VII

Tre mesi erano passati dalla sera dell'ambasciatore, tre mesi durante i quali il capitano Namura non aveva fatto nessun passo avanti nella sua missione. Non che non vi avesse pensato e che non avesse anche lavorato, ma lo Stato Maggiore dell'Impero è una specie di castello d'alta montagna eretto sulla cima di un picco isolato. Solamente qualche ponte levatoio assicura le comunicazioni di quel torrione blindato col resto del mondo. E sono ponti levatoi che si abbassano unicamente per far entrare ometti dagli occhi obliqui e dai denti d'oro, bene conosciuti da coloro che si trovano all'interno della roccaforte. Tuttavia, Roberto perseguiva tenace il suo scopo.

Nel frattempo, era diventato buon amico di Yu-rí Kawakàma – Yu-ri-sàn come la chiamavano gli amici – e nella casa di lei frequentata da artisti, da uomini politici, da ufficiali superiori di terra e di mare, da grandi nomi del Commercio e della Finanza di Tokio, si trovava costantemente a contatto con le classi dirigenti dell'Impero.

Dopo il suo incontro con Yu-rí al cimitero di Aoyàma-Bógi la sera dei ciliegi in fiore, quella deliziosa figura di donna asiatica non aveva piú abbandonato il suo pensiero. Il sorriso caldo ed inebriante di Yu-rí aveva anzi sbiadito il sorriso piú lieve della piccola I-to-sàn. Il vecchio Kiyòsci l'aveva accompagnato a una esposizione di pastelli di Yurí e l'aveva presentato alla giovane artista. Una settimana dopo Yu-ri-sàn l'aveva invitato a una sua esposizione di crisantemi al Palazzo delle Arti. La mattina seguente Roberto era tornato all'esposizione senza analizzare se vi andasse per rivedere i crisantemi o per incontrarvi chi li aveva dipinti. In quell'ora mattutina la sala era quasi vuota, ma vi era Yu-rí. La ragazza lo aveva ricevuto graziosamente ed erano rimasti insieme fino a mezzogiorno a conversare di fiori e di pittura. Poi, lui l'aveva accompagnata al centro nella propria automobile. La conoscenza della lingua giapponese favorí la sua amicizia con Yu-rí. La giovane pittrice aveva una bellezza giapponese a tratti non marcati, troppo sfumata forse per un nipponico ma fatta apposta per piacere ad un occidentale. Roberto aveva nel suo bel volto simpatico d'europeo un'ombra di asiatismo che lo rendeva piú attraente agli occhi di una giapponese. Yu-ri-sàn, che come molte artiste giapponesi si occupava anche di femminismo e faceva parte di alcune associazioni femminili di avanguardia, si ribellava al destino della donna giapponese di diventare la pupattola di un uomo della sua razza e passava nell'ambiente per una testolina ribelle. A tutti diceva di aver rinunziato all'uomo, dichiarando di essere troppo giapponese per sposare un occidentale e troppo donna per sposare un giapponese, il quale ne avrebbe fatto la sua bambola e la sua cameriera. Questo suo atteggiamento anti-matrimoniale che faceva versare fiumi di lagrime a sua madre, la eccellente signora Mi-zu-kò, aveva a volte irritato anche qualche personaggio giapponese fedele alle tradizioni del «paese dei mille autunni» ma Yu-rí era cosí fine, cosí graziosa, cosí intelligente, cosí buona ragazza e cosí raffinata artista che i cenacoli in mezzo ai quali si muoveva finivano per perdonarle anche quella sua mania femminista in aperto contrasto con lo spirito del Giappone. Per di piú, la sua attività artistica era sotto l'alta protezione della principessa Tagukàwa della Casa Imperiale, e ciò in Giappone ha un peso importantissimo sulle fortune artistiche e mondane di una persona. Le simpatie di cui dal canto suo era circondato Roberto Namura negli ambienti giapponesi di Tokio, avevano favorito i loro incontri. Sovente Yu-rí, invitata ad un pranzo o ad una festa da un personaggio politico o da un ambasciatore, vi trovava Roberto. Conversavano insieme. Ballavano insieme. Si ritrovavano nelle riunioni mondane del Corpo diplomatico, nei ricevimenti della plutocrazia giapponese, ai tè dei personaggi politici, nelle serate di musica, nelle esposizioni di pittura e di fiori, nelle feste ufficiali del Governo. Yu-rí, orfana di un commodoro dell'Impero morto al servizio della Patria, aveva ingresso perfino a Corte. E ogni qualvolta i loro occhi s'incontravano, si sorridevano nelle pupille. Istintivamente cercavano di avvicinarsi e di parlarsi. A poco a poco i loro incontri incominciarono a diventare piú frequenti, favoriti dalla preferenza che entrambi davano ai luoghi dove avevano probabilità di trovarsi. Allorché Yu-rí parti per Kioto per l'annuale stagione artistica, Roberto la raggiunse nell'antica capitale. L'ambasciatore, che riteneva il capitano occupato nella famosa missione, lo lasciava libero di andare e venire a suo piacimento.

Yu-rí aveva promesso a Roberto di fargli da guida nella visita dei famosi templi di Kioto, specialmente di quelli minori, trascurati dai turisti, ignorati anche da molti studiosi, sprovvisti magari di capolavori d'arte ma pieni di un raffinato fascino intimo per i vecchissimi giardini nei quali sono nascosti e per le straordinarie tinte che assumono al crepuscolo quando i loro sontuosi tetti di legno grezzo, anneriti e lucidati dagli anni, si specchiano nell'acqua d'oro dei piccoli stagni stellati dai fiori di loto. Kioto è la città dei templi e dei giardini. L'antico Giappone dei Dajmios e dei Samurài – il Giappone del Buscidò e dei ventagli – ha a Kioto il suo centro spirituale che sopravvive alla radio e agli aeroplani. Il tradizionale teatro giapponese vi ha la sua Bayreuth wagneriana, un pò mondana, un pò sacra. La tipica tradizione delle ghescie vi conserva il suo splendore e la città è fierissima di custodirne il famoso vivaio, il celeberrimo Kaburenko, che è scuola d'arte, conservatorio musicale, centro mondano e commerciale di eleganze, cenacolo di poesia, sacrario di bellezze classiche e di formule stilizzate. Yu-rí aveva accolto Roberto a Kioto come un grande amico, l'aveva presentato alla sua famiglia e ai suoi conoscenti, l'aveva introdotto nei circoli artistici e mondani dell'antica capitale, la quale per essere piú conservatrice di Tokio resta abitualmente chiusa agli occidentali. Loro luoghi preferiti di convegno erano di giorno il Padiglione d'Oro, il famoso Kiukàku-Gi, e di sera l'incantevole parco di Maruyàma nel quale palpita, sacerdotale e guerriero, il cuore della vecchia Kioto delle bonzerie buddiste, delle tradizioni aristocratiche, dell'arte del samisén e dell'industria nazionale della seta. Il Padiglione d'Oro era stato in origine la residenza del terzo dei potenti sciogún (grandi feudatari) Ascikàga, Yosci-mitsu, il quale disgustato dagli intrighi politici ed ecclesiastici vi si era ritirato per trascorrere in pace i suoi ultimi anni, lontano dai pettegolezzi della Corte, dalle rivalità degli Abati e dalle cure dello Stato. Si era allora nel 1349 e il Giappone attraversava un periodo tempestoso di lotte feudali e di guerre civili. Il figlio di Yosci-mitsu, eseguendo la volontà paterna, aveva poi trasformato il Padiglione d'Oro in Tempio buddista. Vari dei chioschi furono distrutti durante i secoli dal fuoco – l'inesorabile nemico di tutti gli edifizi del Giappone che sono quasi unicamente in legno – ma il Padiglione d'Oro è rimasto intatto. Esso e lo squisito giardino che lo circonda attestano la vita raffinata dei grandi signori giapponesi d'or sono seicento anni. Varie volte Yu-rí aveva accompagnato Roberto al Padiglione d'Oro. Sovente dinanzi alle classiche statue di Amída, di Kwannón e di Léisci o dinanzi ai meravigliosi pannelli di Kano Masanòbu – il magico pittore di crisantemi – i loro spiriti si erano sentiti infinitamente vicini, accomunati da una identica emozione artistica di essenza tipicamente asiatica. Nell'atmosfera di Yu-rí le vecchie cose del Giappone assumevano per Roberto una vitalità speciale, quasi che la presenza della donna gliele vivificasse misteriosamente. Yu-rí possedeva in sommo grado la qualità caratteristica della donna giapponese di essere in armonia con l'ambiente, con le persone e coi sentimenti che la circondano: qualità rara e preziosa che la donna giapponese ha tratto forse dalla sua secolare necessità di non urtare mai con la propria presenza l'irritabilità dei suoi maschi rozzi e prepotenti. Questa dote che esiste in Giappone anche fra le donne del popolo e che s'affina nelle donne delle classi superiori per l'educazione speciale che ricevono, si sublimava in Yu-rí per la sua sensibilissima natura di artista. La sensitività di Yu-rí arrivava a farle intonare il proprio abbigliamento ai luoghi dove doveva andare. In ogni luogo come in qualsiasi circostanza sapeva virtuosamente mettere in armonia i suoi gesti, il tono della voce, la natura del sorriso, il contenuto delle frasi con l'emozione lirica o estetica che in quel momento vibrava nell'aria. Roberto la trovava sempre straordinariamente vicina al suo spirito, straordinariamente aderente allo scenario. Se stavano in un giardino, Yu-rí era sempre il piú bel fiore di quel giardino. Se sostavano nell'ombra mistica di un Tempio fra gli oggetti misteriosi e fini degli altari, Yu-rí era sempre per Roberto il ninnolo piú pregevole del luogo. Il suo sorriso ora gaio ora dolce ora melanconico era uno specchio nel quale Roberto vedeva riflesso costantemente il proprio stato d'animo.

La loro amicizia, come capita sovente in Giappone fra uomo e donna, si era mantenuta lungo tempo nella cornice di una specie di fraternità spirituale che pareva estranea al cuore e superiore ai sensi; ma una sera, nello squisito giardino del padiglione di Yosci-mitsu, dinanzi al piccolo stagno verde-oro stellato di ninfee celesti, isolati dal resto del mondo nel cerchio opulento dei vecchi aceri secolari che l'autunno colorava di rame ardente, le loro mani s'erano incontrate e s'erano strette in un modo nuovo, diverso dal consueto. Entrambi ne avevano risentito un tepore cosí soave, che di comune accordo avevano prolungato quel nodo di dita attraverso il quale i loro esseri sentivano di entrare in piú intimo contatto. Nell'aria vagavano, vellutati e dolci, i brividi sonori del gong di Kioto. Quei rintocchi ovattati e profondi avevano l'aria di accarezzare le cose e la gente... Un alito di vento faceva trasalire sui lunghi steli sottili le corolle celesti delle ninfee... Lo stagno rifletteva quegli impercettibili brividi di vita e di colore... Tutt'all'intorno le foglie rosse degli aceri rimanevano invece immobili... L'aria era tiepida ed umida... Un senso d'estasi era sospeso nell'atmosfera...

Un vecchissimo bonzo che passava silenziosamente fra i tronchi sorrise con indulgenza alle due giovinezze che si tenevano per mano e che avevano scritto in fronte il loro turbamento...

Quella notte non andarono come il solito al Parco di Maruyàma, diffidenti per la prima volta di quella grande ombra nella quale fino allora tante volte avevano isolato la loro amicizia serena. Ma vi andarono la notte dopo. E appena soli, seduti l'uno vicino all'altra sulla solita panca accanto ad una vasca canterina, riallacciarono spontaneamente le loro dita, desiderosi entrambi di riprendere la conversazione là dove il giorno prima l'avevano puerilmente interrotta dinanzi allo stagno delle ninfee celesti... Guidata dall'amore la mano di lui le cercò carezzevolmente il polso... poi, risalí all'interno della ampia manica del kimono il braccio morbido, fino all'incavo dolce e vellutato dell'ascella... Lungo il cammino i suoi polpastrelli premevano quella buona e soda carne di seta, sostando in ogni punto, lungamente, carezzosamente, virilmente, quasi per metterne in fusione da poro a poro l'intima essenza... Lei lasciava fare, trepida e silenziosa, con quella docilità dolce che ha la femminilità giapponese ogni qualvolta s'imbatte nel desiderio del maschio...

Il prolungato contatto risvegliò i loro sensi che erano rimasti fino allora religiosamente assenti. Le dita di Roberto si spinsero entro il kimono fino al soave fiorire dei seni... Spontaneamente le loro bocche si cercarono nel buio, si trovarono, si congiunsero, s'incollarono nel miele... Un grande bacio occidentale li uní e Yu-rí istintivamente lo nipponizzò col fremito delle sue piccole nari asiatiche che aspiravano golosamente l'odore umano di lui...

Anàta wo omóu yó! – disse la donna, bocca contro bocca.

Anàta wa dai-suki yó! – rispose Roberto, la bocca nella bocca.

Mille briciole di canti e di suoni vagavano in mezzo agli alberi del grande parco di Maruyàma, tutto punteggiato di lampioni di seta, tutto solcato di musiche, fitto di ociàie e di chioschi nei quali ogni notte la popolazione di Kioto frantuma il suo piacere e brucia la sua melanconia.

Il loro amore era un amore delicato di anime che rifuggiva dalle brutalità immediate. Ma anche la carne ha una sua imperiosa volontà di amore. Uniti dal caso attraverso immense lontananze, Roberto e Yu-rí avevano bisogno di sentirsi aderenti per eliminare quella distanza di ieri che continuava ad incombere paurosamente sulla loro vicinanza d'oggi. Si vedevano ogni giorno e ogni sera; molte volte; sempre. Il divieto stabilito dalla Francia per i suoi diplomatici di sposare donne straniere senza un permesso speciale del Ministero che nel caso del capitano Namura sarebbe stato certamente negato, escludeva la possibilità di un matrimonio in perfetta regola. Entrambi ne parlarono. Roberto le espresse il timore che un passo fatto in tal senso presso l'ambasciatore potesse provocare il suo immediato trasferimento da Tokio ad una guarnigione francese.

— Non muovere un dito! – le aveva detto Yu-rí. – Io non potrei lasciare in questo momento il Giappone senza compromettere irrimediabilmente la mia arte alla quale tengo tanto. D'altra parte, non voglio perderti. Il nostro interesse è di guadagnar tempo, quindi di non muoverci.

Cercarono infatti di lasciar scorrere il tempo, ma l'Amore, il potente amore delle loro giovinezze calde, bruciava loro la carne. Ogni bacio era una delizia ed un po’ una tortura. Yu-rí nella sua sensibilità di donna giapponese sentí l'artifizio di quell'attesa senza una data e decise nel suo intimo di superare le circostanze facendo lei medesima a Roberto il dono della sua giovinezza fino allora immacolata. Nell'impossibilità di avere la cerimonia degli sponsali, volle comunque una cerimonia che dinanzi a lui e dinanzi a lei consacrasse l'unione totale dei loro esseri. Non sarebbe stata una giapponese se avesse sentito e agito diversamente. La vita giapponese è tutta piena di cerimonie, di commemorazioni, di anniversari, di riti, di simboli, destinati a profumare l'esistenza, a rimescolare i ricordi, a dare una patina mistica alle vicende piú semplici e banali del «tran-tran» quotidiano.

Il 22 ottobre, in occasione della «Grande Festa delle Età» Yu-rí offrí ai suoi intimi di Kioto una di quelle «cerimonie dell'incenso» che erano in grande voga nel 1500 e che ancora si perpetuano nelle vecchie famiglie nobili di provincia, nella buona società tradizionalista di Kioto, in certi cenacoli artistici rimasti fedeli alle costumanze del passato. Yu-rí aveva scelto per la cerimonia la sua piccola casa di Kioto, la sua «casa di artista», una civettuola casetta giapponese situata accanto al Kaburenko nel cuore del quartiere delle ghescie e degli artisti. Per essere quel giorno piú libera nei suoi movimenti, aveva offerto alla madre un viaggio ad A-ma-no-sci-dàte. Alla buona signora Mizu-kò non era parso vero di poter visitare l'unico dei tre Se-tai (i luoghi piú belli del Giappone) che ancora non conosceva ed era partita festosamente con la piú vecchia fantesca di casa, tre ventagli, tre parasoli, quattro kimono e due opere di poesia classica su A-ma-no-sci-dàte.

Secondo le regole secolari delle «cerimonie dell'incenso» Yu-rí aveva invitato solamente venti persone, scelte tutte fra gente di buon lignaggio, di fine educazione, di cultura artistica. Nella piccola casa, priva come tutte le case giapponesi di mobili e di ornamenti, il lusso era rappresentato dalla nitida freschezza delle pareti e dei soffitti, dalla tersa lucentezza dei corridoi e degli stipiti, dalla finezza delle stuoie che imbottivano i pavimenti. Unico motivo decorativo il tokonòma sul quale un kakemòno di seta dipinta teneva compagnia ad una porcellana di pregio. Quando tutti gli invitati furono giunti e, fatte le consuete riverenze, ebbero fatto circolo sulle stuoie e sui cuscini intorno alla bassa tavola di legno laccato, Yu-rí spiegò che la cerimonia era in onore di Roberto. E gli invitati si affrettarono di rendere all'ospite di onore i complimenti e le riverenze d'uso con quel fare cerimonioso che in Giappone è usato anche dalle classi piú umili del popolo e che resiste alla brutalità della lotta moderna per la vita. La riunione apparentemente semplice e modesta rappresentava in realtà un piccolo avvenimento mondano in quanto Yu-rí aveva riunito lí cinque o sei delle maggiori personalità artistiche e letterarie del Giappone, quattro delle piú celebri ghescie di Kioto e diversi grandi nomi del mondo politico e finanziario dell'Impero. Gli uomini indossavano con dignità di senatori romani i loro kimono di seta scura, stretti piú in basso della cintola dalle tipiche fasce di crespo nero, annodate sulle reni con noncurante eleganza. Avevano lasciato sulla soglia della casa le loro scarpe, sulla soglia della stanza le pantofole infilate all'ingresso ed erano a piedi nudi sulle finissime stuoie di panama. Le donne indossavano tutte il kimono a mòn di grande gala con il kakàma di porpora. I ricchi tessuti dai colori vivaci e squisiti – verde-smeraldo, giallo-topazio, rosso-lacca, rosso-cinabro, ametista folgorante, celeste mare – le alte pettinature tradizionali ravvivate da pettinesse di tartaruga e da fibbie di lacca dorata, gli splendidi obi di broccato, le linee stilizzate delle grandi maniche speciali usate dalle ghescie ne facevano altrettante figure di un sogno sontuoso. Anche le donne avevano lasciato sulla soglia i loro zoccoletti di legno laccato, ma avevano i piccoli piedi guantati dal tobi di seta bianca che separa l'alluce dal resto delle dita. I loro doviziosi ventagli di seta dipinta empivano l'atmosfera di frusci, di colori, di atomi lucenti, di gesti ondulati e morbidi. Le fantesche, anche loro in kimono vistosi ma piú semplici di taglio e di disegni, andavano e venivano con grandi vassoi di lacca nera carichi di tazzine scarlatte per il tè e di coppe dorate per il sakè. La conversazione si svolgeva leggera e gaia come una spuma, tutta complimenti e sfumature, ricca di sottintesi artistici e di allusioni letterarie appena indicate, ingioiellate di quando in quando da collane di riverenze. Gli uomini avevano quell'aria di dignità tra il guerriero e il sacerdotale che sogliono prendere in pubblico i giapponesi quando fanno un po’ la ruota mentre sui visi delle donne stava, permanente e gentile, quel sorriso di prammatica che pare le giapponesi apprendano nel ventre medesimo della madre prima di nascere, tanto è in loro naturale e costante. Ultimo degli invitati a giungere fu il bravo Kiyòsci, venuto appositamente da Tokio.

Attraverso le fragili finestre di legno e di carta semi-aperte sul minuscolo giardino della casa, entravano nella stanza in penombra le fragranze della notte di Kioto, profumata da tutti i gelsomini di Maruyàma e da tutte le magnolie del Ghiòn. E con gli effluvi dei giardini entravano i suoni lontani dei mille e mille samisén che quella notte come tutte le notti esprimevano in motivi secolari la poesia della città romantica e gloriosa nella cui anima sopravvive lo spirito dell'antico Buscidò.

Una fantesca che camminava a genuflessioni accennate ed a riverenze danzate depose dinanzi alla padrona venti qualità d'incenso, tante quanti erano gli invitati. E mentre la conversazione seguiva il suo corso, Yu-rí con gesto grazioso buttava via via nel grande bruciaprofumi di bronzo due o tre grani d'incenso di una delle venti qualità. Appena la preziosa materia a contatto del fuoco incominciava a bruciare sprigionando un filo sottile di fumo o bianco o grigio od azzurrino, la conversazione s'interrompeva e tutte le narici aspiravano il sentore della droga per indovinarne la qualità. Chi lo riconosceva ne diceva il nome. Gli altri approvavano o no, aggiungendo un verso od una frase che nella poesia o nella storia nazionale sono collegati a quel determinato tipo d'incenso. Tra un giuoco e l'altro si vuotavano le tazzine di tè e le chicchere di sakè. Dopo un poco, la cerimonia si complicò. Yu-rí sceglieva cinque qualità d'incenso a ognuna delle quali dava a suo capriccio un numero e un nome, tolto dal celebre romanzo classico il Ghenuzi Monogatari. I relativi incensi erano quindi bruciati a due per volta e ogni ospite doveva cercar d'indovinarne i numeri relativi annotandoli sopra un rettangolino di carta azzurra accanto al segno simbolico del nome classico prescelto. Quel frivolo giuoco di società (assolutamente incomprensibile per uno spirito occidentale) esigeva in coloro che vi partecipavano una profonda cultura e una rara raffinatezza. Solamente persone di grande classe potevano prestarsi ad una prova cosí dura nella quale anticamente affinavano il loro virtuosismo le dame della Corte di Kioto e i bonzi delle celebri Abbazie. Yu-rí aveva scelto per la sua notte di nozze con Roberto quella cerimonia estremamente delicata dell'antico Giappone samurài perché ne risultasse una specie di omaggio del paese, della razza, della medesima atmosfera nipponica al loro romantico amore... Yu-rí aveva appreso da Roberto la sua origine giapponese. Quell'affinità originaria del loro sangue aveva galvanizzato nel cuore della donna il suo sentimento impregnandolo di una specie di misticismo razziale. Secondo Yu-ri-sàn lo «Spirito Divino del Giappone» si serviva della sua grazia di donna per ricondurre alla fonte il rivolo perduto. Lei doveva alla Patria ed all'Imperatore il riassorbimento di Roberto nel Giappone! Ne aveva parlato a sua madre che aveva approvato incondizionatamente e che aveva anzi acceso a tale scopo una speciale bacchetta d'incenso dinanzi allo «spirito» del defunto commodoro. Ne aveva parlato al vecchio Kiyòsci che aveva approvato con entusiasmo. Ne aveva parlato alla sua protettrice, la Principessa imperiale, la quale aveva detto semplicemente: Fa il tuo dovere di giapponese! Tutte quelle approvazioni amalgamate al suo sentimento di donna ne facevano una creatura di amore doppiamente vibrante, femminilmente e misticamente. La sua eccitazione interna si traduceva all'esterno in una febbre che le accaldava l'epidermide e le faceva splendere gli occhi. Da tutta la sua persona si sprigionava una specie di calore magnetico. Roberto che le era vicino sentiva quel fervore di Yu-rí nel proprio cervello, nella propria anima, nei propri sensi. Egli stesso era entrato in una specie di ebbrezza sentimentale e cerebrale sotto l'azione della quale la sua personalità virile sentiva come non mai la potente attrazione di lei. Il suo desiderio di uomo fermentava. Nulla ancora egli sapeva del dono che Yu-rí si apprestava quella sera ad offrirgli, ma sentiva nell'aria qualche cosa che era come una promessa, che era anzi piú di una promessa, che già era una carezza. L'odore liturgico, drogato, penetrante di tutti quei preziosi incensi bruciati, l'aroma del tè di Formosa profumato di gelsomino, l'acre sentore alcoolico del sakè che gli uomini sorseggiavano chicchera su chicchera avevano creato nell'ambiente una atmosfera mezzo sensuale e mezzo mistica che intorbidava il sentimento e stimolava il sangue. Non per nulla gli scaltri Principi-Abati avevano trovato quel fine giuoco di società per distrarre dagli intrighi politici le irrequiete dame della Corte di Kioto! In quel momento la Francia era lontanissima dallo spirito di Roberto. Bordeaux era per lui una grigia città d'oltremare. Egli si sentiva vicinissimo a Yuri-sàn, fisicamente, spiritualmente, etnicamente. Dalle pesanti maniche di broccato del kimono di Yu-rí fuoruscivano ogni tanto le braccia nude, rotonde, vellutate, bellissime, dolci e nello stesso tempo piccanti, come escono carnosi, insolenti, purissimi e nello stesso tempo voluttuosi, i grandi fiori di loto dalla sontuosità d'uno stagno tappezzato di foglie e di muffe. Quelle braccia sprigionavano un buon odore di femmina che dava vampe e frescura... La notte era già inoltrata quando gli invitati si ritirarono a uno a uno con le frasi cerimoniose e le riverenze d'uso. L'ultimo ad andarsene fu il vecchio Kiyòsci.

— Vi accompagno? – domandò meccanicamente Roberto.

— No. Ho desiderio di star solo stanotte con me stesso. Restate ancora un pò con Yu-rí. Essa ha bisogno di voi.

Quando il vecchio letterato fu partito, le fantesche entrarono silenziosamente a levare le tavole, gli sgabelli, i cuscini, i vassoi, le porcellane, gli altri accessori della festa. E nella stanza medesima, tutta impregnata ancora del profumo delle ghescie e degli incensi, prepararono, come s'usa in Giappone, il letto per la notte. Inginocchiata graziosamente accanto a Roberto, Yu-rí gli faceva vento col ventaglio, gli accendeva la sigaretta, gli offriva il piattello per la cenere, lo accarezzava con gli occhi e con l'anima. Indossava quella notte un meraviglioso kimono bianco-celeste dipinto a mano a grandi fiori di ninfea e aveva intorno alla vita un obi color rame, della medesima tinta che hanno gli aceri quando rosseggiano in autunno. Fra i capelli aveva un fiore: unico: il «fior d'amore » delle spose giapponesi: il tradizionale anancadàsi, tenuto fisso da un bira-bira d'oro filigranato. Il fiore che Yu-rí aveva scelto per suo anancadàsi era la ninfea... Intanto le fantesche stendevano per terra sulla stuoia imbottita una grande coltre di raso rosso sulla quale collocarono prima due alti materassi ripieni di cascami di seta, poi tutta una serie di ftóu di lana e di seta, confezionando l'abituale letto delle case giapponesi. Lievi e pieni di grazia erano i movimenti delle domestiche. Facevano con stile millenario gesti millenari, eseguiti da generazioni e generazioni di donne, di madre in figlia... La civiltà occidentale che ha imposto al Giappone la dinamo elettrica e il Parlamento, non ha minimamente modificato la tradizionale alcova isolana dei concepimenti e delle gestazioni, così come si è sempre fermata innanzi a tutto ciò che tocca la vita interiore ed intima del popolo giapponese. Per ultimo, le fantesche disposero i due makurà cioè il cuscino di seta per il maschio e il piccolo guanciale di tela incerata per la femmina, fatto in modo che lei possa appoggiarvi il collo senza schiacciarsi la pettinatura. L'uomo deve trovare la medesima donna quando si addormenta e quando si sveglia! dice la saggezza di Confucio. Per ultimo drizzarono la zanzariera: una grande zanzariera celeste, quasi altrettanto grande quanto la stanza, agganciata al soffitto e alle pareti da un sistema di stringhe. Sotto quelle enormi zanzariere le coppie giapponesi hanno sempre la sensazione di dormire sotto una provvisoria tenda di guerra. Terminata l'acconciatura della camera da letto, le fantesche si presentarono l'una dopo l'altra dinanzi a Yu-rí e s'inchinarono varie volte pronunziando parole di augurio e di solidarietà femminile. Tutte insieme si genuflessero a salutare l'uomo, il signore. E si ritirarono definitivamente.

La casa s'immerse nel silenzio. Allora Yu-rí si alzò. Trasse da un armadietto di lacca un vassoio scarlatto con tre coppie di bicchieri e una ampolla di sakè, lo depose con una riverenza dinanzi a Roberto e inginocchiataglisi dinanzi, col capo un po’ reclino, disse:

— Roberto, mio amore e mio padrone, Yu-ri-sàn tua sposa ti invita a bere «tre volte, nove volte» secondo i riti. Sànu-sànu Ku-dò!

E riempite le sei coppe di sakè ne fece bere tre sorsi in tre coppe a Roberto, bevendo ogni volta anche lei un sorso in ognuna delle tre coppe restanti. «Tre e nove!» Sànu-sànu Ku-dò! Cosí si sposano in Giappone gli uomini e le donne dinanzi a Dio e all'Impero. Poi, Yu-rí si ritirò e ricomparve qualche istante dopo col semplice kimono senza obi – il kimono sciolto – che le donne usano per la notte. Intorno ai capelli ella s'era annodato il nastro che tiene ferma la capigliatura comunque ci si giri e ci si muova: l'anangúsi. Invitò Roberto ad alzarsi e lo aiutò, secondo l'usanza, ad indossare il kimono notturno di cotone, eguale per il mondariso e per il banchiere.

Con un gesto aggraziato gli indicò il letto.

— Coricati! – gli disse. – Questa è la tua casa!

Era affettuosa e umile. Velò la luce. Fece scorrere nelle scanalature le pareti di cartaseta. Chiuse le finestrelle dai bei vetri di carta. Gli mise accanto, a portata di mano, il necessario per fumare e per bere. Controllò che la zanzariera fosse in perfetto ordine. Le sue mosse erano capolavori di grazia, sublimazioni di secoli e secoli di esercizio. Il suo sorriso era una grande dolcezza...

Nel silenzio immenso si udiva frusciare la seta densa e pura del kimono nuziale...

Roberto seguiva con lo sguardo tutti i suoi movimenti. Era un pò stordito e un po' fiero. Senza accorgersene, in quel momento teneva un contegno prettamente giapponese. Era un «nipponico», un maschio del Sol Levante, il discendente dei mille maschi nipponici suoi antenati che avevano accettato con sussiego di uomini e con rudezza di guerrieri la prima umile offerta delle loro donne sorridenti.

Quando tutto fu perfettamente a posto, Yu-rí si snodò il kimono e gli si stese accanto. La vergine offrí il suo corpo come si offre un dono. Lui... la tenne un po’ fra le braccia come una bambola... Poi, dolcemente, la fece sua...

Laggiú tra le canne,
in un'umida capanna,
su stuoie di giunco
noi due abbiamo dormito...

Versi dell'imperatore Jimmu Tenno.

Dal Libro delle Cose antiche

(sec. VII a. C.)

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