interno e da ogni coercizione esterna; la vita politica trasfusa dallo Stato nelle coscienze attraverso un formidabile sistema di educazione collettiva che si svolge parallelamente all'automatico inanellarsi delle generazioni; la vita affettiva limitata alle sue manifestazioni spontanee; la vita sessuale ridotta alla semplice piacevole necessità di propagare la specie; la vita domestica regolata dall'esperienza millenaria delle generazioni nei suoi piú minuti particolari; la vita spirituale profusamente illuminata anche negli umili dall'amore della Patria e dal culto della Natura; la vita estetica coltivata in ogni individuo attraverso un'Arte raffinata che è praticamente spezzettata in mille oggetti casalinghi e in mille elementi decorativi a portata di tutti; la vita sociale temperata nella sua ingiustizia essenziale da uno straordinario senso di fraternità collettiva; la lotta per l'esistenza ingentilita da un cerimoniale altrettanto rigido che ricco di soddisfazioni personali: tutti questi elementi costitutivi della vita singola e collettiva dei giapponesi che, se esaminati a uno a uno possono parere indici di un'esistenza artificiale ed inferiore, formano però nel loro complesso un tipo facile, logico, equilibrato e gradevole di esistenza il cui intimo fascino agisce su tutti gli occidentali che si soffermano a osservare attentamente la vita del popolo giapponese. Tanto piú sensibile a questo fascino era Roberto, il quale per insopprimibili leggi ereditarie, assopite dall'educazione occidentale ma latenti nel fondo del suo essere asiatico, era naturalmente incline a sentire, a pensare, a ragionare, a vivere come avevano vissuto i suoi antenati la cui esistenza si perpetua misteriosamente nelle preferenze spirituali e nelle tendenze fisiche dei loro discendenti.
Da cinque mesi Roberto viveva ormai nella casa giapponese di Yu-rí, assolutamente a suo agio senza sentir bisogno né dei mobili né degli indumenti né dei costumi di Occidente. La casa di Yu-rí come tutte le case del Giappone era straordinariamente semplice, ma la sua semplicità non era povera essendo arricchita dalla nobiltà delle materie delle quali era formata e dalla venustà delle forme cerimoniose che vi si svolgevano. Era una casetta in legno a due piani, aggraziata da un bel giardino giapponese che riproduceva in miniatura un angolo di bosco. Tanto il piano inferiore quanto il piano superiore erano allargati da una veranda circolare la quale nel piano inferiore era a cielo scoperto mentre nel piano superiore era munita di grandi amado di legno leggero che scorrendo nei loro intacchi permettevano di chiuderla interamente. Le pareti interne delle due verande erano anch'esse costituite da tramezzi scorrevoli di legno che la gente di casa poteva aprire o chiudere a piacimento, regolando cioè la luce e l'aria dei vari ambienti secondo le ore della giornata e il capriccio degli abitanti. Molte case giapponesi sono rimaste fedeli ai tradizionali «vetri» di carta translucida che lasciano filtrare negli interni una luce diafana e gradevole agli occhi. Yu-rí aveva alternato i «vetri» di carta ai vetri occidentali, velando questi ultimi con evanescenti cortine di seta color tè o verde-acqua. Sulle due verande si aprivano le sei stanze della casa, separate l'una dall'altra dai fusúma, cioè da telai mobili di legno sui quali è stesa una superficie di carta a fondo unito, bellamente decorata a fiori e a ramaggi dipinti. Facilissimi a scorrere nei rispettivi intacchi, i fusúma permettono di ingrandire o di rimpicciolire gli ambienti secondo le circostanze ed i bisogni del momento. Come tutte le case giapponesi, anche la casa di Yu-rí era assolutamente nuda. Non un mobile. Né tavoli né sedie né letti né armadi né poltrone: nulla. Il mobilio della casa consisteva unicamente nelle soffici e nitide stuoie – i tatàmi – che coprivano i pavimenti. Suddivisi in rettangoli uniformi di due metri su un metro, listati da piccoli bordi color nocciola, i tatàmi davano agli ambienti una certa aria ordinata e geometrica nella quale lo spirito si sentiva curiosamente a posto, quasi automaticamente incasellato. La straordinaria pulizia della casa, l'assenza di qualsiasi traccia di polvere, il lustrore assoluto di tutte le parti di legno, la forbitezza di ogni minuscolo accessorio in lacca o in metallo facevano degli ambienti altrettanti vani luminosi e ospitali. L'uso di scalzarsi sulla soglia della casa infilando le pantofole e di lasciare anche queste nell'interno delle stanze quando dai corridoi di legno si passa sui tatàmi di stuoia, favorisce il lavoro di pulizia delle fantesche. Di fronte ad una casa giapponese la stessa casa olandese, per lustra che sia, ha l'aria di essere polverosa e sporca. L'unica decorazione delle stanze era rappresentata dal tokonóma, cioè da una specie di alto e stretto altare a nicchia incassato nella parete, in fondo al quale i giapponesi collocano il kakemóno (pittura su seta) completato sul davanti da un oggetto d'arte: uno solo: un bronzo, un avorio, una giada, una lacca, una porcellana. La casa di Yu-rí era una casa ricca, quindi tutte le superficie di legno erano rappresentate da legni pregiati, lucidi e ben finiti, e tutte le superficie di carta erano costituite da una materia densa e pastosa, decorata a rami di bambú, a corolle di crisantemi, a steli di loto. Vari fusúma erano ricchissimi pannelli a fondo d'oro o grigio variamente perlato, dipinti da mano maestra a fiori pomposi, a pavoni e uccelli-paradiso, a rami di mandorlo, a tralci di pesco e di pruno in fiori. Yu-rí possedeva un'arte raffinata nell'intonare squisitamente l'oggetto d'arte deltokonòma al tipo del kakemóno retrostante; ed aveva sopratutto quella capacità, alla quale i giapponesi sono assai sensibili, di creare un intimo rapporto di armonia fra gli oggetti che ornano il tokonóma e la stagione e le condizioni del tempo e la luce speciale della giornata e lo stato d'animo della gente di casa o degli ospiti che s'aspettano. Ogni mattina Yu-rí ritirava i kakemóno, i bronzi, gli avori, le lacche del giorno precedente ed andava nel kura (specie di stanza-magazzino) a scegliere, fra gli innumerevoli oggetti d'arte che possedeva, i sei kakemóno e i sei ninnoli, che secondo la sua sensibilità dovevano ornare quel giorno le sei stanze della casa. Sovente Roberto era indotto a fare il confronto fra certe case occidentali stracariche di mobili, di quadri, di oggetti, di ninnoli fino a sentirsene mancare il respiro e quelle chiare e semplici case del Giappone, nelle quali i ninnoli e gli oggetti d'arte restano chiusi in un deposito e sono esposti solamente uno alla volta e uno solo per ciascuna stanza!
Era un piacere per Roberto seguire con lo sguardo Yu-rí in queste sue attività di padrona di casa. La vedeva andare e venire di stanza in stanza quasi senza far rumore, prendendo e lasciando di continuo con mirabile destrezza le sue pantofolette di seta a seconda che dovesse camminare sui tatàmi o sul legno nudo. Il suo kimono era sempre una cosa bella e festosa che empiva la casa di luce, di colore, di gaiezza, di poesia. Il suo bel corpo passava elasticamente tra gli sgabelli, i tavolini, gli spiragli senza mai un urto, senza mai un colpo od un inciampo che turbasse la quieta armonia dell'ambiente. Rapide e leggere le sue mani aprivano e chiudevano continuamente i fusúma senza che i pannelli scorrevoli mandassero un qualsiasi stridore, toccavano i paraventi senza che i paraventi si muovessero, sfiorava le tendine senza che le tendine trasalissero. La donna si abbassava, si rialzava, si chinava, si genufletteva con una grazia perenne. Tutti i suoi movimenti erano straordinariamente fini, straordinariamente leggeri, straordinariamente armoniosi. E in mezzo a tutte le sue faccende domestiche, sbrigate con una deliziosa serietà infantile, Yu-rí trovava cento attimi per guardare Roberto, per sorridere a Roberto, per occuparsi di Roberto, per far sentire a Roberto il suo dolce amore onnipresente. Di tanto in tanto il suo braccio dalla lunga manica di seta ondeggiante schiudeva due o tre fusúma creando per gli occhi di Roberto una specie di quadretto che aveva per sfondo un angolo di giardino, un ramo di pesco, un ciuffo di bambú, un raggio sopra una spalliera di rose, una filtrata di sole attraverso un pergolato di glicini... Un quarto d'ora o mezz'ora dopo, spontaneamente, quasi inconsciamente lo stesso braccio dall'ondeggiante manica di seta, disponendo differentemente le aperture dei fusúma ed il giuoco dei paraventi, distruggeva quel quadro già visto per crearne un altro diverso, egualmente delizioso. Nell'atmosfera di Yu-rí la giornata era, per Roberto, lieve e dolce. Le settimane scorrevano rapide e leggere. Era, per lui, un vero godimento osservare ad esempio Yu-rí quando disponeva i fiori della giornata nei vari vasi di lacca o di bronzo della casa. Con che arte sapiente sapeva sposare insieme un crisantemo sugoso ad uno stelo di bambú! Con che mirabile tocco disponeva in un vaso un ramo di pruno o di buganviglia in modo che avesse l'aria di essere germogliato lí, naturalmente! A forza di vedersela sfarfallare intorno come una bambola alata, finiva per sentire il desiderio di averla piú vicina, di aspirare il suo profumo, di toccare quella sua epidermide di pesca che dava la bizzarra sensazione di toccare un frutto sull'albero, un mango carnoso, una mangostina fragrante, una polpa matura a punto... E immancabilmente, dopo un po' se la vedeva venire accanto, quasi che la donna avesse sentito nell'aria il suo tacito appello. Allora le sue dita, i suoi sguardi, la sua anima, la carezzavano perdutamente... Talvolta, le sue mani animate dal desiderio cercavano dentro la seta del kimono quel corpo dolce e piacente del quale mai non si saziava... Le dita di Yu-rí scioglievano, docili, le legature del kimono e secondo il momento lui la coglieva dolcemente con la galanteria dell'uomo bianco che sa di ricevere un dono oppure, risucchiato improvvisamente nell'ieri della sua razza, l'abbracciava con brutale e rapida violenza giapponese...
Quand'era l'ora di mangiare, le fantesche ritiravano dagli invisibili armadi murali il necessario per apparecchiare e per servire. La camera si trasformava in pochi minuti in sala da pranzo. Comparivano tavole, sgabelli, porcellane, bicchieri, quei bei recipienti di lacca dai colori sontuosi che servono per mettervi il riso fumante e per mantenervelo caldo, quelle grandi scatole giapponesi di lacca fiorita nelle quali la frutta messa a diacciare ha l'aria di essere tornata sui rami dai quali è venuta. Terminato il pranzo, tutto scompariva in cucina e dopo la pulizia rientrava negli invisibili armadi murali. L'ambiente riprendeva allora la sua nitidità riposante. La stanza cessava di rispondere a uno scopo. Ridiventava una cornice.
Lo stesso accadeva con la camera da letto, che preparata la sera scompariva al mattino. Quando Roberto sceso per il quotidiano bagno caldissimo, quasi bollente usato dai giapponesi, risaliva in camera, non la trovava piú. C'era invece lo spogliatoio per lui e per Yu-rí, con tutto il necessario per radersi e per vestirsi, col grande specchio basso a «psiche», con tanti cuscini per sedersi e appoggiarsi, con tutte le scatole e le scatolette di lacca che servivano a Yu-rí. Con dignitose riverenze arrivava il cieco-massaggista che sa spremere da ogni fibrilla dei muscoli l'umidità assorbita durante la notte e sa cancellare coi suoi polpastrelli virtuosi le fiacchezze lasciate nelle giunture dagli eccessi di alcool e di amore. In un bel kimono a ramaggi arrivava la signora-pettinatrice coi pettegolezzi minuti del quartiere, coi cento piccoli ordegni e strumentini che servono a confezionare la complicata pettinatura delle donne giapponesi. Nell'aria si diffondeva un buon odore di lavanda e di sapone. I fusúma erano disposti in modo che lasciavano filtrare l'oro del sole. La fragranza fine e penetrante dell'iyakó rivelava la nudità di Yu-rí uscita appena appena dal bagno, tutta umida e tiepida, infagottata nelle tovaglie fiorite e nei kimono felpati che le giapponesi usano dopo il bagno quotidiano.
L'assenza assoluta di qualsiasi serratura e di qualsiasi chiave, l'abitudine degli inservienti di andare e venire attraverso i fusúma senza battere alle porte né comunque chiedere permesso, i rapporti familiari per quanto rispettosissimi esistenti nelle case giapponesi fra i padroni e la servitú, creavano una curiosa sensazione di intimità domestica estremamente fragile ed estremamente aderente alla strada vicinissima. La casa era come un involucro di carta velina, ermeticamente chiusa, sí, alle influenze esterne, ma sempre di carta velina e, al massimo, di una seta opaca e fine, facile a essere stracciata da un semplice colpo di vento. Durante le prime settimane, Roberto, abituato dalla sua educazione occidentale a una concezione piú assoluta dell'intimità domestica e a un senso piú netto della propria individualità, aveva trovato enormemente molesta quella assenza di isolamento intimo, sopratutto quell'impossibilità materiale di ripararsi dietro una serratura dalle interferenze del resto del mondo. Specialmente durante i momenti di maggiore intimità con Yu-rí si sentiva a disagio nel sapersi esposto alla curiosità del primo della casa che avesse spostato lievissimamente uno dei tanti fusúma delle pareti: sopratutto nel sapere esposta agli occhi degli altri la nudità della donna amata che egli concepiva ancora occidentalmente e cristianamente come un suo patrimonio geloso ed esclusivo. Poi, coll'andar del tempo, s'era avvezzato a considerare alla giapponese tutti questi riflessi fisici e morali, e provava anzi una certa quiete spirituale nel sentire se stesso e il suo amore cosí vicini al resto della folla e del mondo, quasi che quella comunità latente desse maggiore naturalezza al suo fatto personale e determinasse quindi una maggiore sicurezza nella sua continuità.
Cosí, a poco a poco, la sua anima si spersonalizzava. La sua individualità si componeva nella grande massa gelatinosa della vita giapponese. Gli elementi occidentali contenuti nel suo essere si discioglievano e si volatilizzavano rendendolo ogni giorno piú semplice e piú leggero. A volte aveva addirittura la sensazione fisica di questa sua graduale maggiore leggerezza. Il corpo e il cuore gli si nipponizzavano con intensità. Solamente il cervello continuava a restargli occidentale, quasi fosse impossibile o almeno estremamente difficile vuotarlo di tutto ciò che di solido e di preciso l'Occidente v'aveva messo dentro. Se si lasciava vivere oppure si limitava a vibrare e a sentire, si trovava in perfetta intimità con Yu-rí. Ma se Yu-rí e lui incominciavano a ragionare, avevano entrambi la sensazione di essere alcune volte separati dai rombi dissimili dei due motori che funzionavano nei rispettivi crani. Allora, Roberto provava nel fondo del suo essere una specie di smarrimento... Attenta e vigile Yu-rí si accorgeva quasi sempre di quella pausa che la separava dal suo amante e senza averne l'aria, con infinita delicatezza, riconduceva la conversazione sul terreno lirico-sentimentale oppure faceva in modo che i gesti e i pensieri di lui scivolassero inavvertitamente sul terreno sensuale. Il suo corpo docile e dolce, profumato di grazia, traboccante di giovinezza, era una perenne sorgente di acqua chiara e fresca nella quale Roberto spegneva i suoi ardori ed i suoi turbamenti.
Attraverso la sua esistenza domestica ed il continuo contatto con la folla, la grande vita morale del popolo giapponese si chiarificava dinanzi al suo spirito: culto del passato; santità della famiglia; orgoglio di razza; idolatria della Patria; venerazione della Natura; amore dell'Arte; coraggio fisico; disprezzo della morte; alto senso del dovere; garbatezza di modi; gioia di vivere; semplicità di costumi.
Era un quadro luminoso e chiaro, formato da pochi sentimenti primordiali, da qualche grande istinto, da una o due consuetudini morali, da un paio di concetti filosofici, da una grande giovinezza interiore. La sua educazione occidentale non era in contrasto con nessuno di quegli elementi e la sua sostanza asiatica vi si adagiava con naturalezza. L'amore che nutriva per sua madre vi si inseriva perfettamente. La passione che aveva per Yu-rí vi si incastonava come una gemma. La semplicità e la gaiezza erano elementi naturali del suo temperamento. Soldato, educato al culto del dovere e del coraggio, trovava perfettamente aderenti alla sua personalità d'uomo questi due fattori basici della vita morale del Giappone. Quanto all'amore per la Patria era la fiamma che aveva illuminato tutta la sua esistenza. La Patria aveva per lui un nome: «Francia». Mille forze operavano intorno a lui, dentro di lui, perché quel nome «Francia» si cambiasse in un altro nome: «Giappone». Non si trattava di distruggere il sentimento, ma di cambiarne l'etichetta esterna.
La Patria!
La grande lotta tra i due «nomi», inavvertita ancora dal suo cervello, travagliava in profondo il suo essere, operando in quelle latebre abissali e indefinite nelle quali hanno le loro minuscole radici le sorgenti medesime della vita. In un francese puro, di razza francese, di essenza francese, di secolare matrice francese, quelle minuscole radici avrebbero agito radioattivamente in senso francese. Impossibile fare di un francese un giapponese! In un giapponese puro, di razza nipponica, di essenza nipponica, di secolare matrice nipponica, quelle minuscole radici nelle quali alberga l'imponderabile dell'esistenza umana avrebbero agito radioattivamente in senso nipponico. Impossibile fare di un giapponese un francese! In Roberto, quelle radici non erano invece omogenee. Le loro vibrazioni non erano quindi uniformi. Le loro irradiazioni non erano identiche. Il sentimento di Patria non è un prodotto composto. E un sentimento semplice, naturale, istintivo che dal profondo dell'individuo irrompe spontaneamente alla superficie. L'ambiente esterno non fa altro che dare a questo sentimento-istinto un nome, un diametro, una fisionomia, una storia. In Roberto, quei palpiti profondissimi le cui origini si confondono con le medesime vibrazioni ormoniche dalle quali ha origine la vita, erano di due qualità differenti e determinavano quindi una risultante composta, mezzo francese mezzo giapponese, che nel risalire alla superficie si colorava alternatamente in senso francese o in senso nipponico, a seconda delle influenze esterne o degli stimoli interni che in quel momento avevano il sopravvento. Rimasto in Francia, in un quadro di vita francese. Roberto sarebbe stato un buon francese nel quale le tendenze nipponiche e le predisposizioni nipponiche avrebbero formato semplicemente un substrato pallido del suo subcosciente. Trasferito invece in Giappone, messo dalle circostanze in un quadro di vita giapponese, a contatto immediato delle grandi forze magnetiche del Giappone e delle grandi influenze galvanizzanti dello spirito giapponese, la sua personalità si alterava in senso giapponese. L'equilibrio originario, che prima si era spostato in senso francese per influsso delle forze esterne dell'ambiente, ora si spostava in senso nipponico per influsso delle medesime forze. Innumerevoli correnti di generazione spontanea operavano dentro di lui nel senso desiderato da Yu-rí. L'amore di Roberto per lei agiva da fuoco interno, dissolvente e purificatore. Alla vampa di quel fuoco arcano le molecole francesi si dissociavano dal resto, bruciavano, si scoloravano, s'inaridivano. Alcune si consumavano addirittura distruggendosi.
La grande luce interna diventava ogni giorno piú, in Roberto, una luce nipponica: la luce opaca e raccolta di un lampione di seta.
«Il "Grande Yamato" è una terra divina. Solamente il Giappone è opera dell'Antenato Divino.
«Trasmesso dalla Dea del Sole – Amaterasu – al lungo lignaggio dei suoi discendenti imperiali, si chiama la "Divina Contrada"».
IINGWOSCIGOTOKI (sec. XVI).