III.

1. Al marchese Antinori, l'illustre viaggiatore naturalista ben conosciuto per le precedenti esplorazioni nel bacino superiore del Nilo, venne affidata l'alta direzione della nuovissima impresa. Della quale facevano parte Sebastiano Martini di Firenze, già provato nel compito di organizzatore di viaggi africani, l'ingenere Giovanni Chiarini di Chieti, un giovane di 28 anni, che si assumeva con molta competenza la parte di geologo, e si annunziava fra i viaggiatori meglio agguerriti nei più diversi rami dell'esplorazione scientifica.

Partì la nostra missione da Napoli il giorno 8 marzo 1876, e sbarcò ad Aden il 25 dello stesso mese. Messa insieme con grande stento la carovana a Zeila, prese la via dell'interno il 19 giugno. Ma era appena trascorso un mese che, a Tul-Harrê, dovette arrestarsi di fronte a imprevedute difficoltà, per decidere di mandare uno de' suoi membri in patria a chiedere il soccorso di nuovi mezzi di danaro e di materiale.

Venne inviato il Martini. Frattanto l'Antinori e il Chiarini giunsero a Farê, nello Scioa, il 28 agosto. Il Martini invece non potè arrivare a Roma che il 7 settembre; e dovette trattenersi tutto l'inverno negli apparecchi della così detta seconda Spedizione, associando all'impresa il giovane Antonio Cecchi, da lui proposto alla Società Geografica.

L'arredamento della prima spedizione era costato 67.000 lire, quello della seconda salì a 115.000, danaro anche in parte fornito con offerte private di illustri stranieri, fra i quali figurano i grandi nomi di Gordon pascià e di Giorgio Schweinfurth. Formarono adunque la seconda spedizione i due anzidetti viaggiatori italiani: Sebastiano Martini e Antonio Cecchi.

Il Martini aveva allora poco più di 40 anni, bell'uomo, vigoroso, impetuoso più che non convenisse fra gente astuta e infida come i piccoli capi idigeni con i quali si doveva sempre trattare nel lungo percorso dell'interno.

Il Cecchi era molto più giovane, non meno audace nei pericoli, ma più calmo nelle difficoltà, che talora sapeva girare abilmente.

2. Sbarcati a Zeila il 20 aprile 1877 con tre servi europei, si diedero subito ad organizzare la carovana, che li doveva portare allo Scioa.

Ardua cosa fu il noleggiare le cavalcature, per le laboriose trattative con gli avidi capi Somali del paese; nè meno ardua fu l'organizzazione della carovana in partenza, dovendo caricare i 120 cammelli, in parte giovani, non domati ancora, spesso imbizzarriti e balzanti, e imporsi alle folle indisciplinate dei caricatori e dei guardiani dei muli e delle loro donne urlanti nella generale confusione.

Un'altra piccola carovana si aggiunse pure alla nostra partendo da Zeila: quella del missionario P. Alexis, formata di 12 cammelli e 10 uomini.

Così la doppia missione prese la via del deserto, dove l'attendeva, sotto la vampa del sole implacabile e, nelle notti insonni tormentate dagli insetti e dagli assalti delle iène, un continuo moltiplicarsi di ostacoli nuovi nelle frequenti aggressioni dei capi locali combinate con le defezioni e le rapine dello stesso personale di scorta, che ad ogni fermata accampava nuove pretese.

Mancarono le provvigioni, e i nostri viaggiatori dovettero sottostare a tutte le sofferenze della sete e della fame. Persino il serpente pitone si ricoverò di notte nel loro accampamento, e ad un tratto fuggì buttando all'aria stoviglie e masserizie.

3. Fu una lotta continua, penosa, asfissiante contro il clima torrido e le sempre crescenti ostilità di quella natura selvaggia e dei capi Somali o Afar, che occupano l'estesa regione fra il mare e l'altopiano Etiopico, per una distanza di 400 chilometri all'incirca. Si vede nella viva e nuda descrizione del Cecchi quell'immensa solitudine arida, ingombra di crateri vulcanici simili a vecchi castelli diroccati, fra espandimenti di lave e roccie trachitiche e basaltiche. Valli di erosione sparse di ciottoli di quarzo, lava nera sforacchiata e bollosa, enormi detriti vulcanici in un terreno sconvolto dalle più grandi convulsioni telluriche, accrescono la pena dei nostri pellegrini, che pur hanno cura di occuparsi della natura dei luoghi, di fissare le posizioni geografiche, di raccogliere dati scientifici. Essi osservano, fra altro, i bizzarri monticelli, quasi naturali obelischi, che si incontrano ad ogni passo, costruzioni strane di potenti formiche. Talora sono sorpresi da miraggi incantevoli, che creano distanze meravigliose fra oggetti vicini e sospendono monti e valli su mobili campi di tremolo argento. Ma non di rado si offre loro ben altro spettacolo: turbini di vento e colonne di sabbia simili a getti di singolari fontane sembrano zampillare dal suolo.

A grandi intervalli l'occhio si conforta nella presenza di rari boschi di mimose e acacie, ove francolini, ottarde, galline faraone, antilopi e gazzelle fuggono in tutte le direzioni e offrono un'abbondante cacciagione. Nè mancano colà, ospiti temuti, il leopardo e il leone; e torme di elefanti passano talora sfondando ogni più fitto viluppo di grandi cespugli e di liane tenaci. E frattanto, nel fiume in magra si odono i tonfi dei coccodrilli pur ora venuti sulla sponda a prendere il sole. Tale si presentò ai nostri viaggiatori il passaggio sulle rive del fiume Hauash.

Una infinita pietà ispirano, nel racconto del Cecchi, le pagine accorate nelle quali narra la morte del povero padre Alexis, e la sepoltura affettuosa – un'anticipazione degli altri gravi lutti che dovevano travagliare la lunga e sfortunata odissea del nostro viaggiatore.

Ma un particolare interesse ci offre il racconto del passaggio dell'Hauash, il fiume che segnava allora il confine orientale dello Scioa, e si dirige dai monti dell'Alta Etiopia verso N. per terminare in una conca attigua alla depressione di Assai, nella regione di Aussa, paese degli Afar.

Per una larghezza di circa 60 m. il Cecchi trapassò a nuoto scampando ai numerosi coccodrilli; e sorvolò di ritorno scivolando agile sulla grossa fune tesa e bene assicurata ai tronchi della foresta fra le opposte rive, per apparecchiare il felice transito del carico della spedizione, ciò che egli seppe fare con mirabile prontezza fra le meraviglie e lo spavento degli indigeni in precipitosa fuga.

Solo alla fine di settembre la spedizione, partita il 16 maggio da Zeila, potè arrivare allo Scioa per congiungersi al suo Capo, il marchese Grazio Antinori, rimasto colà, insieme al Chiarini, nell'ansia dell'attesa.

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