Basilide era nativo d'Alessandria; il gran centro della speculazione gnostica. «L'antico insidiatore del genere umano, dice con frase pittoresca Eusebio (H. E. IV, 7) suscitò Menandro, come una testa bilingue: e da lui, Saturnino antiocheno, e Basilide alessandrino». Ciascuno dei due tentò la propaganda nel rispettivo paese d'origine. Su testimonianza di Epifanio (h. XXIV), noi sappiamo che tutto l'Egitto rimase infetto dalla dottrina basilidiana, di cui troviamo emanazioni remote perfino nella Persia (Arch. et Man. Disput.). Sul tempo, nel quale sarebbe vissuto lo strano eretico, che, al dire di Eusebio, prescriveva, come Pitagora, ai suoi discepoli un silenzio quinquennale, e permetteva ogni cibo, anche d'immolati, e suggeriva l'apostasia in tempo di persecuzione, possediamo scarsissimi dati. Secondo Clemente Aless. (Strom. 1. VII), Basilide visse fino ai tempi di Antonino Pio (138-161), ma il periodo aureo della sua predicazione si svolse a tempo di Adriano (127-158). Delle sue opere, delle recenti discussioni critiche in proposito, abbiamo già parlato. Dobbiamo parlare più tosto del suo sistema, tanto più che esso esce profondamente diverso dalle pitture di Ireneo e di Ippolito.
Cominciamo dalla descrizione del primo eresiologo. Basilide, secondo il vescovo di Lione, è stato, se non nettamente, certo sostanzialmente un dualista. Da una parte, ha supposto che dal padre innato, per un processo d'ineffabile emanazione, sia nata Nun, da questa il Logos, da cui a sua volta Phronesis, da Phronesis una coppia di eoni, Sophia e Dinamis; da questi, emanarono le Virtù, i Principati, gli Angeli primi, fabbricatori del primo cielo; dal quale ne derivarono ben 365, quanti sono i giorni dell'anno. Gli angeli poi che reggono l'ultimo cielo, quello che noi vediamo, formarono la terra e le sue cose, e se ne divisero il dominio. Il loro duce è il Dio dei giudei. E perchè esso volle sottoporre tutte le genti al popolo da sè prediletto, gli altri duci gli si opposero recisamente. Allora il Padre innato, intuendo la minaccia della perdizione delle genti, inviò il suo primogenito Nun (è quegli che è chiamato Cristo), affinchè liberasse i credenti in Lui, dal dominio di quelli che avevano formato l'universo. Nun apparve dunque uomo fra gli uomini; ma non sopportò la passione, perchè un tal Simone Cireneo portò la croce per Lui: il quale Simone, crocifisso così in inganno, fu trasfigurato, onde apparisse Gesù, mentre Gesù assumeva l'apparenza di Simone, e burlava i crocefissori, risalendo poi al Padre. Chi sa questo è liberato dagli attacchi dei principi creatori del mondo; egli non deve confessare il Cristo crocifisso, ma colui che venne in forma umana, fu creduto morto in croce, fu chiamato Gesù, mandato dal Padre, a sconvolgere i piani degli artefici del mondo. Anzi, chi confessa il Cristo crocifisso, è tuttora servo, costituito nella potestà di coloro che fecero il corpo umano; chi invece lo nega, ne è liberato e possiede i segreti della Provvidenza paterna. In tal modo, egli raggiunge la liberazione dell'anima; l'unica possibile e desiderabile, perchè la carne, fatalmente, è destinata alla corruzione.
In pratica, i basilidiani, secondo Ireneo, adoperano senza ombra di scrupolo, gli idololiti, e giudicano indifferenti le azioni più bassamente libidinose. Infine dicono che basta conoscere la struttura dei 365 cieli, la loro disposizione matematica, per essere immuni da ogni tocco funesto degli eoni, per divenire anzi invisibili, come protetti da un talismano, contro tutte le influenze del male. Il loro motto è: «Tu omnes cognosce, te autem nemo cognoscat». Dopo questa fiducia nella propria incolumità e impeccabilità, riservata però a pochissimi privilegiati (l'uno per mille), perchè la scienza è cosa di pochi, diviene inutile l'affermazione pubblica della propria fede.
Il Basilide di Ippolito (VII, 20-27) è stranamente panteista; di un panteismo non grossolano, ma saturo di intellettualismo, compresso da categorie logiche, qua e là analogo al panlogismo hegeliano. Il non ente e l'ente si sono risolti in un misterioso divenire della realtà. «Ci fu un tempo in cui nulla esisteva, non la sostanza, non la forma, non l'accidente, non il semplice, non il composto, non l'inconoscibile, non l'invisibile, non l'uomo, non l'angelo, non Dio, nè alcuna di quelle cose, che sono indicate con nomi, e che sono percepite sia dalla mente, sia dalle facoltà sensitive; Iddio non ente (che Aristotile chiama pensiero del pensiero, e questi eretici non ente) senza riflessione, senza percezione, senza proposito, senza programma, senza passione, senza cupidigia, volle creare il mondo. Dico volle, tanto per esprimermi; perchè non aveva volontà, nè idee, nè percezioni; e per mondo, non intendo quello attuale, sorto per estensione e scissione, bensì il seme del mondo. Il seme del mondo comprendeva in sè, come il grano di senapa, tutte le cose, sorte poi per evoluzione, come le radici, i rami, le foglie, sorgono dal grano della pianta. Era questo il seme che racchiude in sè i semi universali, e che Aristotile indica come il genere suddiviso in infinite specie...». Procedendo, i basilidiani spiegano la maniera secondo la quale dal seme primordiale sono germinate lentamente tutte le cose. Esisteva in questo sperma una figliuolanza tripartita, del tutto consustanziale al Dio non ente, da lui generata. Uno stipite era semplice, l'altro composto, il terzo bisognoso di purificazione. Di questa triplice figliolanza, la prima, la sottile, a pena scaturita dal seme, salì al non ente: la seconda, la pesante e composta, incapace con le sole sue forze a elevarsi, si armò di spirito santo, come di ali, e si avvicinò, col suo sostegno, al Dio non ente. Ma qui lo spirito santo, di diversa sostanza, non poteva aver luogo; rimase quindi escluso. La terza figliolanza infine, bisognosa di purificazione, rimase nel grande cumulo di germi cosmici generici, fonte e termine di esistenze parziali. Compiutasi l'ascensione della prima e della seconda figliuolanza; arrestatosi lo spirito santo sulle soglie del non ente; il firmamento, situato tra le cose sopramondane e il mondo (Basilide, secondo Ippolito, divide l'universo in due categorie di esseri, il mondo e la realtà sopramondana; confine fra le due lo spirito, che avendo aiutato la salita della seconda figliolanza, ne conserva in sè il profumo), si squarciò e generò il grande arconte, capo del mondo, bellezza e grandezza inesprimibili. Egli però dimenticò la sua origine, e si credette il supremo degli esseri. Da prima, odiò la sua solitudine, e, attingendo dalle cose sottostanti, generò un figlio, di sè più sapiente e più nobile; e colpito dalla sua incantevole bellezza, lo fece sedere alla sua destra; e si ebbe così l'ogdoade. L'arconte o demiurgo ordinò l'esistenza celeste, assistito dal figlio, che compie così, nota Ippolito, le funzioni assegnate da Aristotile all'entelecheia nel corpo organico. Disposti in armonia gli esseri dell'etere, dal vivaio di germi, agitati dall'opera permanente della terza figliolanza, sorse un secondo arconte, generatore a sua volta di un figlio, dalla cui bellezza è rapito, e che chiama a sedere alla sua destra nell'eddomade. Quando questa laboriosa opera di sistemazione fu compiuta, la terza figliolanza cominciò a percepire in sè stessa il bisogno di ricollegarsi al non ente; bisognava riscattarla. È scritto infatti: «Et creatura ipsa congemiscit et parturit, rivelationem filiorum Dei expectans» (Rom. VIII, 19). I figli sono gli spirituali, abbandonati nel mondo a perfezionare l'anima loro. È scritto inoltre: «Usque igitur ad Mosen ab Adam regnavit peccatum» (Rom. V, 13). E si vuol dire appunto che il grande arconte, confinante col firmamento, credette di essere il solo Dio, supremo; perchè tutto era avvolto in un impenetrabile silenzio. Sicchè per più secoli l'ogdoade sembrò signoreggiare sopra tutte le cose. Anche l'eddomade regnava nel suo grado. È anzi l'arconte dell'eddomade che parlò a Mosè dicendo: «Ego Deus Abraham et Isaac et Jacob et nomen Dei non indicavi eis» (cioè il nome dell'arconte dell'ogdoade)... Ma quando giunse a maturità il bisogno della rivelazione, venne il Vangelo nel mondo e pervenne a tutti i principati, le potenze, i domini, i nomi che è possibile pronunciare. Venne realmente, nulla però discendendo dall'alto, nè separandosi la beata figliolanza dal Dio non-ente. Come una materia infiammabile che conduce rapidamente il fuoco, così si sollevarono le energie dei germi mondani fino alla figliolanza. Poichè il figlio del grande arconte, per mezzo dello spirito santo, conduce i pensieri dalla figliolanza e alla figliolanza suprema (VII, 25). «Partì dunque il primo annunzio evangelico dalla figliolanza beata, e attraverso il figlio, pervenne all'arconte, il quale conobbe il non-ente a sè superiore, e ne temette l'ira: «Principium sapientiae timor Domini» (Pro. I, 7). Cominciò così ad essere ammaestrato dal Cristo nei misteri della vita più alta: «Non in doctis humanae sapientiae verbis, sed in doctis Spiritus» (1a Cor. II, 13). E confessò il suo peccato di superbia: «Peccatum meum intellexi et delictum meum agnosco, de hoc confitebor in aeternum» (Ps. XXXI, 5). Dopo l'illuminazione dell'ogdoade, il vangelo doveva raggiungere anche l'ebdomade, affinchè il suo arconte fosse istruito. Accese dunque il figlio del grande arconte un lume al figlio dell'arconte dell'eddomade, il quale anch'esso, seppe i misteri, si dolse, confessò la sua colpa. Tutto fu illuminato nell'ebdomade; anche i 365 cieli, il cui grande arconte è Abraxas. Dopo, venne la volta della figliolanza abortiva: «Secundum revelationem notum mihi factum est mysterium (Eph. III, 3), e Audivi arcana verba, quae non licet homini loqui» (2a Cor. XII, 4). La luce miracolosa discese dall'ebdomade a Gesù, figlio di Maria. Onde è detto: Spiritus sanctus superveniet in te, vale a dire, lo spirito confinante dell'ogdoade è disceso, et virtus altissimi obumbrabit tibi, cioè l'unzione, attraverso il demiurgo, calò sul capo della creatura. La terza figliolanza doveva da Gesù essere sollevata al non-ente (VII, 26). Per l'opera di Gesù, che ha sofferto nella sua parte materiale, e quindi deforme, la figliolanza ha fatto ritorno al non-ente, e tutte le categorie dell'essere han raggiunto il loro stato di equilibrio.
È difficile conciliare le due esposizioni: tanto più difficile, in quanto i frammenti superstiti del Commentario di Basilide (Clem.Str. IV, e Orig. in Ep. ad Rom. V, 5) non ci danno alcuna indicazione sul modo di risolvere la loro apparente antinomia. Essi infatti sono d'indole pratica, e mostrano che Valentino credeva nella metempsicosi, e sosteneva essere ogni martirio frutto di un peccato. Se noi supponiamo col Salmon che Ippolito è stato vittima di un falsario di documenti, la difficoltà è soppressa; noi dobbiamo attenerci alla narrazione d'Ireneo, come unica fonte per la conoscenza del pensiero basilidiano. Ma oltre al fatto eloquente che alcune affinità notevolissime si riscontrano nei racconti (p. es. i 365 cieli), noi non crediamo, l'abbiamo già detto, che Ippolito sia stato così agevolmente ingannato. Nei circoli romani del terzo secolo incipiente dovevano essere ormai sufficientemente note le speculazioni gnostiche, ravvolte nel mistero delle conventicole; facile doveva essere il controllo delle fonti. D'altra parte, un esame attento delle due redazioni, ce ne fa vedere la non assoluta incompatibilità. Infatti non c'è fra di esse una inconciliabile opposizione di sistema; Ireneo non ci descrive un dualismo brutale ed esplicito, come Ippolito non ci descrive un panteismo rozzo e consapevole. Il primo ci addita una lotta di principii cosmici, ma posteriore alla formazione dell'universo; il secondo, stabilisce fra il mondo superiore e l'inferiore rapporti ambigui fra l'emanazione e la creazione. Il tratto distintivo saliente dei due racconti, è la maggiore ampiezza e ricchezza del secondo. Ma questo fatto, anzichè deporre contro la veridicità di Ippolito, la rassoda; perchè nulla di più naturale che l'accrescimento irresistibile delle speculazioni gnostiche, durante l'esaltazione psicologica del mondo religioso romano al secondo secolo. Tale accrescimento, svolgendosi irregolare, fuori di ogni idea direttrice e di ogni esattezza filosofica, può offrire le apparenze di una trasformazione integrale del pensiero primitivo. Il fatto è che il pensiero gnostico è stato come una valanga di neve, formatasi rapidamente sulla china di una montagna scoscesa. Esso, sul suo breve cammino, si è ampliato irregolarmente, fino a smarrire le sue prime fattezze. L'errore di Basilide in Ippolito, è lo stesso che quello di Basilide in Ireneo; speculazione arbitraria e interpretazione cosmologica della redenzione. Solo, le più acremente sviluppate esigenze dello spirito settario, ne hanno notevolmente aumentato il contenuto.
Basilide ebbe un erede e un continuatore delle sue idee, in suo figlio Isidoro. Abbiamo già registrato le sue opere. I frammenti rari conservatici di esse dagli eresiologi, sono molto interessanti; perchè rivelano il pensiero eretico trasportato dal campo cosmico e soteriologico, in quello antropologico. Uno di essi, tolto dal libro intitolato dell'anima cresciuta, distingue la parte ragionevole dell'uomo, dagli istinti e dalle passioni sensibili: ed afferma che queste, per quanto ingigantite dalla consuetudine e dagli abiti malvagi, non riescono mai a neutralizzare l'efficacia moderatrice della libertà (Str., II, 20). In un altro frammento, ricavato dai Morali, conservato da Clemente Alessandrino (Str., III, 1) con qualche lieve alterazione, e forse meglio da Epifanio (loc. cit.), si danno consigli erotici, di una singolare libertà e nello stesso tempo di un significativo colore malthusiano: «Prendi con te una donna, affinchè lo stimolo aspro e tenace della libidine, insoddisfatto, non ti allontani dalla grazia di Dio: quando avrai calmato, così, il fuoco segreto della passione, potrai pregare con lieta, sorridente coscienza. Ciò però nell'ipotesi che tu appartenga al ceto dei perfetti, i quali rendono grazie, ma non implorano dono. Che se tu ti trovassi nella condizione dei deboli imploratori, e non avessi ottenuto il privilegio della serenità di spirito e della imperturbabilità del tuo senso morale, non soggetto a scrupoli, allora sposa regolarmente. E se un giovane, un povero, un infermo, non possono prender moglie, o per debolezza di costituzione o per incapacità a sopportare gli oneri della famiglia, non siano respinti dalla comunità dei fratelli; invochino anzi il loro soccorso, se sono in procinto di cadere... La natura umana ha alcune funzioni naturali, e altre necessarie: il vestito è necessario, la copula invece è semplicemente naturale». Il tratto è molto significativo: in esso fa una luminosa apparizione il vero contenuto sociale dello gnosticismo. Tollera il celibato concubinario in coloro, che con la pretesa di esser perfetti, fan del loro arbitrio, la legge morale: anzi pone lo sfogo sensuale della carne come condizione per far più devote e sentite preghiere. Poi, preclude le vie del matrimonio ai poveri, con la distinzione di cose necessarie e solo naturali.
Infine, lo stesso Clemente (Str., VI, 6), ci ha conservato tre brevi frammenti della spiegazione del profeta Parchor, dei quali notevole il secondo, in cui Isidoro afferma che la dottrina dei filosofi è desunta dai profeti.