Un'altra coppia interessantissima di eretici è quella formata da Carpocrate e da suo figlio Epifane. Sul tempo della loro propaganda abbiamo scarse notizie. Ireneo parla di loro nel I libro dell'Adversus haereses (25, 4): ma intento alla descrizione della dottrina eretica, non si cura di offrirci dettagli biografici. Solo ci dà una notizia indiretta, quando scrive: «Marcellina, quae Romam sub Aniceto venit, quum esset huius doctrinae, multos exterminavit». Donde si ricava che l'attività di Carpocrate, continuata da Marcellina, non si è svolta a Roma; e per una facile induzione, che la propaganda carpocraziana non doveva essere cominciata molti anni prima di questo pontificato, svoltosi all'incirca fra il 154 e il 166.
Su Epifane, l'enfant gâté della setta e insieme il suo oppositore più radicale, siamo invece molto riccamente informati da Clemente Alessandrino (III, Strom.): «Questo Epifane, di cui circolano gli scritti, era figlio di Carpocrate e di una donna, chiamata Alessandria: il padre era Alessandrino, la madre nativa di Cefalene. Visse solo 17 anni, e a Sama come un Dio è venerato. Ivi gli è stato innalzato un sontuosissimo tempio: e ad ogni luna nuova i Cefalenii vi si raccolgono, commemorando il giorno della sua morte, con banchetti ed inni. Apprese dal padre la filosofia platonica, e tutta una vastissima cultura filosofica. Fu difensore di una conoscenza monadica, propria degli attuali eretici carpocraziani».
Dell'opera di Epifane della giustitia lo stesso Clemente ha conservato due preziosi frammenti. «La giustizia imposta da Dio consiste in un certo comunismo, fondata sulla uguaglianza. La natura ce ne offre l'esempio: guardate la uguaglianza del cielo, che copre tutta la terra; e quella della notte, che accende sul firmamento tutte le stelle; e del Sole, creatore del giorno e padre benefico della luce, che Dio dispensa signorilmente a tutti gli abitanti del mondo. In realtà, Dio non fa alcuna distinzione fra povero e ricco, fra sapiente e ignorante, fra maschio e femmina, schiavo e libero, sovrano e suddito: anzi non opera diversamente nè pure con i bruti. Egli diffonde lo splendore del suo sole indistintamente, e nessuno può rubarne al suo vicino la porzione, per usufruirne doppiamente. Di più, il sole fa germogliare il cibo comune a tutti gli esseri dispersi sulla faccia della terra. Sotto i loro piedi nasce con abbondanza inesauribile il verde alimento, non vincolato, non protetto, non precluso da legge di privilegio. Così pure tutti hanno innato lo stimolo alle loro operazioni vitali, compiute nella serena incoscienza della libertà istintiva. Gli uomini invece han creato le leggi: che impotenti a disciplinare le loro voglie o a sanarne l'ignoranza, hanno educato le menti al sotterfugio. Esse sanzionarono la proprietà, annientando la splendida comunanza progettata da Dio: crearono il mio e il tuo, e ruppero il disegno armonico dell'universo. Dio aveva fatto i beni della terra comuni: il tralcio delle viti, la spiga di frumento, i frutti e le erbe germogliavano su dalla zolla, quasi protendendosi al desiderio dell'uomo. La legge, violando l'uguaglianza del comunismo, ha prodotto il ladro, come ha prodotto l'adultero. Perchè anche la donna non può essere di un solo, ma il libero amore è la legge fatale della vita. La brama ardente della voluttà, insita nell'uomo per l'alto fine della conservazione della specie, è così intensa che nè la legge, nè il costume, nè alcun'altra pressione esteriore possono soffocarla: Dio stesso l'ha decretato». (Cf. su quest'ultimo punto l'altro tratto in Clemente, poco dopo).
Questo passò di Epifane, contenente senza alcun dubbio il succo di tutto il suo libro, è tale da riempirci di stupore a prima vista. Noi abbiamo già avuto occasione di osservare che il movimento gnostico, nelle sue linee generali, si presenta come un movimento aristocratico, che tenta di opporsi all'ascensione del cristianesimo, e di difendere, attraverso l'ideologia religiosa del paganesimo addottrinato, le tradizioni, le consuetudini, le leggi della vita classica. Ora Epifane, con le sue dottrine rivoluzionarie (non c'è idea più rivoluzionaria che quella del libero amore), sembra contradire radicalmente questo giudizio. E il guaio è che ci fanno difetto notizie sicure per conoscere i suoi rapporti con le vere sètte gnostiche; e ci manca ogni dato per scandagliare la psicologia di questa pallida personalità di ribelle, consumata a 17 anni, dopo aver dato prova di una precocità mentale che ne tramandò il ricordo con l'aureola della divinità. Ci sentiamo perciò spinti a immaginare che Epifane solo per una assimilazione naturale in tempi di polemica e di scarsi mezzi di comunicazione, ha potuto essere compreso nei ranghi dei membri attivi della gnosi. Egli forse è stato un eretico nell'eresia: una forte individualità, che ha infranto i vincoli dell'educazione ricevuta: che ha adoperato la dottrina istillatagli dal padre, contro le stesse conclusioni e le idealità di questi. È l'enfant terrible dello gnosticismo del secondo secolo. E noi possiamo supporre che se la morte non ne avesse troncato la verde esistenza ventenne, egli avrebbe, nella corrente stessa dello gnosticismo, provocato una salutare reazione.
Che infatti egli uscisse da una vera tradizione gnostica, è innegabile. Ireneo così ci descrive il sistema di Carpocrate (I, 25), imbevuto di dualismo e favorevole alla dottrina platonica della reminiscenza: «Il mondo è stato fatto dagli angeli, immensamente inferiori al Padre ingenito. Gesù, nato da Giuseppe, si eleva al di sopra delle altre creature umane per la netta e lucida memoria delle cose apprese nella preesistenza. Egli insegnò agli uomini la maniera di premunirsi dall'influsso cieco e malefico delle potenze vigilanti alla conservazione del mondo. Chiunque ne ascolta l'insegnamento, acquista virtù inattese, e può anche superare il maestro. Per conseguire questo stato di superiorità psichica, occorre però invocare con i voti della magia, destare ed esercitare le proprie energie spirituali». Quindi Ireneo ci descrive la vita libidinosa dei seguaci di Carpocrate, e amaramente si duole della cattiva luce ch'essi così diffondono su tutta la comunità cristiana, quasi essi costituissero un solo gruppo con i fedeli veri e morigerati: e confondendo molto probabilmente l'immoralità dei seguaci di Carpocrate con la giustificazione sociologica fattane da Epifane, ci dice che essi affermano essere la salvezza frutto della carità e della fede, non delle opere, le quali sono per sè indifferenti, e solo dalle convenienze umane distinte con la qualifica di buone o di cattive; che, molto bizzarramente interpretando alcuni passi evangelici, i carpocraziani affermavano sfacciatamente che occorre abbandonarsi ad ogni genere di indegnità, bere fino a vuotarlo il calice del piacere, inebriarsi fino all'esaurimento nelle voluttà della carne, per affrancarsi dai vincoli di questa, per non costringere lo spirito, che non ha percorso tutto il cammino del pervertimento sessuale, a tornare in un corpo dopo la morte, per continuare in una metempsicosi di nuovo genere, la soddisfazione delle più raffinate orgie sensuali. Come il Pafnuzio di Anatole France (Thaïs, p. 290), i settari che sorgono dalla descrizione d'Ireneo, sembrano gridare al cielo: «Non è ancora abbastanza, o Dio onnipotente! Ancora più lubriche tentazioni, ancora più immonde immagini, ancora più focosi desideri! Fa', o Dio, bruciare in noi tutta la lussuria degli uomini!». Ma invece di concludere con lo stilita, «noi vogliamo espiarla tutta»: i discepoli di Carpocrate concludono al dovere di non frenare mai gl'istinti, e, con un mostruoso capovolgimento del senso morale, dichiarano che il peccato non è un abbassamento, ma una elevazione ed un affrancamento del corpo. Infine Ireneo riporta alcuni usi della setta: «Son soliti adoperare dei distintivi per riconoscersi: e più spesso, cauterizzano la parte posteriore dell'orecchia destra. Si chiamano gnostici: hanno delle immagini dipinte o fabbricate d'altra materia, e le coronano, e le espongono alla venerazione, insieme alle immagini di Pitagora, Platone ed Aristotile». Particolari questi di non piccolo interesse, trattandosi di forme di culto, più tardi così sviluppate.
La pittura dei costumi carpocraziani è così ributtante, che Ireneo stesso dubita della veridicità delle voci raccolte. Tale dubbio deve renderci molto cauti in accettarle. Senza dubbio il campo della vita morale è quello nel quale si esercita di più la fantasia feconda del popolo, e la mania del pettegolezzo. Può essere quindi che quella pittura abbia molto di esagerato: anzi, crediamo che la memoria dei carpocraziani, così giunta a Ireneo, contenga parecchie confusioni ed inesattezze. I carpocraziani saranno stati senza dubbio immorali, e nelle loro conventicole si saranno abbandonati a eccessi di oscenità profonda: tutto ciò è nell'indole della tradizione gnostica, sorta appunto a difendere, contro la dottrina della mortificazione cristiana, il principio della lecita soddisfazione di ogni istinto naturale. Ma non devono aver fatto mai una teoria così leale e così franca della loro pratica: gli gnostici anzi tendono a deprimere la materia, le cui velleità però accarezzano e compatiscono. Molto facilmente gli eresiologi han confuso fra la pratica dei primi carpocraziani e le teorie di Epifane, il quale educato in ambiente corrotto e d'altra parte spirito inflessibile per coerenza e audacia mentale, ha cercato di legalizzare con un teorema le forme del parossismo sensuale. Con ciò stesso però egli era uscito dal movimento gnostico, come un germoglio estraneo ed un innesto di specie diversa. Mai la logica è la dote dei partiti militanti: e ogni collettività organizzata deve respingere dal suo seno chi svela della sua esistenza le contradizioni, sia pure per sanarle. Epifane è un masso erratico nella gnosi, e il suo tentativo, sporadica manifestazione di un ingegno acuto, esorbita dai confini della storia gnostica.