X

L’ultima lettera di Roberto vinse le estreme titubanze di Bianca. La lettera diceva:

«Mammina cara,

«Attraverso in questo momento un periodo estremamente tempestoso. Il mio spirito è completamente occupato, come forse avrai intuito da certe frasi delle mie ultime lettere, da una giovane e bella persona la quale agli occhi tuoi non ha, ne sono sicuro, che un solo difetto: quello di essere giapponese. Conosco in proposito le tue idee e non le condivido. Il giapponese è un popolo di prim'ordine verso il quale sento una fortissima attrazione. In ogni modo la giovane e bella persona alla quale mi riferisco ha tante qualità, tanta grazia, tanta bontà e mi vuole tanto bene e mi rende tanto felice che se tu la conoscessi non potresti che amarla come l'amo io. Disgraziatamente, per un complesso di circostanze avverse, si sta determinando una specie di contrasto irriducibile fra il mio amore che è ormai parte integrale della mia vita e la mia carriera d'ufficiale francese. Le cose vanno prendendo un verso così disgraziato che sto pensando seriamente di abbandonare la carriera e di stabilirmi in Giappone dove, sono sicuro, potrei vivere assai felice solo che tu acconsentissi ad abbandonare anche tu la Francia e a raggiungermi qui per completare il quadro della mia felicità intima, l'unica in fondo che conti nell'esistenza. L'Occidente foggia artificialmente il nostro spirito riempiendolo di elementi complicati ed inutili così come, del resto, empie di cose complicate ed inutili la nostra vita materiale. Il Giappone in proposito mi ha insegnato molto...»

Il giorno dopo Bianca de Tierry fissava una cabina sull'«Aramis» in partenza per Kobe. Nove giorni dopo era a Marsiglia e in un luminoso tramonto mediterraneo s'imbarcava sul grande piroscafo delle «Messageries» in rotta per l'Estremo Oriente. Marsiglia fiammeggiava nell'apoteosi vespertina del sole di Provenza. Le campane di tutte le chiese della città e dei dintorni salutavano gaiamente la fine del giorno. Sul lontano Esterel un grande baldacchino di nuvole color rame proiettava la sua massa incandescente nell'azzurro del Golfo del Leone. Lo spettacolo del porto, l'animazione delle banchine, il viavai dei vaporini, le sirene delle navi, il vocio e l'andirivieni della folla rievocavano in Bianca il ricordo della sera lontana, nella quale da quel medesimo porto era partita per lo stesso Giappone in compagnia del padre di Roberto, sposa felice ed ignara, donna piena di illusioni e di speranze. Erano le stesse campane! Erano le stesse sirene! Era lo stesso quadro di luce, di colore, di movimento! Quasi avrebbe detto che era la medesima gente! Quel terribile paese lontano che le aveva rubato il marito stava ora per strapparle anche il figlio... Non aveva in cuore che presentimenti tristi. Partiva in battaglia, pronta a tutto, risoluta a contendere al Giappone a grammo a grammo la carne di Roberto, l'anima di Roberto, l'amore di Roberto; ma, nel suo intimo, una voce sinistra le diceva che ogni suo sforzo sarebbe stato vano. Il Giappone aveva già Roberto nei suoi artigli. Lo sentiva! Fra il suo cuore di madre ed il cuore di Roberto il Giappone aveva collocato una donna, bella senza dubbio, giovane, scaltra, implacabile, che alle sue tremanti braccia di vecchia mamma impotente, capace solamente di piangere e di soffrire, avrebbe contrapposto le sue morbide braccia di sirenetta esotica, esperta in ogni seduzione ed in ogni carezza. Tutto il suo povero passato di donna che pareva ormai sepolto per sempre sotto le rughe ed i capelli bianchi, risuscitava all'improvviso nella sua anima indolenzita. E la torturava di nuovo coi suoi aculei. Nel crepuscolo luminoso la costa di Francia s'allontanava, s'allontanava... Già la nave inconsapevole e feroce aveva messo la prora verso la terra maledetta! Le gioiose risa dei passeggeri erano altrettante pugnalate pel cuore della povera madre che correva, disperata, a salvare gli ultimi resti della sua miserabile esistenza. Due passeggeri giapponesi in occhiali e denti d'oro s'inchinarono cerimoniosi nel passarle davanti. Il suo corpo ebbe un sussulto di terrore e di schifo come avesse visto due serpi... Quando la campanella di bordo chiamò a raccolta i passeggeri in sala da pranzo per il primo dinner di navigazione, rimase sul ponte solamente una vecchia signora vestita di nero che raccoglieva in un fazzoletto di pizzo le sue misere lagrime: una povera donna disperata che andava ad elemosinare il figlio alla terra implacabile che le aveva già preso il marito... Formidabili forze che scaturivano dal mistero dei secoli e dei continenti, giocavano a palla con quel misero cuore di madre.

Dopo un mese circa di battaglia interna Roberto si lasciava andare alla deriva. Lottare?! Contro che? Contro chi? La Francia! Un nome come un altro. Il Giappone! Un nome come un altro. Le braccia di Yu-rí-sàn formavano una bella culla nella quale era dolce dormire... Le ore si succedevano alle ore... I giorni ai giorni... Terminata una settimana ne incominciava un'altra... In fondo, se sua madre era francese, suo padre era giapponese... Se la Francia voleva sapere, il Giappone non voleva che si sapesse... Aveva ragione la Francia! Aveva ragione il Giappone! Lui... lui era Roberto. Ed amava Yu-rí... Yu-rí dalla bocca dolce, dal soave corpo d'ambra e di seta, dai grandi occhi mandorlati, dai bei kimono lilla e celesti, dalle graziose pantofolette di seta che non facevano rumore... Sua madre? Sua madre – santa donna – era l'ieri! Yu-rí – bella bocca – era l'oggi! Domani? Aveva ragione il vecchio Kiyòsci: il domani è nascosto nel sorriso enigmatico di Budda! Chi può leggere sulle labbra di Amída? Si sentiva spiritualmente fiacco, tanto fiacco... La sua anima era stanca di combattere. In fondo... amava la Francia ed amava il Giappone... Forse, non amava né la Francia né il Giappone... Amava Yu-rí e i ciliegi in fiore e il suono dei samisén e le canzoni delle donne di Enoscima e i tramonti della baia di Sagàni quando i pini della costa hanno l'aria di sventagliare il sole morente che annega nell'immensità del Pacifico... L'Indocina? E che importava a lui dell'Indocina?

— Yu-rí! – chiamò.

Un fruscio di seta smossa... Il timbro argentino di una voce nota... E il bel viso di Yu-rí era chino sul suo.

Sakè! – ordinò.

Senza accorgersene, diventava giapponese nei rapporti con la sua donna. Amava, ordinando. Yu-rí amava, obbedendo. La donna tornò dopo un minuto seguita dalle fantesche che portavano la bassa tavola di tek col grande vassoio di lacca, la bottiglia del sakè tiepido e le minuscole coppe di Nara dall'interno miniato a rami fioriti di pruno. Yu-rí riempi una coppa e con un lieve inchino l'offrí a Roberto tenendola fra le due palme come prescrivono le regole. La signora Mi-zu-kò arrivò col samisén a tre corde. L'ordine di portare il sakè indicava che il signore della casa aveva bisogno di bere, di distrarsi, di dimenticare qualche cosa o qualcuno e tutte le energie domestiche si mettevano istantaneamente in moto.

Sakè! – riordinò Roberto.

E le fantesche correvano agili e senza rumore a portare il necessario, aprendo e chiudendo porte, armadi, finestre, fusúma. Accompagnata dalla madre, che per essere delle isole Riu-Kiu conosceva tutte le sfumature dei samisén, Yu-rí cantò le belle canzoni del Sud che piacevano tanto a Roberto. L'abilità di Yu-rí era di comportarsi verso l'amante come una giapponese e di parlargli invece come una occidentale ogni qualvolta lui si trasferiva automaticamente sul piano europeo. Riusciva, in tal modo, ad essergli costantemente vicina, sia ai sensi che al cervello. Quanto al cuore sapeva di averlo in mano! Le fantesche accesero. I bei lampioni di seta diffondevano una luce gradevole e riposante. Dalla cucina arrivarono vassoi di gamberi, di aragoste, di salmone, di alghe iodate e giulebbate, di ostriche crude, di belle cozze giganti cotte col guscio nel loro sugo dal sapore di scoglio. La saggezza giapponese stabilisce che quando lo spirito ha male bisogna far funzionare il corpo. Che il corpo mangi, beva, faccia l'amore! Quando sarà stanco di tutto questo, vorrà dormire. E anche lo spirito riposerà!

In quel raccolto ambiente domestico, tranquillo, semplice, ordinato, tutto attenzioni e premure per lui, tutto composto di belle cose e di belle tinte, Roberto sentiva distendersi i nervi. Li sentiva, fisicamente, andare a posto. Una grande quiete entrava nel suo spirito come un etere addormentante. In quei momenti la vita europea gli sembrava ruvida, barbarica, assurda, spaventosamente artificiale, spaventosamente pesante... Verso sera arrivò il vecchio Kiyòsci, accompagnato da due amici. Il sakè riscaldò gli spiriti ed animò gli scilinguagnoli. Accoccolate sulle stuoie, un pò all'indietro dei padroni, le fantesche prendevano parte alla conversazione con un'aria di famiglia che colmava le distanze sociali senza eliminarle. Ognuno stava al suo posto, ma tutti avevano l'impressione di trovarsi sullo stesso piano morale e sociale. Il principio teorico giapponese del popolo formante un'unica famiglia guidata dall'Imperatore aveva una base pratica nello stato d'animo degli abitanti. Roberto si sentiva scivolare passivamente verso quella società giapponese cosí aderente ai suoi istinti, ai suoi gusti, alle sue inclinazioni. Kiyòsci aveva forse ragione! Egli era un giapponese trapiantato in terra straniera che restituito al clima originario si riabbarbicava alla terra madre! Attraverso le nebbie del sakè la sua riplasmazione giapponese gli sembrava assai piú naturale e piú semplice di quando aveva la testa chiara e il cervello sgombro. Attraverso i fusúma semiaperti entravano i mille piccoli rumori della strada: ticchettío di zoccoletti, grida di venditori, bricioli di samisén, frantumi di chiacchiere, qualche rimbombo lontano di gong...

Kiyòsci fece un segno impercettibile a Yu-rí. Yu-rí lo trasmise alla madre. La madre lo passò alle fantesche. A una ad una le donne uscirono. Gli uomini avevano bisogno di parlarsi e di rimanere soli. Nella stanza restarono Roberto, il vecchio Kiyòsci, il generale Watabé, il colonnello Saruyama.

La conversazione spumeggiava gaia e apparentemente vuota di contenuto su argomenti futili e sempre diversi. L'abilità del vecchio Kiyòsci la fece scivolare pian piano sul tema pel quale egli e i suoi amici erano venuti.

— Il mio buon amico generale Watabé dello Stato Maggiore Generale dell'Impero era molto amico del commodoro Kawakàma, padre di Yu-rí.

— Eravamo intimi, come fratelli! – precisò il generale.

— Il generale Watabé ha per Yu-rí una affezione veramente paterna – continuò Kiyòsci – e non potrebbe vedere la figliola del suo intimo amico in una situazione pericolosa senza sentirne una vera angoscia.

— Nulla, credo, minaccia Yu-rí! – disse Roberto sorridendo.

— Il generale Watabé dello Stato Maggiore Generale dell'Impero – continuò con calma asiatica il vecchio Kiyòsci – ha ragione di credere il contrario. È il motivo, del resto, pel quale siamo qui. Abbiamo voluto che le donne ci lasciassero prima di parlare. È inutile allarmarle! Allo Stato Maggiore Generale è pervenuta una grave denuncia sulla quale le Autorità militari possono essere indotte a chiudere gli occhi per quanto si riferisce ad un ufficiale estero accreditato presso il Governo della Nazione, ma non possono estendere questa loro indulgenza, dettata da ragioni d'ordine diplomatico, anche alle persone di nazionalità giapponese coinvolte nell'affare o, se non altro, seriamente compromesse per i rapporti di intimità esistenti fra loro e l'ufficiale straniero. Il generale Watabé è informato che un mandato d'arresto sta per essere firmato contro Yu-rí, e, guidato dai suoi sentimenti di affetto verso il suo defunto amico il commodoro Kawakàma, è venuto ad avvertirla della brutta sorpresa che le riserva la giornata di domani.

— Che dite? Yu-rí non c'entra! – esclamò Roberto al quale le parole del vecchio Kiyòsci davano una mazzata sul capo.

— Il generale Watabé è convinto quanto me dell'assoluta innocenza di Yu-rí, ma la faccenda è in mano dell'Autorità militare, la quale ha ordinato una inchiesta severissima. L'inchiesta porterà all'immediato arresto di Yu-rí e di sua madre. Non v'è mezzo di evitarlo. In questi casi di alto tradimento la legge giapponese è altrettanto severa quanto rude. Per nostra disgrazia l'affare è nelle mani del generale Honjo, il quale è un asceta del nazionalismo ed uno dei funzionari piú duri del Ministero. Prima di venire qui abbiamo esaminato attentamente la questione col generale Watabé e col colonnello Saruyama del Servizio di Sicurezza dello Stato, ma non abbiamo trovato nessuna via d'uscita. La povera figliola e la eccellente signora Mi-zu-kò non solamente saranno arrestate, ma rischiano di essere condannate severissimamente con procedura speditiva, a meno che possano dimostrare chiarissimamente la loro innocenza, il che sarà per loro enormemente difficile giacché l'unica testimonianza che potrebbe salvarle, la vostra, non sarà accettata e nemmeno ascoltata dal Tribunale Militare.

— Ma è una infamia! – gridò Roberto.

— La necessità di Stato è una dura legge, capitano Namura! – disse il generale Watabé, che fino allora non aveva aperto bocca. – Vari casi di spionaggio o, almeno, di tentato spionaggio sono stati registrati in questi ultimi tempi e l'opinione pubblica, vagamente al corrente dei fatti, accusa il Governo di negligenze colpevoli per l'elevato rango sociale delle persone compromesse. Non v'è probabilmente nulla di veramente serio in queste apprensioni del Paese, ma l'opinione pubblica ha le sue esigenze... Siamo alla vigilia delle elezioni... La signorina Yu-rí, figlia di un commodoro dell'Impero, appartenente a una famiglia nobile, imparentata con alti personaggi, notoriamente protetta da una principessa del sangue, offre disgraziatamente al Governo una occasione superba per dimostrare al Paese che, quando si tratta degli interessi capitali dell'Impero, lo Stato non guarda in faccia a nessuno. La disgraziata Yu-rí, per la quale ho altrettanto affetto che stima, si è messa in un bel ginepraio!

— Non permetterò, generale, una simile mostruosità. A qualunque costo! Parlerò ai giornali, parlerò al Ministero degli Esteri, metterò in movimento l'Ambasciata di Francia, chiederò udienza allo stesso Imperatore, farò uno scandalo enorme...

— Credo, capitano Namura – interruppe il generale Watabé con tono placido ed affettuoso – che vi facciate in proposito molte illusioni. A parte il fatto che la vostra difesa non farebbe che compromettere maggiormente Yu-rí, ho ragione di credere che simultaneamente all'arresto di Yu-rí il Ministero degli Affari Esteri chiederà ufficialmente domani mattina all'Ambasciata di Francia la vostra partenza immediata dal Giappone come «persona non grata», sospetta di essere coinvolta in un serio affare di spionaggio; e voi sapete che in simili casi le Ambasciate hanno l'abitudine di far partire immediatamente la persona incriminata per evitare uno scandalo intorno al nome della Nazione che rappresentano.

Le parole del generale erano di una logica che atterrava Roberto. Il disgraziato ufficiale si sentiva mancare addirittura il terreno sotto i piedi. Il pallore del suo volto tradiva l'intensa commozione.

Seguí una pausa abbastanza lunga. Roberto, sconvolto, intontito, pugnalato a vivo nel cuore, si stringeva ferocemente le tempie che gli battevano a spezzarsi. I tre asiatici restavano immobili, silenziosi e gravi.

— La mia Yu-rí! La mia Yu-rí! – mormorava Roberto. Poi urlò: – Ma è un crimine, questo! – E dopo un po', rivolgendosi concitatamente al generale continuò: – È possibile, generale, che non vi sia un mezzo per impedire una simile mostruosità contro due povere donne innocenti, innocentissime, patriotte, che adorano il Giappone, che sono due giapponesi al cento per cento senza la più piccola macchia, che hanno una unica colpa, forse: quella di avermi fatto amare il Giappone fino a farmi dimenticare il mio dovere di ufficiale francese?

— Capitano Namura – rispose il generale – sono assai dolente di dovervi togliere ogni illusione, ma la faccenda mi sembra senza via di scampo... a meno che...

— A meno che? – chiese ansante Roberto.

— A meno che Yu-rí non possa dimostrare chiaramente, e fin dal primo interrogatorio, d'essere perfettamente al corrente delle intenzioni del capitano Namura e d'essere rimasta al suo fianco nell'interesse del Giappone per sventare i suoi piani o per esercitare su di lui la sua influenza di donna in senso favorevole agli interessi del Giappone. In tal caso, dovrebbe anche indicare il nome dell'Autorità militare alla quale, secondo il suo stretto dovere di cittadina giapponese, avrebbe dovuto segnalare il fatto e lo scopo che perseguiva.

— Ma Yu-rí non ha parlato con nessuno. Lei nulla sa. Non c'entra affatto in tutta la faccenda! – disse Roberto.

Un'altra pausa tragica interruppe la conversazione.

Dopo un po', il vecchio Kiyòsci rivolgendosi a Watabé insinuò sottovoce:

— Voi, generale, convinto come siete dell'assoluta innocenza di Yu-rí, non potreste dichiarare di aver ricevuto le confidenze della signorina Yu-ri-sàn?

— Ma!... – rispose il generale. – Non mi sembra fattibile! Incomincerei col mettermi io stesso in serio impiccio per avere mancato al mio dovere di ufficiale di segnalare subito la questione al mio superiore immediato, il Comandante generale. Eppoi... eppoi... per la mia stessa coscienza di soldato giapponese e di suddito fedele dell'Imperatore, dovrei avere la certezza delle buone intenzioni del capitano Namura... In altre parole, il capitano Namura dovrebbe dimostrarmi tangibilmente di essere non un nemico, ma un amico del Giappone.

— Lo sono, generale, lo sono...

— Dovreste esserlo, capitano – ribatté il generale con voce grave e profonda nella quale aleggiava un soffio mistico; – ricordatevi che in fondo siete figlio di un giapponese, cioè giapponese voi stesso; e che avete il dovere di fronte ai vostri antenati, se non di servire il Giappone, almeno di non combatterlo.

Banzài Nippon! – scattò con voce secca il colonnello.

Banzài Nippon! – ribatté il vecchio Kiyòsci.

Il silenzio diventò immenso...

La fronte china, il corpo immobile, il viso stilizzato in una maschera austera, i tre giapponesi adoravano lo Spirito del «Grande Giappone» evocato dalle loro parole. Quel soffio mistico che veniva dalle profondità dell'Arcano passò sull'anima nuda e vibrante di Roberto. E la sua anima tremò... Il Daj Nippon evocato dai suoi compagni asiatici, gli parve una specie di potere soprannaturale, magico, strapotente, sospeso nell'aria nel cielo nell'immensità dello spazio, dominante gli uomini e gli eventi, capace di assorbire Yu-rí nel suo vortice senza fondo e di sperderla nell'infinito dell'Eterno Buio come di sistemare ogni cosa e di benedire con l'indulgente sorriso di Budda la coppia Yu-rí-Roberto abbracciata tra i fiori di loto nel verde-oro d'un giardino splendente...

— Convinto dell'assoluta innocenza di Yu-rí, fedele alla memoria del mio amico e compagno d'armi il commodoro Kawakàma – riprese con tono pacato il generale Watabé – incline a credere alle intenzioni del capitano Namura che considero giapponese e quindi mio fratello nella grande famiglia nipponica che ha per Padre e per Capo la Maestà dell'Imperatore, sono disposto a fare quanto è in mio potere per appianare la faccenda, ma bisogna che il capitano Namura mi metta in condizione di farlo...

— Che cosa dovrei fare? – biascicò Roberto parlando a se stesso e agli altri. – Sono pronto a tutto purché non mi si chieda l'impossibile...

— Vi si chiede semplicemente di comportarvi da giapponese quale siete. Vi sentite o non vi sentite giapponese, capitano Namura?

— Sento che... qualche cosa di giapponese è in me

Banzài Nippon! – ripeterono sottovoce gli altri due.

Banzài Nippon! – mormorò Roberto come pronunciasse una formula magica, capace di far sparire quel tremendo incubo.

— Domani mattina alla prima ora – continuò il generale Watabé – mi metterò a rapporto col Comandante generale al quale dichiarerò che la signorina Yu-ri-sàn, di sangue samurài, figlia del commodoro Kawakàma che combatté valorosamente alla battaglia di Tsuscima, incontrato sulla sua strada il capitano Namura figlio di un giapponese ed invaghitasi di lui si è proposta di restituire al Giappone questo figlio perduto del Daj Nippon e che tre mesi fa è venuta da me a comunicarmi, in qualità di amico del defunto suo padre, il suo progetto. Di fronte al Comandante generale mi assumerò la responsabilità – disciplinare e morale – di non avere trasmesso alle Autorità superiori la comunicazione della signorina Yu-ri-sàn. Ritengo che con questo espediente l'ordine di arresto di Yu-rí sarà sospeso. Desidererei che, a evitare inutili interferenze di donne e chiacchiere di fantesche, tanto Yu-rí quanto sua madre siano tenute completamente all'oscuro di tutto. Non una parola. Io stesso parlerò a Yu-rí il giorno che riterrò opportuno e nel modo che crederò opportuno.

— Grazie! – disse Roberto.

— Voi, capitano – continuò il generale Watabé – siete stato incaricato dalla vostra Ambasciata di sottrarre allo Stato Maggiore dell'Impero per fini diplomatici, relativamente non criminali, un documento riguardante l'Indocina. Questo documento esiste, infatti; ma è ben diverso da quello che il Governo francese presuppone. Si tratta semplicemente di uno studio fatto dallo Stato Maggiore durante la guerra mondiale in vista della possibilità di torbidi rivoluzionari in Indocina provocati da agenti tedeschi e della necessità nella quale avrebbe potuto trovarsi lo Stato Maggiore giapponese di essere invitato dalla Francia, allora totalmente assorbita dal fronte europeo, ad assicurare la difesa interna ed esterna della colonia. Una copia... di questo documento vi sarà... consegnata, capitano Namura, fra quattro o cinque giorni perché la trasmettiate all'Ambasciata di Francia come roba vostra, sottratta da voi agli uffici dello Stato Maggiore dell'Impero attraverso una operazione di spionaggio. Siamo d'accordo?

— Perfettamente! – annuí Roberto che vedeva schiarirsi l'orizzonte.

— Io debbo però giustificare dinanzi alla mia coscienza di giapponese e di suddito fedele dell'Imperatore questa mia attività arbitraria in vostro favore, assolutamente non conforme alla Legge e forse in contrasto con gli stessi miei doveri di soldato. Piacere per piacere! Servizio per servizio, capitano! Per sdebitarvi del servizio che vi rendo, capitano Namura, e sopratutto per provare dinanzi alla mia coscienza che siete realmente un amico e non un nemico del Giappone, voi fornirete allo Stato Maggiore Generale, per il mio tramite, un rapporto confidenziale contenente tutte le informazioni che sapete sulla difesa dell'Indocina. Per essere stato un anno all'Ufficio del Comando di Stato Maggiore di Saigòn e due anni ai posti di frontiera del Yunàm, siete in grado di conoscere perfettamente l'organizzazione difensiva della colonia. Tengo a prevenirvi, capitano, con lealtà di soldato, che lo Stato Maggiore Generale già possiede precise informazioni sul sistema difensivo dell'Indocina e che dalla precisa corrispondenza fra i dati posseduti dallo Stato Maggiore e quelli che voi fornirete, lo Stato Maggiore trarrà la prova dell'esattezza degli altri dati da noi eventualmente non posseduti e che voi ci comunicherete. Accettate?

— Mi chiedete di tradire il mio Paese? – balbettò Roberto.

— Il vostro Paese, capitano, è il Giappone. È come giapponese che sono disposto ad aiutarvi. Se vi sentite francese, cioè straniero, non ho nessuna ragione per venire in vostro soccorso. Nelle vostre vene scorre sangue giapponese. Vostro padre, figlio del Giappone, dorme il sonno eterno nella buona e materna terra giapponese. Il suo kami aleggia nell'atmosfera del Giappone. Forse in questo momento è qui, in questa stanza, in mezzo a noi, accanto a voi... E spia nella vostra anima i brividi della vostra nazionalità rinascente... E vi suggerisce la risposta affermativa che deve salvare Yu-rí... Fecondato dal grande «Soffio» del «supremo Principio Generatore» il divino Izanagi, anche il vostro amore per Yu-rí fruttificherà e darà alla razza giapponese i figli ai quali essa ha diritto... giapponesi come voi, come Yu-rí... Capitano Namura, è tardi e domani debbo alzarmi per tempo per mettere a punto il nostro programma. Accettate il patto che vi offro?

— Sí! – fu la risposta di Roberto.

I tre uomini s'inchinarono. Tre volte le loro fronti s'inchinarono fin quasi a toccare le stuoie, rendendo omaggio al fratello che rientrava nella grande famiglia del Daj Nippon.

— Allegri, ora, e sereni! – disse il vecchio Kiyòsci. – Che le donne non si accorgano di nulla! – Poi, battendo le mani chiamò: – Yu-ri-sàn! Mi-zu-ko-sàn!

Sakè! – ordinò Roberto quando le donne furono apparse.

Aveva bisogno di bere ancora, di stordirsi, di non pensare. Istintivamente Yu-rí s'era collocata accanto a lui. Genuflessa sul cuscinetto di broccato, stilizzata nel kimono bianco-azzurro che portava con la grazia abituale, creatura fragilissima e nel medesimo tempo formidabile, il bel viso ovale composto e calmo come nelle bambole di porcellana, l'anima un pò tremante, gli occhi luminosi e dolci, Yu-rí ignara di quanto era successo ne sospettava la sostanza. Il suo cuore di giapponese ed il suo cuore di donna interrogavano tacitamente gli occhi degli uomini per leggervi la sentenza del suo amore, ma gli occhietti d'onice dei suoi compatriotti erano freddi ed enigmatici. Allora, fissò quelli di Roberto, meno obliqui, meno lucidi, meno artificiali, più aderenti alle emozioni interne, più a contatto con l'anima. E vi lesse... una infinita tenerezza per lei...

Dopo un pò i due militari giapponesi si congedarono abbondando in inchini e in frasi cerimoniose. Il vecchio Kiyòsci si trattenne ancora qualche minuto.

— La vita va presa come viene! – disse il vecchio letterato a Roberto. – È saggio l'uomo che sa cogliere l'attimo fuggente ed assoggettarlo al suo piacere. Ciò che oggi sembra enorme, domani si dimostrerà microscopico o addirittura inesistente, ma il piacere goduto dall'anima o dal corpo è acquisito e nessuna forza è capace di cancellarlo dall'attivo di una esistenza. Yu-rí ti fa felice. Tientela e non pensare ad altro. Il resto è artifizio. Di fronte all'Eterno, cioè alla Suprema Armonia e alla Suprema Saggezza, il tuo operato è in equilibrio con le forze interne del tuo essere e con le forze esterne che lo maneggiano. Non credere di essere fuori del cammino giusto. Il semplice fatto che tu sia riuscito in sei mesi a parlare perfettamente giapponese, il senso di comodità e di riposo che provi vivendo come fai alla giapponese, l'amore medesimo che ti ispira Yu-rí e che Yu-rí sente per te, documentano infallibilmente dinanzi all'Eterno la tua natura giapponese. Come tale sei sulla strada esatta e ti muovi in armonia con il Tutto. Ho voluto rimanere qui qualche istante per dirti queste parole placide e buone delle quali la tua anima ha forse bisogno.

Poi, rivolgendosi a Yu-rí, il vecchio continuò:

— Yu-ri-sàn, ama Roberto! Attaccati a lui come l'edera al tronco. Egli merita al cento per cento il tuo amore!

Yu-rí s'inchinò tre volte in direzione di Kiyòsci; poi, rivoltasi verso Roberto, s'inginocchiò, abbassò la fronte sulla stuoia e rimase in quella posizione femminile di umiltà e di amore finché le mani di lui la sollevarono e le sue braccia l'attrassero teneramente verso il suo petto. Il vecchio Kiyòsci si ritirò discretamente chiudendo dietro di sé i fusúma. E nell'attraversare l'atrio disse alle fantesche che accorrevano a salutarlo:

— Lasciateli soli!

Fu per i due amanti una grande notte di amore.

Baci... Carezze... Brividi di mani... Brividi di capelli... Lunghi accostamenti tattili... Voluttà lievi come aliti di vento tropicale... Voluttà impetuose e fulminee come scariche di tempesta... Voluttà forzate e dolorose come il solletico agrodolce fatto ad una piaga... Pause di sonno stanco... Grandi silenzi, vigilati da quattro occhi dilatati e febbrili... Un parlottar sommesso, scemo e sublime... Fumo di tabacco... Sorsi d'alcool... Fruscii di sete carezzate e sgualcite... Sotto la luce fioca del lampione di carta-seta le loro nudità avevano il tono denso dell'ambra antica... E vi ronzavano intorno le zanzare... Dal kakemòno un vecchio Budda adiposo e osceno, sventagliato da una bambola d'Estremo Oriente, contemplava coi suoi occhi lubrici e saggi il groviglio di quelle povere carni intorno alle quali, invisibili, la Vita e la Morte tessevano le loro fila insidiate dal Destino... Ai piedi del kakemòno un drago di giada luceva vetrosamente...

L'Amore – suprema illusione degli uomini – cullava sulle stuoie le due creature, nobili e miserabili. Sull'Oceano tumultuoso una vecchia madre tremante accorreva verso quell'alcova umida di sudori, di lagrime, di succhi, mobilitata da un Ufficio militare per carpire il segreto di una frontiera coloniale. I kimono d'Estremo Oriente avevano servito da mezzani all'affare. Il sakè aveva lubrificato gli ordegni. Tokio dormiva.

Tra sospiri e spasimi si svolgeva su quella stuoia – minuscolo e gigantesco – uno dei tanti milioni di urti che caratterizzano il grande incontro tardivo tra l'Oriente e l'Occidente. Yu-rí era la sacerdotessa della dea Amateràsu incaricata dal «Grande Spirito» del Daj Nippon di riassorbire nella razza la molecola che ne era uscita. Roberto era il Don Chisciotte che l'Occidente aveva mandato in Oriente a combattere contro i mulini a vento dell'Imponderabile le cui ali erano rappresentate in quell'occasione dalle vaporose maniche svolazzanti dei kimono del Sol Levante.

Nel sonno i due corpi nudi, teneramente allacciati, sintetizzavano un amplesso semplice il quale è al di sopra dei continenti e delle razze perché nacque sulla nuda terra, in un punto sconosciuto del pianeta, provocato dall'istinto della specie che voleva continuare in se stessa, voluto dal Dio unico e universale che aveva creato il mondo e gli uomini...

Sul suo tatami di generale mistico anche Watabé dormiva: brutto; raggomitolato; soddisfatto; sognando... rombanti Banzài i quali si espandevano per le terre e poi, come energie risucchiate dall'atomo generatore, si riassorbivano nel disco rosso d'una bandiera imperiale, stemmata dal Sole...

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

I primi chiarori dell'alba filtranti attraverso i «vetri» di carta svegliarono A-sa-kò, la fantesca. Infilate le pantofole A-sa-kò salí sveltamente coi suoi passetti corti e leggeri la scala di legno lucido e schiuse i fusúma del piano superiore. I suoi occhi di vergine nipponica educata dalla scuola nazionale alle realtà della vita, videro senza nessuna meraviglia sul tatami ingombro di coperte disfatte e di kimono sgualciti i due corpi nudi di Roberto e di Yu-rí. Le quattro gambe e le quattro braccia incrociate formavano nella immobilità del sonno un carattere giapponese.

«È il carattere della fecondità!» disse a se stessa A-sa-kò che aveva idee precise. «Se canta un gallo, sarà un maschio. Se farà coccodé una gallina, sarà una femmina.» E per istinto, da buona giapponese, desiderò un canto di gallo. Un maschio è sempre un soldato di piú al servizio del Daj Nippon!

Poi, scese in cucina e trovò Kio-gi la cuoca che, destatasi anche lei, stava accendendo il fuoco.

—Che prepari stamane? – le chiese A-sa-kò.

— Zuppa chiara di scrofani e merluzzi, – rispose la cuoca.

— Ti consiglio una zuppa densa di gamberi e di tartarughe con fili d'uovo.

— Davvero?

— È come ti dico

— Che canti un gallo, allora! Il padrone è buono. E Yu-ri-sàn è come il sorriso del mattino sopra un ramo di pesco.

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