§ 2. Fonti anti-gnostiche.

I principali scrittori ecclesiastici, che con grande sollecitudine combatterono lo gnosticismo, e di cui Eusebio ci ha, purtroppo, conservato quasi solo il ricordo, sono: Agrippa Castore, il quale, verso i tempi di Adriano, polemizzò con Basilide (H. E. IV, 7. 6-8); Egesippo, il quale scrisse πέντε συγγράμματα (πέντε ὑπομνήματα), molto facilmente contro l'opera novatrice della gnosi; Rodone, che sotto Commodo (180-192) combattè Marcione e commentò l'esamerone (H. E. IV, 8. 2; 22. 1; V, 13); Filippo, vescovo di Gortina e Modesto, avversari anche essi di Marcione (H. E. IV, 25); degne anche di memoria le opere di Eraclito «qui in apostolum commentatus est» e di Massimo «qui de famosissima omnium haereticorum disseruit quaestione, qua semper inquiritur, unde sint mala vel unde malitia et quod materia facta sit et non infecta» (H. E. V, 27).

Ma i grandi rappresentanti della tradizione ortodossa contro la gnosi, sono Ireneo (?140-?), nato in Asia Minore, vescovo di Lione, autore dell'ἔλεγχος ϰαὶ ἀνατροπὴ τῆς ψευδονύμου γνώσεως (detto comunemente Adversus Haereses), in 5 libri, scritto fra il 181 e il 189; Tertulliano (160, «Fertur vixisse usque ad decrepitam aetatem», Hier., De vir. ill., c. 53), di Cartagine, che scrisse, fra le altre opere, l'Adversus Marcionem (5 libri), (3a redaz. fra il 208 e il 211), l'Adversus Hermogenem (fra 200 e 206), l'Adversus Apelleiacos (perduto) e l'Adversus Valentinianos (fra 208 e 226): col nome di Tertulliano, e in appendice al De praescriptione haereticorum (200) ha circolato un Libellus adversus omnes haereses, forse opera di Vittorino di Pettau (martire nella persecuzione dioclezianea); Ippolito, questa antichissima e enigmatica figura di antipapa che fece tanta ostinata resistenza alle riforme democratiche di Calisto (217-222?) e che doveva poi pacificarsi col suo successore nell'oscurità di una miniera in Sardegna: di lui, riferentesi allo gnosticismo, abbiamo la grande opera Κατὰ πασῶν τῶν αἱρέσεων ἔλεγχος. Ὁ Λαβίρινθος: opera in 10 libri, dei quali il primo già noto e attribuito ad Origene, gli ultimi 7 trovati nel 1842 dal Mynas in un codice del XIV sec. al monte Athos: opera molto discussa, variamente attribuita a Berone, Caio, Novaziano, Tertulliano: oggi concordemente ritenuta come di Ippolito (230, Krüger, G. der altch. Lit.). Essa è conosciuta col nome di Philosophumena: poichè l'A. accenna nel corso dell'esposizione (IX, 8) ai primi quattro libri conle parole ἐν τοῖς φιλοσοφουμένοις (δόγμασιν). Ma sappiamo inoltre ch'egli compose un breve Σύνταγμα πρὸς ἀπάσας τὰς αἱρέσεις, il quale finiva con una Ὁμιλία εἰς τὴν αἵρεσιν Νοήτου, e che confutava 32 eresie, da Dositeo a Noeto; un piccolo opuscolo ϰατὰ τῆς Ἀρτέμωνος αἱρέσεως, a cui forse spetta il nome dato da Teodoreto (Haer., Fab. V, 5) di ὁ σμιϰρὸς Λαβύρινθος: un libro πρὸς Μαρϰίωνα (Eus. VI, 22). Clemente Alessandrino spessissimo nelle sue opere ribatte le affermazioni degli gnostici. Infine, più tardi in ordine di tempo, Epifanio (315-403), autore del Panarion o recipiente per le medicine (374-377), dove combatte 80 eresie; Filastrio di Brescia († 397?), autore del Liber de haeresibus (385), dove sono combattute 156 eresie, 28 precristiane e 128 cristiane; e Teodoreto (386-432), che scrisse un compendio delle favole eretiche (αἱρετιϰῆς ϰαϰομυθίας ἐπιτομή). Intorno a questi eresiologi la critica moderna ha sollevato alcune fondamentali questioni, che noi raggrupperemo in tre capi per comodità di trattazione, e di cui esporremo le soluzioni sommarie che ci sembrano più plausibili:

I. Qual'è il rapporto di dipendenza tra Epifanio, lo pseudo-Tertulliano e Filastrio, per ciò che riguarda lo gnosticismo?

II. Qual'è il valore di Ireneo, come fonte storica? Quale fiducia merita quando appare ch'egli utilizzi documenti originali della gnosi?

III. Quale fiducia merita Ippolito, quando fa la medesima dichiarazione?

Il problema complessivo è di grande importanza, perchè si tratta di giudicare la serenità polemica e il valore narrativo dei nostri più antichi scrittori ecclesiastici, a cui concessero piena fiducia storici come Tillemont, e a cui invece la negarono affatto gli antesignani della critica moderna, Bayle, Matter, Baur.

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I. Sul primo punto, la critica tedesca ha fatto recentemente un battagliare ostinato, di cui non è ancora cessata l'eco tumultuosa. La discussione, se ha mostrato in chi vi partecipò, una virtuosità critica eccezionale, non ha sempre approdato a risultati definitivi. Nel 1865, Riccardo Lipsius, prendendo in esame il Panarion, l'Adversus omnes haereses e il De haeresibus, per la parte riguardante lo gnosticismo, fissava queste quattro tesi:

1. Gli autori di questi scritti hanno tutti utilizzato un trattato anteriore su 32 eresie, da Dositeo a Noeto.

2. Questo trattato è quello scritto da Ippolito romano, di cui ci parlano Eusebio (VI, 22) e Fozio (Bibl. 121).

3. Il trattato è stato compilato da Ippolito tra il 190 e il 195, il quale si è ispirato alle conversazioni avute con Ireneo, col cui Catalogus (Adv. Haer., I, 22-27) offre notevolissime analogie.

4. Ippolito e Ireneo a loro volta hanno attinto dal trattato che Giustino martire dice di aver scritto contro tutte le eresie: di qui la loro somiglianza.

Tali tesi erano della più grande importanza: sostenendo che il σύνταγμα perduto di Ippolito si ritrovava nei tre eresiologi del IV secolo; che questo σύνταγμα risaliva alla fine del II secolo e che di più dipendeva dal trattato perduto di Giustino, il Lipsius ci dava nelle mani fonti di prim'ordine per la conoscenza primitiva della gnosi. Giustino infatti (convertito nel 133 (?), morto nel 165 (?), Harn.) è contemporaneo dei veri maestri gnostici, e la sua testimonianza in materia è di inestimabile valore. Ch'egli abbia confutato le eresie, che abbia con questa sua confutazione esercitato un'efficacia qualsiasi sulla letteratura patristica, nessun dubbio. Egli dice (I Ap. XXVI):

«In terzo luogo, dopo il ritorno del Cristo in cielo, i demoni suscitarono uomini che si dissero dèi, e ben lungi dal perseguitarli, voi (o imperatori) li avete ricolmati di onori. Simone il samaritano, del borgo di Gitthon, venne nella vostra città imperiale di Roma, sotto il regno di Claudio Cesare. Aiutato dai demoni, egli fece dei prodigi di magia. Fu preso per un dio: ebbe una statua, come un dio: questa s'innalza in un'isola del Tevere, tra i due ponti, con questa iscrizione latina: Simoni Deo sancto. Quasi tutti i samaritani e qualcuno di altra nazionalità lo riconoscono e l'adorano come la loro prima divinità. Una certa Elena, che l'accompagnava in tutti i suoi viaggi e che era già vissuta in un postribolo, dicono che sia la sua prima espressione. Menandro, samaritano anche lui, del borgo di Capparete, fu discepolo di Simone. Con il soccorso dei demoni, ingannò co' suoi prestigi magici molti abitanti d'Antiochia, fino al punto da far credere che egli non sarebbe morto: anch'oggi c'è chi lo crede. Marcione del Ponto, che insegna anche oggidì, professa la fede in un Dio superiore al Creatore. Con l'aiuto dei demoni, egli seminò la bestemmia attraverso il mondo, indusse a negare Iddio creatore dell'universo, e instillò ne' suoi adepti la convinzione che un altro Dio superiore ha compiuto opere più meravigliose. Tutti i seguaci di questa scuola son chiamati cristiani, come, nonostante la varietà delle dottrine, il nome di filosofi è dato a tutti coloro che fan professione di filosofia. Sono essi colpevoli delle infamie attribuite ai cristiani, come estinzione di lumi, promiscuità, banchetti di carne umana? noi non lo sappiamo. Ma sappiamo molto bene che voi non li perseguitate, non li mandate a morte, almeno per le loro opinioni. Del resto noi abbiamo composto un libro su tutte le eresi e (Ἔστι δὴ ἡμῖν ϰαὶ σύνταγμα ϰατὰ πασῶν τῶν γεγενημένων αἱρέσεων συντεταγμένον). Se volete leggerlo, ve lo donerò».

Ma è stato realmente questo trattato utilizzato da Ippolito e da Ireneo? Nel 1873, l'Harnack, allora alle sue prime armi di critico, prende in esame le tesi del Lipsius. Anzi, propone una pregiudiziale: analizzando accuratamente la I Apol. e il dialogo Adv. Triphonem non sarebbe possibile rintracciare le orme del trattato perduto? Egli si arresta dinanzi a questa singolare coincidenza: la serie degli eretici è stereotipa: Simon Mago, Menandro, Marcione (strano questo terzo posto a chi è venuto dopo Valentino e Basilide), Valentino, Basilide, Saturnino (I Ap. 56, 1, 2, 3. Cf. lista di Egesippo, ap. Eus. E. H., IV, 22, 5, un po' più ampia, ma sempre sul medesimo piano). Non sarebbe stato questo lo schema dell'opera? Procedendo, l'H. ammette le prime due tesi di Lipsius: spiegando le diversità fra il σύνταγμα smarrito d'Ippolito, superstite nelle opere dello pseudo-Tertulliano, di Filastrio, di Epifanio, e i Philosophumeni, con l'intervallo di tempo corso fra le due opere: il σύνταγμα è stato scritto a Roma a tempo di Zeffirino (199-217?), la grande confutazione verso il 230: così la terza tesi è dall'H. modificata. In quanto alla quarta, l'H. non la crede dimostrata: innanzi tutto egli constata che il Catalogus d'Ireneo non riproduce la serie eretica introdotta da Giustino: ma da ciò non può e non vuole concludere che Ireneo non abbia attinto dal trattato di questi: il supporlo sarebbe troppo innaturale. D'altra parte, poichè Ippolito segue l'identico ordine di Ireneo (Simone, Menandro, Saturnino, Basilide ecc.) e poichè l'H. ritiene fermamente che l'ordine seguito da Giustino sia quale egli ha preconizzato, ne conclude che Ippolito ha avuto fra mani, non Giustino, ma proprio Ireneo: tanto vero che commette l'identico errore di questi, parlando dell'eretico Colarbasso, personaggio fantastico, da nessun altro nominato.

Di rimando, il Lipsius osserva ad Harnack che in una serie di eretici (Adv. Triph., 88), Giustino nomina una volta al terzo posto i Μαρϰιάνοι, i seguaci cioè di Marco valentiniano (cf. Const. Apost., n. 6-8), non di Marcione. Però deve concedere che è difficilissima impresa ricostruire il trattato di Giustino.

Nel 1884 entra in lotta l'Hilgenfeld, e parteggiando appassionatamente per il Lipsius del 1865, trova le traccie dello smarrito scritto di Giustino in tutti gli eresiologi del II e del III secolo. Ma il suo è un ottimismo troppo esagerato. Su questo ha gettato una doccia fredda la ricerca del Kunze. Egli dimostra l'inanità di tutti gli sforzi ricostruttivi, compiuti dalla critica. Per lui, Ireneo è la prima e sola fonte che ci rimanga per la conoscenza dello gnosticismo primitivo. Ed è vano, completamente inutile, ricercare i suoi antecedenti letterari: come in tutta l'opera, così nel catalogo, così nei cap. XI e XII del I libro con esso collegati, Ireneo espone tranquillamente ciò ch'egli di persona sa sullo gnosticismo contemporaneo. Ha avuto sì, tra mano, scritti gnostici autentici; si è forse anche ispirato a scritti anti-gnostici anteriori; ma non ha ad essi rubato delle frasi per infiorarne il suo racconto. Il Kunze studia anche lungamente i rapporti fra il σύνταγμα di Ippolito e le opere di Filastrio, Epifanio, pseudo-Tertulliano per concludere che Epifanio deve scartarsi dal novero delle fonti, atte a offrire traccie del trattato perduto. Epifanio è esclusivamente tributario di Ireneo: gli altri due possono servire a tale scopo, tenuto presente però che il σύνταγμα era poverissima cosa e che il trattatello dello pseudo-Tertulliano (19 paginette nell'ed. Hurter del De praescriptione) ne dà un'idea sufficiente.

Queste, a rapidissimi tratti, le discussioni dei critici. Che cosa dobbiamo dire noi, e a quali criteri c'ispireremo nell'uso delle fonti? Innanzi tutto, una constatazione leale s'impone: la critica, dopo maturo esame, apparentemente contradditorio, ha mostrato soltanto che la ricerca è irta di difficoltà, e che, in fondo, pretendere di ricavare dall'esame dei documenti eresiologici, una indicazione qualsiasi più antica di Ireneo sullo gnosticismo, è impresa ardua e incapace di condurre a risultati definitivi. D'altra parte però dai tentativi, più o meno felici, degli ultimi quarant'anni, è scaturita una estimazione più esatta del valore delle fonti e una ricostruzione più plausibile, se non priva di lacune, dei loro rapporti vicendevoli. Innanzi tutto il tentativo di strappare a Giustino il suo segreto, come dice con frase incisiva il De Faye, deve giudicarsi recisamente e definitivamente fallito. Noi possiamo ritenere che un elenco di eretici, schematico e invariabile, circolasse costantemente fra gli antichi eresiologi: Simone, Menandro, Marcione o Marco, Valentino, Basilide, Saturnino. Ma ritenere con l'Harnack che tale elenco sia dovuto a Giustino, che abbia costituito la traccia del suo lavoro, sì che sia facile rimpolparla con i passi utilizzati da Ireneo, è una posizione criticamente insostenibile. È bastata una minuta, quasi pedante, ma ragionevole contestazione di Lipsius, per rovesciare il castello così laboriosamente edificato dal critico di Berlino: d'altra parte, su una probabilità così precaria, non può poggiare una interpretazione completa di fonti.

Ma, al polo opposto, devono forse accettarsi le conclusioni negative del Kunze: deve ritenersi che Ireneo ha lavorato più su informazioni personali e voci raccolte, che su documenti anteriori e fonti autorizzate? Sarebbe un cadere nell'eccesso contrario, ugualmente biasimevole. Come vedremo tra poco, le recentissime scoperte di scritti originali gnostici hanno offerto alla veridicità e alla buona informazione di Ireneo, una riprova clamorosa: qui intanto diciamo che occorre procedere con cautela, e fra le posizioni antitetiche di Hilgenfeld e di Kunze, adottare una via mediana: da Egesippo alle Constitutiones apostolicae, nella esposizione sistematica dei Padri, noi vediamo una enumerazione costante di eretici: i testi di Giustino ci autorizzano a ritenere che anch'egli, nel σύνταγμα smarrito, ha adottato un sommario presso a poco identico: ritrovare però le parti di questo scritto è impresa inane; un esame d'altra parte interno del c. XI, I. 1. e del catalogo d'Ireneo mostrano che il grande polemista di Lione ha adoperato scritti anteriori, il che corrisponde pienamente alla sua indole di scrittore coscienzioso e accurato.

La stessa posizione circospetta e schiva di esagerazioni, crediamo debba ritenersi riguardo al βιβλιδάριον smarrito di Ippolito. Accertatane l'esistenza e la paternità, si è partiti in cerca della sua ricostruzione: il Lipsius, per ottenerla, si serviva di Filastrio, dello pseudo-Tertulliano, di Epifanio; l'Harnack vi riconosceva un trattatello composto da Ippolito, avendo fra mano l'opera di Ireneo; il Kunze, per ultimo, nega che si possa utilizzare a tal fine l'opera di Epifanio, e restringe la legittima ricerca a Filastrio e allo pseudo-Tertulliano, unici tributari, secondo lui, di Ippolito, il cui scritto, del resto, non doveva avere proporzioni notevoli.

Quest'ultima asserzione deve senz'altro rifiutarsi, perchè urta direttamente contro questo semplice dato di fatto: l'impossibilità storica che uno scritto di secondaria importanza e di trascurabilissime dimensioni sia riuscito a imporsi fino ai tempi di Fozio; a sopraffare, fino a eliminarlo, il trattato di Giustino; a farsi utilizzare da scrittori come Filastrio. In quanto all'ipotesi che Epifanio derivi esclusivamente da Ireneo, e solo Filastrio e lo pseudo-Tertulliano derivino da Ippolito, non solo, ma che Filastrio abbia avuto anche Epifanio a sua disposizione, vediamo alcune incongruenze cui essa mette necessariamente capo.

Innanzi tutto, non si vede la ragione per la quale Filastrio, potendo disporre di Epifanio, non si sia limitato a sunteggiarlo, invece di far ricorso anche ad Ippolito. Inoltre è singolarmente significativo che le parti comuni a Filastrio e ad Epifanio, lo siano anche allo pseudo-Tertulliano. Ora la metodologia storica ci suggerisce questo criterio: quando noi abbiamo più fonti affini, l'ipotesi più semplice che si offre allo studioso è quella di pensare all'esistenza di un esemplare comune, e solo nel caso che si riveli la mutua dipendenza di due o più fra esse, l'ipotesi spontanea deve scindersi in più altre, come è quel che fa Kunze, immaginando che Filastrio e lo pseudo-Tertulliano dipendano da Ippolito, ed Epifanio da Ireneo. È tanto fecondo questo criterio, che è celebre la esumazione fatta dal Giesebrecht nel 1841 da scrittori bavaresi del XVI secolo, degli Annales Altahenses appartenenti all'XI, esumazione confermata dalla scoperta di questi Annales nel 1867. E che nel caso nostro sia da preferirsi l'ipotesi semplice e spontanea, all'ipotesi complessa del Kunze, appare per esempio da un confronto delle notizie dateci dai tre autori, su Simone, Basilide, Carpocrate. Nella notizia su Simone, Filastrio ed Epifanio si accordano nelle linee generali: ma Filastrio tace cose (misteri istituiti dal mago, statue a lui elevate, morale di Simone) che Epifanio enumera, e che Filastrio non aveva nessuna ragione per omettere, molte invece per riferire. D'altra parte, nulla di più discutibile che la dipendenza di Epifanio da Ireneo, su Simone almeno, dove il vescovo di Salamina offre dettagli propri del più alto interesse (la definizione per es. dell'ἔννοια). La notizia su Basilide ha una somiglianza e un parallelismo evidenti in tutti e tre gli eresiologi: Epifanio però è più ampio, il che fa ritenere ch'egli utilizzi più copiosamente degli altri il trattato di Ippolito. Ma più istruttivo di tutti è l'esempio che si ricava dalla notizia dedicata a Carpocrate. Quella di Filastrio e dello pseudo-Tertulliano sono parallele.

Ps. T. (48). Fil. (XXXV).
Carpocrates praeterea hanc tulit sectam. Unam esse dicit virtutem in superioribus principalem; ex hac prolatos angelos atque virtutes, quos distantes longe a superioribus virtutibus mundum istum in inferioribus partibus condidisse: Christum non ex virgine Maria natum, sed ex semine Ioseph, hominem tantummodo genitum, sane prae ceteris iustitiae cultu (et) vitae integritate meliorem; hunc apud iudaeos passum, solam animam ipsius coelo receptam, eo quod et firmior et robustior ceteris fuerit; ex quo colligeret, tentata animarum sola salute, nullas corporis resurrectiones. Post istum (Nicolaum) quidam Carpocras nomine surrexit, et ipse dicens: unum principium, de quo principio, id est, de Deo, prolationes factae sint Angelorum atque virtutum: quae autem virtutes deorsum sint, fecerunt creaturam istam visibilem ubi nos consistamus. Christum autem dicit non de Virgine Maria et divino Spiritu natum, sed de semine Ioseph, hominem natum arbitratur, deque eo natum carnaliter sicut omnes homines suspicatur. Qui post passionem, inquit, melior inter Iudaeos vita integra et conversatione inventus est, cuius animam in coelum susceptam praedicat: carnem vero in terra dimissam aestimat animique salutem solum, carnis autem non fieri salutem opinatur.

Ora Epifanio offre più analogie con lo Ps. T. che con Fil. Segnaliamo queste frasi perfettamente corrispondenti a quelle del testo che abbiamo contrassegnate: ... τῶν (ἀγγέλων) πολὺ τι ὑπὸ τοῦ πατρὸς τοῦ ἀγνώστου ὑποβεβηϰότων... βίῳ δὲ διενηνοχέναι, σωφροσύνῃ τε ϰαὶ ἀρετῇ ϰαὶ βίῳ διϰαιοσύνης... εὔτονον ἔσχε ψυχὴν παρὰ τοὺς ἄλλους ἀνθρώπους.

Non si direbbe, se non fosse assurdo (è cronologicamente anteriore), che lo Ps. T. è tributario di Ep.? Il quale è molto più ricco, al solito, e tradisce l'utilizzazione di Ireneo, ma così servile e pedissequa (sulla morale di Carpocrate) che se da una parte ci fa ritenere avere Epifanio adoperato più fonti, esclude dall'altra una utilizzazione costante, perchè questa si rivelerebbe evidentemente, come in questo passo. In quanto alla dipendenza di Filastrio da Ep. c'è anche qui un argomento per escluderla, perchè Fil. tace sulla morale di Carpocrate, sulla materia vale a dire più favorevole per un polemista ortodosso.

Tutta questa discussione, se non ha potuto portare ad una ricostruzione del βιβλιδάριον ippolitiano, ne ha accertato l'esistenza, e, approssimativamente, l'entità. Sicchè, se i Filosofumeni, come ci pare oggi indiscutibile, sono pure d'Ippolito, l'allusione all'opuscolo, composto forse sul cadere del II secolo, è trasparente nel proemio: (in Migne, P. G. XVI, fra le opere di Orig. 3, col. 3018).

Ὧν ϰαὶ πάλαι μετρίως τὰ δόγματα ἐξεθέμεθα, οὐ ϰατὰ λεπτὸν ἐπιδείξαντες, ἀλλὰ ἀδρομερῶς ἐλέγξαντες, μηδὲν ἄξιον ἡγησὰμενοι τὰ ἄῤῥητα αὐτῶν εἰς φῶς ἄγειν, ὅπως, δἰ αἰνιγμάτων ἡμῶν ἐϰθεμένων τὰ δόξαντα αὐτοῖς αἰσχυνθέντες μήποτε ϰαὶ τὰ ἄῤῥητα ἐξειπόντες ἀθέους ἐπιδείξωμεν, παύσωνταί τι τῆς ἀλογίστου γνώμης ϰαὶ ἀθεμίτου ἐπιχειρήσεως».

Ma in quali rapporti sta l'opera di Ippolito con l'Adversus haereses, o, più genericamente, quali furono i vincoli personali di Ireneo col prete romano? Problema oscurissimo, e che invano si cercherebbe di risolvere con argomenti plausibili. Il trattato d'Ippolito è smarrito; noi siamo sicuri sì che esso sopravvive nelle opere dei tre eresiologi posteriori di cui abbiamo parlato, ma non sappiamo chi di essi meglio lo riproduca e non sappiamo quindi su quale di essi dobbiamo di preferenza fondarci per iniziare un confronto col catalogo d'Ireneo. Qualche identità caratteristica la troviamo senza dubbio: dice lo Ps. T.: «Non defuerunt post hos (Valentinum et Heracleonem) Marcus quidam et Colarbasus novam haeresim ex graecorum alphabeto componentes»; (50) e Ireneo (I, 12): «qui autem prudentiores putantur illorum esse, primam octonationem non gradatim, alterum ab altero Aeonem emissum dicunt, sed simul et in unum» ecc. (trad. lat.); nel testo greco di Ep. XXXV, 1 (che ha conservato le parole greche di Ireneo), si dice: «λέγει (sott. appunto Κολάρβασος)». Ora di questo Colarbasso noi non sappiamo nulla, se non da queste monche informazioni, l'una evidentemente sorta dall'altra. Di più, il piano generale dell'opera e la distribuzione sistematica della materia, sono analoghe; ma al di là di queste circostanze, non v'è una corrispondenza completa, visibile, innegabile. Il testo di Fozio non ci aiuta gran che; anzi esso provoca una quantità di dubbi linguistici e storici, complicanti il problema. Sicchè è impossibile dire se Ippolito ha concepito l'idea del suo libretto nelle conversazioni con Ireneo, o pure in seguito alla lettura della sua opera voluminosa. Ma in generale la mancanza di rassomiglianze insistenti, c'induce a ritenere come più probabile che Ippolito abbia attinto notizie e incitamenti nel circolo intellettuale di Ireneo, stimolante, col suo senso vigile di pastore, i giovani a tener d'occhio lo sviluppo della gnosi e a combatterla sul suo stesso terreno.

In complesso l'elaboratissime discussioni dei critici tedeschi, accettate nelle loro parti sostanziali e durature, inducono a ritenere:

a) La tradizione ecclesiastica relativa allo gnosticismo non risale al di là del 170 o 175; verso questo tempo Ippolito è stato uditore d'Ireneo, e ha raccolto mentalmente il materiale del suo futuro βιβλιδάριον;

b) Ippolito esprime quel che nei circoli cattolici si sapeva della gnosi verso il 180: cioè 50 anni dopo il fiorire dei grandi gnostici, come vedremo;

c) Ireneo, arricchendo il suo trattato con nuove fonti, attinge direttamente a documenti contemporanei; lo stesso fa Ippolito nei Philosophumeni; con quanta serietà vedremo fra poco;

d) Le informazioni s'intrecciano fra loro, sì che gli eresiologi del cadere del II e del III secolo non sanno distinguere fra ciò che appartiene autenticamente ai maestri della gnosi e quel che ne è tarda e forse radicale degenerazione.

Quest'ultima conclusione è di grande importanza. Pur senza esagerarla col De Faye, e basarcisi per gettare un fin de non recevoir alle descrizioni infamanti fatte dai padri delle pratiche oscene degli gnostici e alle pitture dei tipi eretici, appare certissimo che essa c'impone un grande riserbo nell'uso delle fonti ecclesiastiche, e ci costringe a farne costantemente il confronto con i frammenti gnostici superstiti, dei quali bisogna invece fare il massimo tesoro. D'altra parte vedremo or ora che i padri, serenamente, hanno adoperato sempre che hanno potuto, documenti gnostici diretti, per intendere ed efficacemente combattere il grande e temuto avversario interno del cristianesimo.

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II. Pochissimi sono i confronti che noi possiamo fare tra i documenti originali gnostici e i passi paralleli d'Ireneo. Ma tale scarsità non dipende dal fatto che ampia è la letteratura gnostica e pochi i passi di questa che son capaci di essere confrontati (in tal caso, il confronto sarebbe in realtà disastroso per Ireneo), bensì dalla penuria della letteratura gnostica rimasta, anteriore ad Ireneo. Sicchè, poichè di questa tenuissima letteratura superstite, i tratti principali combaciano perfettamente con Ireneo, noi, allo stato attuale delle ricerche critiche, dobbiamo concludere che il grande vescovo di Lione è scrittore uso ai sani procedimenti della narrazione storica, ed ha coscienziosamente utilizzato quelle fonti che ha potuto avere a propria disposizione.

Un primo confronto è dato da un passo del II libro di Jeû, che abbiamo detto risalire alla seconda metà del II secolo, con la descrizione che Ireneo fa della dottrina dei Barbelo-Gnostici:

II L.Jeû (Ed. Schmidt, p. 362). Ir. I, 29, 2.
...Questi sono i nomi delle Virtù che si trovano presso l'Acqua di vita: Michar e Michev, ed esse si sono purificate attraverso Barpharangês. E fra queste gli Eoni di Sofia, e fra queste la visibile Verità(ἀλήθεια); in quel luogo si trova la Pistis Sophia e il preesistente, (προών) vivente Gesù e gli ἀερὁδιοι (?) e i suoi dodici eoni (αἰῶνες). In quel luogo sono schierati Sellaô, Eleinos, Zôgenethlês, Selmelche, e il sussistente (αὐτογενής) degli Eoni (αιῶνες) e in lui giacciono quattro luminari (φωστῆρες): ηληληθ, δανειδε (sic), ωροιαηλ. ...Post deinde de Ennoia et de Logo Autogenem emissum dicunt, ad repraesentationem magni luminis; et valde honorificatum dicunt et omnia huic subiecta. Coëmissam autem ei Alethiam, et esse coniugationem Autogenis et Alethiae. De lumine autem quod est Christus et de incorruptela, quatuor emissa luminaria ad circumstantiam Autogeni dicunt; et de Thelemate rursus et aeonia Zoe quatuor emissiones factas, ad subministrationem quatuor luminaribus, quas nominant, Charin, Thelesin, Synesin, Phronesin. Et Charin quidem magno et primo luminario adiunctam; hunc autem esse Sotera volunt; et vocant eum Harmogenes: Thelesin autem secundo, quem et nominant Raguel, Synesin autem tertio luminario, quem vocant David. Phronesin autem quarto, quem nominant Eleleth.

Il parallelismo non è senza dubbio molto spiccato; ma non possiamo pretendere di più di una analogia, fra testi dove le astrazioni faticose e l'idealismo sfrenato, soffocavano ogni perspicuità e impedivano qualsiasi riproduzione fedele. L'importante è di fissare gl'identici nomi per gli eoni; fatto che si verifica in innumerevoli altri luoghi dei libri gnostici e d'Ireneo (Autogenes, Monogenes, Logos, Christus, Adamus), ecc.

Ma un confronto inatteso, che ha smentito d'un tratto le pessimistiche diffidenze di Kunze, è quello istituito fra Ireneo e i recentissimi documenti gnostici, trovati in un papiro copto dal Dr. Reinhardt nel gennaio 1896 ad Achium, e acquistati dal museo di Berlino. Il ms. contiene tre documenti, l'Εὐαγγέλιον ϰατὰ Μαρίαμ e l'Ἀπόϰρυφον Ἰωάννου (secondo lo Sch. si identificano); la Σοφία Ἰωσοῦ Χριστοῦ; e la Πράξις Πέτρου. Ebbene: ponendo allato all'Ev. Mariae il testo di Ireneo, sempre sui Barbelo-Gnostici, appare evidente che l'a. dell'Adv. haer. ha avuto sottocchio questi documenti gnostici, e che le fonti d'Ireneo sono state, più che le opere di eresiologi anteriori, i documenti genuini della gnosi; forse non ne ha capito bene il significato; forse egli, teologo delle tradizione e anima semplice di millenarista, ha poco compreso l'elaborate sistemazioni eoniche degli avversari; ma, indubbiamente, ha voluto attingere una conoscenza diretta delle dottrine che voleva combattere. Per intendere la situazione del primo documento, rivelante una semplicità, sicuro indizio di data antichissima, ne riferirò le parole iniziali (dal tedesco di Schmidt): «Ma avvenne in uno di questi giorni, che Giovanni, il fratello di Giacomo, che sono i figli di Zebedeo, era salito al tempio; e si avvicinò a lui un fariseo di nome Anania, e disse: dov'è il tuo maestro, che tu non lo segui? Egli disse a lui: egli è venuto, là egli è andato. Disse a lui il fariseo: con una frode vi ha il Nazareno ingannato, perchè egli vi ha... e vi ha fatto schiavi della tradizione dei vostri padri. Come io questo udii, io mi rivolsi dal tempio al monte, ad un luogo solitario ed ero assai triste in cuore e dicevo: come è ora stato eletto il Redentore, e perchè egli è ora stato mandato al Kosmos da suo padre che lo ha mandato, e chi è suo Padre?...». Giovanni riceve mentre è in preda a queste trepide ansie, una visione celeste; e riceve nuovi ammaestramenti dal Signore. Tra questi insegnamenti, alcuni coincidono integralmente con le memorie di Ireneo, pure esse dedicate ai Barbelo-Gnostici. Ecco un paragone, ricavando il testo italiano dal tedesco dello Schmidt, e riproducendo il latino di Ireneo, secondo la versione antichissima e fedele.

Ev. Mariae. Ir. I, XXIX, 1, 2, 3, 4.
Il padre di tutte le cose è invisibile: pura luce, che nessuno può contemplare con i suoi occhi, spirito di cui niuno può rintracciare l'origine: eterno, ineffabile, innominabile, poichè nulla, capace di dargli un nome, fu prima di Lui. Ma il padre pensa la sua propria Immagine, e la scorge nell'acqua della pura luce da cui è circondato. E la sua Ennoia produsse un'opera, si rivelò, stette al cospetto di Lui, nello splendore della luce, anteriore ad ogni cosa creata; l'energia che si manifestò, perfetta Pronoia dell'universo, luce, similitudine della luce, Imagine invisibile, vale a dire, perfetta energia, Barbelo, eone di perfezione sublime, che esalta chi in lui si manifestò, e di lui offrì il riflesso. Essa è la prima Ennoia, la sua imagine: essa è divenuta Protantropo, cioè παρθενιϰὸν πνεῦμα, triplice uomo che appartiene alla triplice energia, con tre nomi, tre nature, mai invecchiante, ermafrodito che procedette dalla sua Pronoia. E implorò, nello stesso Barbelo, che gli si donasse la Prognosis. Egli aderì, e dopo che l'aveva concesso, si rivelò la Prognosis e si trovò con l'Ennoia cioè la Pronoia, ed esaltò l'invisibile e la perfetta energia, Barbelo, perchè per mezzo di essi, essa era scaturita. Di nuovo implorò l'energia che le fosse donata l'Apharsia, ed egli aderì, e dopo che l'aveva concesso, l' Apharsia si manifestò e si trovò con l'Ennoia e la Prognosi, tutti lodanti l'Invisibile e Barbelo, perchè era scaturita. E di nuovo implorò affinchè le si concedesse la Vita eterna: Egli aderì e dopo che l'aveva concesso, la Vita eterna si manifestò, e si trovarono, e magnificarono Lui e Barbelo, perchè anch'essa era scaturita nella rivelazione dell'invisibile Spirito. E guardò Barbelo più in alto che potè in Lui, e generò lo splendore beato della Luce. Questo splendore non è molto diverso da Lui. È il Monogene che si manifestò nel Padre, Dio αὐτογένετος, figlio primogenito dell'Universo o spirito della pura luce. L'invisibile spirito si rallegrò per il lume che era emanato, e che primo si era manifestato nella prima energia, cioè nella sua Pronoia o Barbelo. E nella sua benignità lo unse affinchè divenisse perfetto. Il Monogene è la Luce, è Cristo. Il Monogene implora che gli doni la Nous: dopo che ciò è fatto, esalta il Padre e Barbelo. E desiderò il Padre invisibile l'opera dell'operaio celeste: compì il lavoro di Lui, si manifestò, stette con la Nous e la Luce a magnificarlo. Seguì il Logos, mediante il quale il Cristo fece tutte le cose. Dopo ciò l'Ogdoade superiore o Dekas è perfetta, e dagli accoppiamenti dei singoli emanano gli eoni inferiori: specialmente dall'Ennoia e dal Logos autogenes... Che è grandemente onorato, perchè procedette dalla prima Eunoia. Dio veritiero gli communicò ogni potestà, e la Verità, affinchè pensasse l'Universo. Dal lume di Cristo e dalla Aphtarsia emanano quattro ampi luminari intorno all'Autogene: si chiamano: Harmozil, Oroiael, Daveith, e Eleth. Dalla Vita Eterna e Thelemate procedono altri quattro: Charis, Synesis, Aithesis, et Pronesis.

1. Super hos autem ex his qui praedicti sunt Simoniani, multitudo gnosticorum Barbelo exsurrexit, et velut a terra fungi manifestati sunt, quorum principales apud eos sententias enarramus. Quidam enim eorum Aeonem quemdam numquam senescentem in virginali spiritu subiiciunt, quem Barbelon nominant. Ubi esse Patrem quemdam innobilabilem dicunt; voluisse autem hunc manifestare se ipsi Barbeloni. Ennoeam autem hanc progressam stetisse in conspectu eius, et postulasse Prognosin. Quum prodiisset autem et Prognosis, his rursum petentibus prodiit Incorruptela; post deinde Vita aeterna: in quibus gloriantem Barbelon, et prospicientem in magnitudine et conceptu delectatam in hunc generasse simile ei lumen. Hanc initium et luminationis et generationis omnium dicunt; et videntem Patrem lumen hoc, unxisse illud sua benignitate, ut perfectum fieret. Hunc autem dicunt esse Christum: qui rursus postulat, quemadmodum dicunt, adiutorium sibi dari Nun: et progressus est Nus. Super haec autem emittit Pater Logon. Coniugationes autem fiunt Ennoiae et Logi, et Aphtarsias et Christi: et aeonia autem Zoe Thelemati coniuncta est, et Nus Prognosi. Et magnificabant hi magnum lumen et Barbelon.

2. (V. p. 101).

3. Confirmatis igitur sic omnibus, super haec emittit Autogenes hominem perfectum et verum, quem et Adamantem vocant: quoniam neque ipse domatus est, neque ii ex quibus erat, qui et remotus est cum primo lumine ab Harmoge. Emissam autem cum homine ab Autogene agnitionem perfectam, et coniunctam ei: (unde et hunc agnovisse eum qui est super omnia) virtutem quoque ei invictam datam a virginali spiritu, et refrigerant in hoc omnia hymnizare magnum Aeona. Hinc autem dicunt manifestatam Matrem, Patrem, Filium; ex Anthropo autem et Gnosi natum lignum, quod et ipsum gnosim vocant.

4. Deinde ex primo Angelo qui adstat Monogeni, emissum dicunt Spiritum Sanctum, quem et Sophiam et Prunicum vocant. Hunc igitur videntem reliqua omnia coniugationem habentia, se autem sine coniugatione, quaesisse cui adunaretur: et quum non inveniret, asseverabat, et extendebatur et prospiciebat ad inferiores partes, putans hic invenire coniugem et non inveniens exsiliit, taediata quoque, quoniam sine bona voluntate Patris impetum fecerat. Post deinde simplicitate et benignitate acta generavit opus, in quo erat ignorantia et audacia. Hoc autem opus eius esse Proarchontem dicunt, fabricatorem conditionis huius; virtutem autem magnam abstulisse eum a matre narrant, et abstitisse ab ea in inferiora, et fecisse firmamentum coeli, in quo et habitare dicunt eum. Et quum sit ignorantia, fecisse eas, quae sunt sub eo, Potestates, et Angelos et firmamenta et terrena omnia. Deinde dicunt adunitum eum authadiae, generasse kakian, zelon et phthonum, et erinnyn et epithymiam. Generatis autem his, mater Sophia contristata refugit et in altiora secessit, et fit deorsum numerantibus octonatio. Illa igitur secedente, se solum opinatum esse, et propter hoc dixisse: Ego sum Deus zelator et praeter me nemo est.... Et hi quidem talia mentiuntur.

Abbiamo voluto riportare per intero il capo d'Ireneo, per far vedere come le reminiscenze gnostiche sono diluite in una più copiosa esposizione dottrinale. Ciò non toglie però che quelle reminiscenze siano autentiche, e ci offrano il destro di controllare l'opera del vescovo di Lione, dirò di più, di cogliere sul vivo la maniera da lui adottata nel suo lavoro. Senza dubbio non si deve esagerare la portata di simili confronti, perchè ragioni speciali di ambiente e di tempo possono aver indotto Ireneo in questa parte del suo lavoro a una diligenza che non sappiamo se fosse suo abito costante; ma l'indizio è prezioso, perchè Ireneo ha adoperato anche altre fonti, come quella di Tolomeo. E ad ogni modo, allo stato attuale degli studi, il paragone è decisivo, e l'Harnack ha ragione di compiacersi altamente di queste scoperte egiziane, che riportano a noi, dopo secoli di silenzio, le voci vive degli gnostici del II secolo.

*

III. Abbiamo visto che Ippolito, sul cadere del II secolo, memore delle conversazioni avute con Ireneo, scrisse un σύνταγμα compendioso contro la gnosi. Di questa, misteriosa nei suoi riti, schiva della popolarità, aristocratico patrimonio di classi elevate, si avevano notizie vaghe ed incerte; era la massoneria del tempo, e gli apologisti non ne potevano tentare lo smascheramento di fronte al pubblico, se non in base a informazioni monche ed esitanti. Trenta anni dopo, quando in Ippolito ferve più vivo il rancore contro Calisto, reo ai suoi occhi di aver professato errori sabelliani, quel che è peggio, temperato i rigori della disciplina penitenziale, e di avere, quel che è peggio ancora, approvato e democraticamente riconosciuto i matrimoni stretti fra individui di rango sociale diverso, l'antico discepolo d'Ireneo concepisce un piano grandioso: la confutazione di tutte le eresie (quella di Calisto è posta all'ultimo luogo... come le notizie e le domande più interessanti si mettono nei post-scritti delle lettere), fatta però secondo un metodo originale: facendo cioè risaltare la loro affinità, la loro dipendenza dalle teorie pagane, di cui distingue tre scuole: la scuola fisica (Talete), la scuola etica (Socrate), la scuola dialettica (Aristotele). Agli occhi di questo venerando padre del III secolo, attingere materiali dal classicismo, germinare dalle viscere della speculazione pagana, equivaleva ad adulterare e corrompere profondamente la purezza del pensiero cristiano. Ippolito era stimolato al suo lavoro dalla ricchezza dei materiali che possedeva e che gli avrebbe permesso di scoprire dinanzi al gran pubblico interessato alle polemiche religiose, sètte gnostiche fino allora ignorate dagli ortodossi e mai esaminate nei cataloghi delle eresie. Un transfuga forse dello gnosticismo aveva portato al prete, per accaparrarsene la simpatia o per fare atto di zelo, i documenti della conventicola, da lui tradita? Lo vedremo fra poco. Intanto, ecco come Ippolito parla della sua meta:

(Proem. 6, 7). «...Quo igitur, sicut supra dicimus, atheos illos ostendamus et ad sententiam et ad mores et ad opera, et unde conatus eorum profecti sint, nec quidquam eos ex sacris Scripturis mutuatos haec periclitatos esse, aut sancti alicuius successionem observantes ad haec delatos esse, sed decreta illorum principium ex Graecorum sapientia duxisse, ex dogmatibus philosophicis et mysteriis tentatis et astrologis circumvagantibus; placet igitur prius expositis Graecorum philosophorum placitis ostendere lecturis esse his antiquiora et ad divinum numen sanctiora, posthaec conferre singulas haereses cum singulis, quomodo his conatibus superveniens primus conditor haeresis lucri fecerit, repetens principia et ex his ad deteriora delapsus dogma confinxerit».

E iniziando il suo lavoro, Ippolito già sa che i documenti originali, di cui è entrato per un fortunato caso in possesso, gli permettono insieme d'introdurre un concetto nuovo ed un piano originale, e di modificare sapientemente e correggere e completare le informazioni dell'Adv. haer., cominciando a trattare degli Ofiti, i quali onorano il serpente autore dell'errore, e via via disponendo la trattazione secondo la copia d'informazioni che possiede.

Per un lungo periodo di tempo, da quando nel 1851 il Millet pubblicò i libri IV-X dei Philosophumena, la grande opera d'Ippolito, appunto per le notizie inedite o diverse, fu considerata del più alto valore. Essa alludeva a nove documenti gnostici, prima ignorati:

1. Trattato che adoperano i Naasseni. (Haec sunt multorum admodum commentorum capita, quae dicunt tradidisse Mariannae Iacobum Domini Fratrem. V, 7;X, 9).

2. Trattato a proposito dell'arabo Monoimo (VIII, 12-15; X, 17).

3. Trattato che adoperano i Perati. (Visum est igitur apponere unum aliquem eorum librorum, qui ab iis approbati sunt, in quo dicitur, etc. V, 14; X, 1).

4. Trattato dei Sethiani. (Abunde videtur nobis declarata esse Sethianorum sententia. Sin quis omnem secundum eos doctrinam volet cognoscere, inspiciat librum, qui inscribitur Paraphrasis Seth. Omnia enim arcana eorum ibi inveniret reposita. V, 22; X, 11).

5. L'opera di Giustino. (Ne plura pergamus, ex uno eius libro ineffabilia ostendemus... hic autem inscribitur Baruch. V, 24; X, 15).

6. L'Ἀπόφασις μεγάλη di Simone (citata passim, VI, 9-20; X, 12).

7. Lo scritto valentiniano (VI, 21-37; X, 13, con infiltrazioni platoniche).

8. Opera di Basilide (VII, 20-27, passim, X, 14).

9. Trattato doceta (VIII, 8-11; X, 16).

Nel 1885, contro l'autenticità di questi documenti, con tanta compiacenza utilizzati da Ippolito, furono sollevate contestazioni acute, quasi ironiche. Partendo da un dato di fatto innegabile, le concordanze straordinarie e le somiglianze spinte talora fino all'identità, che si riscontrano in questi nove documenti gnostici, il Salmon suppose che essi fossero stati compilati da un medesimo autore, il quale, visto il desiderio col quale l'eresiologo accettava scritti pretesi settari, si incaricò di corbellarlo solennemente, creandone nove, dove raccolse le fantasie del suo pensiero, superficialmente abituato alle speculazioni della gnosi. Lo Staehelin accettò l'ipotesi del Salmon, e si accinse in uno scritto minuto e accurato, a raccoglierne gli argomenti di fatto. Osservò il grande numero d'idee, di figure, di frasi che tornano invariabilmente in questi scritti, come in una edizione stereotipa; enumerò (p. 64-80) le citazioni bibliche che compaiono ripetutamente nell'identica maniera, e, quel che è più sintomatico, talora con i medesimi errori.

Lo Staehelin contrassegna i ragguagli progressivamente con queste lettere: A, A', B, C, D, E, F. G, H. Quindi prova l'affinità tra A e A', che è veramente trasparentissima:

V, 6. VIII, 12.
...Οῦτοι τῶν ἄλλων ἁπάντων παρὰ τὸν αὐτῶν λόγον τιμῶσιν ἄνθρωπον ϰαὶ υἰὸν ἀνθρὼπου. Ἒστι δὲ ἄνθρωπος οὖτος ἀρσενὸθηλυς, ϰαλεῖται δὲ Ἀδἁμας παρ'αὐτοῖς ὕμνοι εἰς αὐτὸν γεγόνασι πολλοἰ ϰαἰ ποιϰίλοι, οἰ ὃἐ ὓμνοι, ὠς δι' ὀλίγων εἰπεῖν, λέγονται παρ' αὐτοῖς τοιοῦτὀν τινα τρόπον· Ἀπὸ σοῦ πατἠρ ϰαὶ διἀ σὲ μήτηρ, τὰ δύο ἀθὰνατα ὀνόματα, αἰώνων γονεῖς, πολῖτα οὐρανοῦ, μεγαλώνυμε ἄνθρωπε. Διαιροῦσι δὲ αὐτὸν, ὠς Γηρυόνην, τριχῆ. Ἒστι γαρ τούτου, φασὶ, τὸ μὲν νοερὸν, τὸ δὲ ψυχιϰὸν, τὸ δὲ χοϊϰὸν· ϰαὶ νοίζουσιν εἶναι τὴν γνῶσιν αὐτοῦ ἀρχὴν τοῦ δύνασθαι γνῶναι τὸν Θεὸν λέγοντες οὕτως. Ἀρχὴ τελειώσεως γνώσις (ἀνθρὼπου, Θεοῦ δὲ γνώσις) ἀπηρτισμένη τελείωσις. Ταύτα δὲ πάντα φησὶ, τὰ νοερὰ ϰαὶ ψυχιϰὰ ϰαὶ χοϊϰὰ ϰεχώρεϰε ϰαὶ ϰατελήλυθεν εἰς ἕνα ἄνθρωπον ὁμοῦ, Ἰησοῦν τὸν ἐϰ τῆς Μαρίας γεγενομήνον· ϰαὶ ἐλάλουν, φησἰν, ὁμοῦ ϰατὰ τὸ αὐτὸ οἰ τρεῖς οὖτοι ἅντθρωποι ἀπὸ τῶν ἰδίων οὐσιῶν τοῑς ἰδίοις ἕϰαστος. Ἐστὶ γὰρ τῶν ὅλων τρία γένη ϰατ'αὐτοὺς, ἀγγελιϰὸν, ψυχιϰὸν, χοϊϰον· ϰαὶ τρεῖς ἐϰϰλησίαι, ἀγγελιϰὴ, ψυχιϰὴ, χοϊϰὴ · ὀνόματα δἐ αὐταῖς ἐϰλεϰτῆ, ϰλητὴ, αἰχμάλωτος.

...Ταύτα ἄλλοις λὸγοις μεταστήσας λέγει ἂνθρωπον εῖναι τὸ τᾶν (ὅ ἐστιν ἀρχὴ τῶν ὄλων) ἀγέννητον, ἄφθαρτον, αϊδιον, ϰαὶ υἱὸν ἀνθρώπου τοῦ προειρημένου γεννητὸν ϰαὶ παθητὸν, ἀρχόνως γενόμενον, ἀβουλήτως ἀπροορίστως.

Τοιαύτη γὰρ, φησὶν, ἡ δύναμις ἐϰείνου τοῦ ἀνθρώπου. Οὒτως ὄντως αὐτοῦ τῇ δυνάμει γενέσθαι τὸν υἱὸν λογισμοῦ ϰαὶ βουλήσεως τάχιον. Καὶ τοῦτὸ ἒστι, φησὶ, τὸ εἰρημένον ἐν ταῑς Γραφαῖς· Ἦν ϰαὶ ἐγένετο ὄπερ ἐστίν· ἦν ἄνθρωπος, ϰαὶ ἐγένετο υἱὸς αὐτοῦ, ῶς τις εἴποι. ἦν πῦρ ϰαὶ ἐγένετο φῶς, ἀχρόνως, ϰαὶ ἀβουλήτως, ϰαὶ ἀπροορίστως ἄμα τῷ εἶναι τὸ πῦρ. Ὁ δἐ ἂνθρωπος οὖτος μία μονὰς ἐστιν ἀσύνθετος ἀδιαίρετος, συνθετὴ διαιρετὴ, πάντα φίλη, πάντα εἰρηνιϰὴ, πάντα μαχίμη, πάντα πρὸς ἑαυτὴν πολέμιος, ἀνόμοιος ὁμοία, οἱονεὶ τις ἀρμονία μουσιϰὴ πάντα ἔχουσα ἐν ἐαυτῇ, ὅσα ἄν τις εἴπῃ ϰαὶ παραλείπῃ μὴ νοήσας, πάντα ἀναδειϰνύουσα, πάντα γεννῶσα. Αὓτη μήτηρ, αὓτη πατὴρ, τὰ δύο ἀθάνατα ὁνόματα. Ὑποδείγματος δὲ χάριν τοῦ τελείου ἀνθρώπου ϰατανόει, φησὶ, μεγίστην εἰϰόνα ῑῶτα ἓν, τῆν μίαν ϰεραίαν, ἢτις ἐστὶ ϰεραία μία ἀσύνθετος, ἁπλῆ, μονὰς εἰλιϰρινὴς ἐξ οὐδενὸς ὅλως τῆν σύνθεσιν, ἔχουσα συνθετὴ, πολυεδὴς, πολυσχιδὴς, πολυμερὴς. Ἡ ἀμερὴς ἐϰείνης μία, φησὶν, ἒστιν ἡ πολυπρόσωπος ϰαὶ μυριόμματος ϰαὶ μυριόνυμος μία τοῦ ι ϰεραία, ἤτις ἐστὶν εἰϰὼν τοῦ τελείου ἀνθρώπου ἐϰείνου τοῦ ἀορὰτου.

Le rassomiglianze si colgono ugualmente, a barlumi brevi, a frammenti rapidi, a invocazioni e frasi spezzate, in tutti gli altri documenti.

Tali confronti, accompagnati da una diligente analisi interna, han veramente quel valore decisivo che han voluto attribuir loro il Salmon e lo Staehelin? Badiamo bene: che i documenti siano contemporanei di Ippolito, che non risalgano al di là del principio del III secolo, che non siano primitivi come il raccoglitore vorrebbe far credere, non può mettersi in dubbio.

La gnosi di questi frammenti attraversa una fase ben avanzata: le sètte portano nomi non giustificati in alcun modo dalla rispettiva dottrina (Sethiani), le idee sono stranamente e torbidamente accoppiate, il dualismo platonico è antiteticamente intrecciato al monismo panteista. La dottrina, lentamente, sotto l'influsso del sincretismo trionfante, va alterandosi, perdendo i vecchi lineamenti e assumendone di nuovi. Di più, che i documenti siano contemporanei fra loro, è anche innegabile; sono certamente stretti fra loro da manifesti caratteri di mutua dipendenza. L'Apophasis, per esempio, è utilizzata dagli altri documenti, e d'altra parte essa è certamente spuria, allontanandosi di troppo da quel che la tradizione più antica e più attendibile ci dice di Simone. Ma da questo al dire che tutti i documenti siano lavoro di un falsario, cioè che in ultima analisi Ippolito sia stato volgarmente truffato, ci corre. Il De Faye si domanda opportunamente se il Salmon non abbia concepito la sua ipotesi per suggerimento inconsapevole di un fatto accaduto nel 1883: cioè del tentativo di truffa fatto dal Shaphira, il quale offrì in quell'anno al British Museum alcune bandelette di cuoio, contenenti passaggi del Deuteronomio in lettere identiche alla stela di Mesa, falsificate, e che stette per ricevere i beneficii della sua mistificazione. Accennato di volo a ciò, lo stesso critico fa risaltare piuttosto le differenze esistenti fra i documenti in questione, sicchè si veda se le apparenti e in fondo superficiali identità, non dipendano dall'unità vaga ma reale dell'argomento, dalla somiglianza oggettiva delle sètte, dall'opera unificatrice dello scrittore polemista, in fine e precisamente dall'unità di scuola, poggiante sulla predicazione di un ignoto maestro, dalla quale sono germogliate, come tanti rami, le sètte note ad Ippolito. Infatti tutte hanno la stessa persuasione profonda del divino immanente nel mondo; tutte sono pregne di pessimismo di fronte all'universo materiale, preda della dissoluzione (Naasseni), dominato dalle tenebre inconsapevoli (Sethiani).

Ma su questo canevaccio uniforme, quante nuances d'idee, quanta varietà di attitudini, quanta diversità di espressioni! Lo scrittore Naasseno è terribilmente nebuloso; il Perate invece ha le idee chiare. Giustino ama la mitologia e ha un gusto particolare per il simbolismo e il mistero. Simone simpatizzante per lo stoicismo, identifica Dio col fuoco, e ha sorbito, nella scuola di Valentino, l'idea di Syzygie. Per Basilide Dio è immanenza, πανοπερμία, e, con frase magnifica, l'essere di cui non si può neppure dire che è, ὁ οὐϰ ὤν Θεὸς; per i Naasseni, è l'uomo inesprimibile: Ἄντρωπος ἄῤῥητος. La gnosi naassena ha caratteri spiccatamente metafisici; quella dei perati, etici; dei sethiani, cosmologici; lo pseudo-Simone scruta i rapporti del primo principio col mondo. L'autore naasseno paragona l'Eden con i suoi fiumi al corpo umano, per concludere al carattere allegorico del Genesi, e s'indugia in una identificazione dei simboli biblici, piena di strane e suggestive novità.

Queste interne divergenze di atteggiamenti d'animo, questa ricchezza di preferenze personali, che noi avremo campo di esporre più in dettaglio, quando disporremo la serie cronologica delle eresie gnostiche; questa profonda eterogeneità di tendenze dottrinali, per cui si avvicina talora la gnosi al dogma cristiano, tal altra se ne allontana per smarrirsi nella vasta elaborazione sincretistica, che domina e investe il pensiero religioso al III secolo; fan vedere quanto smentita nel fatto sia questa pretesa turlupinatura, di cui Ippolito sarebbe stato vittima; inganno e turlupinatura già inverosimile in sè, per la sua gravità.

Noi ci serviremo adunque dei documenti ippolitiani, come però di opera tardiva, che se è atta ad informarci dell'ambiente gnostico verso il 220, non è davvero atta a illuminarci sulla gnosi primitiva del II secolo.

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