Quattro giorni dopo il generale Watabé consegnava al capitano Namura il documento promesso: mirabile falsificazione ufficiale fatta con lo stesso virtuosismo che gli asiatici sogliono mettere della contraffazione dei loro oggetti d'arte antica.
— Direte all'Ambasciata che l'incartamento va restituito senza fallo entro quarantott'ore. Hanno cioè il tempo di prenderne copia fotografica. Non so se siete tenuto a dare anche il nome dell'ufficiale che ve lo ha fornito. Nel caso date il nome del capitano Motóno. Non dimenticate: Motóno, artigliere, addetto all'ufficio «Piani e Rilievi» dello Stato Maggiore Generale. A quando il vostro documentino, capitano?
— Fra una diecina di giorni, generale.
— Fra una diecina di giorni passerò io stesso a ritirarlo. Posso avere l'onore di avervi con me a casa una di queste sere con qualche amico?
— Quando volete!
— In casa della ghescia Set-sò? –
— Dove volete.
E il generale Watabé s'era ritirato: freddo, compito, cerimonioso come sempre.
Il vecchio ambasciatore ebbe un momento di commozione quando il capitano Namura gli consegnò i piani e i documenti sottratti allo Stato Maggiore Generale.
— Caro capitano, bisogna conoscere come me il Giappone per apprezzare in pieno il vostro successo. Quale straordinario complesso di circostanze dovete aver saputo creare per arrivare fino alle casseforti dello Stato Maggiore Generale! In fondo, mi accorgo che anche dopo tanti anni di permanenza in questo Paese non lo si conosce. Francamente non speravo che riusciste. Non ve l'ho detto per non demoralizzarvi, ma posso dirvelo ora. Ero sicuro del vostro insuccesso, capitano! Si vede che tutto il mondo è paese e che anche il Giappone ha nei suoi meccanismi vitali qualche ordegno guasto. Bisogna provvedere subito alla copia fotografica. E telegrafare al Ministero. Spero che la risposta del Ministero mi permetta di chiamarvi «maggiore». Ve lo meritate, ve lo meritate davvero! Intanto vi ringrazio in nome della Francia per il segnalato servizio che rendete alla nazione. Il documento proverà a Parigi la malafede britannica che ho avuto occasione di constatare innumerevoli volte nella mia lunga carriera. Questo caso, però, è schiacciante. Assolutamente schiacciante! Se ne avvantaggeranno le relazioni generali tra il Giappone e la Francia alle quali sto dedicando con entusiasmo questi ultimi anni della mia vita di funzionario. Anche personalmente sono soddisfatto. Molto soddisfatto, caro capitano. E vi sono veramente grato...
Ritto dinanzi alla scrivania di S. E., il capitano Namura riceveva come una fustigazione quella valanga di elogi ognuno dei quali gli faceva l'effetto di uno schiaffo. Gli schiaffi erano tanti che ne aveva le guance calde, il cervello rintronato, l'anima contusa. V'erano momenti nei quali si sentiva addirittura affondare nella vergogna e allora, istintivamente, pensava a Yu-rí aggrappandosi come un naufrago alla sua immagine amata. Il pensiero di Yu-rí lo riportava a galla. Intanto S. E., cui il successo del capitano comunicava una verbosità dilagante, continuava:
— ...sí, veramente grato. Immaginatevi che durante questi mesi, caro capitano, m'era venuto a volte perfino il dubbio – colpevole dubbio, lo confesso sinceramente – che non vi occupaste della questione con sufficiente energia... che steste anzi per essere irretito in qualche kimono messovi scientemente sulla strada da chi poteva avere subodorato qualche cosa di sospetto nei vostri movimenti... Qualcuno mi riferiva d'incontrarvi spesso con una donna giapponese – graziosissima del resto – e m'era venuto il timore che, come tanti altri europei qui residenti, anche voi aveste ceduto al fascino di queste piccole donne del Giappone che hanno contro di noi occidentali l'arma formidabile della loro straordinaria grazia... Anche recentemente abbiamo avuto due casi: l'addetto navale nord-americano ed il secondo consigliere olandese. Trasferiti subito entrambi, naturalmente! Il povero Van Heddel ne ha fatto addirittura una malattia. Voleva lasciare la carriera. Un simpatico giovanotto, la cui famiglia avevo conosciuto a Giava. Voi invece restate dritto sulla breccia. Bravo, capitano! Il dovere del soldato non ha escluso naturalmente, suppongo, che l'uomo si sia divertito! Carpe diem! In ogni modo il documento è qui. Siete un asso, capitano! La Francia può essere contenta di voi. Adesso punto fermo, con le mie chiacchiere. E all'opera! Occupatevi della copia fotografica, che deve essere perfetta; va bene? Io telegrafo al Ministero. Ah! è una buona giornata, oggi, per il vostro vecchio ambasciatore; una veramente buona giornata...
E S. E. si era messa al lavoro zufolando in sordina una canzonetta giapponese che in quel momento faceva furori in tutti i dancings di Ghisa.
Le copie fotografiche furono eseguite rapidamente. L'Ambasciata aveva l'istallazione necessaria. Roberto riuscì a schivare con un pretesto un invito a colazione di S. E. La presenza e le chiacchiere dell'ambasciatore gli erano addirittura insopportabili. Viceversa, aveva il pomeriggio libero. Yu-rí e sua madre si erano assentate per la giornata, in visita ad un Tempio nell'anniversario della morte del commodoro Kawakàma.
In uno stato addirittura pietoso di sbalestramento interiore, Roberto si sentiva come un uomo che abbia lasciato paradossalmente in qualche posto metà del proprio «io». Aveva la bocca amara, il corpo caldo, la fronte fredda. Congedò il suo autista e si mise al volante filando a tutta velocità sull'ampio stradone asfaltato che congiunge Tokio a Yokoàma. Aveva bisogno di star solo e di correre. La velocità lo calmava. Sollevò il cristallo sul davanti della macchina perché il vento gli sferzasse la faccia. Andava diritto dinanzi a sé, senza una meta, senza uno scopo, senza sapere perché corresse e dove andasse, vagamente attratto dal miraggio del mare che verso Yokoàma, laggiú, in fondo, stendeva la sua immensità azzurra indicata da una linea turchina balenante di sole. Sentiva bisogno d'aria, di spazio, di solitudine, di immensità, di infinito, d'uno sterminato infinito riposante... nel quale immergere la faccia, affogare i pensieri, naufragare col peso della sua coscienza. Il piede sull'acceleratore, andava ad una velocità d'inferno. Ai suoi lati gli alberi e le case fuggivano velocissimi quasi fossero spaventati dal suo arrivo fulmineo... E Roberto provava una voluttà selvaggia in quella sua pazza sensazione di far paura alle cose... In realtà aveva paura di se stesso!.... Fuggiva se medesimo!... Attraversò a tromba Yokoàma piegando verso il mare che barbagliava verdazzurro al di là dei boschi. A venti chilometri da Yokoàma, una minuscola spiaggia formava un'ansa civettuola, sventagliata dai pini. L'angolo era pieno di pace. Fermò la macchina di colpo, e scese a far due passi sulla spiaggia. Impercettibili ondine si arrotolavano con un orlo di spuma sulla sabbia dorata. Il respiro lieve del mare gli carezzò con dolcezza il volto illividito dal vento preso durante la corsa. L'arena era morbida sotto i passi. Due piccoli promontori rocciosi, tutti seghettati e sforbiciati dalla corrosione delle acque e dei venti, s'avanzavano l'uno incontro all'altro sul mare quasi volessero congiungersi. Il loro grande abbraccio formava la minuscola conca. I pini nani del Giappone decoravano il luogo coi loro tronchi bassi e contorti dai quali s'irradiavano, lunghissimi, i rami e aprivano a piani orizzontali i loro sistemi di foglie. Il complesso formava una bizzarra simmetria disordinata, tipicamente giapponese. In innumerevoli kakemòno Roberto aveva visto paesaggi eguali e gli avevano sempre accarezzato l'anima, quali riflessi di una visione lirico-geometrica del mondo e delle sue creature. Anche in quella circostanza il suo spirito si sentí accarezzato dallo scenario, quasi che la sua intima aderenza al paesaggio giapponese legittimasse quanto di giapponese e di anti-occidentale v'era nella sua condotta. Dalla spiaggia si staccava un viottolo che sbisciava a gradini su pel promontorio in mezzo alle rocce ed ai pini e terminava sul cocuzzolo in una specie di rustico belvedere a picco sul mare, cintato da uno steccato di bambú. Lí l'amore dei giapponesi per la Natura aveva collocato un palchetto di legno a disposizione del passante, uno dei mille e mille «punti fermi poetici» che il Giappone offre impersonalmente in ogni bosco, in ogni marina, quasi in ogni angolo dell'Impero agli amanti del silenzio, della contemplazione, della solitudine. A ridosso d'una rupe v'era un grosso Budda intagliato in un blocco di granito. L'artista ne aveva appena accennato il corpo, ma si era soffermato minuziosamente sulla testa che era bella e pastosa con le grandi palpebre chiuse sul sogno interiore, il quale si rivelava all'esterno attraverso il sorriso mezzo serafico e mezzo sensuale del Dio. Cinguettii di uccelli ricamavano l'alto silenzio. Attraverso i piani simmetrici dei pini il mare ed il cielo formavano una grande lastra di fondo, in due sfumature d'azzurro. Il sole filtrato dalle frasche maculava il suolo d'oro e di ombra come la pezzatura del pelo delle pantere.
In quell'angolo remoto e deserto, sublimato dal sorriso arcano di Budda, Roberto sentiva una grande pace penetrare gradatamente nel suo essere. Era come una immersione nell'olio: in un olio tiepido, scivoloso, riposante a contatto del quale gli angoli contundenti del mondo e le asprezze dell'esistenza avevano l'aria di slittare sull'essere senza piú fargli male. La sua drammatica situazione personale si sbiadiva. La medesima battaglia delle grandi forze cozzanti che lo tenevano in pugno sballottandolo miseramente, assumevano in quell'angolo solitario e quieto una specie di «relatività» solenne. Erano forze tremende, sí, ma bastava allontanarsene per essere fuori della portata delle loro influenze nefaste. Il suo amore per Yu-rí assumeva in quell'angoletto raccolto e straniato dal mondo un carattere di olimpicità, come uno stato di fatto acquisito ed ormai stabile che faceva parte dell'ordine normale delle cose. Un senso mistico di indolenza fisica e di calma spirituale invadeva il suo essere e lo teneva fermo in quel punto appartato del mondo nel quale aveva trovato il riposo. Le grandi palpebre chiuse di Budda immedesimate con l'immobilità e con l'insensibilità della pietra rifiutavano di aprirsi sulle miserie e sulle infelicità degli uomini. Il suo sorriso che nasceva dal profondo di lui medesimo esprimeva una beatitudine mezzo terrena mezzo soprannaturale che era una specie di giusto punto di equilibrio trovato tra le gioie della carne e le gioie dello spirito, tra le pene della carne e le sofferenze dello spirito. Ma in quel sorriso sensuale e sereno era anche un'ombra di ironia, quasi che il Saggio dei Saggi ammaestrato dall'esperienza contemplasse, scettico, quella stessa sua suprema beatitudine!
Roberto tornò a Tokio a un'andatura meno pazza, incline a lasciarsi andare un po’ alla deriva. La miglior cosa non era forse di farsi portare dalle circostanze sul filo delle loro correnti? E se il loro corso terminava nello schianto vorticoso di una cascata, ebbene... chiudere gli occhi e lasciarsi cadere!
Si diresse verso casa. Aveva appena messo il dito sul campanello che la porta si aprí e si trovò fra le braccia di sua madre.
— Tu qui, mamma, senza avvertirmi!
— Ho sentito che avevi bisogno della mamma e sono venuta.
— Mamma... Mamma... E... Yu-rí?
— Non so chi sia, figlio mio.
— Mamma...
Un improvviso pianto, accorato e nervoso, dolce ed amaro, fisico e spirituale, scosse quel corpo aitante e vigoroso nel quale tremolava l'anima dell'eterno grande fanciullo che è infatti l'uomo. Ogni uomo.
Le lagrime della madre si confusero con le lagrime del figlio. Le mani stanche della madre, essiccate dall'età, scarnite dalla pena, accarezzavano con infinita soavità il capo di Roberto.
Yu-rí entrò nella stanza in quel momento col suo consueto leggero passo di farfalla senza che i due l'avvertissero. Sostò sulla soglia. S'inginocchiò. Chinò il capo contro il suolo e rimase in quella posizione di rispetto e di venerazione. Il suo piccolo cuore di donna aveva intuito che quella anziana dai capelli bianchi era la madre. La Madre del suo Roberto.
Gli occhi di Roberto incontrarono la nuca di Yu-rí.
— Yu-rí – chiamò svincolandosi dall'abbraccio materno.
E presentò la madre alla sposa, la sposa alla madre.
Le due razze erano di fronte, ognuna armata della sua arma piú potente: l'Amore!