1. Al paesaggio naturale si associa e si sovrappone in Abissinia il paesaggio storico. L'Etiopia è l'unico paese dell'Africa, dopo l'Egitto, dopo la Cirenaica e la Tunisia, che sia entrato, almeno di nome, nella luce della storia, come l'attestano antiche tradizioni classiche e le iscrizioni greche di Adulis scoperte da Cosma nel VI secolo.
Anche il Cecchi, nel 1° volume della sua opera, ci dà in un magnifico capitolo, l'ampio materiale storico, molto interessante, sull'Abissinia, che s'illumina nei secoli più lontani al bagliore di una grande tradizione: la leggenda del Re Salomone e della Regina Saba, onde l'Etiopia si accosta in qualche modo alle più remote origini del monoteismo semitico, che dopo l'epoca classica divenne la nota fondamentale della Civiltà Mediterranea.
La tradizione ebraica dapprima, la cristiana poi, nei frequenti e necessarii rapporti di derivazione della vicina Arabia e dal gran corridoio commerciale e storico del Mar Rosso, vi è ben delineata in modo da potere spiegare molti problemi essenziali di derivazione etnica e linguistica.
Lo stesso Re Menilek II, che a noi Italiani si presenta come una sfinge in una doppia faccia di amico bonario e di nemico improvviso per cause non tutte estranee a qualche nostro errore politico, esce da questa curiosissima storia circondato di leggenda fin dalla sua oscura origine nella quale, figlio di una schiava e di un principe, salvato e fatto allevare dalla Regina madre, gli viene imposto il nome fatidico di Menilek II, che lo ricongiunge al primo re di questo nome, al figlio leggendario di Salomone e della Regina Saba, al capo della lunga e diritta serie dei cento re Etiopi.
2. Ma raramente potè questo paese godere il benefizio di una pacifica unione de' suoi capi sotto la sovranità del legittimo discendente degli antichi re. In quel rude paesaggio sconvolto dagli innumeri vulcani dell'epoca terziaria, attraverso l'opera del Cecchi, noi vediamo agitarsi in continue guerre – suscitate dalla mala fede e dalle competizioni dei Ras – una vera fantasmagoria di popoli bellicosi, tumultuanti su tutta l'Etiopia e nei piani contermini.
Nel secolo XVIII i Galla dell'alta Etiopia – che pure si congiungono nella loro storia alla tradizione ebraica, ritenendosi discendenti da Oromò, figlio in quarto grado di Esaù – invasero l'Abissinia e la sottoposero al «governo dei Ras» che esercitavano il potere, sempre però in nome degli imperatori legittimi, che essi sceglievano nella linea di Salomone.
Così i Galla tennero il paese in una specie di anarchia, fra continue lotte interne, fino a che – nel 1854 – il Cassa Degiàc' mac' potè sottoporlo al suo volere proclamandosi Negus Neghesti di tutta l'Etiopia col nome di Teodoro. Il quale, se incominciò con utili riforme dapprima e con l'abolizione della schiavitù, divenne poi quel tiranno crudele, ben noto in Europa, che fu vinto dagli Inglesi a Magdala nel 1868.
Successore di Teodoro sul trono dell'Etiopia fu, come è noto, Johannes, il Negus che figura nel periodo storico della nostra spedizione e che ci viene descritto dal Cecchi in alcune pagine indimenticabili dove assistiamo allo spettacolo della sottomissione di Re Menilek e della incoronazione di Ras Adal, innalzato al grado di Re del Goggiam, col nome di Teda Aimanot. Re Menilek, avendo dovuto rinunciare allora al suo ambizioso disegno, dovette presentarsi a Johannes in attitudine di vassallo, pur essendo arrivato con tutto lo sfarzo di cui poteva disporre e con una scorta di 25.000 uomini armati, all'accampamento dell'Imperatore. Menilek, non ostante il lusso da cui era circondato, pareva, al dire del Cecchi, «una vittima vestita a festa perchè più solenne riescisse il sacrificio». E i suoi dignitari lo «seguivano a distanza, muti, come se partecipassero ad un funebre corteo».
3. In questo frattempo monsignor Massaia, che era, secondo gli ordini del Re, rimasto chiuso nella fortezza di Fekeriè-Ghemb, aveva (come tutti quelli che erano con lui) ignorata la fine della guerra e la sottomissione dello Scioa. Ma vedendosi segnato a dito come quegli che era stimato la causa immediata dei mali che affliggevano lo Scioa, una notte, d'accordo con un suo servo, fuggì dalla fortezza per una scalata tanto difficile quanto pericolosa; e, a piedi, per tappe, giunse al campo dell'Imperatore, al quale si fece annunziare.
Questi lo lasciò per sei ore esposto al sole e al dileggio dei soldati. Ammesso alla presenza del Re dei re (che non potendo sostenerne lo sguardo si coprì il viso con lo sciammà e gli fece domandare che cosa volesse da lui) rispose:
— Voi minacciate di rovina per me lo Scioa e il suo Re. Eccomi nelle vostre mani. Potete disporre a vostro talento del mio corpo, non dell'anima perchè serbata a Dio.
L'Imperatore, fortemente scosso, gli domandò:
— Che fai allo Scioa?
— Predico la religione di Cristo.
— Ma noi siamo già cristiani, rispose alteramente Johannes. Va a predicare fra i Galla.
Ciò detto, lo licenziò.
Di qui ebbe origine l'esodo penoso del grande vecchio, sfrattato duramente dall'Etiopia, e costretto ad un lungo pellegrinaggio di ritorno, per la via di Costantinopoli, dopo aver attraversata la Siria e l'Asia Minore.