Già da sei mesi a Tokio, Roberto si era rapidamente assuefatto alla sua nuova esistenza. Abitava sul grande parco di Mégi-Gínko una villetta mobiliata all'europea con semplicità e buon gusto. Trascorreva le giornate fra i doveri dell'Ufficio, le obbligazioni mondane della sua vita di addetto di Ambasciata e lo studio della lingua giapponese al quale si era accinto avendo constatato la straordinaria facilità con cui riteneva le parole e le frasi giapponesi che suonavano intorno ai suoi orecchi. In soli tre mesi, attraverso il semplice contatto della servitú giapponese e della strada, aveva ottenuto risultati sorprendenti. Aveva preso allora un professore.
Gli dava lezione un vecchio letterato giapponese che aveva vissuto parecchi anni a Parigi e che ritornato in Giappone si era specializzato nel tradurre in giapponese le opere dei poeti francesi moderni. Roberto lo aveva conosciuto all'Ambasciata. Kiyòsci Minòru – cosí si chiamava il letterato – si era appassionato a quel suo straordinario allievo che riteneva immediatamente quanto gli si insegnava. Dopo un primo periodo l'aveva incoraggiato ad affrontare risolutamente anche lo studio dei caratteri giapponesi. La mano abile ed attenta del vecchio Kiyòsci guidava con amore i primi passi di Roberto nel difficile studio. Kiyòsci Minòru era un temperamento artistico. Nello svolgere la sua funzione di maestro metteva la stessa delicatezza e la stessa passione che, artista, avrebbe messo nell'esecuzione di una opera d'arte. E una opera d'arte considerava infatti quella progressiva iniziazione di un occidentale alle forme ed allo spirito della lingua nipponica. Con altrettanta cautela che sicurezza dirigeva il suo allievo per i sentieri giusti, gli evitava le salite troppo ripide, lo preparava agli ostacoli, gli faceva girare le difficoltà, lo conduceva amorevolmente per mano, metro a metro. Di pari passo con lo studio meccanico della lingua nelle due forme, parlata e scritta, si preoccupava di familiarizzare il suo allievo con lo spirito dell'idioma e, senza che Roberto se ne avvedesse, lo abituava gradatamente a sentire l'intimo rapporto di armonia che in giapponese come in ogni lingua esiste tra una frase ed il pensiero od il sentimento che deve esprimere. A Roberto piaceva il suono chiaro e musicale della lingua giapponese che ad ascoltarla rassomiglia all'italiano, ricca com'è di vocali e di suoni dolci, e provava un vero diletto nel decifrare e riprodurre i caratteri che via via andava apprendendo. In realtà, l'abile insegnamento di Kiyòsci Minòru risvegliava nel suo spirito un mondo di figure e di suoni che già esisteva potenzialmente nel profondo del suo essere e che risuscitava sotto il tocco magistrale del vecchio letterato-poeta. Da principio quella risurrezione del subcosciente fu lenta e stentata come il primo vagire della primavera sotto la neve invernale; ma in seguito, come avviene nei campi quando i soffi di aprile risvegliano in massa le vite vegetali sonnecchianti nella terra, i suoi progressi si accelerarono e si ingrandirono. Un anno dopo il suo arrivo a Tokio già parlava correntemente giapponese, incominciava a leggerlo e s'azzardava a scrivere qualche riga. Quel suo rapido adattamento alla lingua del paese gli era assai utile nell'assolvimento del suo compito di addetto militare e gli aveva dato in breve tempo una situazione brillante alla Ambasciata dove era quotatissimo, tanto più che, contrariamente a quanto si verificava nei funzionari da lungo tempo residenti in Giappone, questo suo sforzo di immedesimazione con lo spirito del paese non alterava minimamente la sua personalità spirituale di occidentale ed egli restava francese – ben francese – nei giudizi e nei riflessi interni. L'ambasciatore segnalò al Ministero il caso Namura, consigliando di lasciare quell'ufficiale di eccezione piú a lungo possibile addetto militare a Tokio dove avrebbe potuto rendere preziosi servizi, sopratutto in vista della facilità con cui i giapponesi simpatizzavano con lui e gli aprivano certe porte che in genere restavano chiuse a tutti gli addetti militari, navali ed aeronautici delle altre Ambasciate.
Tra Kiyòsci Minòru e Roberto s'era stabilita una vera amicizia. Al di fuori delle ore di lezione il vecchio letterato ed il giovane ufficiale si vedevano sovente e trascorrevano insieme molte serate. Il giapponese approfittava della compagnia di Roberto per completare le sue conoscenze sulla vita politica, sociale e letteraria della Francia moderna. Roberto dal canto suo si familiarizzava nelle conversazioni di Kiyòsci con la storia del Giappone, con la mitologia sintoista, con l'influenza esercitata dal Buddismo e dal Confucianesimo sulla formazione dello spirito giapponese, con la maniera di pensare e di sentire dei nipponici, con le bizzarre deformazioni che subiva la civiltà occidentale nel sovrapporsi in un giapponese agli strati originari della tradizionale anima indigena.
Kiyòsci e Roberto andavano sovente insieme a passeggiare per le strade della capitale. Roberto amava assai le strade di Tokio, non quelle dei quartieri di lusso che rassomigliavano in fondo alle strade di tutte le grandi città moderne, ma le vie minori del quartiere popolare di Fukagawa dove formicola la folla minuta la quale, nonostante la sua apparente occidentalizzazione, resta profondamente nipponica. Ad un osservatore europeo superficiale quella folla sembra solamente pittoresca e strana. Essa ha invece una sua profonda vita intima, infinitamente sfumata, estremamente complessa, piena di credenze indistruttibili, di elementi morali millenari, di aggiustamenti sociali straordinariamente saggi, di riflessi artistici, di riverberi letterari, di vorticosi mulinelli interni che perennemente la risucchiano nel passato tradizionale e storico del Giappone, di vivaci e talvolta violente reazioni nazionaliste ed imperialiste: interessantissima folla omogenea e disciplinata ma satura di vita individuale, a volte indifferente fino all'esasperazione, a volte sensibile fino allo spasimo, docile e nello stesso tempo rivoluzionaria, guerriera e nello stesso tempo delicatissima, semplice come nessuna altra eppure complessa quanto nessuna altra. Aiutato da Kiyòsci, Roberto arrivò a sentire il popolo giapponese, a comprendere la sua vita interiore, a leggere nelle forme e nei colori dei kimono il loro significato simbolico, a percepire il senso intimo delle usanze e dei riti, a capire il complicato linguaggio dei ventagli e delle riverenze, a vagliare i reali rapporti esistenti fra i due sessi e le varie classi sociali, a discernere i diversi elementi anacronistici e antitetici che formano il fondo dell'anima nipponica. A poco a poco l'Impero, la capitale e la plebe non ebbero piú segreti per lui.
Roberto amava quelle strade giapponesi piene di vita, di colori, di simboli, di commerci minuti, di botteghe minuscole, di saluti, di riverenze, di gesti rituali, di un praticismo positivo mescolato a elementi mistici e provava una specie di ebbrezza a mescolarsi, lui bianco e occidentale, al formicolio felpato e nello stesso tempo festoso dei kimono fruscianti e delle ghette zoccolettanti. La strada giapponese lo ubbriacava sempre un pò, sopratutto la sera quando si accende di mille luci gioiose che galvanizzano i colori degli indumenti, delle insegne, delle vetrine, delle botteghe; quando pare che prorompa dalle case e dai vicoli uno strano carnevale turbinante e nello stesso tempo stilizzato; quando il viavai frettoloso della gente saltellante e chiacchierina rotea paradossalmente intorno a pochi movimenti ed a pochi gesti sempre quelli, ripetuti uniformemente milioni di volte. Cento radio e mille fonografi asserviti al commercio minuto intrecciano fino all'esasperazione quattro o cinque motivi musicali della razza che escono fuori dal sacrario dei templi e servono a vantare una pentola o a diffondere un sapone. Il sacro ed il profano sono permanentemente frullati nell'atmosfera. I confini tra il misticismo e la bottega sono altrettanto incerti di quelli esistenti tra la brutalità e la grazia. Tutti lottano ma tutti sorridono. Tutti corrono ma nessuno s'urta. Milioni di donne lavorano duramente dalla mattina alla sera, ma non per questo smettono di fare le riverenze né di sorridere femminilmente al maschio col quale sono praticamente in concorrenza.
Un pomposo e nello stesso tempo raffinato concetto decorativo fa da sfondo a tutti i commerci ed a tutte le faccende. L'ambiente scenico è costantemente formato da una sfilata di prospettive. E di una sfilata di prospettive, sovente appena sfumate, è fatto l'ambiente spirituale nel quale si svolge la vita della strada. Il complesso è cinematografico e stordente. Il dettaglio è invece stilizzato e sereno. È difficilissimo per un occidentale capire una strada nipponica. Eppure il Giappone è fatto di milioni di strade e stradine tutte eguali, fiancheggiate da case e casette tutte identiche, da campi e campicelli tutti simili, da boschi e boschetti tutti uniformi...
Di fronte all'animazione ed alla festosità di Tokio le città di Europa sono grigie, austere, accigliate. Solo pochissime – Napoli, Marsiglia, Atene —riescono ad avere un pò di colore e di vita. Tutte le altre apparivano a Roberto rispetto a Tokio pensierose, tristi e opache.
Il vecchio letterato l'accompagnava nei negozi e nei negozietti insegnandogli a saper scegliere un avorio, una lacca, un bambú; a saperli contrattare con grazia e con dignità; a saper rispondere alle riverenze; a saper ricercare in ogni oggetto d'arte oltre al suo pregio artistico dovuto alla mano dell'uomo anche quei valori estetici e tattili che sono connessi alla preziosità intrinseca della materia la quale è opera di Dio. Ben presto Roberto divenne un conoscitore di kakemòno, un intenditore di fusúma, un appassionato di lacche e di porcellane, un assaporatore di tinte e di sfumature. L'elemento decorativo che in Giappone è nettamente dominante, deformò i suoi gusti occidentali e le sue preferenze. Quasi senza avvedersene lasciò il caffè per il tè, il vermut per il sakè, le formule complicate di Brillat-Savarin per l'alimentazione semplicissima e rude di un popolo guerriero che durante la sua esistenza tempestosa non ha avuto tempo di occuparsi dell'arte della cucina e dei piaceri della tavola.
Di quando in quando il vecchio portava Roberto nella sua piccola e modesta casa di Fugikàwa dov'era accolto come un amico di famiglia da Fu-kuo-kà, la moglie del letterato, e da I-to-sàn, sua figlia, creatura fragile e fine dall'ovale delizioso, dal sorriso squisito, dai gesti colmi di grazia. Fu-kuo-kà aiutava il marito a spogliarsi degli indumenti di strada ed a rivestire il kimono di casa che lei stessa come ogni sposa giapponese lavava e stirava tutti i giorni perché l'uomo lo trovi sempre fiammante e come nuovo e anche se povero non si accorga della propria povertà appena entra nelle pareti domestiche. La casa giapponese è concepita in modo che l'uomo entrandovi abbia la sensazione di essere un «personaggio», qualunque sia la sua condizione sociale, e vi trovi le comodità fondamentali della vita nipponica le quali costano pochissimo: un kimono fresco, una salvietta tiepida per tergersi il sudore e la polvere della strada, un ventaglio maneggiato da una gentile mano di donna, una chicchera di sakè, una scodella di riso ben servita in un vassoio di lacca con intorno in graziose tazzine quei pochi intingoli che bastano ad un giapponese per avere l'illusione di mangiare saporito. Mentre Fu-kuo-kà secondo le usanze si occupava del marito, I-to-sàn secondo le usanze si occupava dell'ospite, lo aiutava a svestirsi degli indumenti di strada e ad indossare il kimono della pace domestica, sorridendo graziosamente alle mosse sempre un pò impacciate di lui, che abituato ad un altro sistema di vita, ad un'altra maniera di comprendere il cosidetto pudore, a un diverso ordine di rapporti fra l'uomo e la donna, si sentiva a disagio in quelle operazioni troppo intime, in quei contatti troppo familiari con la ragazza, i quali urtavano tutto un suo complesso di regole e di idee. Ma il sorriso dolcissimo e volatile della fanciulla, il suo sguardo chiaro e sereno, i suoi movimenti cordiali e rispettosamente fraterni lo rimettevano rapidamente a suo agio.
I due amici si allungavano poi sulle stuoie a continuare le loro conversazioni di arte, di politica, di filosofia mentre Fu-kuo-kà e I-to-sàn aiutate dalle fantesche di casa servivano il tè, li rinfrescavano col ventaglio, asciugavano loro il sudore con pannolini tiepidi e umidi vagamente profumati, offrivano il portacenere, presentavano i fiammiferi, sorvegliavano con amorevole attenzione i loro piccoli bisogni, cercavano di prevenire e di intuire i loro desideri minuti, seguivano senza prendervi parte diretta le loro conversazioni ma vi partecipavano in ispirito coi loro occhi parlanti, coi loro sorrisi intonati, con le loro espressioni di assentimento e di meraviglia, con la loro perenne grazia vibrante e prona. I-to-sàn, che era stata educata secondo la rigida tradizione, ingioiellava i suoi movimenti e le sue parole di continue piccole riverenze. E ogni riverenza pareva a Roberto l'ondulazione di un turibolo colmo d'incenso. Restava nell'aria una fragranza di anima... una dolcezza di carne... un fruscio fine di seta smossa...
— La situazione generale – diceva Roberto concludendo una lunga conversazione politica – è certo piena di tensione. Gli spiriti sono irritati in Occidente ed in Giappone. La Russia soffia nel fuoco. Il linguaggio della vostra stampa ha assunto in questi ultimi giorni un tono altezzoso di sfida al quale fanno eco le dichiarazioni reboanti dei vostri uomini politici. Il generale Asàhi parla addirittura di guerra al... mondo...
— L'Imperatore è a Tokio! – rispondeva il vecchio giapponese scuotendo negativamente il capo.
— È naturale che in questo momento critico si trovi a Tokio...
— No – rispondeva il vecchio Kiyòsci – se la situazione fosse veramente allarmante l'Imperatore sarebbe partito per la sacra foresta di Ise a consultarvi i suoi Antenati divini!
Ogni momento, nelle piccole come nelle grandi cose, Roberto si trovava improvvisamente di fronte a un ordine di idee giapponese completamente estraneo al suo spirito occidentale ed aveva l'impressione di essere dinanzi ad un muro od almeno davanti a un cortinaggio estremamente pesante a sollevarsi. V'era, nella struttura del Giappone, una specie di ossatura invisibile di essenza arcana alla quale facevano capo tutti i sentimenti ed i pensieri dei cittadini. E quell'invisibile armatura, d'ordine piú che altro mistico, era la grande base impalpabile che teneva in piedi l'Impero. Le continue riverenze di Fu-kuo-kà e di I-to-sàn ossequiavano in fondo quel misterioso ordine interno il quale regolava tanto la piccola vita domestica quando la grande vita storica della nazione.
Quel giorno Kiyòsci e Roberto, usciti insieme dalla Ambasciata, avevano fatto un giretto al mercato libero dei kimono e dei broccati dove l'artigianato di Tokio ha l'illusione di fare concorrenza alla grande industria tessile razionalizzata dai Mitsúi e dai Mitsubíchi senza rendersi conto che quel mercato cosidetto libero è invece stimolato e alimentato proprio dai due potenti magnati della produzione tessile i quali se ne servono come di una sorgente perenne donde attingono i disegni, i colori, le trovate dell'ispirazione artigiana, perpetuamente vivificata dai grandi soffi generatori che vengono su dal fondo del popolo. In occasione del ventiquattresimo anniversario delle sue nozze con Fu-kuo-kà, il letterato voleva donarle un obiaghé, che è un piccolo pezzo di stoffa preziosa e fine il quale si porta sotto l'obi, quasi interamente invisibile. L'obiaghé è un dettaglio di lusso intimo. La mano magra e nodosa del vecchio Kiyòsci accarezzò, soppesò, controllò innumerevoli broccati prima di decidersi per la piccola scelta, spiegando minuziosamente ciò che cercava ai vari mercanti i quali dignitosamente e pazientemente si davano da fare per contentarlo e discutevano con lui le ragioni estetiche, artistiche e letterarie che influenzavano quell'acquisto.
— Due anni fa ho regalato alla signora Fu-kuo-kà – spiegava il vecchio a Roberto – un kimono di Nara dipinto a mano da un mio amico artista che me lo cedette ad un prezzo conveniente. L'anno scorso le ho trovato un obi magnificamente intonato al kimono, come colori e come simboli. Quest'anno voglio completare l'insieme con un obiaghé, ma non è facile trovare il disegno simbolico di cui ho bisogno. A Kioto sarebbe più agevole. La produzione di Tokio è un pò standardizzata!
Roberto era tornato il giorno prima dalla zona di Kobe e di Osaka dove durante tre settimane aveva assistito in qualità di addetto militare alle manovre annuali dell'esercito giapponese ed aveva osservato da vicino il funzionamento di quella grande macchina bellica ricopiata punto per punto sull'Occidente.
Istintivamente Roberto accoppiava quelle due visioni cosí diverse: la paziente, complicata ricerca di un simbolo connesso ad un piccolo indumento femminile; la brutale sfilata di centinaia di reggimenti e di migliaia di cannoni.
Non era la prima volta che il suo spirito registrava questi due aspetti paralleli e antitetici del temperamento giapponese: la raffinatezza artistica; la rudezza guerriera.
Poi, i due amici presero una delle tante ferrovie metropolitane che solcano con mirabile regolarità il sottosuolo di Tokio e scescero a una stazioncella intermedia dalla quale facendo pochi passi a piedi giunsero ad un antico cimitero fuori uso che nel cuore della grande capitale pulsante e frenetica forma una oasi di quiete, di silenzio e di cose morte. Pochissimi degli europei residenti a Tokio conoscono il cimitero di Aoyàma-Bógi. Assorbiti dai loro pranzi diplomatici, dai loro aperitivi al «Continental» e dai loro «pseudo-flirt» con le false ghesciette dei bar di Ghinza, gli europei di Tokio non hanno tempo per scoprire nell'ammasso della metropoli questi angoli pudicamente nascosti del vecchio Giappone sentimentale e guerriero nei quali la popolazione suole andare ad attingere, al di fuori e al di là del cemento armato, le energie imponderabili che hanno formato nei secoli l'Impero e lo hanno sostenuto in tutte le sue tempestose vicende.
Aoyàma-Bógi è un grande campo pieno di vecchissime tombe. I morti sono tanti ed hanno quindi poco spazio per ognuno. In Giappone dove la popolazione aumenta di un milione di abitanti l'anno, anche il numero dei morti è di anno in anno in aumento! Nei cimiteri non v'è posto né per grandi cappelle né per mausolei monumentali. Nell'Aoyàma-Bógi come in tutti gli altri cimiteri del Giappone i sepolcri sono piccoletti ed hanno l'aria di essere uniformi. Viceversa ognuno ha qualche cosa di personale, una sua impronta individuale, un suo sigillo particolare che lo differenzia dagli altri. Da oltre quarant'anni nessun morto è piú sepolto all'Aoyàma-Bógi. Per i suoi morti nuovi la metropoli ha costruito in periferia immensi cimiteri, uno in ogni angolo della città, come uno in ogni angolo della città sorgono i sontuosi Yosciwàra o quartieri del piacere. Nonostante che da quarant'anni l'Aoyàma-Bógi sia in pratica abbandonato, tutte le tombe, nessuna esclusa, sono adorne di fiori freschi e di piantine ornamentali ben tenute. I rituali piattelli delle offerte sono pieni di riso, di legumi, di tocchetti di pesce, di bocconcini di carne. Qualche bacchetta d'incenso fuma quetamente nei minuscoli candelieri.
Benché sia trascorso quasi mezzo secolo dall'ultima sepoltura e vi siano morti sepolti già da cento duecento anni, la venerazione dei discendenti rinnova le vernici, perpetua le offerte, mantiene freschi i fiori ed accese le lampade votive. L'amore filiale è in Giappone una grande energia perenne che attraversa le generazioni.
Roberto e Kiyòsci avevano l'abitudine di andare ogni tanto all'Aoyàma-Bógi a passeggiare per quei sentieretti puliti e ben inghiaiati che serpeggiano e s'intersecano fra le caserelle dei morti. E come Roberto e Kiyòsci, vi andavano mille e mille altri abitanti di Tokio. Le città dei morti sono luoghi di convegno e di distrazione per i vivi i quali in Giappone non hanno affatto quel terrore o quella ripulsione dei cimiteri che è abituale in Occidente. Morti, vivi e nascituri formano in Giappone una unica grande famiglia concatenata nello spazio, nel tempo e nella coscienza della moltitudine. Le generazioni passate hanno piantato nel cimitero di Aoyàma centinaia di ciliegi che ogni anno fioriscono in aprile. La fioritura raggiunge in maggio il suo pieno. Allora il cimitero di Aoyàma si trasforma in un fantastico giardino di Mille ed una Notte. I viali diventano sferici porticati di sogno di cui nessuna frase può descrivere la vaporosità profumata. Sotto la carezza del vento i fiori si sfioccano dolcemente sui passanti. I viali sono felpati di preziosi tappeti di petali bianchi.
Roberto ed il vecchio Kiyòsci seguivano silenziosamente uno di quei viali di paradiso. I fiori si sfarinavano sul loro capo ed intorno alle loro spalle. L'atmosfera era piena di profumo e le nari di Roberto ne aspiravano voluttuosamente la delicata fragranza. La Vita e la Morte si fondevano in un unico brivido squisito attraverso il quale l'eterno disfacimento delle cose e l'eterno rifiorire delle cose si sublimavano nello spirito dei passanti. Molta gente si aggirava per le stradine del cimitero: uomini, donne, bambini: tutte le età e tutte le condizioni sociali. Prevaleva la plebe ed era evidente che quella plebe giapponese sentiva raffinatamente la squisitezza dell'ora. Gli impalpabili della Vita e della Morte parlavano alla sua anima sensibile. Gli occhi dei vegliardi e dei bimbi esprimevano il medesimo godimento spirituale. Roberto osservava quelle donne del popolo i cuikimono attestavano con le loro sfumature intonate un buon gusto finito mentre i loro sguardi ed i loro volti documentavano la capacità di sentire la poesia del cimitero fiorito; osservava quei ragazzi che, invece di correre e di giocare, bevevano con le pupille e con l'anima la melodia vagante nell'aria; osservava quegli uomini in kimono di pochi jen, evidentemente di condizione umile, che si soffermavano con compiacenza di artisti a contemplare uno squarcio di cielo inquadrato dai rami in fiore. Guardò quelle tombe ben tenute, vigilate da un amore piú forte del tempo. Rievocò le grandi manovre alle quali aveva assistito la settimana prima e la enorme impressione che ne aveva avuto, non tanto per la potenza bellica dell'armamentario militare quanto per la forza intrinseca di tutte quelle masse minute, duttili, pieghevoli, disciplinatissime, sensibilissime, tese misticamente verso lo scatto supremo, orientate spiritualmente verso il sacrifizio definitivo... Apparvero dinanzi ai suoi occhi i grandi impianti industriali, i giganteschi Cantieri Navali, gli Alti Forni, le imponenti Acciaierie ultra-moderne... Vide i cento vapori che andavano pei mari del mondo con la piccola bandiera del Mikado sulle prue avide di rotte e di traffici; i fulminei treni elettrici – terrestri, sotterranei, aerei – di Tokio, di Kobe, di Yokoàma che funzionano con la regolarità dei servizi pubblici di Nuova York; i grandi buildings di Osaka ultra-novecento che sono altrettanti alveari di uomini d'affari orientati spasmodicamente verso i mercati del mondo... Vide sfilare dinanzi ai suoi occhi sullo sfondo di paravento del Séto-Natài la flotta nipponica da guerra che è già la terza del mondo e aspira a diventare la seconda, possibilmente la prima... Accanto ai ciliegi in fiore le fabbriche di cannoni... in mezzo alle casette di legno di tek dai vetri di carta e dalle pareti dipinte a crisantemi, i silurifici, le industrie sintetiche, gli stabilimenti di super-esplosivi... vicino alle ghescie stilizzate e sorridenti i tecnici in càmice bianco dei laboratori aero-chimici e batterotossici di guerra.
Tutti quegli elementi costitutivi del Daj Nippon (Grande Giappone) si fusero nel suo spirito in un abbagliante complesso di qualità giapponesi, di energie giapponesi, di possibilità giapponesi, di volontà giapponesi proiettate in avanti, di programmi giapponesi inarcati verso l'indomani... E sentí, nitido, aderente, imperioso, un senso di rispetto per quella vigorosa razza d'Asia che si arroventava silenziosamente in se stessa tra le sete e gli acciai... sprigionando ondate galvaniche di energia razziale...
«Grande popolo!» pensò.
Una voce misteriosa gli soffiò nell'anima: Tu hai nelle vene un pò del suo sangue!
E della Francia! precisò il cervello.
E per un istante «le sue due patrie» gli parvero bizzarramente amalgamate in una paradossale bandiera tricolore francese in mezzo alla quale fiammeggiava il disco astrale del Sol Levante.
Il tramonto si liquefaceva dolcissimamente in una stempera di ambre, di lilla, di fini grigi pestati ed iridescenti... In quell'atmosfera magica i ciliegi in fiore assumevano una impalpabile trasparenza di sogno...
Accanto a una tomba stava genuflessa e un pò reclina una donna in kimono verde-acqua. L'alto obi di broccato smeraldino le fasciava la vita come un giustacuore medievale. Un grande ventaglio di seta le pendeva semiaperto dal polso. Aveva i piedi inguantati di bianco, infilati in due graziosi zoccoletti verdi. Teneva il capo abbassato ed aveva una capigliatura bruna, straordinariamente vaporosa. Sullo sfondo di un ciliegio in fiore quella figurina genuflessa formava un delizioso pastello di fusúma. L'oro del sole morente divinizzava le cose, le piante, la donna, l'attimo fuggente. La donna sollevò il capo dal suo raccoglimento mostrando un ovale fresco e soave, illuminato da due grandi occhi neri fortemente mandorlati, pieni di dolcezza e di luce. Riconosciuto il vecchio Kiyòsci, la donna si drizzò in piedi, congiunse con grazia le mani sulle ginocchia, salutò profondamente. Il vecchio letterato si stilizzò a sua volta nella posizione protocollare del saluto giapponese e rispose cerimoniosamente all'ossequio. Tre volte la giovane donna s'inchinò con grazia di fata. Tre volte il vecchio rispose al saluto con dignità di patrizio. Poi il kimono verde-acqua scomparve tra i ciliegi in fiore, ma prima di evaporare nella magnificenza della sera i grandi occhi d'onice ombreggiati dalle lunghe ciglia di seta incontrarono gli occhi del capitano Namura. E parve a Roberto di sentirsi accarezzare la bocca da un'ala di farfalla...
— Chi è? – chiese all'amico.
— Yu-rí Kawakàma, il cui talento di giovane pittrice è pari alla sua soave bellezza.
— Yu-rí?
— Yu-rí è il nome di un fiore: l'iris. Poche volte un nome di donna è stato dato con tanta giustezza! Non vi pare?
— Deliziosa creatura! – disse semplicemente Roberto.
Il vecchio, che aveva una voce flautata e quasi distaccata dalla terra, aggiunse:
— Le ho dato tempo fa alcune lezioni di letteratura ed è una buona amica di mia figlia. I suoi pastelli hanno avuto grande successo l'anno scorso a Kioto. Yu-rí abita Kioto con sua madre, che è vedova di un alto ufficiale di Marina morto in combattimento a Sciangai, il commodoro Kawakàma. Sua madre è di una eccellente famiglia di Kagoshíma, nel Sud. Piccola nobiltà e grande cuore. Se un giorno andrete a Kioto, vi darò una lettera per la celebre danzatrice Atsé Manamòto che è la grande protettrice artistica di Yu-rí. Atsé Manamòto era in gioventú una ghescia famosa che ha poi sposato il generale Fuscima morto alcuni anni fa. Rimasta vedova, è ritornata a Kioto dove era stata celebre in gioventú, e dedica la considerevole fortuna ereditata dal generale a far rivivere le tradizioni artistiche della vecchia capitale. Atsé Manamòto è lei stessa una notevole pittrice di ventagli e di paraventi. Ma, è un talento un pò stilizzato. Yu-ri-sàn ha invece il pennello fresco. Dipinge con l'anima... Ha un tocco lieve come un brivido... Un suo ramo di pesco è stato comperato l'anno scorso dall'Imperatrice all'Esposizione di Primavera...