XIII

A cinquecento chilometri di distanza dalla foresta di Ise, nella casa di Roberto, la madre e l'amante erano di fronte.

Bianca abitava in casa del figlio. Per un riguardo alla madre Roberto aveva istallato Yu-rí altrove, ma Yu-rí frequentava regolarmente l'abitazione. Le due donne si vedevano e si parlavano. Roberto aveva presentato Yu-rí alla madre come fosse la sua fidanzata e Bianca fingeva di ignorare dove e con chi Roberto passasse le notti. Nei riguardi di Yu-rí, Bianca de Tierry era passata attraverso tre fasi. Da principio aveva visto in Yu-rí una specie di creatura perniciosa della quale il Destino si serviva per turbare la serenità di Roberto sommuovendogli nella coscienza quel fondo di inclinazione per il Giappone che vi aveva deposto il marchio paterno. In un secondo periodo, Bianca era stata guadagnata dalla grazia e dalla gentilezza di Yu-rí e, toccata nel suo cuore di madre dall'evidente amore che la giapponese aveva per il figlio, la considerava una povera «Butterfly», inesorabilmente condannata ad essere sacrificata il giorno in cui Roberto, finitogli quel suo capriccio romantico, avrebbe ripreso insieme a sua madre la via della Francia. Si era poi prodotta una terza fase nei rapporti fra le due donne quando la madre, constatato l'enorme ascendente che Yu-rí esercitava sul figlio innamoratissimo, aveva riconosciuto in Yu-rí l'elemento capitale dell'intenso processo di nipponizzazione che subiva Roberto. Bianca aveva finito per odiare terribilmente la giapponese come solo sa odiare una madre, ma nascondeva per riguardo verso Roberto il suo sentimento sotto un contegno disinvolto, altrettanto freddo che cortese. Dal canto suo, Yu-rí, che da principio aveva accolto con commosso rispetto la madre del suo Roberto, aveva poi sentito in quella vecchia occidentale dallo sguardo incisivo e dai modi alteri l'acerrima nemica tanto del suo amore quanto del ritorno di Roberto al Giappone. Nel suo piccolo cuore, lo stato di allarme per il suo amore insidiato e il risentimento di razza si unificavano in un senso violentissimo di ostilità che la tradizionale cerimoniosità dell'educazione nipponica nascondeva dietro un complesso automatico di sorrisetti e di riverenze.

Il giorno prima Roberto aveva consegnato a Yu-rí la chiave del cassetto dove aveva riposto il rapporto sull'Indocina e le aveva raccomandato di non darla a nessuno.

— Ho in quel cassetto un documento importantissimo per me che nessuno deve vedere! – le aveva raccomandato Roberto.

— Neppure tua madre?

— Neppure.

E Yu-rí s'era messa la chiave nella manica del kimono. Nell'orgasmo di quelle giornate di tensione Roberto s'era però dimenticato che il cassetto aveva due chiavi e che la seconda chiave si trovava in una coppa di lacca precisamente nella camera di sua madre. Bianca si serviva anzi abitualmente di quel cassetto per tenervi le chiavi dei suoi bauli, che per istintiva diffidenza di occidentale voleva sottratte al contatto della servitú. Giusto quella mattina le era capitato di aprire il cassetto per riporvi un indirizzo. Yu-rí, che entrava in quel momento nello studio, s'era buttata di colpo dietro un paravento e di lí, con gli occhi dilatati e l'anima palpitante, osservava la vecchia signora frugare proprio nel cassetto che Roberto le aveva affidato. Roberto le aveva anche mostrato la grande busta del documento e Yu-rí seguiva trepidante l'andare e venire della mano di Bianca intorno a quella busta. Appena la signora si fosse ritirata, Yu-rí avrebbe tolto immediatamente dal cassetto quella busta e l'avrebbe custodita nel suo kimono fino al ritorno dell'amante! Stava appunto rimuginando questa sua decisione quando Bianca, che aveva visto la busta, la prese in mano e, siccome i giorni prima non c'era, vi guardò macchinalmente dentro. V'erano alcuni fogli scritti a macchina e appuntate con spilli diverse cartine disegnate, con note in margine scritte da Roberto.

«Appunti di ufficio!» pensò Bianca, e stava per rimettere tutto nella busta quando i suoi occhi caddero sulle seguenti linee:

«Trenta cannoni da 150 e ottanta pezzi da 75 formano l'attuale dotazione di artiglieria della linea di frontiera fra quota 27 e il guado del Yunàm, ma durante la stagione delle piogge lo stato delle piste rende assai difficile lo spostamento del materiale di artiglieria. Ultimamente la «Skoda» ha fornito al Governo della Colonia una ruota speciale di affusto per terreni fangosi che pare dia buoni risultati, ma non ho in proposito elementi tecnici precisi. Il Comando giapponese può ottenerli con facilità, da qualcuno dei sottufficiali indigeni del 37° Reggimento di stanza a Huè.

La frase colpí Bianca de Tierry come una lama... Incredula rilesse: Il Comando giapponese può ottenerli con facilità da qualcuno dei sottufficiali indigeni del 37° Reggimento... Rilesse ancora una terza volta, e una tremenda idea le attraversò come una fiamma il cervello: Roberto era una spia? Una spia del Giappone! A questo punto! Cercò affannosamente fra le carte, osservò i disegni, lesse altre righe con nominativi di Battaglioni ed elenchi di bocche da fuoco... poi, convulsamente ricacciò tutte quelle carte nella busta, e invece di riporla nel cassetto se la mise sotto il braccio per portarsela via. Voleva chiuderla in qualche posto, nasconderla piú sicuramente e le attraversava la mente una idea di speranza: che, cioè, per un miracolo di Dio buono e misericordioso il documento non fosse stato ancora consegnato e che essa giungesse in tempo a salvare Roberto dall'infamia. Ma mentre chiudeva il cassetto una mano furtiva le tolse via la busta da sotto l'ascella. Si volse di scatto e si trovò di fronte Yu-rí.

— Che fate qui? Mi spiavate? Ah, siete ben giapponese! Rendetemi subito quella busta che appartiene a mio figlio.

— Mi dispiace, signora, di dovervi contrariare, ma non posso restituirvi questa busta appunto perché è di Roberto, il quale me l'aveva data in custodia con la chiave del tiretto non sapendo che voi avevate un'altra chiave. Non sono una spia, signora, e vi perdono di avermi offesa.

— Ah, mi perdonate – sibilò Bianca – insolente, miserabile creatura che non siete altro! Non contenta di avere rovinato il mio povero figlio, di avergli rubato la serenità dell'anima, di averne fatto un disgraziato che non sa quel che fa, di avere macchiato il suo onore, di avergli fatto perdere la sua dignità d'uomo, vi date ancora delle arie! Dimenticate che non siete qui la padrona. Non siete niente, voi! Questa è la casa di mio figlio e in sua assenza comando io, sua madre. Ridatemi immediatamente quella busta!

— Di nuovo vi perdono, signora, perché siete la madre di Roberto. La padrona siete voi ed io sono ai vostri ordini. Ma ho istruzioni da Roberto di non far toccare questa busta da nessuno...

— Naturalmente... siete la sua complice...

— Complice, signora! Non so che vogliate dire. Io sono la sua sposa.

— Sposa? Dinanzi a chi? Non certo dinanzi a Dio né alla Legge degli uomini.

— Sposa, signora, sí, dinanzi a Dio.

— A qualche Dio del Giappone, forse?...

— Il Dio del Giappone è il Dio di Roberto. Egli è giapponese come me.

— Giapponese?! Roberto è francese per vostra norma e per sua fortuna...

— No, è giapponese, signora, come me e come suo padre. Siete voi, sua madre, che andando contro la Natura e contro la Giustizia avete cercato di farne uno straniero; avete deformato il suo spirito; avete falsato il suo carattere; avete cercato di rubarlo al Giappone grande e divino e di farne un piccolo uomo inferiore appartenente alle razze incomplete, ma il Daj Nippon, signora, è piú forte di voi e del vostro Paese e si è ripreso Roberto. Roberto è giapponese come suo padre. E giapponesi saranno i suoi figli!

— Siete voi che lo dite...

— No, è Roberto che lo dice...

— Lo avete ben stregato, eh? Ma vi credete forse piú forte di quanto realmente siete! Ci sono ancora io per salvare Roberto!

— Se «stregare» significa «amare molto» avete ragione! Io amo Roberto. Roberto è il mio sposo e il mio signore. Roberto è tutto per me...

— È lo strumento del quale vi servite con arte di santarellina per la vostra contabilità di spia militare.

— Contabilità, signora, non capisco...

— Spia! Spia! Sí. Imbrogliona! Ladra! Ladra di mio figlio; ladra del suo onore, siete!

— Sono una giapponese, signora, una buona giapponese che ama Roberto piú di ogni altra cosa al mondo dopo l'Imperatore.

— Ladra, vi dico! Ladra maledetta! La mala sorte di Roberto vi ha messo sulla sua strada per intossicare il suo corpo e per avvelenare la sua anima, per distruggere la mia povera vita che era quieta e felice, per coprire di vergogna i miei capelli bianchi, per colpire a morte il mio povero cuore di madre e di donna... colpire a morte... sí... a morte... assassina... lo sento... lo sento che questo mio povero cuore si spezza... batte, batte, batte... vuole rompersi... ma non si romperà, no... no... non lo voglio... No, non romperti, non romperti prima che abbia rivisto Roberto e che abbia parlato con lui!... No, no, no... Lui non avrà il coraggio di uccidere sua madre...

— Signora...

— Ritiratevi, andate via... non voglio vedervi... non voglio sentirvi... ladra... ladra... maledetta... E ridatemi quella busta che mi avete rubato... Giapponese! Burattina! Bambola di pezza!... Credete che Roberto vi ami... Roberto non sa quel che si fa... No, per lui, non potete essere che un giocattolo...

Roberto entrava in quell'istante, accompagnato da Watabé che veniva a ritirare il documento. La giornata mistica del Tempio di Ise e la compagnia magnetica del generale avevano squassato la sua anima già sconvolta in profondità da tutti quei mesi di intensa nipponizzazione progressiva. La giornata di Ise aveva fatto traboccare la bilancia! La sua coscienza aveva bisogno solamente di una auto-giustificazione, di un sonnifero, di un anestetico qualsiasi... E lo aveva trovato nella foresta di Ise sotto forma di una idea che gli era nata nel cervello mentre con la fronte contro terra ascoltava rombare i colpi di cannone... Gli era germogliata in un punto della fronte e gli si era ingrandita nel cranio fino ad occuparlo per intero...Era inutile lottare contro la fatalità! La fatalità lo aveva fatto nascere figlio di un giapponese; lo aveva mandato poi in Giappone; gli aveva fatto incontrare il vecchio Kiyòsci e Yu-rí e il generale Watabé... La fatalità lo aveva fatto vivere in Indocina! La fatalità gli aveva fatto dare dall'Ambasciata quell'incarico che lo aveva messo nelle mani di Watabé! La fatalità lo aveva fatto amare da Yu-rí e gliela aveva fatta amare!... Tutta quell'evoluzione della sua esistenza era dominata in maniera palese da una Forza Irresistibile di carattere soprannaturale contro la quale era inutile lottare... Era meglio lasciarsi andare... In fondo, lui era un giapponese... sí... un giapponese... Per diritto di sangue! Il Sangue è piú forte del Suolo! Il suolo può essere questo o quello accidentalmente, magari una nave, un treno... Il sangue lo si porta nelle vene!... Si è fatti di quel sangue! Il famoso documento era logico darlo al Giappone... Logico ed anche tanto naturale... tanto semplice... Con quel documento tutto s'accomodava...

Aveva invitato Watabé a salire da lui. Voleva finirla... liberarsi... dare quel che doveva dare... Non pensarci piú...

Nell'entrare nel suo studio seguito da Watabé trovava le due donne in piedi, la Madre e l'Amante, entrambe agitate, stravolte, l'una di fronte l'altra, i visi pallidi, gli occhi accesi, le labbra frementi...

— Mamma! Yu-rí! Che c'è? Che è stato? Mi racconterete. Calmatevi un momento.

Si diresse rapidamente verso il tiretto per prendere la famosa busta e consegnarla a Watabé. Il tiretto era aperto e vuoto.

— La busta? – chiese.

Il braccio di Yu-rí si stese silenziosamente a consegnare il plico.

— No! No! Roberto, no, no... non la dare... – gridò la madre mettendosi la mano sul cuore dove sentiva una doglia atroce, una fitta incalzante... – Non la dare... Lasciami prima morire! Sí... morire... Roberto... Lascia prima che me ne vada... – E rivolgendosi al generale Watabé con un accento di straordinaria dignità:

— Ritiratevi, vi prego, signore – disse – ho bisogno di morire!

Watabé, che era un buon giocatore, s'inchinò profondamente e scomparve.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Bianca pallidissima, livida, violacea, si era abbattuta in una poltrona. Raggomitolata in un angolo sui ginocchi tremanti, Yu-rí singhiozzava.

— Mamma! Yu-rí! – balbettò Roberto interrogando le sue donne.

— Roberto – sussurrò la madre con una voce fioca e fine che pareva venisse già dall'aldilà della vita, – Roberto mio, sento la vita che mi si spegne dentro...

— Mamma...

— Roberto, ormai non ho piú tempo di parlarti a lungo... Ho le parole contate... Roberto, figlio mio, tesoro della mia vita, anima della mia anima, fai quel che vuoi... diventa, se credi, cittadino del Paese di tuo padre, ma non tradire, no, non tradire, Roberto, il Paese di tua madre... Ricordati che il tuo padre giapponese ha abbandonato tua madre e non si è mai curato di te nemmeno per sapere se eri vivo. È tua madre che ti ha allevato, figliolo, e ha sacrificato per te, con immenso amore, tutta la sua esistenza, tutti i suoi sentimenti, tutti i suoi desideri... Ed è la Francia che ti ha nutrito, che ti ha educato, che ti ha fatto uomo... Sei un bianco. Roberto... Guardati addosso... La tua razza è scritta indelebilmente sul colore della tua carne... Non tradire la tua razza!... Torna in Francia, Roberto... io non posso accompagnarti piú... tua madre se ne va... ma ti porta con sé nel cuore... Roberto... nel cuore... come quando eri piccolino... come quando ancora non eri nato, ma già eri dentro di me... Rob... ah! che male... che male... qui... qui... nel petto... ah... Rob...er...to... figlio mi...o...

E chinò per sempre la testa stanca.

Il suo vecchio cuore, già malato da tanti anni, non aveva resistito al colpo.

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