Roberto l'aveva vegliata tutta la notte. Yu-rí aveva cercato di aiutarlo mentre egli componeva la madre sul letto di morte tra i ceri ed i fiori, ma lui non aveva voluto che le mani dell'amante toccassero il corpo dell'estinta. In quel momento Yu-rí gli dava noia... La poveretta se n'era accorta e si era ritirata in un angolo facendosi piú piccola che poteva... Da quel suo angolo seguiva con occhi di amore la pena di Roberto. Oh! come avrebbe voluto essergli vicina... Poterlo cullare, poterlo accarezzare, potergli lenire quel suo grande dolore... Ma la morta li separava con la sua presenza. Quel fragile e minuto corpo di donna che pareva accartocciato nel letto sotto il casco bianco di capelli era per Roberto una accusa ed una condanna... D'altra parte, egli amava Yu-rí... L'aveva nell'anima... Ma era Yu-rí che aveva ucciso sua madre!... No... Era Watabé... Era il Giappone... Era una Fatalità tremenda che si era abbattuta su di loro... Quasi macchinalmente prese il documento sull'Indocina e lo fece in pezzi buttandoli in un canto... Poi, un pensiero infantile gli fece raccogliere quei poveri pezzi di carta e sparpagliarli in mezzo ai fiori intorno al corpo della morta, come un omaggio dolce alla sua volontà... alla sua memoria... al suo grande amore di mamma...
«Eccoti, mamma, eccoti contenta» diceva mentalmente accomodandole intorno i fiori ed i pezzetti di carta, «no, non ti tradisco, non tradisco il tuo Paese... il mio Paese... la Francia che mi ha nutrito e che mi ha fatto...»
La maschera asiatica di Watabé – volto terribile di un Budda emaciato e beffardo – gli attraversò lo spirito. Watabé! Watabé! Le mani corte e nerastre dell'asiatico avevano fra gli artigli l'esile bianco collo di Yu-rí... Yu-rí?... Sentí di amare teneramente, infinitamente, quella sua piccola donna tutta grazia e devozione... Come lui, Yu-rí era una vittima... una fragile, povera vittima della Fatalità inesorabile...
Automaticamente si accostò alla donna, le accarezzò i capelli, la sollevò dai ginocchi sui quali era tutta raccolta, la serrò dolcemente, affettuosamente, castamente, tra le braccia... Avrebbe voluto stringerla ancora piú forte, annegare nei suoi capelli profumati l'immensa angoscia che gli gorgogliava in cuore ma... i suoi occhi si posarono sul viso bianchissimo e prosciugato della madre che aveva l'aria di appuntirsi e di affinarsi di minuto in minuto sotto i capelli candidi... Quel suo avere Yu-rí fra le braccia era un insulto per la mamma... Scostò Yu-rí con un gesto cosí violento che la donna traballò sotto l'urto e quasi perse l'equilibrio...
— Roberto! – mormorò Yu-rí, contrita e spaventata.
E v'era tanto dolore, tanto schianto d'anima in quella flebile invocazione di donna che il cuore di Roberto ne ebbe addirittura uno strappo... Di nuovo le sue braccia cercarono Yu-rí... Di nuovo la donna si sentí avviluppata in un abbraccio di amore... Ma il cadavere della madre era lí, bianco, minuto, terribile, a rimproverare, a condannare, a maledire quell'amore... La donna si risentí respinta...
— Mamma! Mamma! Yu-rí! – urlò Roberto, sopraffatto da tutte quelle forze violente che lo sballottavano, lo pestavano, lo illividivano, lo martoriavano a sangue.
— Mamma... Yu-rí...
E fuggí dalla stanza. Scese a precipizio le scale. Uscí di corsa in istrada a cercare... aria, sole, spazio, solitudine... un balsamo qualsiasi al dolore dell'anima, un refrigerio qualsiasi alle labbra aride, un punto di appoggio qualsiasi alla ragione che gli traballava nel cervello...
La strada era deserta... Dinanzi al marciapiede la sua automobile luceva in tutte le nichelature...
Istintivamente andò verso il volante che rappresentava la fuga... Automaticamente si trovò in marcia... Accelerò... Il vento era una carezza... una carezza grande... Accelerò ancora... Sovente nella vita aveva trovato nella velocità un calmante ai suoi nervi, ai suoi guai, alle sue pene. Questa volta però aveva bisogno di una velocità grandissima, grandissima... Accelerò ancora... Attraversò a piú di cento chilometri quel quartiere poco popoloso di Tokio... Percorse una fila di viali verdissimi... un ponte... uno stradone di cemento... Andava diritto dinanzi a sé senza sapere dove andasse. Voleva semplicemente correre, correre, correre... fuggire quel cadavere rattrappito dai capelli bianchi, fuggire quella donna dolce ed amata dagli occhi dilatati e sgomenti, fuggire Watabé, tutti i Watabé, tutte le Yu-rí, tutte le case, tutte le persone, andare, andare... verso la solitudine, verso la quiete... verso l'infinita solitudine, verso l'eterna quiete...
In lontananza un barbaglio azzurro l'invitò. Il mare! Il mare era la solitudine, era la pace, era l'immenso che cercava... Era l'Azzurro! Sentiva bisogno di azzurro, di molto azzurro... Accelerò ancora... Il piano levigato del rettilineo asfaltato favoriva la sua corsa inconsapevole... A destra e a sinistra gli alberi fuggivano... Fuggivano le risaie e le case e le colline... Il mondo si apriva dinanzi al suo dolore furioso... E com'era buono il vento, quel vento fresco e rude che gli refrigerava la fronte, le guance, il collo!... Com'era gradito all'orecchio, all'anima il rombo del motore, quello stordente fracasso esterno nel quale si sperdeva il rombo interno del proprio cranio... La strada e la vita gli parevano un unico precipizio... un fantastico precipizio... disposto paradossalmente in linea orizzontale... Aveva la duplice impressione di correre e di precipitare... Correre e precipitare... Correre e precipitare... E non v'erano ostacoli! Com'è bello non avere dinanzi a sé ostacoli! Avere tutto liscio, tutto piano, tutto aperto... Correre e precipitare... Correre e precipitare... La grande macchia azzurra del mare si accostava e si ingrandiva. Era come un tavolato, uno sterminato tavolato azzurro sul quale egli avrebbe potuto continuare la sua corsa senza ostacoli...
Lo stradone asfaltato finiva in un dato punto e continuava in una piú modesta strada di campagna, fatta di pietrisco battuto sulla quale la corsa era meno agevole, ma Roberto non se n'avvide. La superficie stradale era tutta vertebrata di costole dure che facevano sobbalzare l'automobile ma Roberto non se ne rese conto, confondendo quei sussulti dell'ordegno col rombo del motore, col rombo del vento, col rombo della tempesta che aveva nel cervello... Ebbro, s'inebbriava sempre piú della sua stessa ebbrezza... La Madre e Yu-rí? La Francia e il Giappone? L'ambasciatore e Watabé?... Molecole... Rottami... Falene... Turbinio di forme e di immagini intorno alla sua anima turbinante... Senza notarlo, aveva contornato Yokoàma e aveva preso la strada di Kamakura in mezzo ai boschi ed alle risaie, inseguendo il miraggio azzurro del mare che in quel punto si sottraeva al suo desiderio giacché l'automobile aveva infilato una strada interna che non andava verso la costa. Roberto correva diritto dinanzi a sé a una velocità pazza rischiando cento volte di arrotare i passanti o di cozzare contro gli alberi, ma, guidatore di grande classe, era salvato dal suo virtuosismo che operava automaticamente, diretto dal subcosciente. Dove andava? Non lo sapeva. Non gli importava di saperlo. Non gli veniva in mente di chiederselo. Non voleva pensare di star pensando a qualche cosa. Voleva semplicemente fuggire la sua iattura, tutti i cadaveri dai capelli bianchi, tutte le donne dai grandi occhi sgomenti, tutti i Watabé dal sorriso mefistofelico che stendevano la mano a chiedere documenti... a chiedere cannoni... mitragliatrici... linee di frontiera... ghescie... ambasciatori... cifrari del Ministero...
Un'ombra lo fermò. Ebbe l'impressione di cozzare contro un muro. I freni inchiodarono la macchina con una strappata cosí violenta che le ruote urlarono e le balestre mandarono un singhiozzo.
Alzò gli occhi. Era dinanzi al grande Budda di Kamakura che in pieno sole, a cielo scoperto, nel mezzo della strada, erge sopra uno zoccolo di granito la sua mole di bronzo alta quindici metri. Il sole batteva di taglio sul grande volto nel quale un artista straordinario ha sublimato in un'opera immortale l'infinita serenità del Saggio. Varie volte Roberto s'era fermato a contemplare il Daibútru di Kamakura e ne aveva ammirato la solennità augusta, ma in quel momento non vide altro che il sorriso, un sorriso fatuo e idiota che faceva la smorfia dinanzi alla sua tragedia personale.
— Imbecille! – disse al grande Budda, e rimesso in azione l'acceleratore rilanciò la macchina a tutta velocità.
L'automobile partí con un balzo... Dinanzi a Roberto si apriva una strada ed egli vi si buttò a tutta andatura... Ben presto si trovò in salita fra i boschi... Il mare si avvicinava, si avvicinava... s'ingrandiva, s'ingrandiva... immenso, piano, azzurro, affascinante... Non un'isola, non una vela... Nulla... La strada rasentava la costa andando verso Enoscima e seguiva arditamente i contorni della sponda accidentata e scogliosa, ora valicando piccoli promontori a picco sull'acqua ora scendendo a bordeggiare minuscole spiagge, in mezzo ad un grande scenario di pini e di rocce, fronteggiato dalla immensa distesa azzurra... Azzurro e sole... Sole ed azzurro... Roberto non vedeva che il mare... Il mare azzurro e balenante... Come un automa seguiva macchinalmente il piccolo nastro grigio della strada pericolosa... Nemmeno si accorgeva di salire e di scendere, ripreso dalla sua pazza sensazione di stare slittando sopra un precipizio orizzontale. Di fronte a lui, sul fondo dell'orizzonte, il Fugjiama drizzava il suo alto cono affusolato, ma era cosí distante, cosí stemperato nei vapori dell'aria che aveva, piú che altro, l'aspetto diafano di un fantasma. Era il Fugjiama spettrale dei kakemóno! Il suo alto cono aveva quel colore biancastro che ha la luna vista di giorno. L'assoluta immobilità del mare abbagliava la vista. Certe righe tracciate dalle correnti sottomarine sulla superficie dell'acqua parevano a Roberto strade: strade della terra che continuavano sul tavolato azzurro per coloro che avevano bisogno di correre e di correre senza ostacoli... Affascinato da quel miraggio azzurro andava verso l'azzurro, mentre intorno al suo capo roteava vertiginosamente una specie di girandola opaca, fatta di capelli bianchi, di menti appuntiti, di facce morte che rassomigliavano a sua madre, di kimono verdi e celesti, di grandi occhi dolci e sgomenti, di tanti denti d'oro che nell'interno della girandola formavano come i denti di una cremagliera e nel passare scattavano, scattavano, scattavano, con un ticchettio metallico che scandiva la parola: Wa-ta-bé! Wa-ta-bé! Wa-ta-bé!
A un certo momento ebbe l'impressione che un lembo di kimono celeste – il piú bel kimono di Yu-rí – stesse per essere travolto nei denti della girandola... Sterzò violentemente da un lato per non stracciare la seta celeste...
Proiettata nel vuoto dal filo di una svolta l'automobile parve per un attimo che si slanciasse realmente verso tutti gli azzurri, ma dopo un secondo, dominata dal peso, si inchinò, precipitò, caprioleggiò nel nulla, si schiacciò sugli scogli, si frantumò nel mare. Il salto a strapiombo era in quel punto di trenta metri.
— Mamma! – urlò Roberto.
Uno scoglio gli recise la parola e la vita.