LIBRO PRIMO. Della Commedia presso i Greci.

1. Del bello. – Il bello, al dir di Marsilio Ficino, altro non è che il fiore del buono, a cui esso va essenzialmente unito, e ne è inseparabile, in quella guisa, direbbesi, che la fiamma è un prodotto del fuoco, il quale in essa dimostra più incandescente e più brillante la sua sostanza; ed essa stessa è fuoco (come il bello è pur esso buono) e dal fuoco è indisgiungibile, ma lo segue, come dice Dante (Purg., XXV, 97), là ’vunque si muta. E come la fiamma è segno del fuoco, così del buono il bello; ed oltre esserne il segno, n’è ancora attrattiva potente, e direi quasi irresistibile; che è pure un pensiero dello stesso Ficino: Bonitatis florem quemdam esse pulchritudinem volumus, cujus floris illecebris, quasi esca quadam, latens interius bonitas allicit intuentes. Laonde gli è per mezzo del bello specialmente che l’uomo muovesi al buono, ed è al tocco di questa corda che vibra tutta l’anima umana, e dispiega, stende e sviluppa ogni sua potenza e tutta intiera la sua attività.

2. Del bello della natura. – Tale essere l’ordine di natura io ravviso nell’avere il Creatore circondato l’uomo d’uno spettacolo sì svariato e sì magnifico di eterne bellezze, quante ne presenta il mondo sensibile, e nell’averlo collocato, in sul primo nascere, nell’orto delle delizie, acciocchè fattosi scala di questo gradatamente salisse al mondo ideale, e portato sull’ali del bello spaziasse per le serene e tranquille regioni del vero e del buono. Dio stesso, se mi è lecito esprimermi così, si nascose dietro questo immenso apparato di bellezze sensibili, e se ne ammantò come di ricca e nobil veste, e di sè nel cuor dell’uomo accendendo sete inestinguibile, lasciò ch’egli senza posa lo investigasse con ansia affannosa, equasi cercasse di toccarlo con mano dietro alla coperta del sensibile, e dalla contemplazione del bello innamorato di Lui, si sforzasse di penetrare alfine questa quasi invoglia estrinseca, e con Lui sommo vero, sommo buono, sommo bello stringersi e rannodarsi col pensiero e coll’affetto.

3. Dell’arte, dell’arti belle, ed in ispecie della poesia e della musica. – L’arte, che è figlia di natura, e cui quanto puote, al dir dell’Alighieri (Inf., XI, 102), segue, come il maestro fa il discente, sicchè a Dio... quasi è nipote, mantenne sempre l’ordine stesso; e il suo magisterio, che ben si può dir divino, fu sempre di condurre per mezzo del bello gli uomini al vero e al buono, e dalla bellezza sensibile rapirlo con volo sublime alla bellezza intellettuale e morale, di cui quella è soltanto vestigio ed impronta ed una specie di richiamo. Quindi ecco nate le belle arti, che a ragione si chiaman sorelle, perchè rappresentano un medesimo concetto sotto aspetti e lati diversi, e con vario ministero adempiono ad un medesimo ufficio; e prime fra esse la musica e la poesia, perocchè le altre non ebbero sviluppo se non quando progredita ed estesasi la civiltà per il maggior ravvicinamento dei popoli e per il cresciuto commercio d’idee e di cognizioni gli uomini sentirono il bisogno e la capacità di esprimere e scolpire sulle tele e sui marmi i proprii pensieri e le proprie immaginazioni. La poesia e la musica nacquero a un corpo, e furono negli antichi tempi intimamente congiunte, per modo che nè poesia senza musica si conosceva nè musica senza poesia. Ed è naturale, poichè la poesia in generale, e massime la primitiva, è il linguaggio passionato dell’anima rapita come in estasi dall’ammirazione del bello e tocca da un sentimento e da un affetto potente; e l’uomo, eccitato in questo modo, direbbesi con parola dantesca che si trasumana, la sua voce plus quam mortale sonat, sì un che d’arcano e di divino, abbandona il modo piano e dimesso di favellare, ed esce in vere cadenze musicali, or rapide or lente, or mosse or gravi, secondo l’impulso loro dato dall’anima del poeta. Che se più tardi si musicò ancora la prosa, ed Erodoto, come si legge, a’ giuochi olimpici cantò le sue istorie, e n’ebbe premio, devesi osservare che non precisamente nella forma e nell’artifizio esteriore consiste la poesia, ma nel concetto e nella forza ed elevatezza d’un pensiero ardito ed immaginoso: onde vere e sublimi poesie sono non solo le bibliche, ma e le istorie altresì di Erodoto, cui egli stesso (avendo in mente di scrivere più che una storia, nel senso inteso da noi, un poema) intitolò dalle nove Muse. Quel Romano oratore sì celebrato, il quale prima di esordir l’orazione facevasi dare il tono col flauto da uno schiavo, dovette forse, a parer mio, usare nelle aringhe una cotal specie di canto simile, per mo’ di dire, a quello in cui Erodoto cantò le sue Muse.

D’altra parte vive anche adesso un canto antichissimo, appellato Gregoriano da quel pontefice che ne fissò le norme e le leggi e ne stabilì pei chierici pubbliche scuole, il quale s’adatta benissimo alla prosa, ed offre tal maestosa gravità ed espressione patetica di sentimento che a giudizio dei migliori musici moderni è in molti punti inarrivabile ed inimitabile dal canto figurato. Ora questo canto non fu già inventato dalla Chiesa, che l’usò ed usa di presente, ma ella dai Greci probabilmente il tolse, e con qualche modificazione l’adattò a’ suoi bisogni; onde nulla vieta di credere che identico o simile almeno fosse il canto applicato dagli antichi alla prosa: il che veramente io non oso asserire, bastandomi d’avere esposto questi pensieri a mo’ di dubbio, e di sottoporli ora al giudizio del lettore intelligente. Certo è tuttavia, che presso gli antichi alla Poesia fu come a dir ancella la Musica, e non venne mai questa riguardata come principale, tenendosi paga del secondo luogo; ell’era a guisa d’un velo delicato e sottile che veste persona formosa, il qual ne lascia trasparire tutte le forme distintamente e le rende più piacevoli e più eleganti per modo che chi contempla non sia sì rapito dallo sfoggio del velo che dimentichi la persona, ma l’uno e l’altra uniti in bell’armonia ammiri con soddisfazione e diletto. Il contrario dei giorni nostri, quando il canto ha soverchiato la poesia, e la fuga delle note, i gorgheggi, i ritorni, le ripetizioni, il frastagliar le parole oscurano ed intenebrano la poesia ed impediscono d’intendere che cosa si canti, sicchè poco importi oggimai in qual lingua sia scritta la composizione, poichè chi va all’opera, non d’altro si cura che di sentire una bella musica; il che se sia un miglioramento nell’arte, non saprei.

È da osservare ancora che l’accompagnamento instrumentale era semplicissimo, e da prima principalmente nei cori drammatici non era che il flauto detto αὔλος dai Greci, e da’ latini tibia dallo stinco degli animali e particolarmente di alcuni uccelli ond’era formata, e, più che ad accompagnare il canto dovette servire a mantenere in tono i cantori. Orazio nell’epistola ai Pisoni a questo proposito dice così (vers. 202 e seg.):

Tibia non, ut nunc, orichalco vincta tubæque
Æmula, sed tenuis simplexque foramine pauco
Aspirare et adesse choris erat utilis, acque
Nondum spissa nimis complere sedilia flatu,
Quo sane populus numerabilis, utpote parvus
Et frugi, castusque verecundusque coibat.

Ma più tardi, nota ancora Orazio, cresciuto il lusso ed il fasto ed introdottasi nei costumi licenza maggiore, si corruppero musica e poesia abbandonando la primitiva semplicità, e si diede nell’eccessivo e nell’affettato (Ibid., v. 216):

Fidibus voces crevere severis,
Et tulit eloquium insolitum facundia præceps.

Questi pochi cenni bastino per la musica, la qual non entra nello scopo che mi sono proposto in questa operetta. Ora verrò alla poesia, e brevemente detto di essa in generale, mi fermerò poscia alla poesia drammatica e propriamente alla comica.

4. Della poesia, e prima della divina. – La poesia in principio non servì quasi ad altro che alla religione, primo e principale affetto dell’uomo, ed a conservare e tramandare a’ posteri le patriarcali tradizioni della famiglia, nelle quali tutta stringevasi la sapienza de’ popoli e rannodavansi le leggi e le costumanze, riguardate ancor esse come sacre e perciò alla religione appartenenti. Era questo un codice prezioso che scrivevasi nei cuori, e gelosamente conservato trasmettevasi di padre in figlio come sacro retaggio, ed intorno ad esso si raggruppavano mano mano i fatti e gli avvenimenti di qualche importanza, sì privati come pubblici; sì fisici come morali. I dogmi religiosi e le istituzioni famigliari e patrie che armonizzavano sì bene il consorzio umano e sociale dovettero essere espressi mediante l’armonia del verso da popoli, che vergini ancora e di sentimento delicato e squisito agevolmente venivano compresi dall’entusiasmo e dal sacro fuoco di poesia.

La bibbia, il più antico libro che si conosca, è in ogni sua parte eminentemente poetica, e dove narra la genesi del mondo, e dove conta le vicende del popolo ebreo, e dove ne assegna per minuto i riti, le leggi, le costumanze, e dove registra i fasti dei due regni e delle due monarchie di Giuda e d’Israele: ma divinamente poetica in Giobbe, tipo dell’umanità colpevole percossa da Dio e pur serena ed illuminata d’un raggio di speranza; nel libro di Ruth, storia sì ingenua e sì schietta che innamora; ne’ salmi, aspirazione dell’anima in tutti i secoli, che sono come il fuoco d’una lente in cui si raccolgono e s’incentrano tutti i raggi della poesia ebraica; nella cantica, il più antico e più bello idillio pastorale che si conosca; ne’ libri sapienziali, primo modello di poesia gnomica, al cui paragone troppo sottostanno i versi aurei attribuiti a Pitagora; ma, più che in altri, ne’ profeti, ne’ cui carmi fatidici si racchiude tutto che abbia d’immaginoso, di grande, di sublime la poesia.

Così ancora presso gli altri popoli la poesia si ristrinse nella cerchia religiosa; e poetici furono presso gli Indiani i libri sacri noti sotto il nome di Veda, che ispirarono il Ramayana di Valmici, come i sacri inni dei Greci e l’epopea d’Omero. Anzi, sì intimo ed esclusivo fu il nesso della poesia colla religione, che i poeti furono riguardati come messaggieri ed interpreti degli Dei e creduti divinamente ispirati e forniti di spirito profetico, in guisa che essi furono dapprima sacerdoti e reggitori di popoli, e loro fu dai Greci attribuito un nome proprio di Dio, poichè Ποιητής, dal verbo ποιέω fare, suona lo stesso che fattore o creatore; e presso i latini Vates significò egualmente e poeta e profeta ed indovino. Poetici furono altresì i responsi degli oracoli, e la poesia servì ad involgerli nella sacra oscurità del mistero, e talmente poetici, che Orazio la soverchia e fragorosa elevatezza della poesia drammatica paragonò agli oracoli dicendo: Sortilegis non discrepuit sententia Delphis . Così pure leggiamo in Virgilio che Enea, ito alla Sibilla di Cuma a sapere i futuri eventi che lo aspettavano in Italia, la prega di non iscrivere i responsi cui appella Carmi sulle foglie secche, che il vento non le disperda: Foliis tantum ne carmina manda, – Ne turbata volent rapidis ludibria ventis : e soggiunge: ipsa canas oro. Ancora le scienze teurgiche ed occulte e le magiche arti sì rinomate in Tessalia, onde anche tolsero il nome, le quali paiono avere un rispetto alla divinità, od almeno una cotal relazione con enti soprasensibili, mediante carmi misteriosi, celebri ancora nei nostri poeti epici e romanzeschi, costringevano gli spiriti ed operavano effetti prodigiosi. Lino, Museo, Orfeo, cantori e poeti vetusti fra i Greci, presentano un carattere divino ed hanno dagli Dei la missione di ammansare, dirozzare e incivilire gli uomini: Orfeo anzi è marito ad una ninfa delle Driadi, e morta la ritrae dall’Erebo e riconducela a rivedere le stelle, addormentato Cerbero ed impetrata grazia da Proserpina colla dolcezza della lira e del canto. Sacri a celebrare le lodi di ciascuno degli Dei sono gli inni attribuiti ad Omero ed agli Omeridi, e forse si cantavano dal popolo nelle loro solennità.

5. Poesia eroica. – In seguito la poesia fu volta agli eroi e ne cantò l’alte e gloriose imprese; nè per questo si allontanò dal carattere suo religioso, poichè gli eroi erano progenie degli Dei e dagli Dei mandati a purificare l’umanità, e quindi si ebbero anch’essi e templi e culto religioso. Ercole è figliuolo di Alcmena e di Giove, il quale per ingannarla aveva vestito le sembianze di Anfitrione suo marito, che trovavasi allora alla guerra di Tebe. Generose ed utili imprese di lui cantarono i poeti; uccise nel lago di Lerna l’idra dalle sette teste, giunse ed ammazzò correndo una cerva dalle corna d’oro e dai pie’ di bronzo, strangolò il formidabile lione della selva Nemea, punì Diomede che d’umana carne pasceva i cavalli, sul monte Erimanto pigliò un cinghiale che devastava tutto il paese, domò un furioso toro che rovinava l’isola di Creta, sostenne in luogo di Atlante il cielo colle sue spalle, separò i due monti Abila e Calpe, unendo così l’Oceano col Mediterraneo, e quivi eresse le due famose colonne, credendo questo essere il confine del mondo, ed altre infine compiè enormi imprese che ci simboleggiano in lui la forza adoperata in pro’ del genere umano. Nè meno grandi e salutari furono i fatti di Teseo, anche lui semideo, ed a cui gli Ateniesi eressero altari. Aggiungi gli eroi della guerra di Troia discendenti la massima parte, sì degli Achei che de’ Troiani, o dagli Dei, o da semidei, tutti, secondo Omero, di corpi ingenti, d’animo invitto, di forze al di là dell’umano, e dagli Dei difesi e salvati. Il secondo libro dell’Iliade appellato Beozia, che a noi riesce un lungo e stucchevole catalogo di nomi, dovette avere pei Greci una somma importanza e servire di fondamento e di fomento all’ambizione ed alla boria dei molteplici e piccoli stati in cui era divisa e sminuzzata la Grecia.

6. I poemi omerici. – Omero. – Di qui pertanto ebbe nascimento la poesia eroica improntata d’un carattere religioso e nazionale, nel suo svolgersi inesauribilmente feconda, della quale ci rimangono monumenti splendidissimi nei due poemi omerici, che diedero e danno legge a tutte quante le epopee. L’Iliade è canto di guerre e di battaglie; l’Odissea è poema di casa, di mercanti, di viaggiatori: questa, secondo il Tommaseo, distante da quella per intervallo non d’anni, ma di generazioni, sì differente n’è lo stile non solo, ma ed i costumi, nell’Iliade feroci, nell’Odissea corrotti: questa nata tra l’occidente e il mezzodì della Grecia, quella tra settentrione ed oriente, in guisa che non si possono riconoscere d’un medesimo autore, sebbene v’abbian tra loro delle rispondenze ed analogie, come nel numero dei libri e nel tempo che durarono sì la guerra di Troia, sì i lunghi viaggi di Ulisse, ed altre non poche.

Omero nell’Iliade ci porta addirittura sotto le mura di Troia, e si propone cantare l’ira d’Achille luttuosa e funesta, ma ad un tempo puerile e nata da frivole cagioni. Achille, irato contro Agamennone per il rapimento della schiava Briseide, ritirasi dalla guerra co’ suoi Mirmidoni, e se ne rimane inoperoso e pieno di dispetto a guisa d’un fanciullo fino al libro XIX, quando Ettore minaccia incendere le navi, ed uccide, aiutato dagli Dei, il giovane Patroclo: ed allora, avute nuove armi fabbricate appositamente da Vulcano per preghiera di Teti, per amore alfine combatteo, come dice Dante, e ucciso Ettore lo trascina a coda di cavallo attorno alle mura di Troia; quindi al padre Priamo, che supplice viene a domandarlo, restituisce il cadavere, con cortesia austera gli imbandisce un convito, e lo rimanda promettendogli pei funerali dodici giorni di tregua. Priamo, ritornato alla città, celebra le esequie al prode figliuolo, e così si termina il poema, senza nulla dirci nè della fine della guerra, nè dell’eccidio di Troia, nè del ritorno dei Greci. Il qual ritorno de’ Greci restò poi materia a’ poeti omerici del ciclo che si riannodano all’Iliade, e composero poemi di cui l’Odissea, quale a noi rimane, sarebbe, secondo alcuni, un episodio. Di questi poemi ci furono conservati alcuni soggetti nella Crestomazia di Proclo, e rimangono alcuni pochi frammenti presso Ateneo, Pausania, Clemente Alessandrino ed altri, che trovansi raccolti tutti insieme nell’edizione delle opere di Omero fatta a Parigi da Firmin Didot, 1844.

Omero da Giambattista Vico fu sciolto in un mito, e da Wolf diviso e spezzato in molti poeti. Che che sia di ciò, volendone anche mantenere e difendere la esistenza reale e storica e l’autenticità de’ suoi poemi, non si può supporlo nè solo, nè primo, quasi fresca e fiorita pianticella che sboccia e vegeta in un deserto di aduste arene, poichè la sua poesia sì bella e sì armonica, l’ordine sì lucido ed esatto, la lingua sì forbita e sì pura rivelano l’arte non più bambina ed in fascie, ma già innanzi progredita ed adulta. Esistettero adunque prima di lui poeti e cantori non solo d’inni religiosi, come ho detto di sopra, ma ancora di eroi e di belliche imprese; e forse gli stessi eroi di Troia tornati alla patria affidarono al verso ed al canto popolare la memoranda spedizione: a quella guisa che il poema sacro dell’Alighieri, come nota Cesare Balbo nella vita di Dante, non fu già solitario e senza precedenti, nè Dante in tutto in tutto creatore; ma già la poesia aveva fatto sue prove, e s’era ingentilita nella corte di Federico II, ed anche in Firenze, e prima di Dante si citano nomi non oscuri, tra’ quali quel di Guido Guinicelli, cui Dante chiama nel XXVI Purgatorio, vers. 97, padre mio e degli altri miei miglior, che mai – Rime d’amore usâr dolci e leggiadre, e il provenzale Arnaldo Daniello, cui il Guinicelli, ivi stesso, vers. 115 e seg., mostra a Dante col dito, appellandolo il miglior fabbro del parlar materno, dicendo di lui: Versi d’amore e prose di romanzi – Soverchiò, tutti e lascia dir gli stolti – Che quel di Lemosì credon ch’avanzi. Come dunque a Dante preesistette una letteratura già assai ricca, e Dante ebbe il merito soltanto di raccoglierla in sè e perfezionarla; così è da credere che precedesse ad Omero una serie di poeti non piccola, nelle cui mani l’arte poetica avesse già raggiunto un grado abbastanza elevato di buon gusto, di brio, di forza, di efficacia, di eleganza; ed il Meonio giovossi de’ lor lavori, e forse altro non fece che raccogliere ed unire insieme molti componimenti staccati, dando loro di suo una forma unica ed un colorito uniforme, sebbene anche adesso i più sottili, come per esempio il Thiersch nella grammatica homerica, vi sentono la diversità delle mani. La qual sua qualità di raccoglitore e ordinatore alcuni ravvisano nel nome stesso di Ὅμηρος composto di ὁμοῦ insieme, ed ἄρω, primitivo di ἀραρίσκω dispongo, ordino, connetto .

Omero non scrisse nulla, anzi è tradizione che e’ fosse cieco; ma i suoi poemi vissero nella memoria di quei popoli che in essi riscontravano la loro storia e le glorie del passato; e da’ rapsodi si cantavano per ordine dell’antico legislatore Solone alle Panatenaiche, per la quale solennità furono la prima volta qualche anno dopo da Pisistrato e da’ suoi figliuoli con l’aiuto di grammatici e di critici, detti grecamente diaschevasti da διασκευάζω o rdinare, disporre, correggere, raccolti e restituiti per iscritto ad una forma autentica, ad impedire che vi si introducessero aggiunte estranee. Più tardi occuparonsi con critica squisita della correzione di quelli i Grammatici Alessandrini, ed Aristarco ne diè il testo vulgato. Cionondimeno dovettero al certo subire molte variazioni, e presso gli antichi s’incontrano citati versi di Omero che nelle moderne edizioni non si trovano più. Checchessia poi di tutto ciò, certo è che Omero è il più antico e più perfetto cantore di eroi, e l’Iliade la più graziosa e più feconda epopea che si conosca, la qual servì a tutti d’esempio e di modello. Virgilio, si può dire, altro non fece che vestirla in delicati e gentili versi latini, ed imitarla fedelmente, ed in molte parti anche copiarla; e se talora Orazio si sdegna: quandoque bonus dormitat Homerus , pur subito lo scusa dicendo: Verum opere in longo fas est obrepere somnum; ed a’ poeti latini raccomanda: Vos exemplaria graeca – Nocturnâ versate manu, versate diurnâ anzi il metro usato da Omero pone a legge dell’epico poema senza recare altra ragione se non che e’ fu usato da Omero: Res gestae regumque ducumque et tristia bella – Quo scribi possent numero monstravit Homerus , bastandogli questo, poichè Omero secondo Aristotile, µόνος τῶν ποιητῶν οὐκ ἀγνοεῖ ὅ δεῖ ποιεῖν αὐτόν, del quale non si può far elogio maggiore, dice Enrico Bindi.

Così la poesia dagli Dei passò agli eroi, mantenendo pure il suo carattere religioso, poichè, come ho avvertito di sopra, gli eroi hanno cogli Dei una stretta attinenza e parentela, e son uomini divini o divi, onde Omero premette quasi sempre ai loro nomi l’aggettivo δῖος. Il quale passaggio non dovette garbar gran fatto a Platone, che dalla sua Repubblica nel lib. X sbandisce i poeti e la poesia, ad eccezione degli inni sacri alla divinità e degli elogi degli uomini grandi, ed a proposito di Omero fa parlare Socrate ne’ seguenti termini: «Adunque, Glaucone mio caro, allorchè udrai dire dagli ammiratori di Omero che questo poeta formò la Grecia; che leggendolo l’uomo apprende come governarsi e ben condursi negli avvenimenti della vita; che non si può far cosa migliore che reggersi secondo i suoi precetti, bisognerà sì avere ogni riguardo e compiacenza per chi tiene cotale linguaggio, credere che costoro adoprino ogni miglior modo per divenir gente da bene, accordar loro che Omero sia il più gran poeta, il più gran tragico; ma insieme vi ricordi che nella nostra repubblica non bisogna ammettere altra poesia che gli inni ad onore degli Dei, e gli elogi de’ grandi uomini». Forse, osserva Cesare Cantù, Platone sbandendo Omero aveva l’intento a qualche cosa di più grande, cioè a scassinare il politeismo greco che da quei poemi era insinuato negli animi colla prima educazione.

7. La lirica. -Scorsi di buon tratto i tempi eroici, cessò nella Grecia la vera epopea, e la poesia si volse ad altri soggetti, poichè, se vero è che virtutes, come dice Tacito, eisdem temporibus optime aestimantur, quibus facillime gignuntur, è vero del pari che solo allora i grandi fatti e le magnanime imprese trovano acconcii e degni cantori che li celebrino e l’illustrino, quando o si compiono, o trascorsi di fresco sono i tempi in cui furono compiute; conciossiachè col volgere degli anni, coll’ammollirsi e corrompersi de’ costumi, poco a poco si estingue la tradizione vivace ed ispiratrice nell’animo de’ popoli che la rappresentano, simile ad eco lontana che gradatamente assottigliasi, svanisce e muore. La Grecia prima di Maratona e di Salamina fu popolata di eroi, vi regnava una vita salda e robusta; più tardi le leggi di Solone in Atene, di Licurgo in Sparta davano ancora una tempra di ferro ai petti greci, e formavano un Temistocle, un Aristide, un Leonida ed un pugno di prodi da fronteggiare e vincere quel Serse a cui diè luogo il monte Athos e s’assoggettò l’Ellesponto: ma dopo le gloriose vittorie riportate sopra i Persiani, la Grecia fu tocca, a così dire, dal contagio asiano, e la mollezza e la corruzione dei vinti s’insinuò nei vincitori e loro rimase quasi spoglia malaugurata e micidiale. Allora tu vedi Temistocle, l’eroe di Salamina, con sfarzoso strascico di vesti aggirarsi nella corte del gran Re, e dire scherzando alla moglie: Perieramus nisi periissemus; e Pausania, che alla battaglia di Platea aveva comandato le schiere vittoriose dei Greci, offrire, sedotto dall’ambizione, al monarca Persiano di dargli in mano Sparta e tutta la Grecia a vile e detestabile prezzo. Qual meraviglia pertanto che anco la poesia scadesse e perdesse dell’antico nerbo e della prisca robustezza? La poesia è il linguaggio dell’anima: or quando vergini ed intemerate sono le anime, la poesia scaturisce limpida e pura come rivo da chiara e fresca sorgente; quando invece quelle sono come ammencite dalla mollezza, anch’essa vien fuori languida, effeminata e cascante di vezzi, vezzi che sono come belletto onde si cerca risarcire e riparare ad una bellezza menomata e guasta dall’età e dai disordini. Quindi vedesi nella Grecia al poema eroico succedere nel predominio la lirica e dalle laudi degli Dei, a cui nella sua origine era consacrata, scendere poco a poco agli amori ed a men degni soggetti; sebbene in essa come aquile spiegarono voli sublimi Simonide, Stesicoro, Corinna, Saffo, Anacreonte, e sopra tutti Pindaro, e negli inni di guerra Collino e Tirteo che coi rapidi ed impetuosi anapesti inanimò gli Spartani nelle guerre di Messenia. Anche la satira ebbe i suoi cultori, ed Archiloco di Paro, a sfogar l’ira contro il suocero Licambe, inventò, al dir d’Orazio, il metro giambico, adottato poscia dalla poesia drammatica come più agile ed efficace e più acconcio al dialogo:

Archilochum proprio rabies armavit jambo
Hunc socci cepere pedem grandesque cothurni,
Alternis aptum sermonibus, et populares
Vincentem strepitus, et natum rebus agendis.

8. La drammatica. – Ed eccomi giunto alla poesia drammatica di cui fa parte la commedia che mi era proposto come tema esclusivo di questo scritto. La drammatica, come si vede, è l’ultima forma che rivestì la poesia, ed, in questo genere nuovo fu portato, per dir così, tutto che di tenero e di patetico ebbe la lirica, tutto che di sostenuto e di serio ebbe l’epopea, tutto che di mordace e di caustico ebbe la satira: nella drammatica mostrò tutto quanto potè la greca poesia, e con Eschilo, Sofocle, Euripide ed Aristofane chiuse splendidamente l’êra sua gloriosa ricca d’immortali allori. Fiorirono di poi prosatori eccellenti, filosofi, oratori, Platone, Aristotile, Senofonte, Tucidide, Demostene; ma poeti sommi non sorsero più, e la poesia cedette il campo alla prosa dopo di averglielo coltivato e disposto in maniera, che ne raccogliesse ampii ed ubertosi frutti.

La poesia drammatica differisce da ogni altra maniera di poesia, in quanto che ogni altra o narra avvenimenti trascorsi, o vagheggia esseri ideali, o specula un’idea, o descrive enti reali, o porge precetti ed ammaestramenti; laddove la drammatica consiste tutta nell’azione, come indica l’etimologia del nome δρᾶμα da δράω agire, fare; i personaggi antichi riduce presenti vivi e parlanti, gli uomini accozza insieme a ragionare e discutere, e mediante un intreccio bene assortito e naturale, che gradatamente svolgendosi si risolve, parla agli occhi, istruisce e diletta; e quindi sovra gli altri generi di poesia ha questo vantaggio di essere assai più efficace e di raggiungere più prontamente e meglio lo scopo, giacchè, come dice Orazio, Segnius irritant animos demissa per aurem, – Quam quae sunt oculis subjecta fidelibus et quae – Ipse sibi tradit spectator , ed ha troppo più forza la cosa quando agitur in scenis, che non quando acta refertur.

9. Tragedia e Commedia. – La drammatica si parte come in due gran rami, che germogliano da un ceppo medesimo e sono tra loro, non che diversi, contrarii, il tragico ed il comico. Quello considera il serio, il grande, il sublime della vita; questo invece il frivolo, il ridicolo, il festivo: sicchè la differenza che corre tra loro è insita nella natura stessa dell’oggetto, del fine, dei mezzi. «Il contrapposto che è tra il tragico ed il comico, dice il Müller, non si fece già manifesto per la prima volta in queste due specie del dramma: chè esso è tanto antico, quanto antica è la poesia. A lato al nobile e al grande dovè manifestarsi naturalmente ciò che è vulgare e cattivo, perchè quello vie più rifulgesse, e più chiara se ne facesse l’essenza. In quella misura, anzi, in cui lo spirito nutriva e coltivava in se stesso le idee d’un ordine più perfetto, del bello e del potente nel mondo e nella vita degli uomini, addivenne anche meglio capace e più abile a concepire il debole e l’errato in tutto il suo modo di esistere, ed a colpirlo in ciò che n’era propriamente il nucleo ed il centro. Ciò che è cattivo ed errato non è, a ver dire, obbietto di poesia per se stesso; ma quando s’accoglie nelle idee d’una mente del nobile e del bello ripiena, anch’esso trova un qualche luogo nel mondo del bello e addiviene poetico. E nella esistenza contingente e limitata dell’umana stirpe ha ciò il suo fondamento: da che una cotale specie d’intellezioni è ognora occupata nella semplice realtà; l’altra invece a questa opposta con libera e creatrice forza s’è fatta della fantasia il suo regno. La vita reale è sempre stata una materia abbondevolmente ricca per la poesia comica, la quale se spesse fiate usò di tali figure di cui inventò ella stessa la forma, e che nella vita reale non si rinvengono, in quelle significa pur sempre fenomeni e condizioni, uomini e ceti di essi realmente esistenti. Ciò che è tristo ed errato non s’inventa; l’invenzione non fa più che metterlo in vista sotto il suo aspetto più vero».

La drammatica, come dissi, tardi si sviluppò tra i Greci; e specialmente la commedia regolata e diretta dall’arte venne in luce solo circa il tempo della guerra del Peloponneso, conciossiachè il popolo greco amantissimo e cupido degli spettacoli in antico si contentasse della lotta, della corsa e del pugilato e tutt’al più di qualche lettura o di qualche canto. La ragione ne è semplice assai quanto alla commedia, che è il solo proposito del mio scritto, poichè quando più interi ed incorrotti sono i costumi de’ popoli, la società presenta molto meno il lato ridicolo che è la vena del comico; e gli uomini più sobrii e più temperanti non sono acconcii nè a concepire nè a gustare quell’intreccio di vizio e di virtù, quell’impasto di buono e di cattivo, quel conserto di grave e di faceto che è fondamento alla commedia: laddove nella società stemperata e rimota dalla prisca semplicità (quando la virtù si simula, non si pratica, e il vizio si colorisce e si pallia, non si fugge nè s’abborre), come numerosi sono i burloni ed i bellumori, così a migliaia per giorno nascono i soggetti comici, cui il popolo gradisce ed applaude. In tale stato della società il vizio, che resiste alle censure morali e serie, può cedere ad una lepida commedia in cui sia messa a nudo la sua deformità, e sventati gli accorgimenti ed i raggiri onde cerca mascherarsi ed imbellirsi: quindi il comico può dar lezioni profittevoli di morale sublime, e sotto il velo del ridicolo ascondere un intendimento serio e grave, che otterrà sempre più o meno l’effetto a cui mira. È da confessare per altro che questo modo di correggere i costumi è rischioso assai; e se il poeta non sia savio ed avveduto, può in quella vece corromperli. La commedia cerca correggere il vizio colla rappresentazione del vizio medesimo, come il diamante si taglia col diamante, e il veleno talvolta si cura col veleno, e può accadere non di rado che si insinui la malizia dove non v’è, e che s’accendano le passioni in quella che si crede di attutirle e di spegnerle. Plauto stesso riconobbe questo pericolo inerente alla natura stessa della commedia e disse: Paucas poetae reperiunt comoedias – Ubi boni meliores fiant. La commedia e la tragedia, dice il Bindi, nel volere tagliar la piaga, arrivano col ferro periglioso alcuna parte vitale ed uccidono.

10. I precedenti della Commedia greca. – La commedia non nacque improvvisa; sì fu un parto per lungo tempo bene svolto e maturato, in guisa che da Aristofane fu posto in luce si può dir perfetto. I semi della commedia erano già gittati fin nell’antica epopea, e il correre del tempo, il raffinarsi della civiltà, il rilassarsi della prisca severità de’ costumi li svilupparono ampiamente.

Omero nell’Iliade tiene assai spesso la forma drammatica, etratto tratto t’offre la scena degli eroi che od arringano nella concione, o prima di misurarsi colle armi si lanciano pel capo insulti e villanie, o tessono con lunghe parlate le loro genealogie; mentre Virgilio, per esempio, s’attiene piuttosto alla forma espositiva e descrittiva, e le parlate de’ suoi guerrieri sono brevi. Il comico, dice il Müller, si trova già nell’epica poesia unito in parte con l’epopea eroica, e comici sono l’episodio di Tersite, la scena di Agamennone ingannatore ed ingannato, Marte ferito nel ventre, Giunone che piglia per le braccia Pallade Minerva e la scuote in modo da farle cader la faretra e versare in terra i dardi, ed altre non poche. Vena comica si rinviene ancora in Esiodo.

Ma dove il genere comico è già culto per se medesimo, si è, oltre alla Batrocomiomachia, nel Margite poemetto attribuito ad Omero da Aristotile nella Poetica, il quale lo stima come un primo avviamento alla commedia, a quel modo medesimo che secondo lui l’Iliade e l’Odissea preludono alla tragedia. Pochissimi frammenti, e scarse memorie rimangono intorno a questo lavoro: il Margite incominciava così:

Ἠλθέ τις εἰς Κολοφῶνα γέρων καὶ θεῖος ἀοιδός
Μουσάων θεράπων καὶ ἑκηβόλου Ἀπόλλωνος,
Φίλῃς ἔχων ἐν χέρσιν εὔφθογγον λύρην

Platone nell’Alcib. cita del Margite questo verso: Πόλλ’ἡπίστατο ἔργα, κακῶς δὲ ἡπίστατο πάντα; e Clemente Alessandrino, Strom., I, pag. 281, questi altri due: Τὸν δ’οὔτ’ἄρ σκαπτῆρα θεοὶ θέσαν, οὔτ’ ἀροτῆρα – Οὔτ’ἄλλώς τι σοφόν πάσης δ’ἡμάρτανε τέχνης.

Il Müller da queste poche memorie ricava che nel Margite omerico si rappresentasse una stupidità che reputa se stessa prudenza, poichè di lui è detto: «Molto ei seppe, ma tutto seppe male»; ed un’istoria che ci fu conservata da Eustazio, ne narra che bisognava usare finissime astuzie per indurlo a ciò a cui pur richiedevasi ben poco intelletto. Egli paragona poi questo stolido arciprudente col tedesco Tyll Eulenspiegel, che sotto apparenza di stupidità nascose sottilissima astuzia; e noi il possiamo raffrontare col rinomato Bertoldo che a’ tempi del re Alboino, secondo la leggenda, velando colla zoticaggine maliziosissima astuzia ed accortissima furberia, diede il giambo al re, alla regina e a tutta la corte, e gli accorgimenti e le coperte vie, direbbe Dante, e’ seppe tutte e sì menò lor arte; – Ch’al fine della terra il suono uscie .

Ad Omero si attribuiscono ancora varie piccole epopee scherzevoli come il canto dei Cercopi, la Capra tosata sette volte, il Canto dei tordi, cui narrano Omero cantasse a’ fanciulli per averne dei tordi in ricambio, e la Fornace del Pentolaio.

Archiloco eziandio, come ho detto di sopra, cogli arrabbiati suoi giambi preparava il terreno alla commedia, principalmente all’antica d’indole politica; ed è certo che la satira contribuì assaissimo alla formazione del dramma.

Altra forma che tiene alquanto del drammatico e del comico rivestì la greca poesia, voglio dir l’apologo o la favola di cui i greci furono amantissimi ed inventori fecondi. In essa s’attribuisce ragione e favella alle bestie ed agli enti inanimati a rappresentare col velo dell’allegoria e punzecchiare e mordere i viziosi costumi degli uomini, e con tali ingegnose invenzioni farli riconoscere, loro dicendo a guisa di morale: Stulte, quid rides? mutato nomine, fabula de te narratur. Socrate ghiottissimo qual era della garbata e fine ironia si dilettava moltissimo di questo genere, e narrano che nel tempo della prigionia lavorasse a ridurre in forma poetica le favole esopiane.

Esopo schiavo di Iadmone di Samo, figlio di Efestopoli, che visse 520 anni avanti Cristo, è l’ideale della favola greca. Era rinomato come facile ed ingegnoso narratore di favole, e quindi quante se ne coniarono furono a lui attribuite, e sotto il suo nome arrivarono, a noi, sebben egli probabilmente non ne scrisse una. Che Esopo non sia se non il nome ideale a cui venne attaccato ciò che apparteneva a vari tempi e soggetti, è indicato dalla distinzione delle favole in carie, cilicie, sibaritiche, ciprie, libiche, frigie ed esopiche.

È da notare ancora, cosa che accenna a qualche relazione tra la favola e la commedia, che presso i latini la parola fabula, oltre significare apologo, valse e tragedia e commedia, perchè in queste come in quella s’adoperavano personaggi finti. Ma per questa ragione un tal nome non converrebbe alla commedia antica greca, nella quale i personaggi, principali erano non finti ma veri, reali e viventi, e talora presenti allo stesso spettacolo, come si dirà in seguito.

Da questi semi adunque sparsi qua e là dagli antichi germogliò nella Grecia la commedia, genere nuovo che incontrò il massimo favore nelle fervide fantasie e nel genio festivo e satirico di quel popolo dalla natura sopra ogni altro distinto e privilegiato: e tanto crebbe l’amore degli spettacoli teatrali che a mantenerli ed accrescerli ad essi si volse il denaro dell’erario pagato da tutti gli Stati della Grecia e destinato alla guerra contro il barbaro a tutela della libertà.

11. Se la commedia sia poesia. – Fu un tempo questione se la commedia fosse poema, ed Orazio nella satira quarta del lib. I vers. 45 segg. ne discorre così:

Quidam comoedia nec ne poema
Esset, quæsivere; quod acer spiritus et vis
Nec verbis nec rebus inest, nisi quod pede certo
Differt sermoni sermo merus. Al pater ardens
Sævit, quod meretrice nepos insanus amica
Filius uxorem grandi cum dote recuset,
Ebrius et magnum quod dedecus, ambulet ante
Noctem cum facibus. Nunquid Pomponius istis
Audiret leviora, pater si viveret? Ergo
Non satis est puris versum perscribere verbis,
Quem si dissolvas, quivis stomachetur eodem
Quo personatus pacto pater. His, ego quæ nunc
Olim quæ scripsit Lucilius, eripias si
T empora certa modosque, et quod prius ordine verbum est,
Posterius facias præponens ultima primis,
Non
(ut si solvas Postquam discordia tetra
Belli ferratos postes portasque refregit)
Invenias etiam disiecti membra poëtæ.

Dalle quali parole del Venosino parrebbe insinuarsi che la commedia non sia poesia, sebbene egli non lo decida promettendo di trattarne altra volta, il che poi non fece, o se il fece, tale scritto non giunse fino a noi. E di vero, dice, nella commedia non è nè forza nè concetto poetico, ma ogni cosa procede semplice e piana al modo che suol avvenire nel comune andazzo della vita privata e domestica, dalla quale, si direbbe, al tutto è bandita la poesia; e se tu mi togli l’artifizio esteriore del metro invertendo l’ordine de’ piedi e delle parole, la ti tornerà prosa schietta e talvolta anco di quella anzi bassa che no ed ordinaria. Che se talvolta un padre irato, come Demea negli Adelfi di Terenzio, rampogna amaramente e fa tragedie in capo al fratello ed al figliuolo, o se Creme nell’Eautontimorumenos s’adira con quello scapato di Clitifone et tumido delitigat ore, non per questo si ha poesia, sebbene vocem comoedia tollit (Ad Pis. 93-94); poichè, dicea quivi Flacco, un padre qualunque a queste strette si leva in capo così, e mena tanto fracasso quanto il padre della commedia; sicchè questo non esce ancora dalla cerchia della prosaica vita ordinaria. Poesia, secondo lui, è soltanto quando anche scompaginato e distrutto il verso, rimane tuttavia la frase ed il concetto poetico quasi membra sparse del poeta dilacerato, come nell’esempio che e’ reca di Ennio. Il qual pensiero di Orazio par favorire la commedia in prosa, contro cui si scatenò la immensa schiera de’ pedanti che venera ed adora l’antico, solo perchè è antico, e fino gli errori ed i solecismi giustifica chiamandoli figure grammaticali. Pure la commedia in prosa si fe’ strada tra noi fin dal secolo XVI; e nel XVIII ottenne maggior riputazione per Carlo Goldoni. Una delle ragioni per cui gli antichi la verseggiarono si è certamente che nell’ampiezza e vastità de’ teatri in cui raccoglievansi a migliaia gli spettatori, richiedevasi tal pronunzia nitida, chiara, vibrata, ed armonica quale acconciamente viene somministrata dal verso. Del resto se si eccettua Aristofane, che a volte spicca voli veramente poetici, e si vale d’uno stile elevato e concettoso, gli altri comici e specialmente Plauto e Terenzio batton le ali terra terra, ed i loro versi pieni di quelle che addimandansi licenze poetiche s’accostano moltissimo alla prosa.

Alla stessa questione, se cioè la commedia sia poema, così risponde il sig. Marmontel: On demande si la comédie est un poème; question aussi difficile à résoudre qu’inutile à proposer, comme toutes les disputes de mots. Veut-on approfondir un son, qui n’est qu’un son, comme s’il renfermoit la nature des choses? La comédie n’est pas un poème pour celui qui ne donne ce nom qu’à l’héroïque et au merveilleux; elle en est un pour celui qui met l’essence de la poésie dans la peinture. Un troisième donne le nom de poème à la comédie en vers, et le refuse à la comédie en prose, sur ce principe que la mesure n’est pas moins essentielle à la poesie qu’à la musique. Mais qu’importe qu’on diffère sur le nom; pourvu qu’on ait la même idée de la chose? L’Avare, ainsi que le Télémaque sera, ou ne sera point un poème; il n’en sera pas moins un ouvrage excellent. On disputoit à Addison que le Paradis perdu fût un poème héroïque: Hé bien, dit il, ce sera un poème divin.

In quanto dunque la commedia è verseggiata, si può dir poesia nel senso più ampio della parola, vale a dire in quanto alla forma estrinseca; in quanto poi al concetto ella è un ritratto fedele della vita ordinaria e comune degli uomini, e come tale è un genere di componimento utile, dilettevole ed eccellente, ma prosaico. Eccettuerò tuttavia l’antica commedia greca, la quale poco o nulla ritrae dalla vita privata; immaginosa e spesso stravagante ridonda di vivacissime fantasie, di pensieri elevati, di concetti sublimi, e senza aver quasi intreccio, col brio, colla vivacità e coll’arguzia, onde a così dir scintilla da capo a fondo, piace ed alletta, e s’innalza a stato di vera poesia. Quindi Aristofane sarebbe l’ideale del vero poeta comico.

12. De’ generi della commedia. – La commedia fu dai moderni distinta in commedia d’intreccio o d’intrigo, ed in commedia di carattere. La prima sarebbe quella che tutta s’aggira in una serie di fatti e di avvenimenti prodotti dal caso e dall’astuzia, che formano un viluppo e presentano ai personaggi del dramma ostacoli da vincere e difficoltà da superare, finchè l’intreccio poco a poco e con naturalezza si svolge, e si diviene ad un lieto scioglimento che sia consentaneo all’intreccio e quasi in esso precontenuto. La seconda invece si è quella in cui il poeta piglia, mediante una sottile investigazione del cuore e delle passioni umane, a tratteggiare e dipingere un carattere qualunque, e mette in sulla scena un personaggio nel quale accumula tutti gli atteggiamenti e tutte le proprietà di quel carattere, operando con destrezza che l’intreccio serva unicamente come d’una molla che scatta e dà movimento al carattere, sì che erompendo in atto si manifesti. Tali sono le più belle commedie del Molière, filosofo profondo ed egregio pittore, ristoratore in Francia, nel secolo di Luigi XIV, del teatro comico; come l’Avaro, il Misantropo, la Donna sapiente, il Tartufo. Nella commedia d’intreccio come nella tragedia lo scioglimento è necessario ed essenziale, e deve rispondere e proporzionarsi all’intreccio; laddove nella commedia di carattere lo scioglimento è cosa secondaria come secondario è l’intreccio; onde che Arpagone avaro, dice il Batteux, ceda la sua amata per riavere la sua cassetta, non è altro che un tratto d’avarizia di più, senza il quale sussisterebbe ancora tutta la commedia.

Gli antichi non conobbero codesta distinzione, e le loro commedie presentano l’uno e l’altro genere unito e saviamente concertato insieme, come p. e. nel Miles gloriosus di Plauto tu rinvieni l’intreccio in cui tendesi a cavar di mano al soldato la Filocomasia e ci si riesce, e ad un tempo il piacevolissimo carattere del soldato spaccone che si crede e si dà per l’Ammazzasette, e quanto a bellezza si spaccia per nipote di Venere; il qual carattere forma poi ridevolissimo contrasto colle busse e colle bastonate che il vecchio Periplecomene gli fa appoggiare, e colle suppliche e raccomandazioni ch’egli a lui porge, affinchè non gli si faccia un tratto ziffe e piazza pulita con quel tal coltello di Carione. Così ancora nell’Aulularia il carattere di Euclione avaro; in Terenzio nell’Eunuco il soldato Trasone e l’adulatore Gnatone; negli Adelfi i caratteri opposti di Mizione e di Demea; quello spensierato, sfarzoso, indulgente; questi piangolone, tirchio, severo, brontolone, ecc.

13. Origini prossime della Commedia e della Tragedia. – Venendo ora alle origini prossime della commedia vediamo quello che Orazio ne dice nell’Ep. I del lib. II:

Agricolæ prisci, fortes parvoque beati,
Condita post frumenta levantes tempore festo
Corpus et ipsum animum spe finis dura ferentem,
Cum sociis operum, pueris et conjuge fida,
Tellurem porco, Silvanum lacte piabant,
Floribus et vino Genium memorem brevis ævi.
Fescennina per hunc inventa licentia morem,
Versibus alternis opprobria rustica fudit,
Libertasque recurrentes accepta per annos
Lusit amabiliter, donec jam sævus apertam
In rabiem coepit verti jocus, et per honestas
Ire domos impune minax. Doluere cruento
Dente lacessiti; fuit intactis quoque cura
Conditione super communi; quin etiam lex
Pœnaque lata, malo quæ nollet carinine quemquam
Describi: vertere modum formidine fustis
Ad bene dicendum delectandumque redacti.

In questi versi di Orazio sono compendiosamente descritte le origini e le vicende della commedia greca e latina. Essa, come la tragedia, ebbe nascimento fra gli agricoli in occasione delle feste sacre a Dioniso, o Bacco, ed appellate Dionisie, Liberali, Lenee, ma principalmente di quelle autunnali che celebravansi dopo la vendemmia. I villani, finiti i lavori della campagna e riposto il prezioso liquore della vite, di cui riconoscevano benefico largitore Bacco, in esso simboleggiando il sole, che si fa vino – Giunto all’umor che dalla vite cola , s’abbandonavano alle più vive e pazze allegrie del mondo. Dopo gli stravizzi di allegri conviti, esordivano cori a Bacco, i quali con canti e con danze contadinesche ne dicevano le lodi, ed inalberato il Φάλλος emblema della forza produttiva della natura sacro a Dioniso non meno che a Priapo, ordinavano chiassose processioni che a lume di fiaccole si producevano per tutta la notte. In queste processioni per dar riposo al coro che cantava il Ἴακχος od inno bacchico, que’ villani avvinazzati, che avean sbrigliato l’umor faceto, e sciolto lo scilinguagnolo, cominciavano a proverbiarsi e dirsi villania a vicenda scherzando assai grossolanamente sui difetti fisici e morali l’uno dell’altro, ed eccitavano così il riso ed il plauso della brigata. Intrecciavano altresì alla salacità dei motti danze più salaci ancora; e forse anche di qui ebbe origine quella danza del coro comico detta κόρδαξ sì sucida ed indecente, cui Aristofane, tutt’altro che castigato e scrupoloso, vantavasi d’aver tolto dalla commedia, lodando la sua che οὐδὲν ἦλθε ῥαψαμένη σκύτινον καθειμένον – ἐρυθρὸν ἐξ ἄκρου, παχύ, τοῖς παιδίοις ἵν’ ῇ γέλως· – οὐδ’ ἔσκωψε τοὺς φαλακρούς, οὐδὲ κόρδαχ’ εἵλκυσεν, e di cui avrebbe arrossito qualunque Ateniese onesto a ballarla senza essere briaco e col viso tinto; onde Teofrasto descrivendo il carattere dello sfacciato e temerario dice che senza essere ubriaco è capace di ballare il cordace in un coro comico: Ἀμέλει δυνατὸς καὶ ὀρχεῖσθαι νήφων τὸν κόρδακα καὶ προσωπεῖον μὴ ἔχων ἐν κωμικῷ χορῷ. Di qui si vede che il dialogo presso que’ villani non era che parte secondaria al coro e trovato unicamente per dar agio ai cantori di riposarsi e pigliar fiato, mentre poi nella commedia passò ad avere la prima e principal parte confinando il coro al secondo luogo.

Che tale sia stata l’origine della commedia, oltre all’unanime testimonianza degli antichi critici ed eruditi, raccogliesi ancora dall’etimologia della parola, poichè κωμῳδία si compone’ di κώμος e di ᾠδή, e κώμος significa in primo senso appunto questa sorta di processioni che si facevano alle feste od orgie di Bacco, ed in secondo festino, stravizzo, gozzoviglia e che so io, d’onde il latino comissatio o comessatio e Comus dio dei conviti e dei piaceri. Altri non da κῶμος derivano κωμῳδία, ma da κώμη, che significa borgo, villaggio vicino alla città, e quindi spiegano canto del villaggio, supponendo che quando i contadini ricevevano alcun’offesa od ingiustizia da qualche cittadino, venissero in corpo alle porte della città a far baccano, ed una specie di serenata d’insulti e di vituperi. A me per altro quadra più la prima, la quale ha anche il suffragio di Aristotile che nel IV della Poetica dice aver avuto origine la commedia ἀπὸ τῶν ἐξαρχόντων τὰ φαλλικά, cioè da coloro che presiedevano e conducevano queste feste e questo κώμος in cui si portava il φάλλος. Cotali feste presso i greci erano quello che appo noi il carnovale, in cui ciascuno, appoggiato alla massima che semel in anno licet insanire, crede di poter fare le più pazze stravaganze del mondo, e sfogar un tratto tutta l’allegria cui la serietà delle occupazioni lungo l’anno gli tien chiusa in corpo; e quindi non è maraviglia che siffatti canti e dialoghi avessero dello strano, del matto, del bestiale, e fossero quali si convengono a briachi.

14. La Tragedia, e primi saggi della Commedia. – Il culto di Bacco adunque fu fecondo d’un doppio portato, della tragedia e della commedia, che pigliate da esso le mosse s’avviarono per strade diverse e contrarie, quella scostandosi dalla trivialità della nascita e sollevandosi alle alte regioni del bello ideale, questa mantenendo sempre quel brio, quel faceto, quel sale onde fu nel suo nascere improntata.

Prima ad aver forma certa e determinata fu la tragedia per opera di Tespi, cui Orazio dà il merito dell’invenzione:

Ignotum tragicæ genus invenisse Camenæ
Dicitur et plaustris vexisse poëmata Thespis
Quæ canerent agerentque peruncti fæcibus ora.

Costui pose gli attori sopra d’un carro che serviva di palco scenico, ed insegnato loro ad accompagnare il canto col gesto andava attorno facendo rappresentazioni; ma probabilmente egli non fu inventore, sì soltanto riformatore della tragedia, come par che accenni Plutarco nella vita di Solone, dove dice che Tespi aveva cominciato a cangiar la tragedia, e che gli uomini venivano tratti dalla novità introdotta in cotali rappresentazioni , e prima di lui altri avevano tentato questo genere, e sedici se ne annoverano dal Giraldi. Le finzioni tragiche di Tespi non garbarono a quel grande legislatore di Atene che fu Solone, il quale considerando come la finzione e la menzogna teatrale avrebbe potuto viziare i costumi insinuandosi ancora nelle cose serie, non solo le interdisse, ma di più diede a Tespi il bando dalla città, e quindi quel carro drammatico tornò a vagare per i villaggi e per le castella a sollazzo della gente del contado.

Un secolo appena dopo Tespi sorse Eschilo prode guerriero nei campi di Maratona, il quale portò la tragedia all’apice della perfezione, inventò la maschera, e die’ al teatro una forma stabile:

Post hunc (Thespin) personæ pallæque repertor honestæ
Æschylus et modicis instravit pulpita tignis,
Et docuit magnumque loqui nitique cothurno.

Ad Eschilo tennero dietro Sofocle ed Euripide: e qui la tragedia chiuse l’epoca sua gloriosa di grandezza e di perfezione, in modo che già Aristofane nelle Rane ne annunzia e lamenta la decadenza; nè trovò presso i Latini degni imitatori, poichè Seneca a pezza rimase addietro ai Greci. Il risorgimento di essa fu riservato alla Francia in Corneille, e all’Italia in Vittorio Alfieri.

La commedia secondo Aristotile ebbe da principio una vita nascosa e non fu presa in sul serio nè riguardata come importante. Il primo che si ricordi è un tal Susarione, che, dice il Müller, avrebbe gareggiato con un coro d’Icarii, che s’imbrattavano di feccia il volto, pel solo premio di una cesta di fichi e d’un’anfora di vino. Questo Susarione era megarese di Tripodisco, onde confermasi la tradizione che non tra gli Attici propriamente avesse origine la commedia, ma tra i Dori, alle cui colonie appartenne anche l’antico comico siciliano Epicarmo, di cui dirò fra poco, e nei quali, dice ancora il Müller, si celavano alcune faville di comica arguzia, che poi lanciate ne’ suscettivi animi di altri popoli dorici ed attici, a così veloce accrescimento scòrsero il comico genio.

15. Della Commedia formata, e primamente in Sicilia. – Ma lasciando oggimai il discorso delle antichissime origini della commedia, che sono incerte ed avvolte nell’oscurità di tanti secoli, è da dire ora della commedia già formata, regolata, e retta dal freno dell’arte.

E qui ci ricorre una gloria italiana, poichè la commedia sistemata e ben definita trovasi in Sicilia una generazione innanzi alla commedia attica. Quivi essa rappresentavasi in Selinunte colonia di Megara, e ricordasi un Aristosseno che ne compose nel dialetto dorico, quindi Formide, Epicarmo, ed il suo figliuolo Dinoloco. Di Formide non si sa nulla se non che fu il primo a vestire gli attori della veste talare detta dai Greci ποδήρης. Epicarmo contemporaneo di Eschilo e di Pindaro fiorì circa l’olimpiade LXXIV 488 anni avanti l’êra volgare; egli era nativo dell’isola di Coo, ma da piccolino ne emigrò col tiranno di essa Cadmo, e venuto in Sicilia stabilissi in Megara, d’onde, presa questa città da Ierone passò a Siracusa. Di Epicarmo fa l’elogio Platone che si valse di alcune sue sentenze, e Cicerone che lo chiama acuto e non insipido, citandone questo verso tradotto: Emori nolo, sed me esse mortuum nihil æstimo ; ed altrove cita di lui quest’altro verso: Νῆφε καὶ μέμνασ’ ἀπιστεῖν, ἄρθρα ταῦτα τῶν φρῶν.

Questo poeta filosofo compose di molte commedie; di trentacinque delle quali ci rimangono i titoli, da cui si può arguire che alcune di esse fossero commedie così dette di carattere, onde Plauto tolse probabilmente quelle pitture sì vive e risentite, e quel pennelleggiare i caratteri da maestro ed a colpo sicuro. Presso Ateneo VI, 28, troviamo un frammento in cui con verità di disegno e con franchezza di colorito dipinge così il parassito : «Mi basta un cenno per correre ad un convito, nè cenno aspetto per presentarmi dove si fa nozze; sciorino lodi sperticate a colui che mette tavola, e chi lo contraddice tratto da nemico e svillaneggio; e ben cioncato e meglio mangiato me ne vo. Non ho ragazzo che mi scorga per la via con la lanterna, e soletto nel buio, e barcollando ad ogni passo m’affretto verso casa. Se m’imbatto nella ronda, giuro di non aver fatto nulla di male; eppure essi mi caricano di mazzate. Fiaccato dalle busse arrivo a casa, e mi sdraio su d’una pelle, e non sento il dolore finchè la forza del vino mi grava l’anima e la mente».Ex uno disce omnes, e questo poco ci rivela quanto maestrevolmente Epicarmo maneggiasse il pennello; ed insieme l’indole della sua commedia, la quale più che coll’attica antica ebbe affinità colla media e colla nuova. Non v’ebbe in essa alcun sentore di politica, poichè il mordere i reggitori della cosa pubblica, mettere in canzonella i magistrati, e scoprir le magagne della Signoria non era in Sicilia come nella democrazia di Atene un’impresa da pigliarsi a gabbo e da passarsela impunemente, chè sotto la tirannide di Ierone ne poteva andare la vita. Quindi, Epicarmo si contenne dentro i limiti della vita privata contentandosi di mettere in ridicolo i vizii in generale del comune degli uomini, e sferzare dove non era pericolo di toccarne in ricambio. Intrecciò ancora all’ordito delle sue favole speculazioni filosofiche, ed espose dottrine metafisiche; ma riesce quasi inconcepibile come si potesse consertare insieme colla frivolezza e colla nugacità della commedia la ponderosa gravità della filosofia, e nondimeno facesse bella prova. In Sicilia altresì ebbe origine un’altra sorta di drammi comici detti Mimi od Etologie, che dapprima furono a guisa d’intermezzi alla commedia, come i drammi satirici alla tragedia, e poscia da essa staccatisi diventarono drammi comici a parte. Inventore di essi si dice un tal Sofrone di Siracusa che in essi rappresentò azioni morali in forma dialogica scevre da quell’oscena e vituperosa licenza che in seguito insucidò il teatro; onde Platone, il quale poi non aveva troppo genio co’ poeti, e guardavali come corrompitori della morale, recò di Sicilia i libri di Sofrone, e narrasi che alla sua morte gli si trovassero sotto il capezzale. Questi mimi passarono poi ai Latini, come vedremo, ma non vennero loro dai Greci, sibbene, come sembra, dagli Osci.

16. Della Commedia Attica e prima dell’antica. – Venendo ora alla commedia attica, dirò che essa si divide secondo i grammatici Alessandrini in antica, media e nuova.

Orazio della prima dice essere ella succeduta alla tragedia: successit vetus his comœdia non sine multa – Laude ; ed altrove ne disegna l’indole acre, e satirica:

Eupolis atque Cratinus Aristophanesque poëtæ
Atque alii, quorum comœdia prisca virorum est,
Si quis erat dignus describi quod malus aut fur,
Quod moechus foret, aut sicarius, aut alioqui
Famosus, multa cum libertate notabant.

Questa commedia antica ebbe un’indole al tutto particolare, e sola se ne rimane senza esempio nè prima nè poi nella storia letteraria, ristretta per di più nella sola repubblica Ateniese. Essa molto ritiene delle orgie bacchiche e del κῶμος, che ne fu, come ho osservato, quasi la culla, inquantochè ne conservò la mordace dicacità e la licenziosa e sbarbazzata maldicenza, e le sue invettive diresse senza alcun riguardo o ritegno contro i governanti, i pubblici personaggi, i magistrati, mettendone a nudo la viziosa ed immorale condotta, il pravo e dannoso reggimento, i giudizii compri e venduti, e buttandone nel fango le virtù, se pure alcuna ne avevano. Il popolo a questi spettacoli rideva squaccheratamente ed applaudiva a chi metteva a fascio gli Dei, gli uomini, le leggi, i costumi, le istituzioni e di tutto si burlava e motteggiava. Cicerone mostrasi di sì sfrenata licenza scandalezzato e giustamente sdegnato: «Quem illa, dice, non attigit? vel potius, quem non vexavit? cui pepercit? Esto, populares homines, improbos in rempublicam, seditiosos, Cleonem, Cleophantem, Hyperbolum læsit, patiamur; etsi hujusmodi cives a censoribus melius est quam a poeta notari. Sed Periclem, cum ita suæ civitati maxima auctoritate plurimos annos domi et belli præfuisset, violari versibus et eos agi in scena non plus decuit, quam si Plautus noster voluisset aut Nævius Publio et Gneo Scipioni aut Cæcilius M. Catoni maledicere». A leggere le commedie di Aristofane ti pare avere alle mani certi giornali dei nostri giorni e di quei paesi dove la stampa è libera; cominciando dagli Dei e dal governo e venendo fino ai letterati tutto è malmenato, cuculiato, deriso in modo e stile anche più virulento e certo più sconcio e più da bordello, che non si usi oggidì contro la religione e le politiche istituzioni. Se i giornali moderni giovino e rechino dei vantaggi alla società, massime quando non sieno contenuti dentro certi limiti, io non dirò, che non appartiene al mio istituto; dirò bene che la prisca commedia nulla approdò a correggere e migliorare nè i costumi nè la costituzione politica di Atene; palesò forse indecentemente il reale, ma non vi portò opportuno rimedio, e non valse a ritardare d’un istante la caduta della libertà e dell’indipendenza republicana che andava a precipizio, e presto soggiacque all’emula Sparta, domata e spenta da Lisandro e dai trenta tiranni. Se mai fu vera la sentenza di Carlo Botta che in verità le repubbliche sono matte, fu in Atene verissima, poichè non si può comprendere come fosse lecito al poeta comico erigersi in censore universale, e dispensare e sparnazzare vituperii sulla scena a cui gli talentasse, ed il teatro cambiare in tribunale dove si citava e si giudicava per via di motteggio e di scherzo amari e con beffa sanguinosa, mettendo a repentaglio l’autorità dei reggitori, la tranquillità e la sicurezza dei privati cittadini e la pubblica morale ed onestà. In verità gli Ateniesi erano matti, perchè superbi, spavaldi, invidiosi l’uno dell’altro; ed ognun sa come giuocassero d’ostracismi, frivoli, leggieri, curiosi ed amanti di novità; liberi e in pace dallo straniero si davano in capo tra loro e rodeansi come cani rabbiosi: per conseguenza la commedia fu dell’indole e natura loro, fedele ed espressivo ritratto di un popolo, che al dir di Plutarco «come rigoglioso cavallo insolentiva, nè comportava più di obbedire ai magistrati, e mordeva l’Eubea e spiccava salti nell’isole».

Si potrebbe domandare come e perchè la commedia godesse sì ampia e sconfinata licenza, nè a frenarla s’adoperasse alcuna censura, permettendo che il poeta comico a talento mettesse al pallio, caricandola d’insulti, qualunque persona gli venisse bene. Non so se da ammirare o da riprendere sarebbero e Pericle e gli altri magistrati supremi se per tolleranza e per bonarietà avesser lasciato calpestare la maestà delle leggi, ed a se stessi dar così il giambo su pei teatri. Il p. Brumoit stima che per politica si lasciasse imperversare la commedia, perchè i capi della repubblica preferivano che il popolo ridesse e scherzasse intorno alla loro amministrazione, anzi che la togliesse ad esaminare e notare in sul serio; altri dissero che gli Ateniesi perdonavano di buon grado a chi facesse mostra di spirito arguto e lepido e li muovesse al riso. Ma queste risposte non mi sembrano appaganti gran fatto, tanto più che si sa non essere stati sì indulgenti i magistrati Ateniesi da lasciar celiare a capriccio ed impunemente di sè e della cosa publica, poichè condannarono a morte Anassimandro per un solo verso satirico assai meno caustico ed offensivo di quelli di Aristofane: non altro avendo fatto Anassimandro che parodiare questo verso di Euripide: Ἡ φύσις ἐβούλετ’ ἤ νόμων οὐδὲν μέλει: la natura il volle a cui nulla importa delle leggi, e sostituire alla parola φύσις la parola πόλις in guisa che il senso fosse: La città ossia il magistrato il volle a cui nulla importa delle leggi: nè di natura gran fatto benigna e paziente dovette essere Alcibiade se vero è, come dice lo Schlegel, che facesse affogare Eupoli per punirlo d’aver diretto contro di lui una satira dialogizzata. È d’uopo per rispondere a questa questione ritornarsi alla mente quello che ho detto di sopra delle origini della commedia. Si è veduto ch’essa appartenne ad una sacra funzione esclusivamente propria del culto di Bacco. Or bene anche in seguito mantenne questo carattere, e fu parte delle solennità Panatenaiche a cui convenivano tutti i popoli della Grecia. Il teatro dunque godette, si direbbe, come luogo sacro, del benefizio d’asilo e d’immunità, ed all’ombra protettrice del tempio scaraventò lazzi, ingiurie e calunnie senza distinzione di cose nè di persone, non risparmiandola neppure agli Dei tutelari ed alla religione che lo salvava dalle leggi. Nonostante ciò, del tutto non furono franchi e sicuri i comici dai birri e dalla ragione, il che si dimostra dal fatto di Eupoli pur ora accennato, e da un altro riguardante i Cavalieri di Aristofane. Trattavasi in questa commedia di rovesciar Cleone, uomo volgare e violento, salito dopo la morte di Pericle al potere, ed idolo adorato del popolazzo; ma niun fabbricatore di maschere ebbe il coraggio di foggiarne una che rappresentasse il formidabile demagogo, onde Aristofane stesso dipintosi il viso fece la parte di questo personaggio, e seppesi nell’azione destreggiare in modo, non lo nominando mai, che ne cavò salva la pelle.

Diretta com’era la commedia antica alla satira politica ed a mordere e trafiggere i personaggi viventi, non ha, si può dire, un intreccio ben connesso e ben disposto che vada via svolgendosi e tendendo ad un fine corrispondente e proporzionato al principio, nè caratteri scolpiti e sostenuti fino al termine; ma cominciando con bizzarre ed allegre fantasie procede sostenendosi per buon tratto, e scintilla di vivacità e di brio; poi verso il finire decade e si raffredda: nervi deficiunt animique, direbbe Orazio, non sibi constat, ed è soggetta talora a dare fumum ex fulgore, ed a mancare alla legge: primo ne medium, medio ne discrepet imum. «In generale, dice lo Schlegel, l’antica commedia era esposta al pericolo di rallentarsi nel suo cammino. Quando si comincia dal maraviglioso, quando si dipinge il mondo volto sossopra, i più straordinarii avvenimenti si offrono tosto da sè; ma non è possibile che questa prima vivacità si sostenga, e tutto par debole in confronto dei grandi colpi vibrati a prima giunta dallo scherzo».

Alcuni hanno riguardato l’antica commedia come informe e rozzo primordio d’un’arte che venne poi mano mano perfezionandosi fino a toccare nella commedia nuova il perfetto ideale comico, tra i quali Barthélemy, Voltaire, gli Enciclopedisti e in generale i critici francesi; altri invece l’ebbero in conto di sola originale e veramente poetica, tenendo le altre, dice il Cantù, per ripieghi e surrogati, finchè dopo breve vita questo genere finisce non per inanizione, bensì di morte violenta; tra cui lo Schlegel, il quale dimostra la commedia nuova non essere che una modificazione secondaria dell’antica, più vicina alla prosa ed alla realtà. Egli concepisce la commedia come formante un totale contrasto con la tragedia, anzi una parodìa di essa, come il poema eroicomico è parodìa dell’epopea eroica, ma più efficace e più gagliarda in quanto che non si trasporta, come il poema, nel passato, ma rinnova e rende presente l’oggetto che offre alle risa degli spettatori, e la finzione che ella rappresenta prende dall’azione teatrale una cotal realtà per i nostri sensi. Tanto più dovette ai Greci essere forte e sentito il contrasto, e più potente la comica e stravagante imitazione della tragedia, in quanto che vedevasi rappresentato col medesimo apparato di decorazioni su quello stesso teatro dove prima s’era assistito alle truculente e luttuose scene della tragedia. Dicendosi la commedia essere parodìa della tragedia non è già da intendere che quindi quella prendesse da questa l’oggetto parodiato, poichè la commedia è una finzione non meno originale della tragedia, nè meno di essa indipendente da qualsivoglia relazione esterna: la tragedia è ciò che si conosce di più serio nella poesia, e la commedia ciò che vi ha di più allegro. Secondo lo Schlegel adunque la commedia non è già parodia d’una tale o tal altra tragedia, chè allora non sarebbe che una contraffazione ed una caricatura, ma l’ideale comico è la parodìa dell’ideale tragico: in questo senso, unico scopo del poeta comico si è quello di destare l’allegria negli spettatori coi più vivi, più svariati e più rapidi giuochi d’immaginazione e di fantasia, rimosso ogni intreccio che senta del serio, ed ogni fine determinato, d’ogni cosa non presentando che il lato ridicolo. Intesa così, lo Schlegel ha tutte le ragioni di riguardar l’antica commedia come la sola perfetta e poeticamente originale, poichè la nuova e le altre che in seguito da essa fecero ritratto, sebbene presentino qualche allegria, come dice egli stesso, nel contrasto dei caratteri e delle situazioni, tuttavia in mezzo alla piacevolezza che vi si sparge, la forma della composizione è seria, cioè a dire, tutto in essa tende ad uno scopo prefisso che non si perde di vista, e quindi devia dall’ideale comico secondo il quale altro scopo non vi ha che l’allegrezza medesima.

A me non spetta decidere questioni e trinciar sentenze, ma se avessi da mettere fuori il mio debole parere, io direi di sentirla collo Schlegel, e di collocare tutto lo scopo della commedia in un onesto divertimento prodotto da un intreccio di poetiche fantasie vivaci e brillanti congegnate saviamente tra loro secondo le regole dell’arte. Io so che molti dànno per fine primario alla commedia l’istruire piacevoleggiando, e correggere il vizio colla beffa e col motteggio, ma chi consideri nulla nulla la natura degli uomini e delle cose s’accorgerà di leggieri come questo fine sia quasi non conseguibile, e nel fatto poi non si raggiunga mai, poichè niuno usa a teatro per far l’esame di coscienza e riformare i costumi; chè per questo sceglierebbe luogo e tempo più acconci e più opportuni; sì invece per passare qualche ora allegramente e ridere di cuore. Ora dare ad un componimento, un fine che sempre è frustrato mi pare opera inutile ed assurda, epperò direi essere perfetto quel poeta il quale a non altro riuscisse che a dilettare e divertire con invenzioni feconde e con azione bene assortita. Nè la commedia scapita per questo nella sua importanza e dignità, poichè il divertirsi onestamente e sollevare l’animo dalle serie occupazioni della vita mediante un’allegria ed un riso che non ecceda i limiti prescritti dalla morale è cosa onesta, lecita e necessaria; ed opera lodevole e buona compie chi acconciamente provveda a questo bisogno. Del resto poi dirò con Orazio che adhuc sub judice lis est, e non è niente mia intenzione di pregiudicarla e di deciderla, rimettendo anzi il tutto al giudizio del savio lettore.

17. Del coro nella Commedia antica. – Ritornando ora all’antica commedia è da osservare che tra le altre sue proprietà distintive ebbe quella del coro composto di ventiquattro persone, che raccolto intorno agli scaglioni della θυμέλη non lasciava mai vuota la scena; ma non tutti parlavano, e talora non parlava che un solo a nome di tutti, come si raccoglie e dalle commedie di Aristofane e da un frammento di Menandro: . . . Τῷ χόρῳ

Οὐ πάντες ᾄδουσι, ἀλλ’ ἄφωνοι δύο τινες

Ἤ τρεῖς παρεστήκασι πάντων ἔσχατοι

Εἰς τὸν ἀριθμόν.

Nelle commedie di Aristofane il coro è spesso composto di enti fantastici e stravaganti, come di nubi, di rane, di uccelli, di vespe ecc., nelle singole commedie che portano questi nomi, onde spesso la scena risuonava del pigolìo d’uccelli, del gracchiar delle rane, ed anche del grugnire del porco, come scorgesi nel Pluto dove Carione invita il coro a seguirlo grugnendo a guisa di porcelli; ὑμεῖς δὲ γρυλλίζοντες ὑπό φιληδίας ἕπεσθε μητρὶ χοῖροι. Egli è naturale, dice il Müller (c. 37), che non dobbiamo figurarci questi cori come composti di veri uccelli, di vespe, ecc. ma, per ciò che risulta dalle molteplici allusioni del poeta, erano come un miscuglio della forma umana con varie aggiunte della forma degli esseri sopra nominati; il poeta poi faceva suo studio che più specialmente venisse in mostra quella parte della maschera che più era importante, e per la quale appunto ell’era stata scelta: così p. e. nelle vespe che dovevano rappresentare lo sciame dei giudici ateniesi, la parte principale fu l’aculeo delle vespe rappresentativo dello stilo con cui scrivevano i giudici il segnale del loro voto nella tavola di cera: e queste vespe giudici vedevansi andar confuse ronzanti e susurranti, ora protendendo ed ora ritirando un grande spiedo, che, come fosse il pungolo, avevano al loro corpo attaccato. Gli ufficii del coro nella tragedia ci sono descritti da Orazio, ed erano quali si convenivano alla gravità ed alla serietà del dramma, laddove nella commedia esso fu la parodìa, il contrapposto del coro tragico; rappresentando d’ordinario il popolo, ne ritiene anco il carattere, quindi ridonda spesso di beffe e d’insulti personali diretti anche contro gli spettatori medesimi, cui talvolta segnava a dito tra la folla; anzi pare che quasi soltanto nella maldicenza Orazio facesse consistere l’ufficio del coro comico dove dice che vietato essendo per legge di notare e bollare alcuno in particolare sulla scena, il coro ammutolì e fu abolito: chorusque Turpiter obticuit sublato jure nocendi . Vero è che talora inseriva qualche buona sentenza e qualche utile ammaestramento tra le molte frivolezze e salacità, come nelle Nubi (v. 961 seg.) il δίκαιος, che era parte del coro, lamenta la corruzione a cui era giunta la gioventù ateniese, e richiama gli antichi esempi della prisca sobrietà e continenza; ma queste buone massime e sono rare, e di più contaminate da un linguaggio tolto al bordello, come si può vedere quivi stesso nei versi citati, cui io mi vergognerei di recare.

Parte principale del coro si era poi la parabasi così detta dal piegare che faceva e scostarsi dalla θυμέλη, e procedendo a schiere traversare il teatro, e ciò faceva verso la metà della commedia fra la prima parte d’intreccio e la seconda di svolgimento. La parabasi era un pezzo estraneo alla commedia, che d’ordinario faceva l’ufficio che fece poi il prologo nella commedia latina; in essa il poeta volgeva il discorso agli spettatori e ragionava di sè lodando le sue commedie, e purgandosi dalle accuse e dalle calunnie; come p. es. Aristofane nelle Nubi, v. 538, vantava i suoi meriti verso la repubblica, e dava consigli e suggerimenti come negli Acarnesi, v. 723 e 648; nè risparmiava anche la frusta ai suoi avversarii. La parabasi cominciava con una breve canzone in anapestici o trocaici detta κομμάτιον cioè piccolo κόμμα o periodo, e chiudevasi con una lirica in lode di qualche Iddio, a cui si aggiungeva un’altra parte di sedici trocaici per l’ordinario detta ἐπίῤῥημα cioè aggiunto di parole contenente qualche lamento o rimprovero burlesco, o qualche ingegnosa tirata contro il popolo; la strofa lirica poi e l’ἐπίῤῥημα si ripetevano antistroficamente. La parabasi è un’esatta imitazione del κῶμος e delle falliche processioni di cui si è parlato, e conferma quanto ho detto intorno alle origini della commedia.

18. Della forma del teatro antico. – Ora, prima di dare qualche cenno intorno ai poeti dell’antica commedia, stimo opportuno e non discaro al lettore l’esporre in breve alcunchè intorno alla parte materiale del teatro, cioè la forma del teatro medesimo, e la maschera di cui fe’ uso e l’antica e la nuova commedia, il che cercherò di fare il più brevemente che mi sia possibile.

Il teatro presso i Greci, come ancora presso ai Romani, era allo scoperto, e le rappresentazioni si facevano di giorno; nè l’uso di coprirlo con tende e con drappi per riparare dal sole gli spettatori fu conosciuto ai Greci, che erano di tempra salda e robusta; essendo stato introdotto più tardi dallo sfarzo e dal lusso romano, quando cogli animi si ammollirono e s’infemminirono eziandio i corpi: che se per caso qualche temporale e qualche rovescio di pioggia fosse sopraggiunto, s’interrompeva lo spettacolo e scioglieasi l’adunanza. Sebbene l’essere scoperto potesse a volte presentare alcun incomodo, tuttavia grandi erano i vantaggi del teatro greco sopra del nostro moderno: conciossiacchè primieramente a luce di sole la scena veniva troppo meglio illuminata che non da quella di fumanti candele o di puzzolente petrolio, e più assai apriva e rallegrava gli animi degli spettatori, e con maggior naturalezza e vivacità uscivano quei tratti degli attori volti alla natura reale ed agli elementi, come quando Elettra, comparendo sulla scena, dice:

Oh sacra luce! e tu aere ugualmente
Sparso per tutto il mondo!

In secondo luogo era meglio provvisto all’igiene, respirandovisi aria libera e pura, mentre nei nostri teatri ristretti assai a paragone degli antichi e chiusi d’ogni parte, stipati di gente coi moltissimi lumi che sviluppano carbonio e coi fiati niente sani di tante bocche si sente un’afa, un tanfo, un caldo che piove d’ogni lato grave e pesante, sì che la testa diventa un pallone, il polmone n’è affaticato, ed usciti di là si è stanchi ed annoiati.

Il teatro greco era costrutto sopra d’una scala colossale e l’area ne era vastissima, poichè doveva capire a migliaia gli spettatori, i quali d’ogni parte della Grecia convenivano in Atene alle sacre solennità, di cui era una funzione, come abbiam detto, la rappresentazione drammatica. Si sceglieva d’ordinario un luogo appiè d’una collina, i cui fianchi declivi risecati e destramente disposti formavano i gradi dell’anfiteatro, su cui collocavansi i sedili degli spettatori, e, la superficie piana che trovavasi al basso serviva all’orchestra, al palco scenico ed ai loro annessi. In questi casi, dice il Rich, quel luogo era poco più che una semplice escavazione e non aveva alcunchè di esterno; ma quando la natura del suolo non desse siffatta agevolezza, si fabbricava sul piano, e la costruzione esterna presentava l’aspetto e la forma del teatro di Marcello, disegnato nel Rich, quale ora esiste nei ruderi che ne rimangono in Roma. Il corpo della fabbrica κοῖλον (cavea presso i Latini), che conteneva gli spettatori, non era di forma semicircolare come in Roma, ma, formato d’un segmento di circolo molto più grande, era capace di contenere un numero assai maggiore di gente. In questo segmento erano disposte moltissime file concentriche di scaglioni, o corridoi mano mano digradantisi διαζώματα divisi in spartimenti cuneiformi κερκίδες, mediante scale κλίμακες, che tagliando da sommo ad imo questi corridoi convergevano al centro, ed in cima a ciascuna di queste scale erano porte dette dai Latini vomitoria, che dal di fuori mettevano nell’interno del recinto per altre scale e corridoi coperti costruiti nel guscio dello edifizio: così gli spettatori entravano dal sommo dell’edifizio, e per le scale suddette scendevano finchè giungessero alla fila dei posti loro assegnati. Nel fondo del κοῖλον o cavea era l’orchestra ὀρχήστρα, la quale corrisponderebbe alla nostra platea, e serviva unicamente al coro che richiedeva spazio per ordinarsi e compiere i suoi giri, massime la parabasi, mentre nel teatro latino era destinato ai magistrati ed alle persone della più alta nobiltà. Nel centro dell’orchestra sorgeva la θυμέλη od ara del sacrifizio, la quale nel teatro romano non ebbe più luogo. All’estremità dell’orchestra opposta ai sedili degli spettatori era un muricciuolo che la separava dal palco scenico e ne formava la fronte, ed una scaletta che saliva da quella a questo, per la quale passavano gli attori che fingessero venire da un viaggio: in fondo poi dell’orchestra e propriamente sotto i gradini degli spettatori era la così detta scala di Caronte, destinata alle ombre dei morti, che di là sotto sbucando riuscivano nell’orchestra e da questa sul palco. Il palco scenico era come presso i Romani partito in due sezioni, l’una anteriore più larga che lunga, da cui parlavano gli attori, detta perciò λογεῖον; l’altra posteriore, di forma quadrangolare, che s’estendeva in lungo verso il scenario stabile e permanente, e chiamasi προσκήνιον proscenio, appunto da σκηνή scena, dietro la quale era il postscenio ὑποσκήνιον che serviva agli attori e conteneva i magazzini del teatro. I due lati del palco erano chiusi da muri, dietro dei quali erano disposte le macchine per tener sospesi gli Dei per aria e levare gli uomini da terra, e davanti erano loro appoggiate alcune armature a tre faccie mobili su d’un perno, che girando servivano a mutar la scena. Nel scenario di fondo erano praticate tre porte, quella di mezzo più grande, più piccole le laterali, e per l’una e per l’altre entravano gli attori secondo la parte del dramma loro assegnata. La scena sì presso i Greci come presso i Romani supponevasi essere nella via o in una piazza od anche nei cortili e nei vestiboli degli edifizi, seguendo l’uso degli Ateniesi che poco trattavano di negozi in casa, e d’ordinario davano spaccio alle faccende nel foro, nell’ἀγορά, o per la strada; ma quando fosse bisognato rappresentare l’interno di una casa, si servivano d’una macchina coperta chiamata enciclema, ἐγκύκλημα od ἐγκύκληθρον, di forma semicircolare, imitante il seno d’una stanza, che veniva portata dietro al grande ingresso del mezzo della scena e rimossa all’uopo. Il pavimento poi con macchine ed ordigni poteva anche aprirsi ad inghiottire gli attori, ed imitavansi i fulmini, i tuoni, il rovinìo o l’incendio delle case. Facevasi anche uso d’una cortina rabescata e dipinta, come noi del sipario, per chiudere il dinanzi della scena, la qual chiamavasi αὐλαία dai Greci, aulaeum dai Latini. Questa cortina non scendeva dall’alto al basso come da noi, ma avvolta ad un cilindro nascosto in un incavo nell’ammattonato del proscenio spiegavasi e svolgevasi dal basso in alto: quindi l’espressione di Orazio aulaea premuntur ad indicare il principio della rappresentazione, ed in Ovidio aulaea tolluntur ad indicarne la fine. Lo Schlegel opina che in Atene non se ne sia fatto uso d’ogni tempo, «poichè, dice, le tragedie di Eschilo e di Sofocle ci fanno chiari che la scena era vuota al principio ed alla fine dello spettacolo, giacchè non vi si fa menzione d’apparecchio veruno che fosse necessario nascondere. Per contrario nella maggior parte delle tragedie di Euripide e fors’anche nell’Edipo re di Sofocle la scena fin da principio è per dir così popolata di numerosi gruppi che sicuramente non s’erano formati sotto gli occhi degli spettatori».

Spaziosi e vastissimi quali erano i teatri antichi, acciocchè la voce degli attori fosse da tutti udita distintamente, dovettero essere costrutti con ottimi principii di acustica, e Vitruvio ricorda certi sonori vasi distribuiti in varie parti dell’edilizio che ripercotendo il suono lo rafforzavano. Di qui è agevole intendere che tra gli attori non entravano donne principalmente per la debolezza ed esilità della voce, ed alla discrepanza dei volti rimediavasi colle maschere. Per apparire ancora di grandezza naturale, gli attori colle vesti ampliavano la mole del corpo ed ingrandivano la statura mediante la calzatura, ed a crescere la voce serviva, come dirò, la maschera stessa. Il numero degli attori, secondo il Müller, come nei drammi di Sofocle e di Euripide, così in pressochè tutte le commedie di Aristofane, eccettuate le Vespe, non passava i tre, e fra tre si spartivano successivamente tutte le parti, in guisa che negli Acarnesi, mentre il primo attore rappresenta Diceopoli, il secondo ed il terzo devono sostenere le parti ora di araldo e di Amfiteo, ora di ambasciatore e di Pseudotarba, e. più tardi della moglie e della figlia di Euripide e di Cefisofonte, e poi ancora del Megarese, del Beota e di Nicearco: le figliuolette mercanteggiate come porcelli erano probabilmente fantocci, ed il loro Κοΐ Κοΐ ed altri suoni che proferiscono venivano fatti dietro la scena.

Con questo si spiegherebbe facilmente quel verso alquanto oscuro di Orazio: Nec quarta loqui persona laboret , cioè non sia sì molteplice e complicata l’azione che tre attori non bastino a rappresentarla, assumendo successivamente varie parti e camuffandosi in varie foggie. Gli attori poi non avevano come i nostri le parti in iscritto da studiare e mandare a memoria, ma il poeta stesso col ripeterla molte volte a viva voce ed accompagnata dal gesto l’insegnava loro; il che si diceva dai Greci: διδάσκειν δρᾶμα e dai Latini: docere fabulam; metodo di tanto più spiccio e più efficace, di quanto il magisterio della parola viva supera l’amminicolo della parola scritta.

19. Della maschera e del vestimento nel teatro antico. – Una proprietà esclusiva della drammatica antica fu l’uso della maschera πρόσωπον e πρόσωπεῖον presso i Greci, persona presso i Latini. Orazio ne fa inventore Eschilo, e certo il bisogno di essa dovette essere sentito principalmente dalla tragedia, poichè a rappresentare gli Dei e gli eroi parvero sconvenire le fattezze note e talora ignobili degli attori, mentre dalla scoltura, sì perfetta presso i Greci, se ne potevano avere di veramente divine. Le maschere coprivano tutta intiera la testa, e ve n’aveva per la tragedia almeno venticinque diverse specie, distinte da una peculiare diversità di disegno, di colorito, di acconciatura e tinta dei capelli e della barba; e per la commedia quaranta tipi distinti. Intorno alle svariatissime gradazioni dell’età e del carattere nelle maschere veggasi l’Onomasticon di Giulio Polluce. Le ampie bocche che si ravvisano nei disegni delle antiche maschere pervenute fino a noi fanno credere che mediante qualche congegno, forse di lamine, collocato internamente aumentassero e rinforzassero la voce. Gabio Basso infatti presso Gellio citato dal Forcellini, alla parola persona, dice: «Caput et os cooperimento personae tectum undique, unaque tantum vocis emittendae via pervium, quoniam non vaga neque diffusa est, in unum tantummodo exitum collectam coactamque vocem, et magis claros canorosque sonitus facit. Quoniam igitur indumentum illud oris clarescere et resonare vocem facit, ob eam causam persona dicta est, o littera, propter vocabuli formam, productiore»; sebbene altri, come nota il Forcellini stesso, appunto per la quantità che si oppone, negano quest’etimologia e la traggono, corrotta nella pronunzia romana, da πρόσωπον. In greco l’etimologia sarebbe da πρός ed ὤψ che significa faccia, aspetto, mentre se si traesse non da ὤψ coll’ω, ma da ὄψ coll’o, che, significa voce, confermerebbe la conghiettura di Basso; quantunque anche qui osti la quantità. Intorno alle maschere si osservò da alcuni, e Voltaire nel Trattato della tragedia ne fece le grasse e saporite risa, ch’esse toglievano l’effetto dell’atteggiamento del volto e del movimento degli occhi, sì importante ed efficace nella recita e nella declamazione; ma prima di tutto non si calcolò che la lontananza degli spettatori avrebbe egualmente distrutto questo effetto, e poi, come apparisce nelle antiche imitazioni in marmo, le maschere avevano certe aperture ampie quanto bastasse a lasciar vedere gli occhi, e del resto erano con tanta perfezione lavorate da imitare, eccettuato il movimento, la vita, e ad una cotal distanza potevano realmente ingannare. Il supporre, come fecero taluni, che le maschere rappresentassero da una parte il dolore, dall’altra la gioia od altri affetti, e che gli attori si volgessero or dall’una or dall’altra secondo il bisogno, o che tra scena e scena mutassero la maschera, viene giustamente dallo Schlegel riguardato come un assurdo. Le maschere della commedia antica, rappresentando personaggi reali e viventi, ne esageravano in modo ridicolo i lineamenti e le fattezze, in guisa per altro che la fisonomia del tal personaggio fosse ad un tratto ravvisata e riconosciuta, come tra noi quelle che si chiamano caricature: nella commedia nuova e nella latina invece si cercò con figure al tutto strane e deformi di evitare qualunque somiglianza individuale.

Il vestimento, che nella tragedia era composto di nobili ed orrevoli paludamenti, ed ingrossava altresì la persona a proporzione e misura dell’altezza del coturno e della grandezza della maschera; nell’antica commedia per contrario era lindo ed attillato, listato a varii colori, ed ammetteva gobbe e pancie stempiate da destare colla sola presenza l’ilarità negli spettatori; a un di presso come tra noi le maschere di carnovale o quelle che si usavano nelle commedie il secolo passato. Nella commedia nuova, essendo essa ristretta a scene del tutto private e domestiche, i vestimenti furono semplici e schietti quali si convenivano a persone volgari.

20. Degli spettatori, e se anche le donne. – Ed ora prima di passare ad altro dirò ancora qualche parola intorno ad una questione che riguarda gli spettatori. Si domanda se alle rappresentazioni drammatiche presso i Greci assistessero anche le donne. Circa alla tragedia non cade dubbio, poichè è noto come nelle Eumenidi di Eschilo, allorchè Oreste comparve in sulla scena agitato dalle furie vendicatrici, le donne ne furono per tal modo atterrite che le incinte si sconciarono. Si questiona soltanto se intervenissero eziandio alla commedia, e molte ragioni tratte dal pudore, si direbbe connaturale al sesso muliebre, parrebbero conchiudere pel no, essendochè non pare verisimile che a sì grossolane e svergognate turpitudini potesse assistere la donna, che dalla natura stessa è creata gentile e pudibonda: tanto più che nelle commedie di Aristofane, come osserva lo Schlegel, ad eccezione di un solo passo della Pace, fra tante apostrofi agli spettatori non incontrasi parola che alluda a donne presenti, sebbene spesso al poeta si porgesse il destro di nominarle. Tuttavia chi consideri in qual conto fosse avuta la donna dai pagani in generale e dai Greci in particolare, dovrà risolvere che anche a commedie spudorate assistessero le donne, tanto più che la commedia era parte di solennità religiose comuni agli uomini ed alle femmine. La donna pei Greci era una schiava che tenevasi e barattavasi come le merci, ed in tanto amata e carezzata in quanto strumento di piacere e di voluttà; del resto non aveva alcuna influenza morale e civilizzatrice com’ebbe poi, nè sulla famiglia esercitava alcuna autorità. Quali fossero per conseguenza i costumi delle donne ateniesi e quanta la loro delicatezza di sentimento ognuno sel può immaginare, ed a me sembra che al vero le dipingesse Aristofane nelle Concionatrici e nella Lisistrata, nelle quali due commedie principalmente le donne adoperano il più ributtante linguaggio del bordello; e d’altra parte qual cosa di meglio aspettarsi in una religione che santificava e divinizzava il vizio in modo che anche le più oneste non credevano di offendere la morale col prostituirsi una fiata allo straniero in onore degli Dei? Che se Aristofane non le nomina mai come presenti, ciò per me non dimostra altro che la stima vile e la noncuranza in cui erano tenute dagli uomini, sebbene avvi un passo, come ho detto, che allude a loro, ed eccolo. Trigeo, apparecchiando il sacrifizio, dice al servo (Pace, v. 927 e seg.):

Τρυγ. Καὶ τοῖσι θεαταῖς ῥῖπτε τῶν κριθῶν

Οικετ. Ἰδού.

Τρυγ. Ἔδωκας ἤδη;

Οικετ. Νὴ τὸν Ἑρμῆν, ὥστε γε
Τούτων ὅσοιπερ εἰσί τῶν θεωμένων
Οὐκ ἔστιν οὐδεὶς ὅστις οὐ κριθὴν ἔχει.

Τρυγ. Οὐχ αἱ γυναῖκές γ’ ἔλαβον;

Οικετ. Ἀλλ’ ἐς ἑσπέραν
δώσουσιν αὐταῖς ἄνδρες.

Lo Schlegel stima dubbio questo passo e lo raccomanda all’esame dei critici; quanto a me, lascio la cosa com’è, ma non vedo alcuna ragione di sostenere che escluse fossero le donne dalle rappresentazioni comiche.

21. De’ comici antichi e de’ frammenti delle loro commedie. – Ed ora dopo aver parlato in generale dell’antica commedia, e date alcune nozioni intorno alla forma ed ai costumi del teatro, è d’uopo venire oggimai ai comici in particolare, dei quali un solo, e non intiero, pervenne fino a noi.

Degli antichi comici non rimangono che frammenti presso Plutarco ed Ateneo, e d’alcuni di loro dà qualche cenno Aristofane nelle sue commedie, come di Frinico, Lico, Amepsia. Anassandride rodiano è fama introducesse pel primo amori e rapimenti, e quindi, come Epicarmo, s’accosterebbe di più alla commedia nuova; per le ingiurie e pei vituperi scagliati contro gli Ateniesi e non risparmiati al divino Platone, fu rinchiuso e fatto morire di fame. Di Epicarmo si è parlato di sopra. Di Platone il comico rimangono frammenti in Plutarco nei quali schizza veleno contro di Pericle e del suo consigliero Pitoclide; e’ fu poi, come vituperoso, bandito dalla città. Ermippo svertò in sulla scena le vergogne della famosa Aspasia amica di Pericle; ed in generale Pericle ed Aspasia per la lorda e scandalosa vita si può dire cavasser di mano le sassate ai comici, che divertivansi a bersagliarli e vituperarli colla beffa e col sarcasmo.

22. Cratino ed Eupoli. – Ma i due più celebri prima di Aristofane sono Cratino ed Eupoli.

Cratino fu di Atene e figlio di Callimede: scrisse ventuna commedie, e nove ebbero premio e corona anche in concorrenza di Aristofane. Gli antichi critici ed eruditi lo dicono rinomato per i suoi motteggi frizzanti e bene accoccati, ma mancante dell’arte di svolgere avvedutamente e con effetto il nodo delle sue commedie. Persio accuratissimo ed espressivo nella scelta delle parole lo chiama ardito, od audace, mentre applica ad Eupoli l’attributo d’iracondo:

Audaci quicumque afflate Cratino,
Iratum Eupolidem praegrandi cum sene palles,
Aspice et hæc, si forte aliquid decoctius audis.

Oltre alla baia e allo scherzo spiritosi, Cratino giuocò di capricci e di fantasie oltremodo bizzarre nel coro, cui compose di Archilochi e di Cleoboline, di Chironi e di Ulissi e financo di Panoptessi, cioè di enti mitologici che si fingevano essere tutt’occhi, secondo indica l’etimologia della parola; come pure si videro ne’ suoi drammi i cori delle ricchezze e delle leggi, a cui diede vita e personalità. L’andamento delle sue commedie non ci è noto se non in parte da pochi e sparsi cenni di antichi eruditi, tuttavia è da credere che ei potesse gareggiare con Aristofane, e che la sua satira politica fosse assai più amara e mordace, poichè si sa con quanta virulenza si scagliasse contro Pericle e contro Aspasia, in modo che al paragone Aristofane parve colto, urbano e gentile; anzi in alcuni suoi lavori fu a questo preferito e più saporitamente gustato dal popolo ateniese. Invecchiando si diede allo smoderato bere, e nel vino soffocò l’acume ed il genio comico in modo che Aristofane spesso lo dà come un vecchio briaco e barbogio. Secondo Orazio e’ soleva dire, non poter far versi chi beve acqua, ed il precetto troppo bene egli ridusse in pratica a danno delle Muse, onde Aristofane nei Cavalieri (v.526) lo dipinge delirante, colla corona inaridita sul capo, e colla cetra dalle corde infrante e spezzate; e nella Pace ne annunzia la morte avvenutagli dice, per il dolore di veder rotto ed andato a male un boccal di vino;

Ἑρμ. Τί δαί; Κρατῖνος ὁ σοφὸς ἔστιν;

Τρυγ.        Ἀπέθανεν,
ὅθ’ οἱ Λάκωνες ἐνέβαλον.

Ἑρμ. Τί παθών;

Τρυγ.         ὅ τι;
ὡρακιάσας οὐ γὰρ ἐξηνέσχετο
ἰδὼν πίθον καταγνύμενον πλέων.

Nondimeno i fumi del vino ed il gelo della vecchiaia non gli tolsero sì le facoltà intellettuali, ch’egli un tratto raccogliendole in uno sforzo supremo non mandasse copiose scintille del prisco fulgore. Il vecchio poeta comico ottenne anche una fiata la corona teatrale colla sua Pitine, cioè Bottiglia. In questo dramma egli tolse appunto a scherzare piacevolmente intorno al vizio di cui veniva accusato, fingendo che la Commedia antica e legittima sua consorte gli muovesse piato davanti all’Arconte, e chiedesse il divorzio, per esser egli perduto dietro ad un’altra femmina, la Bottiglia. Il poeta, ai rimbrotti ed alle ragioni della moglie rientra in sè, e ritorna agli antichi amori, e sentendosi in petto avvampar di nuovo la sacra fiamma di poesia, quasi torrente ch’alta vena preme, comincia a verseggiare sì strabocchevolmente, che gli amici sono costretti a turargli la bocca, che colla fiumana di poesia non innondi e travolga i circostanti nei poetici gorghi.

Già fin dai tempi di Cratino circa l’olimpiade LXXXV, avanti Cristo 440 anni, erasi promulgata una prima legge contro la comica licenza restringendone alquanto l’ampiezza sconfinata, e quindi anche Cratino compose commedie che s’accostano a quella che chiamasi media, in cui si mirava a mettere in ridicolo i letterati principalmente ed i loro componimenti, ed a volgere in burla le dottrine metafisiche; di lui si ricordano gli Ulissi, parodia forse dell’Odissea di Omero.

Attore di Cratino fu Crate, il quale poscia levossi a poeta comico, ma non seguì le vestigia del maestro, perocchè dice Aristotile: Κράτης πρώτος ἦρξεν, ἀφέμενος τῆς ἰαμβικῆς ἰδέας, καθόλου λόγους ἢ μύθους ποιεῖν (Poet. 5); cioè abbandonata la satira politica e personale che usava del metro giambico, come si è veduto, diedesi a comporre drammi di natura generale, ogni studio ponendo nell’intreccio artistico, e nella viva e naturale pittura dei caratteri, onde Aristofane ebbe a dire di lui che con piccola spesa e con sobrietà ingegnosa divertì gli Ateniesi.

Imitatore di Cratino fu Eupoli, il quale se ne’ frizzi e ne’ motti gli rimase addietro, il superò nel modo di condurre e svolgere destramente l’azione del dramma e nella vena di quel ridicolo che scaturisce non già da facezie e da arguzie qua e là inserite, ma dall’implicarsi e risolversi dell’azione, e dal continuo succedersi di situazioni comiche. Delle commedie che compose ricordansi le Bapte in cui, a quanto pare, tolse di mira Alcibiade, il che forse, come si è detto sopra, gli costò la vita: e Platonio dice espressamente che fu fatto affogare da coloro contro cui le aveva composte: ἴσμεν τὸν Εὔπολιν ἐπὶ τοῦ διδάξαι τοὺς βάπτας ἀποπνιγέντα εἰς τὴν θάλατταν ὑπ’ ἐκεῖνων, εἰς οὕς καθῆκε τοὺς βάπτας. Dell’argomento e della materia di questa commedia discorre ampiamente il Poliziano nel libro delle Miscellanee, pag. 490. Anche ad Iperbolo, successor di Cleone, ne scoccò di amare e di acerbe, non risparmiandone neppure la madre, onde giustamente viene ripreso da Aristofane di cuor villano e di poca generosità, il quale nelle Nubi (vers. 545 seg.) lo accusa anche di avergli furato la commedia dei Cavalieri e rifusala nel suo Marica guastandola coll’aggiunta d’una sucida vecchia briaca: ma Eupoli in un frammento di lui rimastoci si purga e si giustifica da siffatta accusa riversandola in capo all’accusatore, poichè afferma di aver egli stesso avuto parte nella composizione dei Cavalieri ed aiutato il Calvo, cioè Aristofane, che così per istrazio veniva nominato da’ suoi emuli. Se è vero che Aristofane nella parabasi delle Nubi alludesse ad Eupoli, si dovrebbe dire che questi fosse un poeta senza gusto, senza decoro, senza sale; ma tale giudizio nel caso dovrebbesi ritenere come dettato dall’invidia e dall’emulazione, poichè Orazio, sagace qual era e di gusto squisitissimo, con Platone, con Archiloco e con Menandro, portavasi ancora Eupoli, e ne faceva sua delizia, come si vede dalla satira 3a del lib. II, dove Damasippe gli dice:

Quorsum pertinuit stipare Platona Menandro
Eupolin Archilocho comites educere tantos?

23. Aristofane.- Ma, sebbene posteriore di tempo, a tutti andò innanzi, e tutti collo splendor di sua gloria oscurò Aristofane, per cui la Musa comica salì al più alto grado di perfezione. Fin dai primi anni egli rivelò il genio comico, e l’indole sua di volgere opportunamente e con garbo in ridicolo le questioni serie e gravi; poichè contendendogli alcuni in giudizio la cittadinanza ateniese per essere nato di padre straniero, egli citò versi che Omero pone in bocca di Telemaco allorquando Minerva gli domanda s’è vero figlio d’Ulisse:

«Μήτηρ μέν τ’ ἐμέ φησι τοῦ ἔμμεναι, αὐτὰρ ἔγωγε
«Oὐκ οἶδ’, οὐ γάρ πώ τις ἑόνγόνον αὐτὸς ἀνέγνω:

e con questo scherzo guadagnò i giudici e fe’ ammutire gli avversarii tanto è vera la sentenza di Orazio che «Ridiculum acri – Fortius et melius plerumque secat res». Egli fiorì durante la guerra del Peloponneso sì funesta alla repubblica di Atene; per quarant’anni regnò sul teatro, e con esso di morte violenta morì l’antica commedia attica, emettendo così in sul morire, a guisa del cigno poetico, il canto più delicato e più melodioso.

Aristofane devesi considerare sotto un doppio rispetto, di politico, cioè, e di poeta, giacchè tutte le sue commedie, ad eccezione delle Nubi, delle Rane e del Pluto, furono dettate ad intento politico, e per lui il teatro si cambiò, per così dire, in pubblica ringhiera. Riguardato sotto il primo rispetto, scorgesi in lui il savio cittadino, il sincero e caldo amante della libertà, l’assennato politico che prevedeva le future calamità, le quali sarebbero ad Atene sopravvenute dalla fatale guerra del Peloponneso, e perciò adoperavasi col frizzo e colla satira a consigliare e persuadere la pace. Scagliossi terribile con eloquenza maschia e vigorosa contro il vile Cleone demagogo temuto, e nei Cavalieri , commedia assai meno gioviale ed allegra delle altre (dimodochè par piuttosto, come dice lo Schlegel, una filippica teatrale), te lo presenta sulla scena sotto figura di un cuoiaio scaltrissimo, e feccia d’uomo che seduce ed abbindola il vecchio Demo rimbambito, nel quale figuravasi il popolo ateniese, finchè questi, ringiovanito da Agoracrito, non se lo leva dinnanzi, e rivestito dell’aspetto che ebbe già a’ tempi di Milziade e di Aristide, trionfalmente in maestosa marcia dalla Pnice procede ai Propilei fra il canto ed il plauso del coro. In tutte le commedie, si può dire, e’ ritorna sulla necessità della pace, ma più specialmente negli Acarnesi, nella Pace, nella Lisistrata con fantasie bizzarre e stranissime mescolate a sconcezze stomachevoli. Negli Acarnesi, Diceopoli infastidito dell’interminabile guerra, e stomacato degli inganni che dai mestatori si fanno al popolo per impedire le proposte di pace, se la intende da sè e per conto suo con Anfiteo, cui spedisce a Sparta a trattare e conchiudere la pace per sè e per la famiglia: ottenutala, se ne va in villa ed attende a celebrare allegramente e nell’abbondanza d’ogni ben di Dio le feste di Bacco. Quivi i benefizii della pace sono al popolo resi evidenti e palpabili; poichè, mentre Lamaco generale degli Ateniesi suda intorno agli apparecchi guerreschi, Diceopoli bada alla cucina; l’uno va in traccia della lancia, l’altro dello spiedo; quello chiede le piume dell’elmo, questi domanda piccioni e tordi; alla fine, mentre Lamaco torna azzoppato e colla testa rotta sorretto da’ suoi commilitoni, Diceopoli arriva briaco come una monna e sorretto da due donzelle festose e facete, terminando così la commedia nel più vivace, allegro e comico contrasto. Invenzione più strana ancora, ma diretta al medesimo scopo, si è quella della Pace. Trigeo, semplice e dabben uomo, salito, come Bellerofonte sul Pegaso, sopra d’uno scarafaggio, compare per aria in sulla scena, ed alle figliuole che lo pregano a scender giù, dà certi avvertimenti per amor dello scarafaggio, che il tacere è bello: quindi, raccomandandosi al macchinista che non gli faccia fiaccare il collo, ascende all’Olimpo a consultar gli Dei intorno alla fortuna della Grecia. Quivi apertogli da Mercurio, ode da lui l’Olimpo esser deserto, chè la Guerra ne li cacciò tutti a suon di mazzate, e spedito il Tumulto ad Atene e Sparta a cercarle un pestello, attende a pestare ed acciaccare le città in un mortaio. Trigeo, saputo che la Pace è chiusa in un antro profondo, s’adopera con altri a ripescarla con funi; e trattala fuori, s’apparecchiano conviti e sacrifizii in onor della Dea. Commedia da postribolo si è la Lisistrata, in cui questa valente femmina ad ottenere la pace fra Atene e Sparta ordisce una congiura delle donne contro i mariti, obbligando quelle a negarsi a questi, al che riesce molto a stento, e per di più deve vigilare attentamente le sue compagne. Occupata l’Acropoli e compiuta la separazione, si dà luogo a scene non meno sudicie che ridicole, finattantochè gli uomini s’arrendono, e costituita arbitra l’avveduta Lisistrata, trattano e conchiudono la pace.

Anche non risparmiò reggitori della cosa pubblica, nè a’ vizii del popolo perdonò; e menò a tondo la frusta sopra certe dottrine, che sotto al manto della filosofia tendevano alla rovina del sociale edifizio: onde nelle Concionatrici mette in chiaro gli assurdi, gli inconvenienti, gli imbrogli che sarebber nati da certe repubbliche ideali immaginate da Protagora pel primo. In questa commedia il poeta finge che le donne, ad istigazione e guida di Prassagora, furati gli abiti virili ai mariti che dormono, intromettansi nell’assemblea del popolo e stabiliscano una nuova costituzione sociale avente per fondamento la comunanza dei beni e delle femmine; nascono allora disordini e scandali per ragion delle belle e delle brutte, e nello scompiglio e nel tafferuglio termina gaiamente la commedia. A combattere il comunismo più con solide e buone ragioni che collo scherzo e col ridicolo, e’ ritorna nel Pluto, nella scena tra la Povertà, Cremilo e Blepsidemo, dove dimostra assennatamente la irrefragabile necessità dell’esistenza de’ poveri e de’ ricchi. Nelle Vespe volgesi contro i vecchi Ateniesi che avevano la manìa di giudicare, e tuttodì eran seduti a tribunale a risolver piati e definir litigi per gola della mercede giudiziaria introdotta da Pericle. Egli ci rappresenta il vecchio Filocleone, che abbandonata l’amministrazione della casa, si consacra tutto all’ufficio di giudice, ed il suo figliuolo Bdelicleone che tenta guarirlo di questa pazzia, e lo chiude in casa, dove gli erige un domestico tribunale, e per appagarlo gli conduce due cani da giudicare; ma il vecchio non s’emenda e provasi anzi a fuggir di casa per la via del camino; si finisce poi la commedia col cantare e ballonzare di Filocleone, lieto d’esser chiamato in giudizio.

Pel senno suo politico, per la franchezza di palesare al popolo i salutari consigli dell’ordine e della pace, come altresì per la fierezza della sua frusta che alle prime percosse, direbbe Dante, faceva levar le berze, salì Aristofane in gran concetto ed estimazione non solo presso gli Ateniesi, ma ancora presso gli stranieri; ed il re di Persia ne teneva gran conto, come Filippo di Demostene; e secondo ch’egli stesso ne dice nella parabasi degli Acarnesi (v. 622 seg.), il gran re agli ambasciatori di Sparta domandò se questo poeta facesse maggiori rimproveri agli Ateniesi, od agli Spartani. Per le medesime ragioni fu inviso ai demagoghi ed agli uomini turbolenti cui smascherò sulla scena, ed insidie non poche gli furono tese, specialmente da Cleone; anzi gli Spartani tanto l’avevano in odio, che, come dice Aristofane medesimo (ib.), rivolevano Egina, non già per l’importanza di quest’isola, ma per cacciar lui dalle sue possessioni. Nelle commedie di Aristofane è sì ben disegnata, colorita, e lumeggiata l’ateniese repubblica, che il savio Platone a Dionigi il vecchio mandò le Nubi acciocchè imparasse a conoscere il governo di Atene.

Riguardato Aristofane dal lato poetico, sebbene, come osservai in generale della commedia antica, i suoi drammi non abbiano un vero e perfetto intreccio, nè mostrino caratteri convenientemente svolti e scolpiti, nondimeno scintillano di tale vivacità, e muovonsi con tal brio e spigliatura da eccitare quel riso, cui Omero disse ἄσβεστον, inestinguibile, il che è tutto il fine della comica poesia. Come di Plauto disse Elio Stilo presso Varrone, che le Muse, volendo parlar latino, avrebbero usato la plautina favella, così di Aristofane scrisse Platone più spressivamente, che le Muse, cercando un tempio non mai perituro, si scelsero l’anima di Aristofane:

«Ἁι Χάριτες τέμενός τι λαβεῖν ὅπερ οὐχί πεσεῖται
«Ζητοὺσαι, ψυχὴν εὕρον Ἀριστοφάνους.

In Aristofane tutta si rinviene quella che i Latini chiamarono vis comica, e l’inesauribile vena di poesia e satirica e lepida e lirica, che nei susseguenti fu al paragone troppo più scarsa ed esigua. La scena è sempre ben maneggiata e ben condotta; il dialogo procede rapido, efficace, ricco delle grazie dolcissime dell’attico dialetto; le arguzie, i sali spuntano e fioriscono da sè sul labbro degli attori, nè ti sanno mai di mendicato, di contorto e di stiracchiato; le satire ed i motti vibrati, pungenti, caustici; lo stile nervoso e sostenuto, ma facile, pieghevole, svariato: in somma Aristofane è il vero, si direbbe anzi il solo poeta comico.

Quanto fantastica ed ardita sia la sua poesia, si può scorgere negli Uccelli , commedia brillantissima nel genere del maraviglioso. È questa, dice lo Schlegel, una poesia aerea, alata, stravagante come gli enti ch’ella dipinge; il poeta con molto ingegno fece entrar nel cerchio della sua finzione tutto ciò che l’istoria naturale, la mitologia, la scienza degli auguri, le favole di Esopo, e fino i proverbii popolareschi gli somministravano intorno agli uccelli, e tutto insieme adattato e composto illuminò di luce della più brillante poesia. Imitare questo genere per noi oggimai avvezzi ad una vita sì positiva e prosaica che isterilisce l’immaginazione, e soffoca il genio, sarebbe un sogno.

Scene comiche al più alto grado ad ogni tratto ti si offrono in Aristofane, dalle quali scaturisce il più schietto e il più vivo ridicolo; p. e. il processo dei due cani accusati d’aver rubato del cacio, nelle Vespe ; il dialogo di Strepsiade in prima col discepolo di Socrate e poi con Socrate stesso sospeso in aria dentro ad un corbello a specular le cose celesti, nelle Nubi; la terribile paura di Mnesiloco che trovasi a mal partito fra le donne irate, e dato di piglio ad un bambino sel reca in collo per difendersi, e minaccia d’ucciderlo s’alcuna gli farà villania, ma poi s’accorge quello non esser altro che un otre di vino fasciato, nelle Tesmoforeggianti; nelle Concionatrici poi, la scena delle donne che sotto la direzione di Prassagora s’ausano a contraffare gli atti e il parlar degli uomini, ed appiccicatesi certe barbe sfilucchite, una osserva: Deh! vedete se non sembriamo seppie fritte; nel Pluto il racconto che fa Carione di ciò che accadde la notte nel tempio di Esculapio per la guarigione di Pluto, e come il sacerdote andava arraffando di soppiatto per le are le frittelle e le salse del sacrifizio, onde mosso Carione si lancia sopra una pentola di minestra d’una vecchia che gli era accanto, e se la succia, fingendo, per impaurirla, di essere il serpente sacro, poscia commette una cotal inciviltà, che le figliuole di Esculapio si turano il naso, sebbene il Nume, come medico ed avvezzo a sì fatti odori, non se ne risenta: e tutto dovrei qui rifondere Aristofane per metterne in mostra il molto bello poetico.

Maneggiò Aristofane altresì la satira letteraria, ed a questo proposito di due commedie occorre far particolare menzione, le Rane e le Nubi.

Nelle Rane piglia di mira il tragico Euripide. Nemico acerrimo ed implacabile di questo poeta, Aristofane non lascia mai di ferirlo e di accoccargliele dovunque gliene venga il destro: e già nelle Tesmoforeggianti ce lo dipinge in pericolo tra le donne che vogliono vendicarsi delle ingiurie da lui ricevute, e mettegli in bocca le più sollazzevoli parodie delle sue proprie tragedie; e negli Acarnesi Diceopoli cerca da Euripide a prestito una delle vesti da pitocco con cui egli soleva introdurre i suoi personaggi, ed il ragazzo risponde che Euripide è in sul solaio a scrivere una tragedia, mentre la sua mente va a zonzo ad uccellar versucci: insomma non si lascia sfuggire occasione di morderlo e di vituperarlo. Ma la commedia delle Rane e’ la compose appositamente contro di lui. In essa Bacco, dio del teatro, dolente della morte di Euripide, veduto come dopo di lui non restano che poeti di cattivo gusto, si risolve di scendere al Tartaro per ritrarnelo fuori. Vestita la persona di Ercole, coperto della pelle leonina e munito della clava, tra il soave e melodioso gracidar delle rane valica il fiume Acheronte, e s’avvia al buio regno di Plutone, tartassando gli Dei, i misteri, le popolari credenze delle pene d’Averno. Quivi giunto, trova Plutone sedere a tribunale, e l’audace Euripide arrivato di fresco contendere dinnanzi a lui il trono della tragedia all’antico Eschilo. Si reca una bilancia e vi si pesano i versi, ma la bilancia trabocca sempre dalla parte di Eschilo, il quale alla fine ristucco del giuoco impone all’emulo di porre se stesso co’ suoi drammi, colla moglie e co’ figliuoli e col servo contro due soli suoi versi, e trovasi pesare più questi; onde Bacco muta di parere, e toglie seco Eschilo, sebbene avesse giurato di estrarne Euripide, citando, a scolparsi dello spergiuro, quel verso di Euripide stesso nell’Ippolito vers. 612: Ἡ γλῶττ’ ὀμώμοκ’, ἡ δὲ φρὴν ἀνώμοτος: Giurò la lingua, ma non giurò la mente , e dice: Ἡ γλῶττ’ ὀμώμοκ’, Αἰσχύλον δ’ αἱρήσομαι: Giurò la lingua, ma sceglierò Eschilo (vers. 1467). Eschilo partendosi riceve commissione da Plutone di mandargli giù persone che vengono nominate, e pregatolo di cedere nel frattempo il suo trono a Sofocle, al lume delle sacre lucerne, accompagnato dal canto del coro, se ne ritorna a riveder le stelle. Questa commedia, come ancora le Tesmoforeggianti, ci rivela nel popolo ateniese un grado di coltura non ordinario, poichè ad intenderle e gustarle richiedevasi un’esatta e pronta memoria di tutte le tragedie di Euripide; ed Aristofane per divertirli non domandava poco a’ suoi spettatori.

Nelle Nubi, cui Aristofane, secondo l’antico Scoliaste, teneva per la più perfetta delle sue commedie, sebbene non ne avesse premio, come si è detto, e’ se la prese contra il divino Socrate, e ne fece lo strazio più villano e più vituperoso che dire si possa. Strepsiade, gravato da debiti e dalle usure che sono in sullo scadere in grazia del figliuolo che gittava tutto in corse ed in cavalli, avvisa di pagare i creditori con parole e con chiacchere sottili e cavillose, λόγος ἥττων (v. 113), quali le insegnavano i sofisti: per la qual cosa prega il figliuolo di voler andare alla scuola (φροντιστήριον, pensatoio) di Socrate, dove s’insegnava a vincer le liti colle parole, una ragion da meno facendola comparire da più; ma il figliuolo con un diluvio di villanie versate contro il filosofo ed i suoi discepoli ricusa costantemente: onde il vecchio Strepsiade delibera di andarci egli stesso, e dopo mille inezie e goffaggini discorse con uno dei discepoli, s’abbocca con Socrate che viaggia per l’aria in un corbello, da cui apprende non essere gli Dei, ma in loro vece il Turbine etereo, αἰθέριος δῖνος, e le Nubi delle quali è formato il coro della commedia, e sono le dee de’ sofisti, dei vati, dei medici, dei poeti, ecc. (v. 331), e per esse dover l’uomo giurare, non per Giove o per Giunone. Socrate poi in modo ridicolo e sconcio scioglie le obbiezioni di Strepsiade intorno ai fenomeni naturali creduti da lui effetti di Giove, e riesce a farne un ateo; ma venuto ad insegnargli il modo di ragionare e vincere colla sofistica i piati, non ne cava nulla, perchè Strepsiade vecchio, rozzo e grossolano non impara e non ricorda cosa che gli sia detta, onde per disperato licenziandolo manda pel figliuolo Fidippide, e qui termina la prima parte del dramma, seguita dalla parabasi (v. 949 seg.). Nella seconda, Fidippide, che ha appreso le dottrine della scuola, bastona suo padre, e gli dimostra di più di farlo con ragione e con diritto, e minaccia altresì la madre; di che Strepsiade, riconosciutosi, ritorna alle antiche credenze, ed impone al figliuolo di riverire Giove patrio; quindi raccomandatosi a Mercurio, con scale, con forconi e con fiaccole s’avvia al φροντιστήριον a vendicarsi di chi l’ha fatto calandrino, e contraffacendo le parole e gli atti di Socrate gli appicca il fuoco alla casa e la distrugge.

Di questa commedia s’è detto molto e da molti, e chi la difende come innocente, chi l’accagiona come rea. Eliano afferma che Anito e Melito pagassero Aristofane affinchè scrivesse le Nubi, e che però egli fu la cagione della morte del filosofo; l’accusa fu accolta e ripetuta, ed Aristofane s’ebbe una nota d’infamia. Ma il p. Brumoy dimostrò che Socrate bevve la cicuta almeno ventitrè anni dopo la prima rappresentazione delle Nubi; se non che, osserva assennatamente il Metastasio, ciò non basta a scolpar Aristofane, poichè dimostra soltanto la commedia non aver prodotto un effetto sollecito, ma non già ch’ella ne sia innocente; può da quel tempo avere incominciato il popolo di Atene a prendere in orrore e disprezzo il filosofo, ed i nemici di lui essersene poi a suo tempo approfittati. Il certo si è, che l’accusa di Anito e la condanna dei giudici di Atene producono, contro di Socrate, per appunto que’ medesimi delitti che gli erano stati addossati da Aristofane nelle Nubi ; anzi Socrate stesso nell’Apologia scritta da Platone confessa di non temer tanto Anito e Melito, quanto coloro che ne’ tempi trascorsi aveanlo colla stessa accusa denigrato e diffamato, e voltagli contro la pubblica opinione; costoro, soggiunge, sono i miei terribili accusatori: οὗτοι, .... ταύτην τὴν φήμην κατασκεδάσαντες, οἱ δεινοί εἰσί μου κατήγοροι; di essi non sa e non ricorda i nomi, tranne di uno che è compositor di commedie: ὅ δὲ πάντων ἀλογώτατον ὅτι οὐδὲ τὰ ὀνόματα οἷον τε αὐτῶν εἰδέναι καὶ εἰπεῖν, πλὴν εἰ τις κωμῳδοποιὸς τυγχάνει ὤν; e recitato il testo dell’accusa, nomina espressamente Aristofane, ed accenna alle Nubi dicendo: Ταῦτα γὰρ ἑωρᾶτε καὶ αὐτοὶ ἐν τῇ Ἀριστοφάνους κωμῳδὶᾳ, Σωκράτη τινὰ ἐκεῖ περιφερόμενον, φάσκοντά τε ἀεροβατεῖν, καὶ ἄλλην πολλὴν φλυαρίαν φλυαροῦντα. L’essersi poi le Nubi rappresentate tanti anni innanzi all’accusa di Melito, costituisce, secondo Socrate, una ragione di più per attribuire a questa commedia un’influenza potente sulla sua condanna, poichè coloro che allora lo giudicavano, vi avevano assistito essendo in età giovanile, nella quale agevolmente si presta fede alle cose, tanto più se niuno parli in contrario: ἔτι δὲ καὶ ἐν ταύτῃ τῇ ἡλικίᾳ λέγοντες πρὸς ὑμᾶς, ἐν ᾗ ἄν μάλιστα ἐπιστεύσατε, παῖδες ὄντες, ἔνιοι δ’ ὑμῶν καὶ μειράκια, ἀτεχνῶς, ἐρήμην κατηγοροῦντες, ἀπολογουμένου οὐδενός. Lo Schlegel crede che le Nubi non ad altro scopo fossero dirette che a dimostrare, come l’inclinazione alle frivole ricerche della filosofia facesse trascurare ai Greci gli esercizii guerreschi, come le vane speculazioni di questa fatta non servissero se non a corrompere i principii della religione e della morale, e che finalmente le arguzie dei sofisti rendevano equivoci tutti i diritti, e facevano spesso trionfare la cattiva causa. Nello stesso senso presso a poco il Müller (c. 28) concepisce come intimamente connesse le Nubi e le Vespe, e vôlte ad un fine identico: poichè, come le Vespe tendono ad assalire que’ malaugurati vecchi ateniesi, che con raggiri e con processi tormentavano e vessavano gli inesperti e gli innocenti, così le Nubi s’indirizzano ai giovani, che sofisti e ciarlieri mortalmente tediavano il semplice e schietto cittadino di Atene; che se Aristofane a figurare cotal vanità, anzi che Gorgia e Protagora, elesse Socrate, il fece, secondo il Müller, perchè preferiva, a bersaglio de’ suoi scherzi, il concittadino suo proprio a’ colleghi di lui e stranieri che per breve tempo visitavano Atene.

Non ostanti queste osservazioni di uomini sì rispettabili per ingegno e per dottrina, io mantengo che se Aristofane voleva darla tra capo e collo ai sofisti, e si avrebbe avuto ragione, non poteva mai, senza rendersi reo di calunniosa menzogna, personificarli in Socrate, noto a tutti, ed a lui certo non ignoto, come terribile martello di quei falsi ragionatori e pseudofilosofi, a cui mosse per tutta la vita guerra più aspra e più poderosa che non facesse Aristofane nella sua commedia. Dicesi che Platone mandò le Nubi a Dionigi il vecchio affinchè imparasse a conoscere la repubblica ateniese; ma non potrebb’esser piuttosto che il discepolo amantissimo di Socrate scegliesse appunto questa commedia per dimostrar col fatto al tiranno siciliano, quanto sfrenata fosse la licenza di Atene, ove tolleravasi che il giusto sapiente fosse a quel modo malmenato, ed applaudivasi chi osava stender la mano a violar la maestà degli Iddii, del pari che a rapire l’aureola di sapienza onde rifulgeva il venerando capo del filosofo?

Aristofane fu ancora ripreso come un farseggiatore indecente e disonesto, ed è certo che le più belle e più comiche scene egli imbrattò con tal lurido pattume di cloaca e di lupanare, che lo splendor di poesia e la ricchezza d’immaginazione non lo compensano a pezza, onde un giovane verecondo nol dovrebbe mai avere alle mani. Tuttavia io farei più colpa al popolo che l’applaudiva che non ad Aristofane, il quale altro non fece che studiare e secondare l’indole ed il gusto de’ suoi concittadini, e fu, come a dire, il rappresentante di quella corruzione la quale cagionò quasi subito la caduta della repubblica e della libertà in prima sotto Sparta, e poscia sotto i Macedoni. Non bisogna essere troppo severi contro di lui individuo, ma deplorare piuttosto quella società che è pure in voce di tanta civil gentilezza, dal cui seno tuttavia germogliò e crebbe una sì spaventosa corruzione. A ben giudicare questo poeta, osserva il p. Brumoy, è mestiere considerarlo in relazione co’ suoi tempi, e non col nostro secolo sì differente di pensieri, di costumi, di civili istituzioni. Non sarà adunque Aristofane che corruppe Atene, ma Atene corrotta che generò Aristofane simile a sè, come guasta radice produce frutto guasto e malsano, sebbene il guasto apparisca maggiormente nel frutto che non nella radice, che è latente ed ascosa.

Per questi difetti principalmente Aristofane ebbe nemici e detrattori, tra i quali Plutarco, che nel paragone tra lui e Menandro disse che Aristofane non può piacere agli uomini di giudizio, la sua poesia essere una meretrice dismessa che contraffà l’onesta gentildonna, il suo ridicolo non giocoso, ma scipito e degno d’esser beffato col riso; in somma lo sfatò ed avvilì talmente da togliergli ogni pregio ed ogni valore. Anche Luciano parve sentire di Aristofane poco favorevolmente, poichè nel Bis accusatus introduce il Dialogo a lagnarsi d’essere stato svilito e contaminato dai comici che gli strapparono il nobile vestimento della tragedia, e nominatamente da Eupoli e da Aristofane, uomini destri a beffare le cose gravi ed a ridere delle oneste. Fecero eco agli antichi molti dei moderni, e principalmente i Francesi, tra cui Voltaire, La Harpe, Rapin, Blair, e gli Enciclopedisti, i quali ultimi lo dissero: un comique grossier, rampant et obscène, sans goût, sans mœurs, sans vraisemblance. Ma altra stima ed altro giudizio ne fecero Platone, di cui si sono già citati due versi in lode d’Aristofane, e che lo introdusse come interlocutore nel suo Convito, Cicerone, Quintiliano, S. Giovanni Crisostomo, il quale, secondo ne scrive Aldo Manuzio, leggendolo assiduamente, ne ritraeva le grazie e le veneri dell’attico idioma: e tra i moderni, Madame Dacier, la quale ne tesse splendido elogio con queste parole: Jamais homme n’a eu plus de finesse, ni un tour plus ingénieux; le style d’Aristophane est aussi agréable que son esprit; si on n’a pas lu Aristophane, on ne connaît pas encore tous les charmes et les beautés du grec; il p. Brumoy già citato, il quale tolse a difenderlo e giustificarlo da molte imputazioni; lo Schlegel che ravvisa in lui il vero modello comico; il Mülller, ed in generale tutti gli eruditi e gli amatori delle greche lettere dei nostri tempi. Molti ancora s’accinsero a tradurlo, o tutto, o parte, come in Francia la Dacier ora citata tradusse il Pluto e le Nubi, Boivin gli Uccelli, Geoffroi una gran parte delle Vespe, ecc; in Italia abbiamo un frammento del Pluto di Benedetto Varchi, tale da farci desiderare il resto, e del quale parlerò altrove; ed una poco felice versione di Pietro e Bartolomeo Rositini edita a Venezia nel 1545. Alla metà dello scorso secolo l’abate Giacomelli n’aveva eseguito una più accurata, ma non venne in luce; l’Alfieri traslatò le Rane, che trovansi in alcune edizioni delle sue opere, e finalmente l’egregio professor Domenico Capellina ce ne diede una bella e compita versione.

Aristofane scrisse intorno a 50 commedie, delle quali undici solamente pervennero fino a noi, ma Ludovico Dindorf non gliene attribuisce che 44, di cui si possono vedere i titoli nell’edizione di Aristofane del Didot, pag. 444, ove contengonsi pure copiosi frammenti delle commedie perdute, pazientemente ed accuratamente raccolti e distribuiti da quel sommo critico. Poche furono le composizioni drammatiche di Aristofane, avuto riguardo al lunghissimo tempo che lavorò pel teatro, che sono circa 40 anni, mentre invece i tragici ne scrissero assai più; ma è da osservare che le tragedie si presentavano al magistrato, e da questo davansi alla scena in trilogie o tetralogie, cioè a tre o quattro insieme, laddove di commedie non se ne presentava che una sola per volta, onde i comici avevano meno occasione di lavorare. Secondo conghietture meglio fondate, egli per la prima fiata come comico s’appresentò al pubblico circa l’anno 427 a. C., in età almeno di 25 anni, sebbene l’antico Scoliaste, il quale alle Rane, v. 404, lo chiama σχεδὸν μειρακίσκιος, lo faccia supporre assai più giovane. Le prime sue prove, per riguardo dell’età inferiore a quella che richiedevano se non le leggi, almeno le costumanze ateniesi, fece sott’altro nome, e per esempio gli Acarnesi, che secondo lo Schlegel sono già un parto maturo e perfetto, quantunque primo lavoro del poeta, furono rappresentati sotto il nome di Callistrato e di Filonide, maestri dei cori e suoi amici. Questo egli accenna nelle Nubi, v. 530, in cui paragonasi a una vergine a cui non era per anco lecito di partorire, e soggiunge che i primi suoi parti furono da un’altra tolti e portati via. Comparve poi col proprio nome nei Cavalieri, quando, buttato giù buffa, di primo acchito con tanta fierezza assalì Cleone, e colla vittoria s’assicurò, come dice egli stesso, la benevolenza ed il favor del popolo.

Aristofane sopravvisse ancora qualche tempo alla caduta di Atene, ed iniziò quella che dagli antichi critici vien detta commedia di mezzo o mezzana, anzi preluse alla commedia nuova; poichè nel Cocalo, secondo riferisce Platone, v’avevano già scene di seduzione e di riconoscimenti, come poscia nelle commedie di Menandro.

24. La commedia mezzana. Terminata la rovinosa guerra del Peloponneso, Lisandro, demolite le fortificazioni di Atene in un colla libertà, vi costituì quei trenta che furon detti tiranni, cotanto abborriti per le crudeli e feroci sevizie da essi esercitate contro gli innocenti cittadini, che gli Ateniesi con Trasibulo li cacciarono coll’armi, sebbene questo sforzo non riuscisse a libertà. In questo tempo, come suole avvenire sotto il dominio dei despoti, il popolo ateniese fu sì co’ bandi e co’ supplizii infrenato, che di tutt’altro avesse ad occuparsi che della cosa pubblica, e gli passasse quel cotal pizzicore di notar e censurare alla libera i pubblici reggitori ed i magistrati; ed inoltre fu con legge severa provveduto alla licenziosa petulanza dei comici, vietando loro di toccar chicchessia in particolare, e dando abilità a ciascuno che si sentisse pungere sul teatro di citare in giudizio l’autore dello scherzo e costringerlo al silenzio. Tolta così ed al popolo ed ai comici la libertà di mescolarsi in politica, di criticar le mosse dei generali e di tassare i provvedimenti della Repubblica, vennero fuori altri soggetti sopra cui esercitar le critiche e le maldicenze, e si prese di mira le dottrine filosofiche, le opere dei poeti ed antichi e moderni, traducendole in parodie buffonesche, che vestite di mitiche forme furono portate sulla scena; e tali, secondo Platonio, furono l’indole e la natura della commedia mezzana. Altri invece ripongono il carattere di questa nell’abolizione del coro, e nel non esservisi più rappresentati personaggi reali e viventi, contentandosi tutt’al più di qualche velata e lontana allusione. Ma se si osserva che il coro potè esser tolto di mezzo per la soverchia spesa che portava ed il gran numero degli attori e lo sfarzo degli abiti necessarii, spesa a cui era impossibile far fronte quando la commedia, perduti i diritti politici, perdette ancora la dignità della solennità religiosa, e si ridusse a semplice divertimento privato, e che nell’antica commedia non sempre portavansi sulla scena persone reali; dovrassi conchiudere, non bastare questa proprietà a fissare e definire la natura della commedia mezzana, e contraddistinguerla dall’antica.

Invano adunque si cercherebbe di farne un nuovo genere a sè con limiti certi e definiti che vietino di confonderlo con qualsivoglia altro, tanto più che essendosi perdute le opere dei comici di questo periodo lunghissimo, che si stende fino ad Alessandro, non si può discorrerne e giudicarne con sicurezza ma conviene stare a detta di pochi antichi eruditi, che ne fecero appena qualche cenno, e non convengono neppure tra loro. Con più felice conghiettura e con maggior ragione lo Schlegel (lez. 7) suppone questo periodo come un tempo intermedio di vacillazione e di sperimenti diversi, in fino a tanto che l’arte comica si andò sviluppando sotto nuova forma, e l’ebbe definitivamente adottata; di che egli considera la commedia mezzana come una transizione, un passaggio dall’antica alla nuova, ammettendo di più in essa specie differenti, e gradazioni diverse, che possono cadere in taglio nell’istoria dell’arte, ma non costituire un genere particolare. La commedia mezzana adunque fu quasi entomo in formazione, e si elaborò per grande spazio d’anni, finchè compiutamente organizzata non giunse a tal perfezione da spiccare, come vispa e variopinta farfalla, il volo, e vivere d’una vita propria ed indipendente. Essa è come il punto di contatto in cui si uniscono l’antica e la nuova commedia, e come tale ritiene dell’una e dell’altra i caratteri e le proprietà miste e confuse, perdendosi poco a poco quelle della prima, e sottentrando e sviluppandosi quelle della seconda; come procede, per usare una similitudine dantesca, innanzi dall’ardore – Per lo papiro suso un color bruno, – Che non è nero ancora e il bianco muore (Inf. XXV, 64).

25. Comici della commedia mezzana. – I poeti della commedia mezzana furon molti, ma presso Ateneo ed altri se ne trovano pochi frammenti, perite essendo tutte le opere loro. Tra i primi è da collocarsi, come si è notato, Aristofane stesso, che in questo genere, quasi a tracciar la via, compose l’Eolosicon ed il Cocalon. L’argomento dell’Eolosicon ci è dichiarato da un passo di Platonio, che l’attribuisce espressamente alla commedia mezzana. Detto come cessasse il coro per non aver più l’animo gli Ateniesi a pagare i Coraghi, e come per paura s’abbandonasse la satira politica, soggiunge che Ἀριστοφάνης . . . . Ἄιολον τὸ δρᾶμα τὸ γραφὲν τοῖς τοαγῳδοῖς ὡς κακῶς ἔχον διασύρει. Τοιοῦτος οὖν ἐστὶν ὁ τῆς μέσης κωμῳδιας τύπος οἶος ἐστὶν ὁ Αἰολοσίκων Ἀριστοφάνους, restringendosi così alla satira letteraria. Questa commedia ed anche il Cocalon non più sotto il nome di Aristofane furono rappresentate, ma sotto quello del figliuolo suo Araroto, come si ha dall’argomento del Pluto secondo, ultimo dramma venuto fuori col nome dell’autore: Τὸν υἱὸν αὑτοῦ συστῆσαι Ἀραρότα τοῖς θεαταῖς βουλόμενος (Ἀριστοφάνης). Τὰ ὑπολοίπα δύο δι’ ἐκεῖνου καθῆκε Κώκαλον καὶ Αἰολοσίκωνα. Pochi, frammenti dell’Eolosicon si possono vedere presso Ateneo, Efestione, Polluce ed Erodiano.

Il Cocalon, sebbene, quanto al tempo, appartenga alla commedia mezzana, tuttavia, come dice il Dindorf: hac fabula novae comoediarum formae iacta esse fundamenta ab vitae scriptore traditum est , ed ecco il passo: Πρῶτος δὲ καὶ τῆς νέας κωμῳδιας τὸν τρόπον ἐπέδειξεν ἐν τῷ Κωκάλῳ ἐξ οὗ τὴν ἀρχὴν λαβόμενοι Μενάνδρος τε καὶ Φιλήμων ἐδραματούργησαν.... Al che consente altresì un altro grammatico, il quale rammenta come vi si introducessero amori, seduzioni, ricognizioni ed altre scene imitate poi da Menandro: Κώκαλον ἐν ᾧ εἰσάγει φθορὰν καὶ ἀναγνωρίσμον καὶ τἄλλα πάντα ἅ ἐζήλωσε Μενάνδρος. Dalle quali testimonianze si comprova e si conferma quello che si è detto innanzi, non avere cioè la commedia mezzana un carattere proprio ed un genere fisso e determinato, ma rimanere un semplice passaggio graduato, che si effettua lentamente e nel più vario modo fino alla completa trasformazione. Frammenti del Cocalon si sono conservati presso Ateneo, Fozio, Esichio, Polluce, Stefano Bizantino ed altri.

Seguono altri poeti in buon numero; Araroto e Filippo figliuoli di Aristofane; Eubolo, dal Müller chiamato fertilissimo; Amsi ed Amasilao, che fecero bersaglio della satira letteraria il divino Platone; Cratino il giovane, e Timocrate che prese di mira gli oratori Iperide e Demostene; più tardi Alesside, in cui apparvero di già più svolti e meglio maturati i germi della nuova commedia, come colui, il quale visse ancora del tempo con Menandro e con Filemone. Dell’istessa età ed affine nel genere, dice il Müller (c. 29), è Antifane, il più fertile di tutti i poeti della commedia di mezzo, e veramente inesauribile per la forza dell’invenzione e la ricchezza delle facezie. Il numero delle opere di lui, che giungevano a trecento, e più ancora secondo altri, sta a provarci che i comici di quel tempo non più rappresentavano, come già Aristofane, singole commedie alle Lenee ed alle Dionisiache, ma invece o componevano anche per altre feste i loro drammi, ovvero diverse commedie per le medesime feste. Si citano ancora Stratone, Enioco, Sopatro, Sofilo, Damosseno, Dessicrate, Fenicide, ed altri, che si possono vedere presso Lilio Giraldi, de poet. dialog., IV, sopra i quali, per mancanza di opere e di documenti, è inutile trattenersi.

La poesia della commedia mezzana abbandonò via via la primitiva altezza, massimamente per l’abolizione della lirica dei cori, e più non ebbe i voli e gli slanci sublimi di Aristofane; ma lo stile attemperando alla minor importanza degli argomenti, s’accostò mano mano alla comune foggia del favellare, la quale fu poi in tutto adottata dalla commedia nuova. Negli intermezzi poi supplì alla mancanza del coro probabilmente col suono della tibia o del flauto, come si fece dappoi nella commedia nuova e nella commedia romana.

26. Digressione sullo sviluppo dello spirito greco. – Ma qui, prima di passare alla commedia nuova, la qual comincia a manifestarsi in Grecia dopo la morte di Alessandro, la lunghissima durata della commedia mezzana ed i molti e variati tentativi che in essa furono fatti senza che mai si ritornasse a nulla di simile alla commedia antica, mi traggono a fare un’osservazione, che può dar luogo ad importanti ricerche intorno ai progressi ed alle modificazioni dello spirito greco.

Ho detto più sopra che si estinse il genere dell’antica commedia violentemente per essersi, mediante una legge repressiva, circoscritti e ristretti i limiti della comica libertà, e tale è la comune sentenza degli antichi e dei moderni. Ma chi consideri che una legge fatta da un arconte potè essere abrogata da un altro; ed è certo impossibile che essa durasse in vigore sì lungo spazio di anni, principalmente in una repubblica qual’era l’ateniese, alla quale potrebbesi applicare il dantesco (Purg. VI, 142): a mezzo novembre – Non giugne quel che tu d’ottobre fili; chi consideri ancora, che la gelosa oligarchia spartana non fu eterna in Atene, ma che bene spesso risorse e talora per buono spazio si sostenne l’antica democrazia, e sorpassa anche la licenza degli antichi costumi, tanto più poi ai tempi delle contese e delle guerre fra i successori di Alessandro, quando il popolazzo sciolto e sbrigliato aveva tal predominio da non solo condannare a morte il virtuoso Focione, ma da vietargli perfin la difesa, e costringerlo a dare egli stesso al carnefice di che comperargli la mortale cicuta; e che pure in tanta libertà non sorse più nè un secondo Cratino, nè un secondo Aristofane: si vedrà non essere sufficiente la recata ragione a spiegarci un fatto così singolare, ma doversi con un’attenta e sottile investigazione ed analisi dello spirito greco risalire dall’ordine dei fatti a quello delle idee per trovarne una ragione più intima nel carattere stesso della civiltà ateniese considerata nei diversi suoi momenti.

Una tale ricerca eccederebbe i limiti del presente scritto, nè io sarei sufficiente a dirigerla e condurla acconciamente in modo da ricavarne un utile risultato e da potersene appagare. Questo solo dirò che ben diverse furono le condizioni del popolo ateniese dopo Maratona e Salamina, da quelle che entrarono poscia dopo la guerra peloponnesiaca, e molto più poi dopo Cheronea.

Dopo quelle gloriose vittorie contro i Persiani, salita al più alto grado la libertà repubblicana, gli Ateniesi viveano, si può dire, una vita pubblica intesa tutta all’amministrazione ed al governo della città, poichè da tutte le classi di cittadini dipendeva l’esito delle pubbliche deliberazioni: e però tutti, abbandonate alle donne le domestiche cure, vi pigliavano vivissima parte, e ne’ tribunali, nella pnice, nel foro, nelle adunanze erano continui, vivendo a questo modo ciascun individuo, più che della propria, della vita dello Stato; ed ecco, sto per dire, la molla nascosta che diede l’impulso e sostenne l’antica commedia. Laddove, dopo lo snervamento del poter popolare, affievolitisi gli animi, e cessate le politiche cure, ciascuno trovossi rinchiuso nella breve cerchia della casa e della famiglia, onde pigliò campo la vita privata, ed in questa si esaurirono le facoltà e le attività che prima erano volte alla vita pubblica. Il commercio allargatosi aprì nuove fonti di ricchezza e l’adito al lusso, allo splendido e delicato vivere; i costumi piegarono, pel continuo ingentilirsi, a voluttà e mollezza, in guisa che le dottrine di Epicuro non furono più tardi che un’espressione della reale condizione della società ateniese; e di qui propriamente rimase soffocato il genio dell’antica commedia, che più non risorse neanche col rinascere della più sfrenata demagogia. Gli spiriti legati dalle attrattive della vita privata, nausearono quel rozzo e fiero dramma, che più non conveniva allo lor tempre ammollite, laonde quella legge repressiva, che dicevamo, invece di causa efficiente, fu pura conseguenza del gusto cambiato, e percosse quello che il comune sentire e la pubblica opinione avevano di già fastidito e dannato. Dall’intrinseco adunque della stessa società, più che da cause estrinseche, qual sarebbe una legge, procedette siffatta mutazione; e la legge appoggiata dal suffragio universale forse ad altro non valse che a contenere e reprimere qualche individuo che si distinguesse dagli altri, ed in cui ripullulassero i germi dell’antica libertà. Come più s’approssimano i tempi della dominazione macedone, più e più si trasforma anche lo spirito greco, e di maschio e violento che era, infemminisce e diventa evirato; poscia le conquiste del grande Alessandro aumentano le ricchezze e gli agi, dilatano le cognizioni ed ampliano le relazioni de’ popoli; molti Greci ch’avevano seguito quel conquistatore, tornati a casa ricchi e gloriosi badano a darsi buon tempo ed a scialarla con cortigiane e con parassiti; si scioglie quindi la salda tempra dei petti greci, il tutto volge a squisita mollezza; e sebbene non perisca il brio e la vivacità ateniese, tuttavia queste doti non più alle pubbliche cose, ma si dirigono ad intrighi amorosi, a vana curiosità, ad inezie. Il quale stato della società ateniese ci fu espresso al vivo da quel fino ed arguto osservatore e pittore di caratteri che fu Teofrasto, la cui operetta, esaminata attentamente, ci rivela la vita intima greca, e ce ne fa conoscere l’indole e la natura distintamente. Veggansi p. e. i caratteri dell’adulatore, del piaggiatore, del ciarliero, e specialmente dell’inventor di notizie, sempre affaccendato a dare e sentire novelle per appagare la curiosità de’ suoi concittadini, e spacciarne d’ogni maniera per empiere, si direbbe, il vuoto d’una vita frivola ed oziosa, ed allontanare, quanto è possibile, quel tremendo punitor dell’ozio, il tedio.

Cotali furono pertanto gli elementi che prepararono la commedia nuova, di cui devo ora parlare, la quale, giunta ad ottenere per mezzo di Filemone e di Menandro una forma stabile e ben determinata, la ritenne poi sempre, e rimase modello, a norma del quale si lavorarono le commedie di tutti i tempi e di tutte le nazioni.

27. Carattere della commedia nuova. – La commedia nuova non ha che far nulla coll’antica, nè da questa ritrasse cosa alcuna, chè il suo carattere è opposto al carattere dell’antica. Come si è veduto, l’antica commedia era tutt’allegria e vivacità, vi dominava il più schietto ridicolo, e la burla e la satira ne costituivano il fine ed i mezzi: con stile immaginoso e poetico s’usavano i simboli più stravaganti a rappresentare fatti anche comuni, s’accozzavano idee e pensieri i più disparati, e la calda fantasia del poeta spaziava libera e sciolta per i campi immensi della finzione, mettendo sulla scena gli Dei, gli enti irragionevoli, e perfino le astrazioni della mente personificate. Ma la commedia nuova ristrinse di molto il ridicolo, e dalla tragedia tolse un elemento serio che formò l’intreccio e lo svolgimento del dramma, usando del ridicolo unicamente come d’una tinta e di un allegro colorito da velare la serietà dell’azione, e rendere il quadro piacevole ed attraente. Artifizio maggiore nel condurre le scene, facilità ed eleganza nel dialogo, caratteri ben scolpiti e mantenuti nei personaggi, verosimiglianza ne’ fatti e naturalezza nella loro combinazione e disposizione, unità di luogo e di tempo per lo più conservata, sobrio e spesso morale maneggio dello scherzo; ecco i pregi che distinsero la commedia nuova, e le assicurarono una vita indestruttibile. Non più il Deus ex machina, non più personaggi d’alto affare, ma semplici uomini, e non delle classi più elevate, ma schiavi, cortigiane, parassiti, e l’azione intiera in balìa del caso e dell’astuzia umana. Euripide nelle sue tragedie aveva già abbandonato la sublime grandezza di Eschilo, e la locuzione nobile e splendida ridotta a forme più umili e più comuni, ragione per cui venne fatto segno all’ira di Aristofane, che ne riguardò le tragedie come ciarpe, e lo vituperò in ogni maniera screditandole e svilendole; ma appunto per questo Euripide fu prediletto da’ comici nuovi, i quali sulle sue modellarono le loro scene, e ne colsero il carattere e l’andamento; e come nella tragedia aveva predominio la cieca e terribile forza del Destino, così essi vi sostituirono quella del Caso, non meno fatale, ma più mite e più popolare, e da cui nascono d’ordinario le situazioni più comiche e più saporitamente ridicole, come dalla prima sono prodotte le terribili e spaventose della tragedia. In generale poi i comici antichi lavorarono intorno ad un’idea per lo più bizzarra ed aerea, vestendola di mille svariatissime forme poetiche; i comici nuovi invece dipinsero la vita pratica e reale, e rappresentarono al vivo i costumi degli uomini quali erano al loro tempo. Nè quando si dice vita pratica e reale, s’ha da intendere che in nulla si scostassero dal vivere comune, e che la invenzione e la finzione avessero campo assai ristretto e sterile (poichè la vita umana, qual è realmente, mostra ben poco di poetico, ed è assai difficile che possa dar luogo ad un intreccio comico; nè un avaro, p. e., commette tanti atti di avarizia in un giorno, quanti se ne rappresentano in una commedia): ma sì la vita reale recata nel campo dell’immaginazione ed in esso lavorata e digesta in modo da formarne un intreccio ben congegnato, senza per altro uscire dal verosimile relativo a quel fatto che il poeta pone a fondamento, e su di cui svolge il suo intreccio, p. es. la supposizione d’un figliuolo, il rapimento d’una fanciulla; operando in modo che l’accumulare dei tratti proprii d’un carattere non sembri fatto a caso e senza una evidente ragione, ma proceda dalla natura stessa dell’intreccio, da cui, come da molla, si dia lo scatto a quel dato carattere di erompere in quegli atti. E qui è dove veramente consiste l’arte più sottile e più squisita del vero poeta comico, nella quale riuscirono maravigliosamente quegli antichi maestri Filemone e Menandro, del secondo dei quali disse il grammatico Aristofane: «O vita, e tu, Menandro: quale dei due imitò l’altro?»

Ma ciò che soprattutto distingue la commedia nuova si è l’amore, che divenne, come a dire, il dominatore, il re del teatro, e versò spesso nella commedia a larga mano l’immoralità. L’intreccio della commedia greca e della latina è d’ordinario una pratica amorosa, la qual tende non già ad un fine onesto, ma a scopo di mero piacere sensuale, poichè il matrimonio che ne segue, è quasi sempre un puro accidente del caso, che fe’ riconoscere, per esempio, libera colei ch’era schiava, od una punizione inflitta ad un giovane scapestrato e donnaiuolo, od uno spediente d’un figliuolo colpevole per disarmar l’ira del padre. Veggasi, per citare un esempio, la scena ultima del Trinummus di Plauto, ove Lesbonico, giovine scialacquatore e perduto dietro le mondane, viene dal vecchio Carmide suo padre, tornato allora da lunghi viaggi, condannato al matrimonio come ad una vera pena:

Charmides. . . . . si tu modo frugi esse vis,

Haec tibi pacta ’st Callicli filia.

Lesb. Ego ducam, pater,

Etiam si quam aliam iubebis.

Charm. Quamquam tibi succensui.

Call. Miseria una uni quidem homini ’st affatim.

Charm. Immo huic parum ’st.

Nam si pro peccatis centum ducat uxores, parum ’st.

Vedi parimente l’ultima scena dell’atto V dell’Heautonti rimorumenos di Terenzio, in cui Clitifone viene, come a severo castigo, condannato a tôr donna, e quanto egli se ne dolga, e quanto la madre Sostrata s’adopri a lenirgliene la pena.

E tale si è il concetto in cui era tenuto il matrimonio presso i Greci ed i Romani, i quali riguardavanlo come un puro contratto civile, per cui il padre d’una fanciulla pagava, sborsando la dote pattuita, chi se la togliesse per moglie, e questa veniva negoziata come una merce senza essere tampoco veduta dallo sposo: nè le leggi occupavansi del matrimonio se non in quanto serviva a determinare la certezza e la legittimità della prole, ed a mantener pura da elementi stranieri la cittadinanza. Quindi i giovani non s’accasavano se non dopo d’essersi logori in certi amorazzi, che venivano loro permessi dalla morale indulgente dei Greci e dalla comune opinione dei padri, che i figliuoli debbano scapricciarsi e cavarsi un tratto tutte le voglie, prima di sottoporre il collo al giogo; e maritati così a contraggenio, ritenevano la moglie in casa come una schiava, bistrattandola in tutte le maniere, e pur seguitando a sollazzarsi e darsi tempo colle cortigiane, finchè la vecchiaia non ne togliesse loro il modo, chè allora se ne stavano in casa a borbottare e tincionare colla moglie tutto il giorno. Come fossero stimate ed amate le mogli lo vediamo nelle commedie stesse, nelle quali non son mai altro che un inciampo, cui pregasi gli Dei di toglier di mezzo il più presto. Vedasi, a mo’ d’esempio, come ne ragionino tra loro i due vecchi Callicle e Megaronide nella scena 2a dell’atto I° nel Trinummus di Plauto:

Call. Quid agit tua uxor? ut, valet?

Meg. Plusquam ego volo.

Call. Bene hercle est, illam tibi bene valere et vivere.

Meg. Credo ergo te gaudere, si quid mihi mali est.

Call. Omnibus amicis, quod mihi est, cupio esse idem.

Meg. Eho tua uxor quid agit? Call. Immortalis est,

Vivit, victuraque est. Meg. Bene hercle nuntias,

Deosque oro, ut vitae tuae superstis suppetat.

Call. Dum quidem hercle tecum nupta sit, sane velim.

Meg. Vin’commutemus? tuam ego ducam et tu meam! .

Così ancora ne discorre Damone vecchio nell’atto IV, sc. 1a del Rudens:

Benefactum et volupe est hodie me his mulierculis
Retulisse auxilium, iam clientas repperi,
Atque ambas forma scitula atque aetatula.
Sed uxor scelesta me ommibus servat modis,
Ne qui significem quippiam mulierculis. . . . .
Sed ad prandium uxor me vocat, redeo domum,
Iam auris opplebit meas sua vaniloquentia.

Anche in Terenzio è da vedere come Lachete nell’Ecira tratta la moglie Sostrata, p. e. act. II, sc. 1, e act. IV, sc. 3.

Di Menandro altresì si cita questa sentenza: θάλασσα καὶ πῦρ καὶ γυνὴ, τρία κακά; il mare, il fuoco e la donna, tre malanni.

Questo fastidio, quest’uggia verso la moglie, quel riguardar le nozze come esequie del buon tempone e dell’allegria, lo deriva il Müller (op. cit. cap. XXIX) dall’insocievole e ritirata vita delle fanciulle ateniesi, qual egli la descrisse nel capo XIII, giusta la quale non era possibile un amore costante colla figlia d’un cittadino; laonde in Menandro non occorre di ciò mai cenno alcuno. Che se il nodo della commedia sta nella seduzione d’una fanciulla ateniese, quella ebbe sempre luogo in un incidentale incontro, per esempio in un pervigilio dalla religione sanzionato in Atene in sin dai tempi più remoti, e nello stato d’allegria e d’ebbrezza giovanile; o altramente la seduzione fu d’una schiava od etera , di cui s’è mortalmente invaghito un giovane, e la qual poscia viene a riconoscersi per una legittima cittadina ateniese, ed allora il matrimonio suggella un’unione stretta da prima con diverso fine. Per contrario le cortigiane, sempre straniere o liberte, erano colte, ornate, di modi gentili e graziosi, cantanti e suonatrici di cetra o di flauto, e tanto destre ed astute, da cogliere accortamente i giovani, ed invescarli nelle loro panie.

Tale era dunque l’andazzo comune, tale la domestica vita dei Greci e specialmente degli Ateniesi, e perciò cotali riprovevoli e pessimi costumi furono non meno fedelmente che scandalosamente ritratti nella commedia nuova, massime da Filemone e da Menandro, che di questa furono i creatori. Laonde, sebbene la commedia nuova abbia dato drammi senza numero, l’intreccio ed i caratteri sono press’a poco sempre i medesimi, e ritornano sulla scena sempre gli stessi personaggi: un giovane scapato perduto nell’amore d’una cortigiana, o d’una schiava; un vecchio misero e tirchio, che attende pure a far masserizia e rompe i disegni del figliuolo unicamente per paura di spendere; uno schiavo, spesso protagonista del dramma, che dà di spalla al padroncino e con mille trappolerie smugne la borsa del padre, ed a cui è affidata quasi tutta la parte ridicola e buffonesca; una schiava accorta ed astuta che porta polli ed ambasciate; un ruffiano, uomo avido ed ingordo, che traffica la carne umana e mette schifo, a cui si tendono mille insidie e lacciuoli per cavargli di mano le fanciulle che e’ vende al miglior offerente; un parassito vile e goloso, che invitato e non invitato interviene a’ pranzi, ed egli stesso s’incarica di tôrre quello che bisogni come uomo di buon gusto, e talora ha anche alle mani gli affari più delicati e più importanti, e diventa un personaggio principale; finalmente un rodomonte, uno spaccamonti di soldato, venuto dalle guerre del re Seleuco, che spende e spande in donne ed in conviti, e lancia campanili intorno alle sue belliche imprese, ma che in realtà è un coniglio e un da nulla, e finisce sempre facendo la figura d’un grullo scorbacchiato e destando dei fatti suoi la più vivace ilarità. I comici si divertivano, in questo carattere, e ne componevano le più comiche e piacevoli scene, Plauto sopra ogni altro, che vi dedicò una intiera commedia, il Miles gloriosus: v’affibbiavano prima di tutto nomacci sonori e significativi, come Terapontigone, Pirgopolinice, Antemonide, ed in loro bocca creavano felicemente nomi proprii e comuni senza senso, come in Plauto, oltre al re Cluninstaridisarchide, la battaglia pentetronnica, in cui Antemonide narra a Lico ruffiano (Poenulus, act. II, sc. 1a) d’aver ucciso sessantamila uomini volatili . . .

. . . . . . . . . . . . Ita ut occepi dicere,
Lenulle, de illac pugna pentethronnica,
Qua sexaginta millia hominum uno die
Volaticorum manibus occidi meis.

Ed in Terenzio lo smargiasso di Trasone che narra a quel furbo scozzonato di Gnatone parassito e adulatore, come con un detto, di cui s’attribuiva il merito, ma forse non ne comprendeva lo spirito, dèsse una botta ad un cotal di Rodi: (Eunuchus, act. III, sc. 1a):

. . . . . . . . . . . . . .Quid illud, Gnatho,
Quo pacto Rhodium tetigerim in convivio
Numquid tibi dixit? . . . . . . . . .
Erat hic, quem dico, Rhodius adolescentulus:
Forte habui scortum: coepit ad id alludere,
Et me irridere: quid agis, inquam, homo impudens?
Lepus tute es et pulpamentum quaeris.

Anche agli schiavi diedesi gran parte nelle commedie; per intendere la qual cosa, è da notare che costoro già ai tempi di Alessandro avevano rivestita una certa importanza nella società e nella famiglia, e quantunque fossero anche trattati a colpi di sferza e di bastone, nondimeno, astuti com’erano, avevano non piccola influenza principalmente sui giovani padroni, a’ quali prestavano l’opera e l’accortezza loro, aiutandoli a conseguire i bramati intenti ed a svaligiare la casa paterna, e d’altra parte ripieni d’odio contro il vecchio padrone che trattavali senza umanità e senza misericordia, erano a nozze ogni volta che potessero vendicarsi col raggirarlo e levarlo in barca. Ripieni della più fina furberia, la quale abbonda sempre in chi è calcato e premuto da un giogo crudele, ricchi di mille spedienti e di mille frodi, bugiardi di professione, liberi ed arroganti nel parlare, facili al motteggio ed alla baia, con cui forse cercavano di dimenticare la miserabile lor condizione, dominati da sentimenti volgari e da sensuali istinti, offrirono al comico un personaggio acconcissimo allo svolgimento del dramma, ed un carattere non meno facile a dipingersi che piacevole e da far bella prova in sulla scena.

Di qui è agevole intendere, quale sia stata l’indole della nuova commedia e di quanto differisca dall’antica. Ovidio in due soli versi ne espresse al vivo il carattere generale dove discorre per singolo della perenne fama dei poeti:

Dum fallax servus, durus pater, improba lena
Vivent, dum meretrix blanda; Menandros erit.

Ed altrove accennando alla fedele imitazione di Menandro, a cui s’attennero tutti i comici, ne riduce il tutto all’Amore:

Fabula iucundi nulla est sine amore Menandri.

La commedia nuova ebbe ancora regole fisse e determinate che mancarono all’antica, sebbene non fossero sì ristrette e sì misere da vietare al poeta la libertà, e talora anche la licenza di violarle introducendo qualche novità. Furono in seguito i pedanti, i quali ne fecero canoni imprescrittibili e ne pretesero la scrupolosa osservanza. La commedia d’ordinario comprendeva cinque atti, onde Orazio volle che non n’avesse nè più nè meno, quantunque certo non credesse, che un numero maggiore o minore guasti il buon andamento del dramma, ma una tal regola fissasse unicamente per mantenere e seguire la consuetudine dei migliori (Ep. ad Pis., 189):

Neve minor neu sit quinto productior actu
Fabula quae posci vult et spectata reponi.

Anche conservò in generale l’unità di tempo e di luogo, ma non con quella puntualità e con quel rigore che pretesero i critici, specialmente francesi. Eccezioni in gran numero si possono citare, le quali, presso che non dissi, distruggono la regola. Per esempio, quanto al luogo, nell’Aulularia di Plauto, Euclione, alla fine dell’atto III, dice di voler andare a nascondere il tesoro nel tempio della Fede, e nella scena 2a dell’atto IV comparisce sulla scena dentro a questo tempio: nel Truculentus la commedia comincia nella strada; ma nell’atto II la scena è in una camera da letto, in cui fingesi coricata sopra parto la cortigiana Fronesio: il Persa, l’Asinaria, lo Stico cominciano parimente nella via, ma i banchetti e i dissoluti bagordi che seguono non potevano certo essere nel medesimo luogo rappresentati. Quanto al tempo poi, ne’ Captivi, alla fine dell’atto II, Filocrate parte da Calidone d’Etolia e va in Elide nel Peloponneso; nell’atto IV è già ritornato, e nel V compare in iscena; or questo viaggio non potè compiersi nello spazio di ventiquattr’ore: nell’Heautontimorumenos di Terenzio l’atto I si suppone di giorno; alla scena 3a dell’atto II si fa notte, vesperascit; al primo verso dell’atto III è albore, luciscit hoc iam, e rimangono ancora tre atti a compire la rappresentazione. Nonostante queste eccezioni, l’unità di tempo e di luogo è meglio osservata che non sia in certi drammi di qualche moderno, in cui tra un atto e l’altro passa talvolta qualche anno, e lo spettatore è agevolmente sbalestrato di Francia in Ispagna od in Italia.

Quanto al ridicolo della nuova commedia, è da dire che fu più temperato e più modesto che nell’antica, e si ristrinse a rappresentare un vizio ed una deformità che non produce dolore, nè distruzione del soggetto in cui si trova, secondo la definizione che ne dà Aristotile: Τὸ γὰρ γελοῖόν ἐστιν ἁμάρτημά τι καὶ αἶσχος ἀνώδυνον, καὶ οὐ φθαρτικόν; ma nello stesso tempo non mancò di brio, di vivacità e di sale da condire tutta la commedia, togliere l’effetto morale che si potrebbe produrre dalla serietà dell’intreccio, e mantenere allegro lo spettatore fino alla fine. Quindi nelle scene serie e a volte patetiche, le quali desterebbero o pietà od amore, od odio, viene d’ordinario introdotto uno schiavo buffone od un parassito ghiottone che volga in beffa quello che altri dice da senno, e colla parodia e col contrasto faccia ridere anche delle cose serie: in guisa che, mentre l’uno sospira d’amore, l’altro sbadigli dalla fame; mentre l’uno loda l’amica e s’augura d’esser con lei, l’altro esalti un delicato intingolo e s’auguri d’ugnersi il grifo ad una buona tavola; o mentre quegli smania e s’adira, questi con serietà carica ed esagerata gli raccomandi di non scalmanarsi e si esibisca di andargli a prendere un bicchier d’acqua, e così via. In questa maniera gli antichi mantennero l’indole propria della commedia, e la tennero ben lontana dallo stile e dal fare tragico, conoscendo a meraviglia che quando si lasci predominare l’elemento serio, o si finisca col convertire il vizioso, rinsavire lo spensierato ed il matto, l’elemento comico si dissolve poco a poco fino alla compiuta distruzione di se stesso. Quindi se talvolta il vizioso si converte, lo scapato rinsavisce, ciò è prodotto non da convincimento, e dal riconoscere e detestare il male: ma, o perchè si trovano a tali strette da non poterla scapolare con raggiri e con imbrogli, e si danno, più che ad altro, a fingere e simulare; o perchè s’accumulano circostanze tali e concorrono tali accidenti, che mentre li costringono al bene loro malgrado, aumentano d’altra parte la situazione comica. Possono talvolta darsi scene comiche e ridicolissime; ma se terminano in sul serio, cancellano tutta la prima impressione, e non saranno mai soggetti d’una buona commedia. Per es., qual cosa di più ridicolo che nel dialogo tra don Abbondio e il card. Federigo del Manzoni il contrasto tra questi due personaggi, tra le gravi esortazioni del cardinale e la stizzosa peritanza del povero curato ch’ha sempre il pensiero a’ bravi, a don Rodrigo, alle schioppettate? Eppure una scena siffatta disdirebbe in una commedia, perchè alla fine don Abbondio commosso e pensoso, che promette a Federigo, con una voce che in quel momento vien proprio dal cuore, di cercar occasioni di far del bene a cui aveva fatto del male, annulla il riso e l’allegria, e compone a serietà il volto del lettore.

28. Dei comici della commedia nuova. – Dati così alcuni rapidi cenni intorno all’indole della nuova commedia, conviene soggiungere qualche notizia circa ai principali autori di essa, che sono Difilo, Filemone, Menandro, ed Apollodoro, i quali si distinsero sopra gli altri fra i numerosi cultori di essa presso i Greci. Di tutti il tempo nemico distrusse le opere, e più che dai frammenti rimastici, dobbiamo giudicarli dai comici latini, che non pur calcarono le loro vestigia imitandoli, ma spesso, a guisa del fidus interpres di Orazio, li diedero letteralmente tradotti; sebbene anche questo non basta a formarcene un’idea chiara e precisa; poichè i Greci nell’imitazione latina molto perdettero, se non altro, quanto alle particolarità: ed è quindi mestieri ridonar loro coll’immaginazione quell’accurato e grazioso colorito che si osserva nei superstiti frammenti, ed avere a mente, che dove nei Latini la costruzione e l’impasto del verso sono di molto trasandati, e la elocuzione sente spesso del rozzo e dell’informe, nei Greci al contrario univasi alla massima facilità la più esatta osservanza del metro, e la più pura e schietta eleganza, che è quella cui i Latini chiamarono venere attica a’ Greci soli concessa, a’ quali dedit ore rotundo Musa loqui.

Filemone è di tempo alquanto anteriore a Menandro, ma non è certo se fosse di Siracusa o di Pompeiopoli in Cilicia. Forse egli poneva studio, più che altro, a piacere alla moltitudine, ed aveva modo di cattivarsene gli animi ed il favore, poichè non una volta sola tolse il premio a Menandro, il quale un giorno incontratolo, narrasi gli dicesse: «Filemone, non ti vergogni quando riporti il premio sopra di me?» Plutarco di lui racconta, che avendo in publico teatro schernito il satrapo Magas rinfacciandogli di non saper leggere, questi contentossi, avutolo nelle mani, di toccargli il collo colla scure per dargli una lezione preventiva, e lo licenziò regalandolo di trastulli e di giocattoli come un fanciullo. – In alcuni frammenti di lui incontransi di buone sentenze morali ed avvisi opportunissimi diretti specialmente ai giovani, i quali egli esorta a non confidare nelle ricchezze, mettendo loro sott’occhio la instabilità della fortuna; nè nei parenti e negli amici, che nelle calamità vengono meno: ma ad attendere alla scienza ed alle arti, nelle quali altri, come in porto, può gittar l’àncora e starsene sicuro dalla violenza del mare della vita.

Difilo fu da Sinope, e compose, a quanto si dice, novantasette commedie. Da Clemente Alessandrino è appellato κωμικώτατος καὶ γνωμηκότατος, il quale anche ce ne conservò un frammento nel lib. V degli Stromati; e Plauto da lui imitonne alcuna, sebbene, come dice lo Schlegel, con molta caricatura.

Apollodoro, di Gela in Sicilia, compose centonove drammi, d’alcuni dei quali serbansi ancora i titoli, e secondo Donato fornì a Terenzio l’idea ed il modello del Formione e dell’Ecira. S’annoverano tre comici di questo nome, tra i quali uno ateniese a cui Suida attribuisce quarantasette commedie compresi l’Ἑκυρά l’ Ἐπιδικαζόμενος, onde, secondo il Meursio, da questo, e non dal siciliano, Terenzio avrebbe ritratto le sue. Apollodoro di Caristo, secondo il Meinecke, non fu contemporaneo di Menandro, ma appartiene alla generazione successiva, nella quale contasi pure Filemone figlio del primo già nominato, ed altri molti poeti di minor conto e di minore autorità.

Ma sopra tutti volò come aquila ed ottenne lo scettro ed il nome di principe della nuova commedia l’ateniese Menandro, il quale fiorì circa il cominciare del quarto secolo avanti Cristo. Della vita e delle opere di Menandro e di Filemone trattò sì ampiamente il Meinecke, che nulla più lasciò da spigolare in questo campo, e ne’ Fragmenta comicorum graecorum ne radunò le sparse preziose reliquie, unendovi le testimonianze ed i giudizii degli antichi scrittori intorno a questo o quel poeta comico, e le congetture dei critici moderni, ed i frammenti ordinando sotto il titolo di ciascuna commedia, da cui è noto fossero estratti; si potrà quindi consultare quest’opera ed attingerne più copiose e più minute notizie, che non sono queste raccolte nel presente scritto.

Plutarco, il quale fu sì aspro e severo ad Aristofane, come si è veduto, mostrasi poi tutto amore per Menandro, e dice che se non fuvvi mai al mondo artefice in ogni arte valente, Menandro seppe del pari dipingere ogni età, ogni condizione, ogni natura con isquisita proprietà e colla massima aggiustatezza e verità di disegno e di colorito, e ciò da giovane ancora, essendo egli morto nel fior degli anni, onde si può arguire qual cosa avrebbe fatto, se, ammaestrato dall’esperienza e perfezionato da più solido e più lungo studio, fosse giunto ad una matura virilità, quando l’anima dispiega tutte le sue forze, il gusto s’aguzza e s’affina, e lo stile s’invigorisce e si consolida. La lucidità di linguaggio, i segni di squisito buon senso, l’attica purezza, che ancora risplendono ne’ suoi frammenti, ci rivelano in lui un amabile scrittore ed un artista di vaglia, il quale ben fu meritevole delle amplissime lodi tributategli da tutta l’antichità e perfino da alcuni illustri Padri della Chiesa cristiana, per altro avversi al teatro. Menandro, dice Domenico Capellina, colse lo spirito greco non in questa od in quella delle sue individuali manifestazioni, come facevano i poeti comici antichi, ma nella sua espressione più generale dipinse la società, non con fare la caricatura della particolare fisionomia ch’ella assumeva a’ suoi tempi, ma coll’esprimere, sotto la sembianza de’ suoi contemporanei, i veri caratteri morali della sua nazione, anzi dell’uomo. Quindi egli doveva durare quanto la sua nazione e quanto l’uomo; nè è maraviglia, se ai tempi di Quintiliano le sue commedie si rappresentavano ancora ne’ teatri, ed a quei di Plutarco formavano e nei teatri e nelle biblioteche la delizia degli uomini colti. Educato Menandro alla scuola del filosofo Teofrasto, imparò da questo arguto osservatore ad analizzare minutamente il cuore umano, apprendere l’indole delle passioni che esagitano e dominano la nostra vita, e cogliere la natura, sto per dire, in flagranti, allorquando essa opera spontaneamente; e quindi tra i caratteri di Teofrasto e i personaggi di Menandro notasi spesso affinità e relazione, come p. e. tra l’ἀλαζών e il Taso della commedia, se non che il primo, non un mercenario, ma è un cittadino ateniese che si fa bello e si vanta delle sue relazioni co’ Macedoni.

La morale lassa ed indulgente delle sue commedie, le quali, come si è detto, versano quasi sempre in intrighi amorosi ed in cotali baie non certo edificanti, convien riconoscerla dalla stemperata e corrotta società ateniese, la quale, perduta la libertà, perdette ancora l’integrità del costume ed il sentimento potente della virtù. L’espressione dottrinale e filosofica di tale società ce la diede Epicuro, che confinati gli Dei nelle regioni intermondiali, e posti gli uomini in balia del caso (Τύχη), die’ lo sfratto alla virtù costituendo a fondamento del suo sistema il senso e l’egoismo che ne conseguita, e la felicità collocando nella fruizione del più vivo e più squisito piacere; l’espressione pratica invece ci fu somministrata da Menandro, che dipinse con pennello delicato e con tinte morbidissime l’allegra e spensierata vita dei Greci, e colla sensualità cercò di dilettarne le anime dolci e serene. E Menandro ed Epicuro furono non solo contemporanei, ma condiscepoli συνέφηβοι, come si ha da Strabone; e quegli di questo fu tale ammiratore, che non solo n’abbracciò e ridusse in pratica le dottrine, ma in un epigramma, che ci rimane di lui, gli attribuisce la lode d’aver resa sapiente la gente greca, come Temistocle l’aveva fatta libera:

Χαῖρε Νεοκλείδα δίδυμον γένος, ὧν ὁ μὲν ὑμῶν
Πατρίδα δουλοσύνας ῥύσαθ’, ὁ δ’ ἀφροσύνας.

La vita molle ed effeminata di Menandro è notissima, e famosi sono i suoi amori non solo con quella Glicera tutta anima e tutta grazia, ma ancora colla prepotente Taide, e colle più rinomate cortigiane di que’ tempi. Volgatissima è pure l’istoria di Fedro (lib. V, fab. 1a), nella quale si racconta come salito al potere in Atene Demetrio Falereo, molti, com’è costume del volgo, venivano a dargli il Feliciter, tra’ quali recossi eziandio Menandro unguento delibutus, vestito adfluens . . . gressu delicato et languido. Il tiranno, come lo vide così abbigliato e cascante di vezzi, lo scambiò per un cinedo e se ne sdegnò; ma avvertito da’ circostanti ch’egli era Menandro, del quale con gusto e piacere leggeva le commedie senza conoscerlo di persona, si mutò tantosto, l’accolse benignamente, e sel fece familiare ed amico. La mollezza sua adunque, e della società in cui viveva, egli improntò nelle commedie quanto alla scelta ed al maneggio dei soggetti, non meno che quanto allo stile ed alla lingua, i quali non ebbero più il nerbo e la natia semplicità di Aristofane, ma l’uno seppe dolce e mellifluo, l’altra adorna e fiorita.

Nondimeno fu ricco di eccellenti sentenze morali, il che fe’ sospettare a Clemente Alessandrino non forse egli avesse avuto alle mani i libri degli Ebrei. S. Paolo, che si valse talvolta de’ versi di Arato e di Epimenide, citò ancora il verso seguente, che secondo S. Gerolamo è di Menandro: φθείρουσιν ἤθη χρῆσθ’ ὁμιλίαι κακαί . . . . Queste sentenze monostiche in buon numero trovansi raccolte cogli altri frammenti ed i giovani ne potrebbero imparare non solo buoni precetti morali, ma altresì la brevità, la precisione e la nettezza del pensiero e della dizione. Morì Menandro in età giovanissima, ma piena e feconda di opere e di gloria , affogato mentre nuotava nel porto del Pireo; al che accenna Ovidio in quel verso (lib. in Ibin., v. 593): Comicus ut mediis periit dum nabat in undis , e lasciò un vuoto nel teatro greco che più non fu riempiuto.

L’opere di lui restarono modello ai seguenti poeti ed ai latini, specialmente al grazioso e delicato Terenzio, poi miseramente perirono per l’ingiurie del tempo, e per l’indifferenza, l’incuria, l’ignoranza degli uomini. Del dolore, dice il Capellina, che noi proviamo per la perdita dell’antico teatro dei Greci, la maggior parte è per Menandro, poichè sentiamo che nessuno, quanto lui, ci potrebbe porgere un’immagine intiera e perfetta della squisita eleganza dei Greci in quel genere di poesia.

29. Rapida decadenza della commedia greca. – Come dopo Euripide la tragedia, così dopo Menandro la commedia in Grecia cominciò a discendere rapidamente, e più non sorse alcuno che levasse grido e fama di sè. Si raffazzonarono e rimpastaronsi le commedie di Menandro; ma più non comparve un genio creatore.

Nei tempi posteriori (120-200 dopo l’E. v.) Luciano, dalla natura inclinato al motteggio, dotato d’immaginazione potente, di senso acuto, di discorso facile ed elegante, avrebbe potuto far rivivere la commedia di Aristofane, a cui niuno certo fra gli antichi si può quanto Luciano assomigliare per l’argutezza del genio satirico; ma, come egregiamente osserva Luigi Settembrini, Aristofane era in tutto e pienamente libero, e però spaziava nella commedia, che è rappresentazione della vita intera; laddove Luciano non era libero se non nella religione non più creduta, nella filosofia divenuta scettica, e nel costume; libero d’una libertà in gran parte astratta: e però si ristrinse in una forma più breve, ed inventò un certo dialogo che è come una parte o una scena della commedia. Ma se Luciano avesse composto vere commedie, forse l’Ateniese avrebbe trovato in lui se non un superiore, almeno un eguale; tanto son piene di brio e spiritose queste scene parziali e staccate, tanto è destro e sicuro il maneggio del dialogo e del ridicolo.

Nei tempi cristiani il teatro greco, perduto ogni pregio rispetto all’arte, divenne scuola scandalosa d’immoralità e di vizio, in cui non pur dicevansi le più basse scurrilità, ma mostravansi in sulla scena le più nefande turpitudini, in modo che ne stomacarono non pure i Padri della Chiesa, ma gli stessi gentili savii ed onesti. Il Crisostomo ne attribuisce la cagione al demonio, il quale suscitò que’ teatri ἵνα τοὺς στρατιώτας ἑλκύσῃ τοῦ Χριστοῦ καὶ μαλακώτερα αὐτῶν ποιήσῃ τῆς προθυμίας τὰ νεῦρα, per trarre a sè i soldati di Cristo e renderne molli i nervi della virtù, e soggiunge: Διὰ τοῦτο καὶ θέατρα ῷκοδόμησεν ἐν ταῖς πολεσι, καὶ τοὺς γελωτοποιοὺς ἐκεῖνους ἀσκήσας, διὰ τῆς ἐκεῖνων λύμης κατὰ τῆς πόλεως ἁπάσης τὸν τοιοῦτον ἐγείρει λοιμόν. Nel seguito di questa omelia, tuonando con eloquenza severa e terribile contro il sozzo abuso, ci dà ad intendere pienamente di qual natura fossero le sceniche rappresentazioni, ed io ne recherò qualche brano valendomi della bella versione italiana dell’abate Bernardi, conciossiachè il testo, che pure, per essere conciso e vibrato ha tanto maggior forza e vivacità, non sarebbe inteso da tutti: «Nè la colpa del commediante è grave al par della vostra, mentre prescrivete sì turpi rappresentazioni; nè le prescrivete soltanto, ma di più vi mostrate tutti intesi ad ascoltarle, vi date al riso, alla gioia, agli applausi come vi si dispiegano innanzi, e per ogni mezzo alimentate codesta infernale officina. Con quali occhi, rispondetemi, guarderete in casa la vostra moglie, poichè ne avrete veduti in sulla scena gli insulti? Come potrete non vergognarvi della memoria della vostra compagna, mentre miraste il sesso, a cui ella appartiene, pubblicamente disonorato? .... Non aggiungerò quanti violatori di talami nuziali siano stati educati alla scuola delle sceniche esposizioni di adulterii; non aggiungerò quanto sfrontati ed inverecondi riescano gli spettatori, mentre non si può dare occhio più lascivo e protervo di quello che può reggere alla vista di simili infamie. Voi non vorreste vedere certamente una donna starsi ignuda su delle piazze, e manco per entro alle domestiche pareti, e chiamereste cotesto un atto di sfrontatezza contumeliosa; ma poi vi portate al teatro per vedere le immodeste vergogne degli uomini e delle femmine parimente, e per contaminare di siffatto spettacolo i vostri sguardi? Nè giova ripetere che quelle femmine ignude sono altrettante vendute, poichè le infami e le ingenue hanno la natura stessa ed il medesimo corpo. Che se in codest’atto non vi fosse nulla di osceno, perchè, rinnovandosi nella piazza a voi dinanzi la medesima azione, dareste subito addietro e cacciereste lunge da voi l’invereconda? Forse che essendo separati è immodesto ciò che perde ogni carattere di sconcezza quando siamo raccolti insieme a sedere? Ma ciò ne tornerebbe a disonore e ad argomento di derisione, e queste parole manifesterebbero una pazzia solennissima, e meglio sarebbe coprir gli occhi di belletta e di fango, che fissarli in oggetti sì maliziosi e sì turpi. Il fango non apporterebbe certamente alla vista il danno che apporta l’immagine oscena di una femmina ignuda . . . . . La tua consorte con qual animo guarderatti in viso allorchè ritornerai dallo spettacolo teatrale? Con qual cuore abbraccieratti di nuovo? Quali parole potrà rivolgere a te che già tutto disonorasti il sesso femminile, e forse ten ritorni da quella scena già divenuto servo e schiavo di una adulterina bellezza?» L’infame usanza ci è pur dichiarata da Lattanzio nelle seguenti parole: «Praeter verborum licentiam, quibus obscoenitas omnis effunditur, exuuntur etiam vestibus, populo flagitante , meretrices, quae tunc mimorum funguntur officio, et in conspectu populi usque ad satietatem impudicorum hominum cum pudendis moribus detinentur». Nè minori lagnanze mossero del teatro gli altri Padri sì greci sì latini, come Basilio, Cirillo, Gerolamo, Cipriano ed Agostino, a tal segno di corruzione spudorata e ributtante erano discesi gli spettacoli drammatici!

Così si è veduto in breve e quasi in iscorcio il nascere, il progredire, e il decadere della comica poesia presso i Greci da Epicarmo ed Aristofane fino a Filemone e Menandro, ed è ormai tempo che, lasciato il bello e fortunato suolo della Grecia, io passi a ragionare di Roma, la quale della civiltà e della letteraria coltura greca fu erede, e di Grecia ricevette già condotte a perfezione le arti del bello, e ne tolse la prima ispirazione e l’impulso a coltivarle, secondo la sentenza di Orazio (Ep., lib. II, 1, 156): Graecia capta ferum victorem cepit, et artes – Intulit agresti Latio; sic horridus ille – Defluxit numerus Saturnius, et grave virus – Munditiae pepulere.

Share on Twitter Share on Facebook