XII

La crisi precipitò rapidamente, accelerata dal generale Watabé che cinque giorni dopo si presentò all'abitazione di Roberto a ricordargli la data stabilita per la consegna del documento sulla difesa dell'Indocina. La sera prima aveva avuto luogo il ricevimento della ghescia A-ru-kò.

A-ru-kò era concubina ufficiale di uno dei piú alti personaggi dell'Impero, il generale conte Mitsuda, la cui influenza sulla vita del Giappone era nota a tutti coloro che conoscevano il segreto funzionamento della grande macchina statale. Oltre a essere uno dei Consiglieri militari del Mikado, il generale era amico personale del Sovrano. Nazionalista acceso, tecnico militare di gran valore, discendente di una delle piú illustri famiglie dell'epoca feudale, il generale Mitsuda ostentava fedeltà ai costumi tradizionali del Giappone. Aveva moglie e figli a Tokio. E nella capitale aveva anche, secondo le tradizioni, la sua ghescia la cui elegante casa gli serviva per riunire in allegre brigate i suoi compagni d'arme ed i suoi amici politici. A quelle riunioni gli amici di Mitsuda portavano anch'essi le loro ghescie, tutte di alta classe, e fra le danze ed i samisén si trattavano sovente grossi affari dell'Impero. I grandi clan finanziari di Mitsúi e di Mitsubichi vi incontravano i rappresentanti di grandi clan militari. Fra una chicchera e l'altra di sakè i gruppi si saggiavano, conversavano, negoziavano, sovente gettavano le basi di importanti transazioni le quali erano poi concretate minutamente nella quiete degli uffici o trasferite dalla lotta politica sulle colonne dei giornali e negli arenghi elettorali.

L'invito fatto al capitano Namura di intervenire a una serata della ghescia A-ru-ko-sàn significava che il capitano non era considerato dal padrone uno straniero, ma uno dei loro. L'invito era una specie di battesimo giapponese di Roberto! Senza che nessuna parola tradisse quel recondito significato della sua partecipazione alla serata, Roberto era stato oggetto da parte della ghescia A-ru-kò e dei suoi amici, di speciali attenzioni. Tutti per tacito accordo avevano tenuto a marcargli l'assoluta fraternità con la quale era trattato. Nessun accenno era stato mai fatto, nemmeno indirettamente, né alla nazionalità ufficiale di Roberto né alla sua qualità di addetto militare estero. Il Comandante generale gli aveva rivolto varie volte la parola sul tono della piú assoluta confidenza. Watabé lo aveva presentato a destra ed a sinistra. Due volte durante la serata la ghescia A-ru-kò gli aveva offerto lei stessa il sakè e l'aveva rinfrescato col suo grande ventaglio di seta. Il gesto, fatto con la maggiore naturalezza, era viceversa agli occhi dei presenti una specie di consacrazione. Tutti quegli uomini erano grandi dell'Impero. Alla testa di giganteschi organismi burocratici, industriali o finanziari dirigevano la vita del Giappone, Grande Potenza. La civiltà occidentale non aveva segreti per loro e la applicavano meravigliosamente alla vita della nazione facendo muovere cantieri, acciaierie, altiforni, impianti tessili ed elettro-chimici, Compagnie di Navigazione, Banche, Università, Corpi di Armata, squadre, flotte aeree, potenti organismi di importazione e di esportazione. Nello svolgimento quotidiano dei loro compiti quegli uomini contrapponevano alle grandi forze energetiche dell'Europa o del Nord-America le grandi forze energetiche del Giappone ricalcate esattamente su quelle dell'Occidente, eppure in quell'intima loro riunione nella casa di A-ru-kò nessun segno esteriore, nemmeno impercettibile, tradiva le forme di vivere e di pensare dell'Occidente. Restituiti alla loro condizione naturale di giapponesi erano asiatici al cento per cento, nipponici al mille per mille. Gli uomini del Sol Levante!

Durante la serata Roberto si era trovato assolutamente a suo agio, quasi fosse un ufficiale giapponese in missione presso l'Ambasciata di Francia, e aveva sentito la possibilità di essere un perfetto giapponese senza dovere per questo rinunziare a quel tanto di occidentale che formava il suo bagaglio mentale. Tutto ciò che vi era in lui di occidentale come coltura acquisita e come educazione dello spirito, non era minimamente in contrasto con la vita giapponese nella quale stava muovendosi. Ma, senza che egli se n'accorgesse, era stato minuziosamente osservato durante tutta la festa da un piccolo personaggio dentato d'oro il quale in un dato momento chinandosi all'orecchio del generale Watabé gli aveva riassunto le sue impressioni:

— Un elemento di prim'ordine! Converrà servirsene in grande stile. Penso di adoperarlo a Sciangai.

Il generale aveva annuito con un cenno del capo mentre sorrideva alla ghescia A-ru-kò che in quel momento gli presentava infilato in uno stecchino un minuscolo dado di ananas candito.

Roberto aveva promesso a sua madre che sarebbe rincasato a mezzanotte e che sarebbe passato a salutarla prima di andare a dormire, ma uscito dalla casa della ghescia A-ru-kò alle tre del mattino col cervello un po’ annebbiato dai fumi del sakè, s'era diretto automaticamente verso la casa di Yu-rí. La sua amante che lo aspettava sorvegliando la strada attraverso i fusúma della veranda, scese a incontrarlo sulla soglia di casa. Quando Roberto era arrivato dinanzi alla porta, l'aveva trovata già aperta con il bel kimono di Yu-rí nella cornice dell'atrio illuminato. E aveva registrato quella sensazione di padronanza soddisfatta che hanno sempre i giapponesi quando tornano alle loro case. Vengano dalle ghescie o dalla guerra, dal faticoso lavoro quotidiano o da una nottata di orgia con le dgiorò, stanchi dall'onesta fatica o sfiniti dalla crapula appena terminata, i mariti giapponesi sono sempre sicuri di trovare sull'uscio domestico il volto sorridente delle loro spose. L'amplesso voluttuoso di Yu-rí aveva chiuso la sua nottata.

Il giorno dopo, automaticamente, aveva preso alcuni fogli di carta e aveva incominciato a stendere le prime note del rapporto sulla difesa dell'Indocina. Aveva incominciato dalle frontiere del Yunàm che conosceva quasi palmo a palmo per avervi soggiornato due anni. Sulla linea Laokai-Songlò v'erano tanti fortini, inframezzati da tanti posti di guardia e di rifornimento. Le piste camionabili le aveva ben chiare in mente. Al tale chilometro v'era un deposito sotterraneo di nafta. Al tale altro chilometro un campo di fortuna d'atterraggio aereo. A sinistra c'era una laguna dove a rigore avrebbe potuto ammarare un idrovolante. Tante caserme! Tante bocche da 75 e tante da 150! Tante mitragliatrici! Tanti carri armati! Qui un deposito segreto di munizioni; lí un posto telefonico; piú giú un ponte; ancora piú giú un viadotto che a farlo saltare ne risulterebbe interrotto per parecchie settimane tutto il traffico della ferrovia del Yunàm, ma cinque chilometri piú a valle v'era per ogni evenienza un buon guado. Bastava conoscerne l'esistenza! Sotto la sua penna la lunga e misteriosa frontiera tra la Cina ed il Tonchino che sulle carte geografiche ordinarie si presenta sotto forma di immensa foresta impenetrabile attraversata da un unico binario ferroviario, diventava invece una zona militare nitida e completa, avente una sua precisa fisionomia, una sua vulnerabilità ben definita, una sua struttura strategica netta e viva. Frattanto Yu-rí andava e veniva intorno a lui, agile e leggera come sempre, attenta come sempre a tutti i suoi piccoli bisogni e desideri. Il suo delizioso kimono mandava nel muoversi un lieve fruscio come il sommesso sussurro di una vena d'acqua. E si sprigionava dal tessuto un buon odore di lavanda, di cipria fine, di nudità tersa e fresca che carezzava l'olfatto di Roberto. Il profumo di Yu-rí agiva da stimolante sul suo cervello come l'aroma di un buon tabacco. E la penna andava, andava sulla carta bianca, estraendo dal mistero della grande foresta tonchinese strade, piste, ridotte, fortini, depositi, ponti, guadi, caserme, posti di segnalazione e di rifornimento, linee strategiche, cordoni logistici, possibilità tattiche. Roberto, dal lavoro di ricostruzione, non si rendeva esattamente conto se stesse operando per lo Stato Maggiore francese o per lo Stato Maggiore giapponese. Aveva piuttosto la sensazione di star dietro ad un lavoro personale che era fine a se stesso. Andava avanti piú che altro automaticamente con la coscienza intorpidita che sonnecchiava in un etere nebbioso. Il suo cervello era una specie di congegno assorbente che pompava dalle profondità abissali di se stesso un fluido incolore fatto di reminiscenze. Trasportato sulla carta quel fluido incolore diventava un inchiostro illuminante. E schiarava una frontiera! Dalla foresta del Yunàm passò all'Indocina propriamente detta: cinque suddivisioni fondamentali: il Tonchino, l'Annam, la Cocincina, il Cambodge, il Laos: accanto ad ognuno di questi nomi alcune cifre rappresentanti uomini, cannoni, linee telefoniche, aeroscali, caserme. Tanti soldati bianchi. Tanti soldati di colore. Divisioni. Brigate. Reggimenti. Squadroni. Batterie. Alcuni gangli strategici. Alcuni nodi logistici. Un telaio di basi. Una raggiera di strade. I punti deboli politici. I punti deboli militari. Le zone infide. I centri nevralgici. Tutte le parti e tutti i segreti della macchina! Dopo cinque ore di lavoro aveva finito. Raccolse allora i fogli sparsi proponendosi di riordinarli all'indomani e di concertarli definitivamente il giorno dopo in alcune paginette a macchina. Fece di tutto un pacchetto che chiuse in una busta. Avrebbe finito il lavoro a casa sua dove aveva la macchina da scrivere e dove avrebbe potuto consultare le sue carte topografiche per mettere a punto certi dati secondari che a memoria gli sfuggivano.

Il terzo giorno il documento era pronto. Roberto aveva eseguito tutto quel lavoro in uno stato di semincoscienza, evitando istintivamente di rifletterci su. Non sapeva ancora se lo avrebbe consegnato. Aveva promesso di farlo e l'aveva fatto. Per il resto... si lasciava andare alla deriva. La posta gli portò uno «pneumatico» del generale Watabé il quale gli proponeva di accompagnarlo all'indomani ai grandi templi di Ise. L'Imperatore si recava al «Grande Tempio» a consultarvi i Divini Antenati per la questione della Manciuria. Alcuni alti personaggi militari erano autorizzati a seguire il Sovrano. E Watabé, che sapeva quel che faceva, aveva invitato Roberto ad accompagnarlo. Un tuffo nell'atmosfera mistico-magnetica della vita politica dell'Impero poteva essere utile ai piani che il generale aveva fatto su Roberto per l'avvenire. Una volta entrato nella rete, il capitano poteva rendere utili servigi allo Stato Maggiore Generale e guadagnarsi cosí il diritto di passare dall'esercito francese all'esercito giapponese.

Scesero a Yamàda. Si era fuori dell'epoca dei pellegrinaggi e la piccola città sacra era quasi deserta. I grandi alberghi popolari, che in certi periodi dell'anno non riescono a contenere la massa dei pellegrini accorsi da ogni angolo dell'Impero, erano in quella stagione completamente vuoti ma restavano egualmente aperti. All'ingresso dei loro atrii di legno lustro le lunghe file delle pantofole allineate sul primo gradino avevano l'aria di documentare la capienza degli stabilimenti. L'arrivo del Mikado aveva riempito le strade di poliziotti, ma bisognava avere un occhio esperto per accorgersene. I pochi personaggi che accompagnavano il Sovrano erano ospiti di uno dei tanti padiglioni che la Casa Imperiale possiede fra Yamàda e Yúgi. Solamente Watabé era sceso con Roberto in un albergo.

Ise è la Gerusalemme del Sintoismo. Dei settantamila Templi sintoisti del Giappone tre solamente sono statali. Uno solo è imperiale: Ise.

Ise è il grande centro mistico dello Scintò che significa letteralmente «La Via degli Dei». Nello Scintò si condensa e si sublima quella nebulosa vita spirituale dei giapponesi che forma all'atto pratico lo spirito dell'Impero. Il Sintoismo non è una religione vera e propria pur essendo la Religione di Stato del Giappone. È, piú che altro, uno stato d'animo che si esprime nel culto della Natura e degli Antenati; confuso il primo col culto del Giappone «contrada bella e divina»; confuso il secondo col culto dell'Imperatore e dei suoi Divini Predecessori i quali, inanellandosi nel tempo l'uno all'altro attraverso la lunghissima catena della Dinastia, si allacciano mitologicamente ai primissimi Imperatori leggendari dai regni secolari e al capostipite supremo, l'Imperatore-Dio solare, figlio di A-ma-te-ra-su, Dea del Sole. Il Sintoismo non possiede né Dogmi né Libri Sacri né un Codice morale. Etere magnetico del sub-cosciente del popolo giapponese, costituisce il fondamento mistico della nazione. Ad Ise, nei due Grandi Templi, il Naíku ed il Géku sono conservati il «Divino Specchio», la «Divina Spada» e il «Divino Gioiello» che il primo Mikado ricevette dalla sua ava, la Dea del Sole. La credenza nel «Divino Specchio» si amalgama nella fede del popolo con lo splendente avvenire del Giappone, Grande Potenza mondiale e conduttore supremo dei popoli asiatici. La «Divina Spada» si potenzia nella terza flotta del mondo, in un esercito fra i piú poderosi del globo, in duemila aeroplani di terra e di mare. Il «Divino Gioiello» splende del medesimo fuoco delle colate degli altiforni. È estremamente difficile per un occidentale capire il Sintoismo, ma chi non comprende il Sintoismo non comprende il Giappone. Perciò gli occidentali non capiscono il Giappone! Del resto il Sintoismo non è fatto per essere capito. Inconsistente di fronte alla Ragione, è, piú che altro, un Sentimento!

Tutti gli Yasciro o Giinga, cioè i Templi sintoisti, sono semplici e nudi. Nella loro forma stilizzata rappresentano la primitiva capanna giapponese. Come quella sono di legno grezzo, costruiti su palafitte, coperti da un tetto di paglia e di bambú. E tutti sono collocati in mezzo ad un bosco, traendo dall'immediatezza degli alberi e del suolo l'elemento primordiale della loro maestà mistica. Il Grande Tempio di Ise dove l'Imperatore si recava quella mattina a consultare i suoi Antenati solari è costruito in una foresta millenaria di criptomerias giganti, attraversata da una raggiera di ampie strade di cemento tenute come specchi. Migliaia di lanterne funerarie ornano la sacra selva. Numerosi corsi d'acqua v'aprono grandiose gallerie di foglie, splendidamente teatralizzate dal giuoco della luce solare e dei chiari di luna. Il vento riempie la foresta di musica perenne. I trofei delle guerre e delle vittorie del Giappone sparpagliati fra gli alberi immedesimano il canto con la storia dell'Impero. Nel punto piú folto della selva, là dove i tronchi sono piú fitti e svettano altissimi in tutta la loro maestà di giganti vegetali e piú elevato e denso è lo sterminato ammasso delle foglie e piú sonante è il loro fremito e tutta verde di spessissime muffe è la terra, stanno i templi-capanna costruiti in legno grezzo, nudi e disadorni, potentemente primitivi, preclusi ad ogni contatto da piú ordini di steccati invarcabili. Sul legno rozzo e sui tetti rustici alcune lamine d'oro puro formano una decorazione altrettanto sontuosa che semplice. Bonzi e soldati vigilano i Templi, stilizzati gli uni e gli altri in uniformi tradizionali nelle quali l'esercizio del sacerdozio e quello delle armi si fondono armoniosamente.

Watabé e Roberto andavano a passo lento per i viali sacri, sotto l'immenso tetto delle foglie. Di tanto in tanto sostavano a contemplare un tronco secolare impellicciato dal velluto denso dei muschi o lasciavano che l'orecchio ascoltasse il grande dialogo delle foglie e delle acque. Cammin facendo Watabé magnificava a Roberto gli ultimi fasti dell'Impero. Watabé era un ispirato. La sua voce, piú che quella di un soldato, era quella di un sacerdote. Figlio di umile risaiolo, salito agli alti gradi dell'esercito per i suoi meriti di cittadino e di soldato, Watabé apparteneva a quella tipica classe dirigente del Giappone che come gli antichi sacerdoti-guerrieri d'Israele governa misticamente la nazione con la spada e con gli incensi. Tutti i successi del Giappone sono attribuiti da questi uomini paradossali (illuminati e nello stesso tempo positivi) alla influenza magnetica della natura «divina» dell'Imperatore ed alla protezione taumaturgica dei suoi Antenati solari. Watabé raccontava a Roberto con accento ieratico la sua ultima visita ad Ise dieci mesi prima quando aveva avuto l'onore di far parte dei Messaggeri Imperiali incaricati di portare alla Dea del Sole la notizia dell'occupazione della provincia cinese del Giehol.

— La mia anima era impregnata di Buscidò! – dichiarò il generale.

— Il Buscidò è il codice d'onore del popolo giapponese! – disse Roberto.

— No, per voi, giapponese, il Buscidò è, come per me, uno stato spirituale di fervore interno proiettato all'esterno. E attraverso il Buscidò che voi, io, tutti i giapponesi bruciano di adorazione per la sacrosanta persona dell'Imperatore e sentono di essere personalmente «superiori» agli uomini di tutte le altre razze, cosí come il Mikado è infinitamente «superiore» a tutti gli altri Re ed Imperatori del mondo! Figli di un Imperatore-Dio, noi giapponesi abbiamo in noi stessi una molecola della sua divinità che è la divinità medesima del Giappone! La Divinità della nostra Casa Imperiale sovrasta tutto ciò che nel mondo vi è di grande e di augusto. La perennità della nostra Casa Imperiale, che è la perennità medesima del Giappone, è indubitabile come indubitabile è la continuità del Cielo e della Terra... Ringraziate la vostra stella, capitano Namura, di avere nel vostro sangue la scintilla arcana della divinità giapponese. Durante la vostra educazione in Francia, lontano dal Giappone, separato dal Giappone, tenuto per lungo tempo all'oscuro della vostra stessa origine giapponese, ignaro della lingua e dei costumi della vostra terra, eravate come quelle molecole di elettricità che restano inerti nell'atmosfera finché non si determinino le condizioni del loro potenziamento. Eravate un atomo spostato e congelato della divina energia giapponese. Ma, appena messo dal Destino a contatto della vostra terra, l'atomo divino che è in voi si è messo in movimento e vi ha ricondotto irresistibilmente in seno alla grande famiglia dei figli dell'Imperatore. Cosí nella scabrosità di certe rocce d'alta montagna restano per anni ed anni, per secoli e secoli, allo stato di diacciuoli, delle molecole cristallizzate d'acqua e paiono non avere piú nulla a che fare col grande mondo liquido delle acque. Ma che un raggio di sole vi batta su e la molecola riprincipierà a vivere, ad agitarsi, a scorrere e ritornata goccia d'acqua si riunirà alla sterminata immensità di tutte le gocce d'acqua del mondo per stemperarsi alla fine, attraverso i ruscelli ed i fiumi, nella immensità eterna del mare...

Rombi di cannone tuonarono nelle lontananze.

— Inginocchiamoci – disse Watabé. – Sua Maestà l'Imperatore entra in questo momento nel Tempio di Ise!

E genuflessosi nel mezzo del viale, il generale chinò la fronte contro terra.

Una forza irresistibile proveniente dalle lontananze dei secoli obbligò Roberto a chinare anche lui la fronte... Era così riposante stare con la fronte contro il suolo, aspirare il buon odore della terra, dell'erba, dell'umido vegetale!...

Nel grande silenzio si sentivano rombare, a uno a uno, i colpi di cannone, distanziati d'un minuto l'uno dall'altro... Scrosciavano secchi... Poi, l'eco si impadroniva del loro rombo e lo propagava per lo spazio... Lo si sentiva andare ed andare per le lontananze...

— Cosí rombavano la sera di Tsuscima – disse il generale; – quando le ultime bordate del vascello sul quale era imbarcato vostro padre colavano a picco i tre incrociatori superstiti della flotta di Rojestvenski!

La frase pronunziata con voce bassa, detta con accento mistico, attutita e come bevuta dalla terra sulla quale Watabé teneva la bocca, dette a Roberto un brivido freddo.

Il generale si reimmerse nel suo raccoglimento. E nel silenzio, si udiva la grande voce della foresta sacra agitata dal vento. Le foglie parlavano alle acque... Le acque parlavano alle foglie... Gli spiriti dei tronchi e delle cortecce, delle radici e delle gemme, delle muffe e dei licheni, dei funghi e delle liane, tutti i kami del mondo vegetale aleggiavano nell'atmosfera del bosco insieme ai kami degli uomini morti, i cui nomi erano incisi sulle lampade funerarie della selva di Ise... Gli uni e gli altri formavano come un grande alone di «misteriose presenze» intorno alla rustica capanna di legno grezzo festonato d'oro nella quale S. M. Hirohito, 124° della Dinastia Solare, era in contatto arcano coi suoi divini Antenati, i Figli del Sole.

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