1. Da tutto l'insieme di quegli avvenimenti straordinari, che dovevano far capo alla sottomissione di Menilek all'autorità del Negus Neghesti e allo sfratto di monsignor Massaia dall'Etiopia, si comprende chiaramente qual fosse la natura delle difficoltà incontrate dalla nostra Missione ad un favorevole ingresso fra quei Regni Oromonici, che erano divenuti avversi allo Scioa, specialmente dopo le crudeli invasioni compiutevi allora, a scopo di rapina, dal principe Masciascià, cugino e luogotenente di Menilek.
Finalmente la Spedizione italiana, benchè sotto auspici non lieti, potè ottenere il consenso del Re e decidere la partenza per obbedire – a costo di qualsiasi sacrifizio – agli impegni assunti con la Società Geografica, che di lontano additava ad essa la via del Gaffa, come base al suo novissimo viaggio di scoperta a sud della regione Etiopica, nella direzione dei laghi Equatoriali.
Dopo un cordiale scambio di doni fra il Re e i membri della Spedizione, questi furono invitati ad un solenne banchetto di addio. Il quale ebbe luogo nell'aderash, un vasto padiglione di forma elittica, riccamente addobbato, con pareti dipinte a fresco, raffiguranti episodi di battaglie, di cui pure è dato un saggio nelle tavole che accompagnano il 1° volume dell'opera del Cecchi. In una di esse si vede Menilek II, sul suo trono, con la corona in capo, il leone ai piedi, simbolo della reale dignità, e alla sua destra il Vescovo Massaia, capo del clero, ne' suoi paramenti sacerdotali, circondato da altri dignitari del Regno.
Anche nel convito, dato in onore dei membri della spedizione, il padre Massaia trovavasi al suo posto d'onore accanto al Re. I dignitari erano disposti secondo la loro carica. Il servizio, diretto dall'agafari, ciambellano di corte, era affidato ad uno stuolo di schiavi e di schiave giovanissime, che offrivano le vivande e l'idromele, la bevanda inebbriante dell'Etiopia.
Al levar delle mense, il Re fece servire lo Champagne, di cui aveva ricevuto alcune cassette di bottiglie dal direttore dell'Hôtel l'Univers di Aden. Si levò allora il Chiarini e in bel amharico rivolse un caloroso brindisi al Re, che subito rispose ringraziando e augurando alla nostra missione un esito felice.
Lo spettacolo di quella sala dove – per un momento – l'Etiopia pareva raccolta ad onorare l'Italia lontana nelle persone di alcuni suoi figli, fu l'ultimo grato ricordo dello Scioa, il ricordo che essi portarono in quel doloroso pellegrinaggio fra i Galla, che fu il loro sconsolato Calvario. Là essi errarono tristi, staccati completamente da ogni possibile comunicazione con l'Europa, senza aiuti, senza conforto, fra nemici sempre nuovi, uno peggiore dell'altro. Ma non dimenticarono mai il loro ufficio di geografi nel raccogliere notizie d'ogni genere e fissare nuove posizioni astronomiche per la compilazione della carta.
Anzi, non ostante il buon augurio di Menilek, la missione incominciò a trovare ostacoli nello stesso suo Regno, all'uscita dallo Scioa, dove il principe Masciascià voleva trattenerla, non senza ragione, ben sapendo quali ricordi avesse lasciata fra i Galla la sua più recente invasione predatrice. In quei paesi vennero infatti il Cecchi e il Chiarini trattati dovunque come nemici e come spie del Re scioano.
Il marchese Antinori, capo nominale della spedizione, rimase allo Scioa, in quella stazione di Let Marefià che, come sappiamo, era stata assegnata dal Re alla Società Geografica. L'Antinori, non più giovane, ferito alla mano destra e sofferente, non potè seguire, come avrebbe voluto, i nostri giovani esploratori nella loro avventurosa corsa attraverso i Regni Oromoni.
2. Inutile dire delle continue spogliazioni subite da essi durante il penosissimo viaggio, le persecuzioni, le minaccie, dai Cobiena ai Botor, dal regno di Limmo a quello di Gomma, che furono per essi altrettante trappole, chiuse da staccionate e vigilate nel modo più geloso.
Ultima fra queste, fu, com'è noto, il Regno di Ghera, governato nel modo più tirannico dalla Ghennè, tristamente famosa per la prigionia in cui tenne i nostri viaggiatori, e in cui già teneva il P. Leon D'Avanchers, che divenne loro amico e che avrebbe potuto essere di sicura guida ad essi nel Gaffa, il paese che egli già conosceva.
Ben presto però il P. Léon, straziato da crudele malattia, morì, e due mesi dopo lo seguì nel sepolcro lo stesso Chiarini, il giorno 5 ottobre 1879, all'età di appena trent'anni.
Compose il Cecchi, rimasto solo, in due tumuli vicini le care salme, e vi fece costruire due capanne di bambù per proteggerle dalla profanazione delle iene e anche, pur troppo, da quella degli uomini.
3. È cosa generalmente nota come il Cecchi sia stato, nell'anno successivo, liberato da Gustavo Bianchi per la interposizione di Ras Adal, governatore del Goggiam, che potè ben far valere nel paese dei Galla l'autorità propria e quella dell'Imperatore Johannes, per imporre i suoi ordini alla fiera e riluttante Regina.
Non si possono leggere senza una grande commozione le pagine del Cecchi, che narrano il ritorno insperato, ignorandone la vera causa; e il trasporto fatto con sè del carico dei manoscritti che erano il documento del penosissimo viaggio, il tesoro delle osservazioni scientifiche eseguite fino all'ultimo fra le sofferenze dell'esilio atroce, il materiale di dottrina filologica, frutto delle fatiche amorose del P. Leon e di Giovanni Chiarini, e tutti i dati che noi troviamo ordinati nel terzo volume dell'opera, non senza l'autorevole aiuto del Cardinal Massaia per la parte grammaticale. Il carico prezioso per la scienza, santificato dal sacrificio di tali uomini, riuscì il Cecchi a portare in salvo dalla prigionia di Obera, attraverso le vicende del lungo ritorno fino al fiume Abai, che divide il Goggiam dai paesi Galla.
Sulle due sponde opposte del Nilo Azzurro avvenne l'incontro fra il Cecchi e il Bianchi, i quali non appena poterono vedersi di lontano scendendo sulle scoscese rive, iniziarono il primo memorabile colloquio ad altissima voce, nel fragore delle acque vorticose flagellanti le roccie, sublime epilogo di quell'epopea infelice.
Della quale il nostro Cecchi portò con sè la grande novella attraverso le rapaci acque del maggior fiume Etiopico, come già il Camoens, nel giorno del naufragio, il manoscritto dei Lusiadi.
Ma la tomba del Chiarini aspettava in Ghera il nuovo liberatore, e a quella tomba dedica nel suo libro il Cecchi alcune parole quasi profetiche.
Venne l'audace che seppe imporsi alla fiera Regina, e potè esumare con religiosa cura la salma del Chiarini per riportarla in patria, consegnandola alla città di Chieti, trofeo pietoso di un viaggio di singolare ardimento compiuto da un uomo solo, senza ausilio di Governi, nè il patrocinio di Società Geografiche. Quell'uomo fu Augusto Franzoj.
4. Tornato in Italia, il Cecchi raccolse l'ampio materiale del suo viaggio nell'opera in tre volumi, di cui ho dato una pallida idea in queste pagine. L'opera, com'è noto, porta per titolo: Da Zeila alle frontiere del Caffa; e l'abbiamo fra mano in una splendida edizione illustrata per cura e a spese della Società Geografica, con tre carte geografiche dimostrative.
Tutta la vasta e svariata materia, che vale a ritrarre la Etiopia del suo tempo, fuse il Cecchi in un «racconto di vita e di passione» che noi rievochiamo in questo giorno, sacro alla sua memoria, come monumento di volontà e di costanza, di fede operosa e di sagace intelligenza degli uomini e delle cose, nel più intricato viluppo di interessi, d'inganni, di rapine e di crudeltà. Domina in ogni parte di questo lavoro un alto senso del sapere geografico, che è tanta parte del vero senso politico.
L'opera del Cecchi può dirsi collettiva, appoggiata com'è alle osservazioni de' suoi grandi e sventurati compagni; egli vi infuse il suo spirito animatore e lo compose in una potente e generosa unità, a cui ancor oggi i giovani potrebbero ispirarsi come a fiamma incitatrice di azione.
5. Con saggio consiglio il Governo nominò Console generale ad Aden il reduce viaggiatore, meritamente festeggiato in Italia ed onorato della sua piena fiducia dalla Società Geografica, che gli aveva affidato il difficile compito di tradurre in opera letteraria quella che era stata per lui fino allora un'opera straordinaria di uomo d'azione.
L'esperienza acquistata in tanti e così terribili cimenti e ardui contatti col mondo semi-selvaggio dell'Oriente Africano, la dimestichezza contratta con l'ambiente geografico che quei luoghi abbraccia dall'Oceano Indiano sui due lati della penisola Somalica, la profonda conoscenza di uomini e di cose in tutti i rapporti fra il mare e l'interno dell'Africa Orientale, congiunte ad un acuto spirito di osservazione, illuminato da una chiara coscienza di ciò che doveva essere l'interesse della patria lontana in quelle terre della zona torrida, erano sicura garanzia di una scelta, che non poteva dirsi più felice da parte del Governo di Italia, troppo spesso servito così male dai suoi rappresentanti all'Estero.
Pur troppo nella nuova residenza di Aden il Cecchi ebbe la sventura di perdere la diletta sua compagna che tanto aveva sofferto nei lunghi anni del distacco durante i viaggi disastrosi e la triste prigionia del marito lontano. Essa gli lasciava tre figliuoli, ai quali dedicò le cure più amorose.
Nel 1885 il Cecchi accompagnò il colonnello Saletta a Massaua e scrisse in quell'occasione una Memoria su la Abissinia settentrionale, di particolare utilità pratica in quel momento, che segnava il vero principio del nostro stabilimento coloniale e la nascita di quella «Eritrea» che fu tanto esaltata dagli uni e tanto deprecata dagli altri. Forse era anche necessaria la triste esperienza per imparare qualche cosa; forse, in Italia, popolo e governo erano mal preparati ad una politica di espansione all'Estero, e le nostre vecchie memorie di sapiente politica nelle terre e nei mari del Levante al tempo delle gloriose Repubbliche marinare, erano troppo lontane. Il fatto è che, se le prime disgrazie ci sgomentarono, non abbiamo saputo trar partito dagli insegnamenti della realtà quale a noi si presentava, se non per ripudiare in blocco, in un giudizio sommario, ogni tentativo di una formazione di possessi coloniali d'oltremare coi quali potessimo aver sicuro un utile scambio di prodotti e un eventuale sfogo incontrastato all'eccedenza del nostro lavoro.
Qualunque possano essere gli errori della nostra politica in Africa, è sempre vero che
del senno di poi son piene le fosse;
e che i nostri grandi esploratori i quali – come il Cecchi – furono pure gli iniziatori del nostro impero coloniale in Africa, ci ammoniscono sulle vere cause dei nostri errori, che sono imputabili ad una fondamentale mancanza di cultura geografica e di serietà politica.
Il Cecchi venne mandato, in seguito, Console generale a Zanzibar; e da quella più lontana residenza ebbe occasione di visitare la Somalia meridionale, la terra africana dotata di due bei corsi fluviali, come il Giuba e lo Uebi Scebeli, che a lui si rivelava come la più adatta ad una proficua occupazione dell'Italia. Anche qui fu l'iniziatore, e negoziò il primo trattato di amicizia e di commercio col Sultano Said-Bargash.
Ma il 26 novembre 1896, partito da Mogadiscio con una carovana in ricognizione presso l'Uebi Scebeli, venne assalito da una banda numerosissima di Somali nomadi, in una regione boschiva, presso Lafolè, dove fu impossibile opporre coi suoi compagni una efficace difesa; cosicchè egli fu ucciso e la sua carovana sterminata. L'uomo che era scampato a tanti pericoli, che aveva vittoriosamente superate tante lotte impari, uscendone per miracolo, qui doveva soggiacere in un oscuro episodio di esplorazione non geografica.
Perirono con lui Francesco Mongiardini di Genova, comandante della nave «Volturno», il conte Ferdinando Maffei, comandante della nave «Staffetta», Filippo Qui-righetti, piemontese, direttore della dogana, Alfredo Smuraglia, tenente medico, Carlo Sanfelice di Napoli, Onorato Baraldi di Pisa, Vincenzo Cristofaro, Luigi Guzzolini, Lucino Baroni, Bernardo Gasparini, tutti giovani vigorosi, ma ai quali fu impossibile in quel luogo disadatto all'uso delle armi da fuoco una difesa ordinata, contro il prevalere del numero soverchiante e nel momento della sorpresa.
Non so se nel luogo dell'eccidio fu posto dall'Italia un ricordo. Sarebbe doveroso che il nome di Lafolè fosse segnato sulle carte anche nei nostri atlanti scolastici col nome del Cecchi e la data fatale. Poichè ora che il nostro possesso della costa Somalica si è affermato, oltre l'Uadi Nogal, esplorato dal Bricchetti Robecchi, fino al Capo Guardafui e al Golfo di Aden, verso Levante, e dopo l'ingrandimento di là dal Giuba nei territori dell'Africa Orientale Britannica, dobbiamo essere particolarmente grati alla memoria dell'Uomo che, primo, nella grande Cinnamomifera della Geografia classica, nella terra di Punt degli antichi Egiziani, nella penisola tradizionale dell'incenso e degli aromi, additava all'Italia un paese fra i più adatti all'allevamento del bestiame bovino e alle industrie che ne derivano, un territorio di savana e di steppa largamente utilizzabile nelle più svariate culture tropicali, come il manihot del caucciù, il sesamo, l'arachide, il tabacco, la palma cocco, specialmente il cotone.
Le più recenti missioni dei tecnici e, in particolar modo il viaggio del Duca degli Abruzzi, valsero a rivelare all'Italia la potenzialità economica di questo estesissimo territorio, grande più della Francia e non privo di acque fluviali fecondatrici, e che – non ostante il clima torrido – offre al nostro lavoro la sicura promessa di un compenso adeguato all'infuori di ogni alea di complicazioni politiche.