Ma lo spirito più eminente dello gnosticismo, la personalità più spiccata in questo vasto movimento di anime, è Valentino, oratore e filosofo, pensatore originale, esegeta acutissimo, tempra di mistico in veste di capo-scuola, psicologia delicata, cui è caro della realtà contemplare l'essenza recondita, sprezzando le apparenze fenomeniche e le contingenze storiche.
Circa la sua patria e la sua famiglia, non è permesso ricavare gran che di preciso da Epifanio (h. XXXI, 2), che si esprime in proposito in forma dubitativa: «Patriam eius ac stirpem plerique nesciunt. Neque enim locum, unde oriundus esset, designare ulli scriptorum curae fuit. Phrebonitem illum fuisse, ex maritimi Aegypti ora: Alexandriae vero, in Graecorum disciplinis eruditum». Sul tempo invece in cui visse e insegnò, siamo invece con precisione informati da Ireneo (III, 4): «Valentinus enim venit Romam sub Hygino, (136-140) increvit vero sub Pio, (140-155) et prorogavit tempus usque ad Anicetum» (156-166). L'occasione per la quale Valentino fu spinto ad assumere un atteggiamento di ribellione alla chiesa ufficiale, ci è narrata da Tertulliano (Contr. Val., 4): «Novimus, inquam, optime originem quoque ipsorum, et scimus cur valentinianos appellemus, licet non esse videantur. Abscesserunt enim a conditore, sed minime origo deletur; et si forte mutatur, testatio est ipsa mutatio. Speraverat episcopatum Valentinus, quia et ingenio poterat et eloquio. Sed alium ex martyrii praerogativa loci potitum indignatus, de Ecclesia authenticae regulae abrupit. Ut solent animi pro prioratu exciti praesumptione ultionis accendi, ad expugnandam conversus veritatem et cuiusdam veteris opinionis semitam nactus, astu colubroso vìam deliniavit». Così Tertulliano testimonia l'eccezionale ingegno di questo eretico, come più tardi Girolamo, dopo aver dichiarato che «nullus potest haeresim adstruere, nisi qui ardentis ingenii est, et habet dona naturae, quae a Deo artifice sunt creata» aggiunge: «talis fuit Valentinus, talis Marcion, quos doctissimos legimus» (in Os., lib. II, c. 10). In quanto alla coincidenza dell'apostasia di Valentino con la sua mancata elezione al pontificato, noi possiamo dubitare dell'esattezza dell'asserzione di Tertulliano. Il pensiero dell'eretico era anteriore senza dubbio all'episodio accennato: ebbe però in questo un'occasione di rompere in aperta scissione. Circa la fine di Valentino, possiamo credere ad Epifanio, narrante ch'egli morì a Cipro tenace nella sua dottrina.
Per conoscere la quale noi procederemo in questa maniera: riferiremo innanzi tutto i tratti del neo-platonico, superstiti nelle citazioni di Clemente e di Ippolito, cercando di ricavare da essi la sua fisionomia: quindi analizzeremo la esposizione fatta da Ippolito stesso nel suo trattato, infiltratosi nello pseudo-Tertulliano e Filastrio; infine accenneremo alla confutazione fattane da Ireneo, e alle diramazioni molteplici della sètta.
Innanzi tutto un notevole tratto, d'indole cosmologica, è ricavato da una omelia di Valentino e inserito da Clemente nel IV lib. dei suoi Stromati: l'oratore vi scolpisce, in una limpida similitudine, il concetto platonico secondo il quale l'essere e la bellezza del mondo non sono che pallido riflesso della forza formatrice: «Quanto l'immagine è inferiore alla vivezza del profilo reale, altrettanto è inferiore il mondo, paragonato al (soprasensibile) eone vivente. Quale è la causa, per cui si fa l'immagine? È la maestà del volto, che offrì l'ispirazione all'artista, affinchè l'immagine sia illustrata dal nome della persona di cui ritrae le fattezze. Poichè, da sola, la forma non è sufficiente a dare un'idea, ma il nome esplicativo supplisce all'imperfezione della esecuzione. Così Dio invisibile, con la sua impronta, ha contribuito a nobilitare l'opera sua».
Altri due passi, di grande eloquenza, sono d'indole antropologica. Nel primo, tratto pure da un'omelia, e riferito da Clemente, sempre al IV libro degli Stromati, Valentino esprime un'idea, nettamente cristiana: l'idea della redenzione interiore, mercè la quale l'uomo pio, e castigatore di sè, raggiunge il dominio della materia bruta, e comanda alle forze cieche del cosmo: «Voi siete immortali fin dal principio: voi siete figli della vita eterna: voi voleste affrontare da voi la morte, affinchè la morte fosse da voi debellata e in voi e per voi la morte morisse. Ebbene: quando voi sconfiggete il mondo, disgregandone gli elementi insidiatori, senza disgregare le energie del vostro spirito, voi siete i signori della creazione e dominatori di ogni realtà peritura». Questo breve frammento ha un sapore schiettamente prammatista: lo gnostico sembra voler predicare una singolare fiducia nelle capacità dello spirito, per soggiogare, come strumenti, le potenze del cosmo e indirizzare sulle vie della conquista psichica i suoi ascoltatori o lettori. Nell'altro, inculca con viva insistenza la vigile attenzione sul giuoco delle passioni, affinchè, nel loro soggiogamento, si manifesti la presenza benefica del Padre: «Uno solo è buono, la cui presenza si rivela per mezzo del Figlio. Solamente col suo soccorso il cuore umano può divenire mondo, dopo che ne sia stato espulso ogni spirito maligno. Poichè quando vi dimora una moltitudine di spiriti, esso non può conquistare la purezza. Ciascuno di essi produce fatalmente le sue perverse manifestazioni, dilaniando l'anima con desideri contrastanti. A me sembra che il cuore umano rassomigli ad un albergo: quando in questo capitano uomini maleducati, i muri son forati, il locale devastato e insozzato: essi pensano che non è roba loro. Lo stesso accade per il cuore: quando esso è trascurato, diviene immondo ricettacolo di demoni. Ma quando il Padre, solo buono, ne ha cura, esso è santificato e risplende di luce. Beato perciò colui che ha il cuore in tale condizione, perchè vedrà Dio» (Str., II, 20). Anche qui, Valentino esprime una norma di disciplina spirituale intimamente cristiana: anzi, più affinata di quel che forse non avrebbero potuto concepire ancora gli ortodossi suoi contemporanei, più inclinati a percepire del cristianesimo l'efficacia sociale esteriore, che l'opera interiore di miglioramento e di abnegazione.
Infine Clemente (Str., II, 6; III, 8) ci riporta, desunti da lettere, due passi teologici, di cui l'uno si riferisce più propriamente all'origine delle cose, l'altro al Cristo. Dice nel primo Valentino, spiegando l'introduzione di un elemento divino nella natura dell'uomo: «E una specie di spavento terribile assalì gli angeli in presenza di questo essere, che proprio essi avevano formato, quando egli proferì parole fuori di ogni proporzione con le sue origini. Questo derivava in lui dall'Essere che invisibilmente aveva deposto un germe della sostanza superiore, e parlava perciò così audacemente in lui. Appunto così tra gli uomini leggeri, le loro opere sono fonte di spavento per chi le ha compiute, come statue, immagini, tutto ciò che le loro mani costrussero per rappresentare la divinità. Poichè Adamo, essendo stato formato in onore dell'Uomo, ispirava il timore dell'Uomo preesistente, il quale era in lui: e gli angeli, stupiti, alterarono ben presto la loro opera». Clemente commenta il passo, che può apparire enigmatico. Valentino sosteneva un dualismo, congiunto da una folla di esseri intermedi, fra i quali il demiurgo, creatore dell'uomo visibile, racchiudente in sè il seme di una vita superiore.
Riguardo al Cristo, Valentino ha parole che tradiscono la tendenza docetica: «Pure sottoponendosi a tutte le necessità della vita, Egli le ha signorilmente dominate. Così Egli ha attuato la divinità. Egli mangiava e beveva in un modo particolare, senza evacuare. Così grande era la sua forza di temperanza, che gli alimenti non si corrompevano in Lui, perchè Egli stesso non doveva conoscere la dissoluzione». Queste parole, pur così brevi, posseggono un inestimabile valore. Esse ci rivelano tutto un aspetto del pensiero valentiniano, che attenua le tinte oscure con cui lo dipingono gli eresiologi ecclesiastici. Per Valentino, come per gli ortodossi, il Cristo occupa un piano particolarissimo nella teologia e nella dottrina della redenzione. Di più, il platonico egiziano insiste nella considerazione mistica di Gesù, fuori delle contingenze materiali della sua esistenza sensibile. Egli distingue, lontano precursore di apologeti moderni, il Cristo storico, dal Cristo mistico: a questi attribuisce un'operazione permanente di purificazione delle coscienze. Egli inaugura così quella manìa, divenuta abituale negli gnostici posteriori, di far rivivere il Cristo e di farlo parlare in rivelazioni nuove, incessanti. Del resto, questa attitudine delle idee soteriologiche era in gran parte comune a pensatori, almeno sostanzialmente, ortodossi, come Clemente.
Per completare il pensiero di Valentino occorre, dopo aver constatato con questi passi originali i vincoli ascetici che lo legano al cristianesimo, osservarne l'attitudine generica di fronte ai problemi del dolore e dell'origine della materia: essa è quella così caratteristica della filosofia platonica al secondo secolo: collocante Iddio su un'altezza inaccessibile, fuori di ogni possibile contatto con la creatura, ma riunito a questa per mezzo di un numero complicato di esseri impalpabili, sostituitisi al demiurgo singolare. Ippolito ci ha conservato un frammento di inno valentiniano, in cui questo progressivo concatenamento degli esseri con la divinità è tracciato in iscorcio, e da cui appare come anche la liturgia della setta dovesse essere imbevuta di metafisica:
l'esistenza di tutte le cose sospesa all'etere,
dall'etere conservata, intuisco;
la carne sostenuta dall'anima,
l'anima retta dall'aria,
l'aria sospesa all'etere;
da Bytho derivano i frutti nascenti,
dall'utero il feto crescente.
Ippolito spiega questo oscuro logogrifo: «La carne è la materia, dipendente dall'anima del demiurgo; quest'anima è sollevata dall'aria, vale a dire il demiurgo è sostenuto dallo spirito, che è fuori del pleroma; l'aria a sua volta è retta dall'etere, ciò vuol dire che la Sofia esteriore è soccorsa dalla Sofia che è dentro il Termine, e in genere da tutto il pleroma; infine da Bytho nascono i frutti si capisce cosa voglia dire, quando si sa che Bytho è la progenie completa degli eoni, germinata dal Padre» (Phil., VI, 37); e ne fa vedere l'affinità con la tradizione platonica. Ma queste idee non sono che brevissimi saggi della complicatissima eonologia valentiniana. I tre eresiologi, derivati, come abbiam visto nel capitolo sulle fonti, dal trattato perduto di Ippolito, lo pseudo-Tertulliano, Filastrio ed Epifanio, ce ne danno una ricca esposizione, di cui riferirò la trama.
Valentino immagina l'esistenza di un pleroma, di una totalità cioè di esistenze soprasensibili con trenta eoni, disposti gerarchicamente per syzygie, specie di coniugazioni a coppia. I primi due sono Bython e Silenzio, dai quali è scaturito un seme, e in questo due altri eoni, la Conoscenza e la Verità; da questi, a loro volta, il Logos e la Vita, e quindi l'Uomo e la Chiesa. Dal Logos e la Vita proruppero dieci eoni, e dalla coppia Uomo-Chiesa, dodici. In tutto trenta eoni, divisi in una ogdoade, una decade e una duodecade. Il trentesimo eone concepì il desiderio di conoscere Bython, e, stimolato da questo audace desiderio, osò salire le regioni superiori del pleroma: e poichè non fu capace di raggiungere la visione della sua grandezza, cadde in una miseranda defezione e fu sul punto di dissolversi, se non fosse stato inviato a rassodarnel'esistenza colui che è chiamato Horon, e che compì la sua missione dicendo Iao. Valentino chiama questo eone caduto in disgrazia, Achamoth, e dice che esso è divenuto preda di desiderii passionali, da cui è germogliata la materia. Così si produsse il cielo, la terra, il mare, e tutto quel che in essi si trova: e per le debolezze congenite del principio produttivo, tutti questi esseri sono infermi, fragili, caduchi, mortali. Anzi ciascuno di essi deve attribuirsi ad una determinata passione di Achamoth: le tenebre nacquero dal suo spavento; lo spirito di malvagità derivò dal suo timore e dalla sua crassa ignoranza; dalla sua tristezza lacrimosa scaturirono le fonti e gli elementi dei fiumi e del mare. Il Cristo fu inviato dal propatre che è Bythos. Egli non possedette la reale sostanza del nostro corpo, ma portò dal cielo non so qual corpo spiritale, che passò attraverso la vergine Maria come l'acqua attraverso un canale, nulla ricavandone. Valentino infine nega la risurrezione della nostra carne maledetta. Della legge e dei profeti alcune cose approva, altre rigetta: distruggendone con questa capricciosa selezione ogni seria autorità.
Questo, nelle grandi linee tracciate dallo pseudo-Tertulliano, il sistema originario di Valentino. Laboriosa epopea cosmogonica, intrecciata per risolvere l'oscuro problema del male. Non si può disconoscere la grandiosità della concezione. Imbevuto di idee platoniche trascendentali, colpito d'altra parte dalle stimmate della imperfezione e del dolore onde è afflitto l'universo, Valentino trasferisce in un misterioso mondo di essenze soprasensibili, la fonte del male. C'è dello Schopenhauer in questo singolare pensatore che assegna, come causa del triste destino universale, una presuntuosa volontà di ascendere verso orizzonti di conoscenza più elevata; che pensa la materia germogliata come secrezione di un essere superiore, malato e mortificato per eccesso di volontà conquistatrice.
Che questo abbozzo di sistema sia il vero genuino, appare dalle amplificazioni incoerenti e posticcie da esso subite in Ireneo e nell'Ippolito dei Filosofumeni. Ireneo (I, 11, 1) designa il principio supremo col termine: ἄῤῥητος, e nomina solo più tardi Βυθός: di più il Cristo non è inviato dal propatre, ma dalla madre, essere generatore del Cristo e del Demiurgo. Pure riguardo all'origine di Gesù, le fonti d'Ireneo non posseggono quella semplice chiarezza di indicazioni, che si rileva nelle fonti dello pseudo-Tertulliano.
In quanto all'autore dei Filosofumeni, la sua preoccupazione tenace è di mostrare che Valentino «a Pythagorae et Platonis ratione haeresim suam concinnans, non ex Evangeliis, iure suo Pythagoreus et Platonicus, non Christianus existimandus est» (Ph., VI, 29). È innegabile, che sollecitato da questa prevenzione, Ippolito sforza le concezioni valentiniane, per trovarvi il parallelismo alla matematica pitagorica, posta a classificazione ed essenza degli esseri. Secondo lui, come Pitagora pone a base degli esseri la monade assoluta, Valentino pone il Padre, principio incompreso, inconoscibile, generatore del tutto. Ma deve immediatamente riconoscere che solo pochi dei valentiniani son rimasti fedeli al principio pitagorico della solitudine del Padre, unico e inconiugabile. La maggior parte di essi, persuasi che la solitudine è incompatibile con la produzione, sostennero che il Padre, «requiescens ipse in semetipso solus, cum esset genitalis, placuit ei aliquando pulcherrimum et perfectissimum, quod habebat in se ipso, generare et producere; amans enim solitudinis non erat. Amor enim erat totus, amor autem non est amor, nisi sit quod ametur» (VI, 29). Da questo amore nasce una serie di syzygie, molto più numerose che quelle annoverate dallo ps.-Tertulliano. Anzi, qui riprende il sopravvento la corrente pitagorica, ed è diligentemente fatta risaltare la coincidenza fra i numeri perfetti e le coppie eoniche. È inutile, crediamo, dilungarci in questo confronto, forse arbitrario, ad ogni modo superfluo per una comprensione approssimativa del vero pensiero valentiniano. Il quale si rivela nei Filosofumeni molto più complicato anche dal punto di vista cristologico. «Secondo i valentiniani», dice Ippolito, «vi sono tre Cristi: uno emanato dal Nous e dalla Verità insieme allo Spirito Santo; un altro, germoglio di tutto il pleroma, coniuge di quella Sofia che ne è fuori; il terzo infine, nato mediante Maria, a miglioramento della nostra condizione... Quest'ultimo ha compiuto una grande opera con la sua apparizione. Poichè tutti i profeti e la legge han parlato per parte del demiurgo, dio stolto: e gli stolti non hanno alcuna veracità. Perciò ha detto il Salvatore: «Omnes qui ante me venerunt, fures sunt et latrones»: e l'Apostolo: «Mysterium, quod prioribus aevis non innotuit». Infatti nessuno dei profeti parlò di quel che noi (valentiniani) annunciamo: lo ignoravano. Quando dunque la creazione pervenne alla sua fine, e fu necessario che si manifestassero i figli di Dio, vale a dire del demiurgo, quando cioè fu inevitabile che si alzasse il velo da cui era coperto il cuore dell'uomo animale, nacque Gesù attraverso Maria vergine, secondo che è scritto: Spiritus sanctus superveniet in te (lo Spirito Santo è Sofia) et virtus Altissimi obumbrabit tibi (l'Altissimo è il demiurgo), ideoque quod nascetur ex te sanctum vocabitur. Egli così fu generato non dal solo Altissimo come quelli che sono stati creati sul tipo di Adamo; Gesù invece, uomo nuovo, è stato generato dallo Spirito Santo, cioè da Sofia e dal demiurgo, affinchè la forma e l'apparenza del suo corpo adattasse il demiurgo, ma l'essenza offrisse lo Spirito Santo» (VI, 35, 36).
*
«Intorno alla natura di Gesù – continua Ippolito, e qui possiamo prestargli piena fede, trattandosi di cosa di cui poteva avere prove tangibili – esiste fra i valentiniani una profonda scissione. La scuola italica e la scuola orientale pensano diversamente». Se noi non avessimo della vitalità della sètta altro argomento che questo lusso di sotto-scuole e di cenacoli, ne avremmo già a sufficienza. L'esuberanza cosmologica della dottrina valentiniana, la profonda coscienza del problema del dolore, e la genialità, che a noi par grottesca, ma che al secondo secolo doveva sembrare seriissima, con cui era risolto, diedero un enorme credito all'eresia che serpeggiò vigorosa nei gruppi cristiani dell'impero e raccolse rapidamente proseliti. Come appartenenti alla scuola italica, sono ricordati da Ippolito e da Ireneo, fra i più noti, Eracleone, Tolomeo, Flora; alla scuola orientale, Teodoto e Bardesane. Son tutti spiriti che si elevano sulla comune, ma non possono rivaleggiare per ampiezza di vedute col maestro: e ne divengono i continuatori. Eracleone è l'esegeta biblico, precursore dell'esegesi cristiana, che ha commentato il IV vangelo, raccogliendone in succo la spiritualità. Tolomeo è il dialettico dall'idee chiare e sobrie, che schematizza le opinioni del maestro; Teodoto è un teologo; Bardesane un finissimo poeta. In genere, la limpidezza, schiva di fronzoli metafisici e di raffinatezze teosofiche, caratteristica di questi seguaci illustri della tradizione valentiniana, mostra che questa stessa dovette essere in origine meno complicata di come appare già in Ireneo: mentre poi è trascinata nei documenti gnostici del terzo secolo agli estremi paradossi.
Eracleone, secondo Epifanio, fu come l'anello di congiunzione fra il valentinianismo e il marcionismo: «Cerdo (maestro di Marcione), egli dice, Heracleoni successit». La notizia è forse cervellotica, in quanto designa la successione logica dei sistemi, ma può avere un valore cronologico. E poichè noi sappiamo da Ireneo che Cerdon, «qui Marcionem antecessit, ipse quoque Hygini tempore, qui nonus episcopus erat, ad Ecclesiam venit (romanam)» (III, 4) possiamo concludere che Eracleone è stato veramente contemporaneo di Valentino. Il che appare confermato dal fatto che, su unanime testimonianza patristica, egli fu «in schola Valentini, lectissimus» (Str. IV). Sulla vita di questo eretico non possediamo altre informazioni. Del suo commentario sul vangelo giovanneo, in compenso, Origene, che nel tessere il suo, lo ha avuto sott'occhio costantemente, ci ha conservato numerosi frammenti: la maggior parte dei quali però riguardano l'episodio della Samaritana (Io. IV). L'esegeta gnostico fa del vangelo, spirituale per antonomasia, un commento esageratamente allegorico, in cui sono visibili le infiltrazioni cosmogoniche della scuola cui aderisce. Alle parole: omnia per ipsum facta sunt, Eracleone annota che il mondo deve essere escluso da quell'omnia) perchè «per verbum non saeculum, nec quae in saeculo sunt, facta fuere». E le altre: «Quod factum est in ipso, vita erat», interpreta nel senso che l'in ipso sia l'equivalente di in hominibus spiritualibus o pneumatici, le cui opere sono costantemente opere di vita: come se il verbo e gli uomini spirituali s'identificassero. Un lungo tratto riguarda la narrazione evangelica dell'incontro fra Cristo e il precursore. Il passo: «ipse est qui post me venturus est, qui ante me factus est: cuius ego non sum dignus ut solvam eius corrigiam calceamenti» è spiegato da Eracleone in senso filosofico, quasi che il Battista avesse voluto dire di sè che non era idoneo a far sì che, in vista di lui, il Salvatore discendesse dalla sua maestà e vestisse carne umana, cioè il calzare, della quale carne egli non sa spiegare l'origine nè risolvere gli enigmi. A questa esegesi bizzarra, la cui chiave di volta è sempre la fissazione della malvagità della materia, Origene, bene inoltrato anche lui sulle vie dell'allegorismo evangelico, sembra sottoscrivere. Ma immediatamente dopo si distacca dallo gnostico, quando questi, conseguente alle sue premesse teologiche, estende al demiurgo creatore della materia il preteso verdetto di condanna, contenuto nelle poche parole scritturali. A questo punto, la convinzione creazianistica di Origene si ribella: «Eracleone crede che l'artefice del mondo sia inferiore al Cristo. Questa è un'empia bestemmia. Il Padre che ha inviato il Figlio, il Dio dei viventi, è il medesimo che ha creato il cielo e la terra; egli solo è buono, egli è migliore di Colui che è stato mandato».
Riportato per intero è il commento all'episodio della Samaritana: in esso si rivela trionfalmente l'allegorismo dell'esegeta, partito dalla convinzione che ogni parola evangelica possegga un significato riposto, inaccessibile ai più. Innanzi tutto l'eretico interpreta il simbolo contenuto nella fonte, sul ciglio della quale Gesù s'incontra con la peccatrice. Essa è la vita mondana, intessuta di debolezze, di asprezze, di volgarità: tanto vero che ad essa andavano ad abbeverarsi le bestie. Quindi svolge il senso dell'acqua offerta dal Salvatore, capace di estinguere per sempre la sete: «la vita eterna è la vita di Lui, vita mai esposta alla corruzione, ma immanente: non può essere mai sottratto il dono del nostro Salvatore, che mai si corrompe e mai si disperde in chi ne è divenuto partecipe». Il vangelo continua in narrare il colloquio svoltosi fra la donna e Gesù. Lo gnostico dà ad esso un valore, che non è più etico, ma cosmologico. Il marito, che Gesù impone di chiamare, non è un uomo, ma il pleroma, a cui l'anima, personificata nella Samaritana, deve essere ricongiunta: in base a questa idea direttrice, ogni dettaglio evangelico assume un valore simbolico, capriccioso fino al ridicolo. L'idria, per esempio, che la donna abbandona sulle sponde del pozzo, per recarsi in città, rappresenta «la disposizione e la tendenza inconsapevole alla vita, pronta ad essere ricolmata». Le parole meus cibus est ut faciam voluntatem eius, qui misit me, significano che gli uomini devono conoscere il Padre, e che a spingerli verso questa meta il Salvatore è venuto in Samaria, figura del mondo. E il grazioso è che Origene giudica l'esegesi valentiniana soverchiamente letterale!
Il commento è riferito ancora a lungo da Origene, ma non vale la pena di riportarlo per intero. Il metodo con cui esso è condotto è costantemente uniforme. Fedele al pensiero gnostico, Eracleone cova una profonda diffidenza riguardo alla materia sensibile. Preoccupato quindi di mortificarne volenterosamente le esigenze, ripone una fiducia di salvezza completa nelle forze latenti e nelle operazioni dello spirito: nel pensiero sopra tutto. Questi filosofi del secondo secolo, platonici fino al midollo, non hanno alcun sentore del radicale connubio che vincola le manifestazioni sensibili e spirituali dell'uomo e che i moderni psico-fisici chiamano parallelismo. Essi credono che l'anima raggiunga il suo ideale di perfezione nel progressivo uscire dalla materia, non nel più sapiente sfruttamento dell'energie materiali verso una meta di purificazione etica. Sono un po' asceti: ma solo alla superficie, perchè più che vincere la carne, tendono a lasciarle libero lo sfogo, illudendosi ch'esso sia quasi estraneo a loro stessi, lontano, impersonale. In questo atteggiamento psicologico il Vangelo non è un manuale di etica religiosa, ma un breve catechismo ontologico, fatto per gl'iniziati, che vi vanno a cercare il senso recondito di ogni frase, la significazione magica di ogni particolare, sia pure per sè insignificante. La mite narrazione, che tramanda alla umanità il racconto dell'esistenza semplice del Redentore, è trasformata in una lambiccata algebra di teosofia, bisognosa di commento esplicativo, perchè ricca di valori invisibili. Su questa base Eracleone fa la sua esegesi.
Su Tolomeo ci ha con sufficiente ampiezza informato Ireneo (I, 1-8). Questi lo definisce come un «flosculus Valentini scholae» e dopo avere accennato ad alcuni suoi commentari, in cui si è incontrato, espone la sua dottrina. Questa prima parte dell'opera di Ireneo, che è senza dubbio la più antica, offrì poi occasione all'ampliamento posteriore, che portò all'attuale redazione dell'Adversus haereses. Il pensiero di Tolomeo non è gran che diverso da quello che già abbiamo esposto di Valentino. Solamente la successione degli eoni, il loro mutuo derivare per una emanazione che ha tutti i caratteri della generazione carnale, sono esposti con maggiore precisione dialettica. Si vede che Tolomeo è l'acuto discepolo, che cerca di dar chiarezza alle idee ancora nebulose del maestro. Ma il documento di Tolomeo più notevole è la lettera a Flora, conservataci da Epifanio, su Mosè e la sua legge. La lettera di Tolomeo a Flora, il gioiello della letteratura gnostica, la riportiamo nei suoi tratti essenziali; essa ha un singolare sapore di attualità:
1. «O Flora, sorella amantissima, son sicuro che ti convincerai come pochi riconoscano l'autorità della legge mosaica, quando ti avrò esposto le numerose opinioni che circolano intorno ad essa. Alcuni la ritengono derivata da Dio Padre: altri, al contrario, affermano che emanò dal suo malvagio emulo, il demonio, fabbricatore del mondo. In realtà, gli uni e gli altri sono degli allucinati. Questa legge non è nè emanazione di Dio Padre, perchè evidentemente imperfetta; nè del suo avversario, perchè a ciò contradicono esplicite testimonianze del Salvatore. Io ti dirò da qual legislatore sia stata sancita la legge mosaica: nulla però giudicando, se non potrò appoggiare le mie asserzioni alle parole del Maestro. Poichè solo a patto di seguire la sua guida, è lecito intraprendere il viaggio verso il possesso della verità.
2. «Innanzi tutto è da sapersi, che tutta la legge, contenuta nei cinque volumi di Mosè, non è derivata da un unico legislatore, cioè da Dio solo: ma racchiude in sè parecchie disposizioni umane. Onde, secondo le stesse parole del Salvatore, possiamo distinguerla in tre parti. Alcune parti della legge appartengono realmente a Dio, e recano la sua sanzione; altre devono senz'altro attribuirsi a Mosè, non operante sotto l'influsso divino; di altre infine furono autori i seniori del popolo. Che ciò sia, può dimostrarsi dalle parole stesse del Salvatore. Parlando Egli una volta ad alcuni che disputavano sul libello del ripudio matrimoniale, disse: Moses ad duritiam cordis vestris permisit vobis dimittere uxores vestras. Ab initio autem non fuit sic: Deus enim coniugium hoc copulavit: et quod Deus coniunxit, homo non separet. Dove appare la differenza fra la legge divina, vietante la scissione dei coniugi e quella di Mosè, tollerante questa scissione. Così Mosè contravveniva alla disposizione divina: ma a ciò lo spingeva una necessità improrogabile, la debolezza spirituale dei suoi connazionali... Che poi alla legge mosaica si siano posteriormente unite disposizioni emanate dai seniori del popolo giudaico, appare nettamente da queste altre parole del Salvatore: Deus enim dixit: honora patrem tuum et matrem tuam, ut bene sit tibi: vos autem dixistis (badiamo che parla a seniori), munus Deo quodcumque ex me tibi proderit; et irritam fecistis legem Dei propter traditiones seniorum vestrorum. Lo stesso afferma Isaia: Populus hic labiis me honorat, cor autem eorum longe est a me. Sine causa autem colunt me, docentes doctrinas et mandata hominum. È dunque chiaro che la legge mosaica è composta di tre porzioni: i precetti di Dio, quelli di Mosè, quelli dei seniori. Da questa tripartizione, trarremo la norma per giudicare i suoi elementi di verità.
3. «A sua volta, la parte che procede direttamente da Dio, si suddistingue in tre parti minori. Alcune disposizioni sono completamente nobili, pure da ogni mescolanza di male, e costituiscono appunto quella legge che il Salvatore non venit solvere, sed adimplere. Altre sono collegate a precetti di natura inferiore, ingiusti, recisamente abrogati dal Salvatore. Infine alcune sono tipiche, simboleggianti cioè altre migliori: che il Salvatore sollevò, dal genere sensibile, allo spirituale. La legge di Dio pura e sincera, non commista a disposizioni d'ordine inferiore, è il decalogo: cioè i dieci comandamenti, segnati su due tavole, con i quali o si vietano le azioni malvagie o si impongono le buone: essi, sebbene puri, non erano ancora perfetti e dovevano essere perfezionati dal Salvatore. Relativamente a quel genere di precetti, che racchiude in sè qualcosa di ingiusto, esso abbraccia la prescrizione della vendetta e della persecuzione, ordinando oculum pro oculo, dentem evelli pro dente, ac caedem caede compensari. Non opera infatti meno ingiustamente chi, dopo un primo delitto, ne commette un altro per compensarlo... E il legislatore che dopo aver solennemente stabilito non occides, impone l'uccisione dell'omicida, mostra, sia pure spinto dalla necessità, di essersi stranamente dimenticato dei suoi atti anteriori... Al genere tipico appartengono quelle parti della legge contenenti le figure simboliche di pratiche spirituali: tali la circoncisione, il sabato, il digiuno, la pasqua, gli azimi, e altre simili prescrizioni. Tutte queste, essendo semplici immagini, son tramutate, al sopravvenire della verità, nella loro parte materiale, e sopravvivono solo con i loro elementi spirituali: vale a dire, salvi restando i nomi, se ne è trasformato il contenuto. Così, il Signore stesso impose il sacrificio: ma non quello di muti animali; bensì quello della lode spirituale, della predicazione, dell'eucaristia, della liberalità verso il prossimo. Similmente, comanda di circoncidere, ma non già nel corpo, bensì nell'anima; e di osservare il sabato, ma fuggendo dalle opere perverse; e di digiunare, non con l'inedia del corpo, bensì con la temperanza sana dello spirito.
4. «Ecco dunque come la legge, che tutti riconoscono come emanata da Dio, è tripartita: in una parte, sanzionata dal Salvatore: poichè precetti come questi, non occides, non moechaberis, non periurabis, son compresi in questi altri, non irasceris, non concupisces (1a Cor. V, 7). In un'altra parte, radicalmente abolita: poichè a precetti come questo, oculum pro oculo, dentem pro dente, permessi con ingiustizia, ingiusti essi stessi, il Salvatore ha imposto la disobbedienza, con precetti contrari: «Ego enim dico vobis, omnino non resistere malo: sed si quis te percusserit in maxillam, praebe illi et alteram» (Mat. V, 39). Le figure e i simboli infine, costituiscono la terza parte, interpretata dal Cristo...
5. «Con ciò, credo di averti brevemente, ma sufficientemente spiegato come sia composta la legge mosaica. Resta ora a dire chi sia il Dio autore della legge. Ma anche a questa domanda è stata data implicitamente risposta. Poichè se quella legge non deriva nè dal Dio perfetto, nè dal demonio, bisogna dire che un terzo ne sia stato l'autore. E questi è l'artefice di tutto l'universo, e delle sue cose, distinto sia dal Dio perfetto come dal demonio, e da collocarsi fra loro due, in mezzo: donde il suo nome. Che se quel Dio perfetto è buono per la sua stessa natura (unum enim bonum esse Deum oc parentem suum, afferma il Salvatore, che ne fu la manifestazione); ed è invece dotato della natura contraria, malvagio cioè e cattivo, quegli contradistinto appunto dalla ingiustizia; colui che è fra i due interposto, poichè non può essere nè buono, nè cattivo, nè ingiusto, si potrà tuttavia chiamare giusto sotto un aspetto particolare, in quanto è arbitro della legalità da sè costituita. Di più, questo dio deve essere minore del Dio perfetto, e inferiore alla sua giustizia, perchè non ingenerato, bensì prodotto per generazione. Uno solo infatti è il Padre ingenito, da cui propriamente dipendono tutte le cose. Sarà tuttavia più grande e più nobile dell'avversario del Padre, sebbene possegga una natura e una sostanza differente da quella di entrambi. Poichè la natura dell'Avversario è la corruzione e le tenebre... La natura invece del Padre universale ed ingenito è esente da ogni corruttibilità, è luce esistente per se stessa, semplice e invariabile. La natura loro ha prodotto una duplice energia: ma il creatore è immagine della natura più luminosa. Questa asserzione non ti deve turbare, e non ti deve far restare perplessa, sapendo, come tutti crediamo, che unico è il Principio di tutte le cose, immune da generazione e da dissolvimento, buono, e non intendendo quindi come possano coesistere queste due nature, soggette al corrompimento e di condizione intermedia, diverse fra loro: poichè è proprietà del bene, generare le cose simili a sè, della sua propria natura. Tu, o Flora, comprenderai di questo essere il principio e la generazione, quando avrai accolto la dottrina apostolica, a noi per tradizioni fedelmente trasmessa.
«Queste cose, Flora mia sorella carissima, non mi fu grave esporti in modo sommario, ma sufficiente a dilucidare il proposto quesito; spero che le mie spiegazioni ti siano nel futuro giovevoli, e lo saranno, se, come un prato fecondo, tu farai fruttificare copiosamente i germi della dottrina ricevuta».
Così in forma nitida e in linguaggio facile, l'eretico ha esposto la teoria fondamentale di filosofia della storia, caldeggiata dai valentiniani. Ha distinto i vari strati della rivelazione biblica e ha mostrato le imperfezioni della legge mosaica, abborrita in fondo da tutti coloro che giungevano al cristianesimo attraverso l'educazione classica e filosofica del paganesimo. Il documento è un prezioso esemplare della propaganda epistolare gnostica.
Anche in fatto di cristologia la scuola italica aveva dei caratteri propri. Secondo la testimonianza d'Ippolito, essa sosteneva che il corpo di Gesù era stato animale, e che appunto perciò, nel momento del suo battesimo, lo spirito, in forma di colomba, cioè il logos della madre suprema, Sofia, era disceso sopra di Lui, elevando l'essere animale allo stato pneumatico. In tal modo interpretava il passo paolino (Rom. VIII, 11): «Qui suscitavit Christum a mortuis, vivificabit et mortalia corpora vestra», i quali sono animali. Secondo gli Orientali invece, il corpo del Salvatore era spirituale; perchè lo Spirito santo era venuto in Maria; vale a dire, Sofia, e la potenza suprema, e l'energia demiurgica, onde alla formazione del corpo di Gesù contribuissero direttamente le forze del pleroma.
Un altro valentiniano occidentale, di cui ci fa fare la conoscenza Ireneo, è Marco. Le parole che lo riguardano sono molto interessanti, perchè ci rivelano l'ambiente consueto in cui si svolgeva e si praticava la propaganda gnostica. Dopo averci detto in genere (I, 4, 3) che gli apostoli dello gnosticismo non rivelavano i loro misteri che alle persone che li pagavano profumatamente; dopo aver preso questi credenzoni lepidamente in giro, per la ridicolaggine di spendere tanto, per giungere a sapere come i fiumi sono scaturiti dalle lagrime di un eone dolente, Ireneo ci parla in dettaglio di Marco, il prestigiatore (I, 13). Egli aveva ingannato e sedotto molte illustri personalità, specialmente donne, nella regione del Rodano. I suoi procedimenti eran quelli, si direbbe oggi, di un medium, dotato di facoltà singolarissime; la gente ricorreva a lui, avida di rivelazioni, come a uomo padrone di segreti dell'al di là, e ricco di potestà sovrumane. Egli soleva nelle conventicole di Lione e delle città vicine presentarsi con un calice contenente già, dice Ireneo, del vino; su di esso pronunziava lunghe, incomprensibili preci e, al chiudere di queste, mostrava il contenuto rubicondo del recipiente, affermando che gli esseri supremi, in seguito all'efficace invocazione, avevano fatto stillare il loro sangue divino nel calice. Tutti allora si appressavano al ciarlatano, e chiedevano insistentemente di appressare le labbra alla coppa miracolosa, affinchè la grazia entrasse in loro.
Di nuovo poi Marco ripete il mistero: affida alle donne dei calici, e impone ad esse di render grazie alla sua presenza. Quando ciò è fatto, Marco prende un calice molto più grande, vi versa un po' del liquido contenuto nel calice dato alle donne, e prega «Illa quae est ante omnia, inexcogitabilis et inenarrabilis gratia, adimpleat tuum intus hominem, et multiplicet in te agnitionem tuam, inseminans granum sinapis in bonam terram». Oltre queste riunioni pubbliche, Marco, che, secondo Ireneo, aveva come suo assistente un demonio, era assiduo frequentatore di salotti aristocratici, e specialmente intorno alle matrone ricche e colte, esercitava un'opera lenta e piena di risorse, per attirarle nell'orbita del suo pensiero teosofico e ottenerne i favori. Ireneo ci riferisce un brano di una sua allocuzione ad una di queste signore, in cui, in verità, non fan difetto l'accorgimento astuto e la perizia mondana: «Partecipare te volo ex mea gratia, quoniam pater omnium angelum tuum semper videt ante faciem suam. Locus autem tuae magnitudinis in nobis est; oportet nos in unum convenire. Sume primum a me et per me gratiam. Adapta te ut sponsa sustinens sponsum suum, ut sit quod ego, et ego quod tu. Constitue in thalamo tuo semen luminis. Sume a me sponsum, et cape eum et capere in eo. Ecce gratia descendit in te, aperi os tuum, et propheta». E poichè la matrona si schermiva, protestando di non aver mai profetato, il mago riprendeva: «Aperi os tuum et loquere quodcumque, et prophetabis». Allora la donna, solleticata da un isterico orgasmo, cominciava a mormorare parole sconnesse come epilettica, credendo di essere invasa dallo spirito. Marco ne ritraeva generose elargizioni di denaro (Ireneo dice che a quel modo era diventato ricchissimo) e non raramente prendeva ardire per insidiare la matronale onestà.
Raccolti a questo modo, i proseliti di Marco erano rotti ad ogni libidine. Sul cumulo poi delle loro immoralità, gettavano un velo inconsapevolmente ipocrita di devozione, che si manifestava con preghiere insulse e vuote di senso.
La dottrina di Marco era la stessa che quella di Valentino, solamente più complicata, ed espressa in formole simbolistiche. È curiosa, per esempio, la descrizione dell'eone Verità, fatta per mezzo delle lettere: il suo capo è espresso con Α e Ω, il collo con Β e Ψ, e così via. Anche Ireneo constata l'affinità fra questo sistema e i numeri della dottrina pitagorica.
In questo modo, mercè la minutissima e preziosa testimonianza del vescovo di Lione, che essendo in contatto con i marciani della Gallia, ha creduto opportuno di descriverci più ampiamente la loro condotta, noi cogliamo sul vivo i mezzi ciarlataneschi a cui ricorreva la propaganda gnostica e il suo inalterabile carattere aristocratico.
Della scuola valentiniana orientale, abbiamo detto, il migliore rappresentante è Teodoto. Alcuni suoi frammenti, mescolati ad altri di anonimi scrittori, son conservati in appendice agli Stromati di Clemente alessandrino, col titolo: Excerpta ex scrip tis Theodoti (ἐϰ τῶν Θεοδότου ϰαὶ τῆς ἀνατολιϰῆς διδασϰαλίας ϰατὰ τοὺς Οὐαλεντίνου χρόνους ἐπιτομαὶ), e sono un indigesto centone di tratti valentiniani, dove si rivela spinta oltre ogni misura ragionevole la manìa di spiegare come simboli di verità cosmologiche i più insignificanti dettagli delle narrazioni scritturali. Il valentinianismo ha qui subìto una naturale evoluzione verso le sue ulteriori e logiche conseguenze. I frammenti insistono sul concetto fondamentale della distinzione fra il Cristo eonico trascendentale e Gesù apparso nella carne. Di quello parlano come tuttora operante in seno agli spirituali.